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I pezzi grossi continuarono a confabulare mentre Luke si dirigeva verso il portello con la poltrona a repulsione. La guardia, un Gotal dalla pelliccia grigia, fece una smorfia involontaria mentre lo salutava. Luke ricordò che i Gotal avvertivano la Forza sotto forma di un vago ronzio nei loro corni percettivi conici, e accelerò per evitare di lasciare il devoto Gotal con un gran brutto mal di testa.

Ci, dietro di lui, strillò. Luke decelerò nel corridoio e permise al piccolo droide di raggiungerlo. C1 si aggrappò allo stabilizzatore sinistro della poltrona a repulsione e cominciò a spingere, emettendo una serie di rumori pigolanti.

«Sì, C1.» Luke appoggiò una mano sulla calotta azzurra di C1 e si lasciò spingere, grato, verso il centro medico. Pensava a mille navi aliene che convergevano verso... verso un mondo che ancora non riusciva a immaginare. Avrebbe tanto voluto vederlo, almeno con gli occhi della mente.

E voleva sapere perché gli alieni stavano prendendo tanti prigionieri.

Una volta raggiunta la clinica, si tolse gli stivali e tornò a distendersi sul lettino a repulsione. Era incredibilmente bello sentirlo cedere sotto il proprio peso. Dopo aver lanciato un’occhiata al serbatoio di fluido bacta di Wedge, chiuse gli occhi e si sforzò di credere che il suo dito potesse spingersi fino alla sala militare.

Che ci pensassero loro. Lui per adesso aveva chiuso. Letteralmente.

C1 emise un bip interrogativo. «Ripeti un po’?» chiese Luke.

C1 rotolò fino al portello aperto e protese un braccio manipolatore. La porta si chiuse.

«Oh! Grazie.» Evidentemente C1 pensava che gradisse spogliarsi in privato.

Ma era troppo stanco per pensare di svestirsi. Tirò le gambe sul letto. «C1», disse, «di’ a 2-1B di procurarti un data pad e vedi di raggiungere quei file codificati che erano sul drone imperiale. Vorrei dargli un’occhiata mentre riposo.»

La risposta di C1 scese minacciosamente di tono mentre il droide si allontanava, ma meno di un minuto più tardi era già di ritorno e si tirava dietro un carrello. Lo manovrò fino a portarlo accanto al lettino di Luke e lo collegò con la sua porta di ingresso dati.

«Bakura», disse Luke. «Tutti i file dei dati.»

Mentre il computer analizzava la sua voce per confermare il suo status e accertarsi che gli fosse consentito l’accesso alle informazioni richieste, Luke si stiracchiò e ammiccò. Mai prima di allora aveva tanto apprezzato la normale visione.

Un mondo azzurro, avvolto da nuvole come da una brina, apparve sullo schermo. «Bakura», disse una voce femminile neutra e matura. «Istituto cartografico imperiale, rapporto sei-zero-sette-sette-quattro.» Le nubi si avvicinarono. La visione di Luke si tuffò oltre la coltre bianca per sorvolare una vasta catena di montagne verdi. Due ampi fiumi scendevano paralleli lungo una vallata, poi serpeggiavano fino a un delta verdeggiante. Luke immaginò odori ricchi, umidi, simili a quelli di Endor. «Salis D’aar, capitale planetaria, è la sede del governatorato imperiale. Il contributo di Bakura alla sicurezza dell’Impero include un modesto apporto di materiali strategici...»

Così verde. Così umida. Luke chiuse gli occhi. La sua testa si chinò.


...Era disteso sul ponte di un’astronave sconosciuta. Un gigantesco alieno rettiliforme, coperto di scaglie marrone e con una testa enorme, sovradimensionata al corpo, veniva verso di lui a passo di corsa agitando un’arma. Luke accese la spada laser, ma il contatto con le dita dell’imperatore l’aveva sporcata e resa enormemente pesante; gli sfuggì dalle dita. Fu allora che riconobbe l’«arma» che il rettile gli puntava contro: il controllore di un bullone di costrizione usato per il controllo dei droidi. Ridendo, balzò in posizione di combattimento. Il controllore tenuto in mano dal rettile ronzò. Luke si immobilizzò.

«Cosa?» Incredulo, abbassò lo sguardo. Aveva il corpo rigido, articolato di un droide. Di nuovo il rettile alzò il controllore...


Luke lottò per riprendere conoscenza. Avvertiva nella Forza una presenza potente e si mise a sedere troppo in fretta: quelli che sembravano due martelli invisibili lo colpirono sul cranio.

Lo schermo si era spento. Ai piedi del suo lettino a repulsione sedeva Ben Kenobi, vestito come al solito di quegli abiti tessuti in casa che era solito portare in vita e che ora sotto le fioche luci notturne della cabina emettevano una luce tenue. «Obi-Wan?» mormorò Luke. «Che cosa sta succedendo a Bakura?»

Particelle d’aria ionizzate danzavano attorno alla figura. «Tu andrai a Bakura», comandò l’apparizione.

«È così grave?» chiese Luke brutalmente, senza però veramente aspettarsi una risposta. Ben di rado ne dava. Sembrava che apparisse soprattutto per rimproverarlo, come un maestro che anche dopo il diploma del suo allievo non riesce a fare a meno di dargli consigli (non che Ben avesse potuto finire il suo addestramento).

Obi-Wan si spostò sul letto, ma il letto non si mosse in risposta. Non era una manifestazione fisica, questa. «L’imperatore Palpatine aveva contattato gli alieni che stanno attaccando Bakura», disse l’apparizione, «durante una delle sue meditazioni nella Forza. Gli ha offerto un accordo che ora non può più essere onorato.»

«Che genere di accordo?» chiese Luke piano. «Qual è il pericolo che i Bakurani stanno correndo?»

«Tu devi andare.» Ben ancora non ascoltava le domande di Luke. «Se non ti occupi personalmente di questa faccenda, personalmente, Luke, Bakura e tutti gli altri mondi, sia alleati sia imperiali, conosceranno un disastro di proporzioni inimmaginabili.»

Dunque era proprio grave quanto avevano temuto. Luke scosse la testa. «Ho bisogno di saperne di più. Non posso gettarmi alla cieca in qualcosa in cui...»

L’aria sembrò bruciare e implodere e l’apparizione svanì, suscitando deboli correnti d’aria nella stanza.

Luke gemette. Avrebbe dovuto trovare il modo di convincere il comitato medico a dimetterlo e poi far sì che l’ammiraglio Ackbar gli desse questo incarico. Avrebbe promesso di riposare e riprendersi durante il viaggio nell’iperspazio, sempre che riuscisse a farsi venire in mente come. Improvvisamente l’idea di una battaglia non lo eccitava più.

Chiuse gli occhi e sospirò. Il maestro Yoda sarebbe stato contento, adesso.

«C1», disse, «chiama l’ammiraglio Ackbar.»

C1 cigolò.

«Lo so che è tardi, scusati per averlo svegliato. Digli...» Si guardò intorno. «Digli che se non se la sente di venire nella clinica, possiamo trovarci nella sala militare.»


«E quindi, vedete...» Luke alzò lo sguardo. La porta dell’infermeria si aprì. Han e Leia rimasero fermi sulla soglia per un attimo, poi si infilarono fra il generale Madine, che era in piedi lì vicino e Mon Mothma, seduta su un’unità di stasi.

«Scusate», borbottò Han. 2-1B aveva dato il suo consenso alla conferenza, purché Luke non lasciasse il centro medico. Questo salottino affollato, bianco candido come il resto del centro medico, veniva usato quando si rendeva necessario come deposito provvisorio di unità di stasi a freddo. Il «sedile» di Mon Mothma conteneva un Ewok ferito a morte, che riposava in animazione sospesa in attesa che l’Alleanza lo potesse trasportare in un ospedale attrezzato.

Han indietreggiò fino a mettere la schiena contro la paratia. Leia si sedette accanto a Mon Mothma.

«Continui.» L’immagine miniaturizzata dell’ammiraglio Ackbar splendeva sul pavimento accanto a C1 che, stando sull’attenti, lo proiettava. «Quindi, il generale Kenobi le ha dato degli ordini?»

«Esatto, signore.» Luke avrebbe preferito che Leia e Han non avessero interrotto il suo racconto proprio nel momento più eccitante.

L’ammiraglio Ackbar si sfregò i tentacoli del sottomento con una mano palmata. «Ho studiato le offensive del generale Kenobi. Erano magistrali. Non ho mai avuto molta fede nelle apparizioni, ma il generale Kenobi era uno dei cavalieri Jedi più potenti e della parola del comandante Skywalker in genere ci si può fidare.»

Il generale Madine si accigliò. «Il capitano Wedge Antilles si potrebbe riprendere del tutto, in tempo perché il gruppo d’assalto possa raggiungere Bakura. Avevo pensato di affidare a lui il comando della forza... senza offesa, generale», aggiunse, con un pallido sorriso diretto a Han.

«Non sono offeso», disse Han con voce pigra. «Ma appena tentate di separarmi dall’ambasciatore qui presente, vi vedrete tornare indietro i miei gradi.»

Luke nascose un sorriso dietro una mano. Mon Mothma aveva già incaricato Leia di rappresentare l’Alleanza sia su Bakura sia presso gli Imperiali stazionati laggiù; le aveva perfino chiesto di tentare un contatto con gli alieni. «Immagina come diverrebbe temibile la nostra sfida all’Impero se avessimo nei nostri ranghi una forza militare aliena», aveva azzardato Mon Mothma.

«Ma il comandante Skywalker è in condizioni di salute molto più precarie», dichiarò Ackbar.

«Non sarà più così una volta che avremo raggiunto Bakura.»

«Dobbiamo tener conto di ogni eventualità.» La testa rossiccia di Ackbar ondeggiò. «Dobbiamo difendere Endor e abbiamo promesso al generale Calrissian il nostro aiuto per liberare Bespin...»

«Ho parlato con Lando», interruppe Han. «Dice di avere un paio di idee tutte sue su quest’affare, ma che comunque vi ringrazia.» Le forze imperiali avevano assunto il controllo di Cloud City quando Lando Calrissian, il suo amministratore unico, era fuggito con Leia e Chewie per inseguire il cacciatore di taglie che si era portato via un Han congelato nel carbonio. Lando aveva dovuto dimenticarsi di Cloud City durante l’attacco a Endor, a cui aveva partecipato. Però gli avevano promesso tutte le navi di cui sarebbero riusciti a fare a meno, una volta finita la battaglia.

Ma Lando era sempre stato incline al gioco d’azzardo solitario.

«Allora manderemo a Bakura una forza d’attacco piccola ma forte», dichiarò Ackbar, «che aiuti la principessa Leia nel suo ruolo di negoziatore capo. La maggior parte dei combattimenti avverranno molto probabilmente nello spazio, non sulla superficie. Cinque cannoniere corelliane e una corvetta scorteranno il nostro incrociatore più piccolo. Sarà abbastanza per lei, comandante Skywalker?»

Luke si scosse. «Sta affidando il comando a me, signore?»

«Non mi sembra che abbiamo altra scelta», affermò Mon Mothma con voce tranquilla. «Il generale Kenobi le ha parlato. Il suo stato di servizio è impeccabile. Aiuti Bakura per noi e poi si ricongiunga immediatamente alla flotta.»

Euforico per l’onore, Luke la salutò.


Il giorno dopo, sul presto, Luke esaminò lo stato di servizio del nuovo incrociatore ribelle, la Flurry. «È pronta a salpare», osservò.

«Più che pronta, comandante.» Il capitano Tessa Manchisco gli diede di gomito. Fresca fresca dal servizio nella Guerra Civile Virgilliana, il capitano Manchisco portava i lunghi capelli neri in sei grosse trecce che scendevano sulla sua uniforme color crema. Aveva accettato con piacere la missione su Bakura. La sua Flurry, un piccolo incrociatore dall’aria poco convenzionale, sul quale erano stati adattati tutti i componenti rubati della tecnologia imperiale che gli opportunistici Virgilliani erano riusciti a farci entrare, aveva solo Virgilliani come ufficiali di coperta: oltre a Manchisco, c’erano tre umani e un navigatore Duro dagli occhi rossi e senza naso. Dentro gli hangar della Flurry gli uomini dell’ammiraglio Ackbar erano riusciti a fare entrare venti caccia Ala-X, tre Ala-A e quattro caccia Ala-B specializzati nell’assalto agli incrociatori, tutti quelli di cui l’Alleanza aveva ritenuto di poter fare a meno.

Gettando uno sguardo fuori dall’oblò triangolare di prua della Flurry, Luke vide due cannoniere corelliane. A fianco e sopra il trasporto (anche in gravità zero una formazione stabiliva un «sotto» un «sopra»), c’era il mercantile più veloce di quel quadrante della galassia, il Millennium Falcon.

Han, Chewbacca, Leia e D-3BO si erano imbarcati meno di un’ora prima.

L’entusiasmo iniziale di Luke per il suo comando era già svanito. Una cosa era pilotare un caccia agli ordini di qualcun altro, con la Forza come alleato, la strategia però era tutta un’altra cosa. Adesso il responsabile di ogni vita e di ogni nave era lui e solo lui.

D’altra parte, non aveva fatto altro che studiare tattica e strategia finora. E adesso... Be’, per dire la verità non vedeva l’ora di...

Oooops. Improvvisamente le nocche delle mani gli dolevano. Gli parve di udire o di ricordare, la risatina chioccia di Yoda.

Fece una smorfia, chiuse gli occhi e si rilassò. Le ossa gli facevano ancora male, tutte quante, ma aveva promesso a 2-1B che si sarebbe riposato e sarebbe guarito grazie alla sua disciplina jedi. Avrebbe tanto voluto sentirsi un po’ meglio, però.

«Tutti ai propri posti per il salto iperspaziale», ordinò Manchisco. «Comandante, forse è il caso che lei si allacci le cinture.»

Luke si guardò attorno, passando in rassegna lo spartano ponte di comando esagonale: oltre alla sua poltrona di comando c’erano altre tre stazioni, una serie di quadri e schermi per il combattimento, ora scuri e inattivi e un unico terminale per un droide tipo C1, attualmente occupato dall’unità dei Virgilliani. Si allacciò le cinture, chiedendosi quale era il «disastro» che a Bakura aspettava la sua personale attenzione.


Su uno dei ponti esterni del grande incrociatore da battaglia chiamato Shriwirr, Dev Sibwarra appoggiò la sua snella mano scura sulla spalla sinistra di un prigioniero. «Va tutto bene», disse piano. Il terrore dell’altro umano colpiva la sua mente come una frusta. «Non proverai nessun dolore. Ti aspetta una meravigliosa sorpresa.» Davvero meravigliosa: una vita senza fame, freddo, o tormentosi desideri personali.

Il prigioniero, un Imperiale dalla pelle molto più chiara di quella di Dev, era afflosciato nella poltrona da intecnamento. Aveva smesso di protestare e respirava affannosamente. Morbidi legacci di gomma trattenevano le braccia, le gambe, il collo e le ginocchia, ma solo per sostenerlo. Con il sistema nervoso deionizzato all’altezza delle spalle, non poteva muoversi né lottare. Un sottile tubicino infilato nel collo faceva colare in ognuna delle arterie carotidi una soluzione magnetizzante color azzurro pallido fra il ronzio di minuscole unità di pompaggio. Ci volevano solo pochi millilitri di soluzione magnetica per arrotare i deboli, fluttuanti campi magnetici delle onde cerebrali umane all’apparato di intecnamento degli Ssi-ruuk.

Dietro Dev, il padrone Firwirrung trillò una domanda in lingua ssi-ruuvi. «È calmo adesso?»

Dev accennò un inchino in direzione del suo padrone e parlò in ssi-ruuvi. «Quanto basta», cantò. «È quasi pronto.»

Lucide scaglie rosso mattone proteggevano i due metri di lunghezza di Firwirrung dal muso a becco alla lunga coda muscolosa e una grossa cresta nera a forma di «V» gli decorava la testa. Non era grande per uno Ssi-ruu, ma stava ancora crescendo e sul suo bel petto dove le scaglie avevano cominciato a separarsi si vedevano solo pochi marchi d’età. Firwirrung abbassò l’arco d’intecnamento largo e lucente, di metallo bianco, e coprì il prigioniero dal naso allo sterno. Dev riusciva appena a vedere le pupille dell’uomo che si dilatavano oltre l’apparato. Da un momento all’altro...

«Ora», annunciò Dev.

Firwirrung toccò un comando. La sua grossa coda si agitava per la contentezza. Oggi il bottino della flotta era stato più che buono. Dev, come il suo padrone, avrebbe lavorato fino a tarda notte. Prima dell’intecnamento, i prigionieri erano sempre rumorosi e pericolosi. Ma dopo, le loro energie andavano a controllare i droidi degli Ssi-ruuk.

L’arco di intecnamento emetteva un ronzio sempre più acuto. Dev si allontanò. Dentro a quel tondo cranio umano un cervello drogato dalla soluzione magnetica stava perdendo ogni controllo. Anche se il padrone Firwirrung gli aveva assicurato che il trasferimento dell’energia incorporea era indolore, tutti i prigionieri a questo punto urlavano.

Così fece questo, appena Firwirrung fece scattare l’interruttore nell’arco di intecnamento. L’arco vibrò in risonanza mentre l’energia del cervello umano veniva risucchiata dal magnete perfettamente accordato alla soluzione magnetica. Attraverso la Forza si diffuse un ululato di indescrivibile angoscia.

Dev barcollò e si aggrappò alla certezza che gli aveva dato il suo padrone: che i prigionieri immaginavano soltanto di soffrire. E lui immaginava soltanto di avvertire il loro dolore. Quando il corpo urlava, già tutte le energie di quel particolare soggetto erano saltate nell’arco di intecnamento. Il corpo urlante era già morto.

«Trasferimento completato.» Il fischio flautato di Firwirrung aveva un sottotono divertito. Quell’atteggiamento paterno metteva Dev a disagio. Lui era un inferiore. Un umano. Soffice e vulnerabile, come una larva biancastra prima della metamorfosi. Non desiderava altro che sedersi nell’apparato di intecnamento, per poter trasferire la sua energia vitale in un potente droide da combattimento. Maledì in silenzio il talento che lo condannava ad aspettare ancora.

L’arco di intecnamento ronzò più forte ancora, carico, più vivo ora del corpo afflosciato nella sedia. Firwirrung si voltò per mettersi di fronte a una parete metallica tempestata di scaglie esagonali. «Pronti laggiù?» La sua domanda venne pronunciata come un fischio labiale che saliva e finiva in uno schiocco del becco dentato, seguito da due fischi sibilati e da una glottale. C’erano voluti anni e innumerevoli sedute di condizionamento ipnotico perché Dev riuscisse a padroneggiare lo Ssi-ruuvi, ma in compenso le sedute lo avevano lasciato con un desiderio fremente di compiacere Firwirrung, il capo della sezione intecnamento.

L’intecnamento era un lavoro senza fine. L’energia vitale, come ogni altra energia, può essere conservata nel giusto tipo di batteria. Ma l’attività elettrica del cervello, che accompagna tale energia nei droidi, finisce sempre per sviluppare delle armoniche distruttive. I circuiti vitali dei droidi «morivano» di una fatale psicosi.

Eppure, anche così le energie umane resistevano, una volta intecnate, più a lungo di qualunque altra specie, sia che fossero incorporate nei circuiti di una nave sia che motivassero i droidi da combattimento.

Finalmente il ponte 16 del grande incrociatore da battaglia fischiò una risposta affermativa. Firwirrung pigiò un bottone con una delle tre dita del suo artiglio anteriore. L’arco di intecnamento ora era tornato silenzioso. L’energia vitale del fortunato umano era passata in una bobina dietro un grappolo piramidale di sensori in un piccolo droide da combattimento. Ora sarebbe stato capace di vedere su tutte le lunghezze d’onda e in tutte le direzioni. Non avrebbe mai più avuto bisogno di ossigeno o di calore, di cibo o di sonno. Libero dalla disagevole necessità dell’arbitrio e dal dover prendere decisioni da solo, ora il suo nuovo corpo avrebbe risposto volentieri a qualunque ordine degli Ssi-ruuk.

Obbedienza perfetta. Dev chinò la testa, desiderando ardentemente di essere al posto dell’umano. Le navi droidi non pativano tristezza né dolore. Una metamorfosi gloriosa, fino al giorno in cui il fuoco nemico non avesse distrutto la bobina... o quelle armoniche distruttive non l’avessero disaccoppiata dai circuiti di controllo.

Firwirrung ripose l’arco di intecnamento, le flebo e i legacci. Dev tolse la spoglia vuota dalla sedia e la fece scivolare in un boccaporto esagonale. Il corpo cadde, sparendo nelle tenebre.

Con la coda rilassata, Firwirrung si allontanò dalla sedia. Si versò una tazza di rosso ksaa mentre Dev abbassava una bocchetta e spruzzava più volte la sedia. I residui biologici scorsero assieme all’acqua giù per lo scarico al centro del sedile.

Dev tornò ad alzare la bocchetta, l’assicurò al suo posto, poi azionò un interruttore che avrebbe riscaldato e asciugato la sedia. «Pronti», fischiò. Si voltò verso il portello, in ansiosa attesa.

Due piccoli P’w’eck ancora giovani portarono il prigioniero seguente, un umano rugoso con otto rettangoli rossi e blu sul petto della sua uniforme imperiale grigio-verde e un ciuffo disordinato di capelli bianchi. Si dibatteva disperatamente nel tentativo di liberare le braccia dagli artigli delle guardie. La tunica non gli offriva che una protezione pateticamente inefficiente. Già del rosso sangue umano colava dalia pelle attraverso la manica strappata.

Se solo avesse capito quanto era inutile la sua resistenza. Dev avanzò. «Va tutto bene.» Teneva il suo proiettore ionico, uno strumento medico che poteva anche servire come arma, nella decorazione a righe blu e verde della sua lunga tunica. «Non è come pensi, niente affatto.»

Gli occhi dell’uomo si spalancarono tanto da far vedere l’osceno bianco della sclera tutt’attorno all’iride. «Come penso?» ripeté l’uomo e i suoi sentimenti nella Forza erano un vortice di panico. «Chi sei tu? Che cosa ci fai qui? Aspetta... tu sei quello...»

«Io sono tuo amico.» Tenendo gli occhi semichiusi per nascondere la sclera (aveva solo due palpebre, non tre come il suo padrone), Dev appoggiò la mano destra sulla spalla dell’uomo. «E sono qui per aiutarti. Non avere paura.» Per favore, aggiunse fra sé. La tua paura mi fa così male. E tu sei fortunato. Sarà una cosa veloce. Premette il proiettore ionico contro il collo del prigioniero. Sempre tenendo l’attivatore premuto, lo fece scorrere lungo la spina dorsale dell’uomo.

I muscoli dell’ufficiale imperiale si rilassarono. Le sue guardie lo lasciarono cadere a terra sulle piastrelle grigie. «Goffi servi!» Firwirrung balzò in avanti sulle potenti zampe posteriori, la coda rigida mentre riprendeva severamente i piccoli P’w’eck. Se si trascurava la mole e la mancanza di colorazione, potevano apparire quasi identici ai loro padroni Ssi-ruuk... almeno da lontano. «Rispettate i prigionieri», cantò Firwirrung. Poteva anche essere giovane per il suo grado, ma di certo sapeva farsi rispettare.

Dev aiutò gli altri tre a sollevare e mettere in posizione l’umano sudato e puzzolente. Perfettamente cosciente, perché in caso contrario l’arco d’intecnamento non avrebbe funzionato, l’uomo riuscì in qualche modo a proiettarsi giù dalla sedia. Dev lo afferrò per le spalle, sforzando la propria schiena. «Rilassati», mormorò Dev. «Va tutto bene.»

«Non fatelo!» supplicò il prigioniero. «Ho amici potenti! Pagheranno qualsiasi cifra per il mio rilascio!»

«Ci piacerebbe molto incontrare i tuoi amici. Ma non ti possiamo privare di questa gioia.» Dev lasciò che il centro del suo spirito galleggiasse sopra la paura del prigioniero, poi l’abbassò come una coperta consolante. Appena i P’w’eck ebbero assicurato bene i legacci, Dev mollò la presa e si massaggiò la schiena. La zampa anteriore di Firwirrung scattò in avanti, inserendo uno degli aghi della fleboclisi. Non aveva sterilizzato l’ago: non era necessario.

Finalmente il prigioniero, incapace di difendersi, fu pronto per il trasferimento. Un liquido chiaro colava da un occhio e dall’angolo della bocca. Le pompe spingevano il fluido magnetizzato su lungo il tubicino della fleboclisi.

Un’altra anima liberata, un’altra nave droide pronta alla conquista dell’Impero umano.

Cercando di ignorare la faccia bagnata dell’umano e il suo terrore snervante, Dev appoggiò una snella mano scura sulla spalla sinistra del prigioniero. «Va tutto bene», disse piano. «Non ci sarà nessun dolore. Ti aspetta una meravigliosa sorpresa.»


Per tutto il giorno i prigionieri vennero intecnati senza problemi, a parte una femmina che riuscì a liberarsi dalla presa di un servo P’w’eck e che si sfracellò la testa contro una paratia prima che Dev riuscisse ad afferrarla. Dopo diversi minuti passati nel tentativo di rianimarla, il padrone Firwirrung abbassò testa e coda in segno di sconfitta. «Niente da fare», fischiò pieno di rammarico. «Che triste spreco. Riciclatela.»

Dev ripulì tutto. L’intecnamento era un lavoro nobile e lui sentiva profondamente l’onore di esservi coinvolto, anche se il suo ruolo si limitava a quello di un servo che usava la Forza per calmare i soggetti. Infilò il proiettore ionico nel suo alloggiamento sotto una mensola, con la parte piatta in alto e lo spinse finché non sentì che la bocchetta di proiezione appuntita era agganciata al caricatore. L’impugnatura nodosa, disegnata apposta per la sua mano a cinque dita, pendeva sotto la cocca.

Firwirrung condusse Dev attraverso gli spaziosi corridoi della nave fino al loro alloggio e per rilassarsi versò una dose di ksaa per entrambi. Dev accettò la bevanda con gratitudine, seduto sull’unica sedia presente nella cabina circolare. Gli Ssi-ruuk non avevano bisogno di mobili. Sibilando di contentezza, Firwirrung sistemò comodamente la grossa coda e i quarti posteriori sul tiepido pavimento grigio della cabina. «Sei contento, Dev?» chiese. I suoi liquidi occhi neri ammiccarono da sopra la tazza di ksaa, riflettendo la tinta rossa del tonico amaro.

Era un’offerta di sollievo. Quando la sua esistenza rendeva Dev triste, quando il senso di completezza che aveva provato accanto alla presenza di sua madre nella Forza cominciava a mancargli troppo, Firwirrung lo portava dall’anziano Sh’tk’ith dalle scaglie blu, per sottoporlo alla terapia rigenerante.

«Molto contento», rispose Dev sinceramente. «È stata una buona giornata di lavoro. C’è stata molta bontà.»

Firwirrung annuì saggiamente. «Molta bontà», fischiò in risposta. Le lingue che gli servivano per sentire gli odori saettarono fuori dalle sue narici, annusando-gustando la presenza di Dev. «Tenditi, Dev. Che cosa vedi questa sera nell’universo invisibile?»

Dev sorrise debolmente. Il suo padrone aveva voluto fargli un complimento. Gli Ssi-ruuk erano ciechi alla Forza. Dev sapeva, ora, che era lui l’unico sensitivo, umano o alieno, che avessero mai incontrato.

Attraverso Dev, gli Ssi-ruuk erano venuti a sapere della morte dell’imperatore appena pochi attimi dopo che era avvenuta. La Forza esisteva in tutte le forme di vita e lui aveva sentito l’onda d’urto propagarsi attraverso lo spazio e lo spirito.

Qualche mese prima, l’imperatore Palpatine aveva offerto agli Ssi-ruuk dei prigionieri in cambio di caccia droidi da poter usare per i fini dell’Impero e sua potenza lo Shreeftut aveva accettato prontamente. Palpatine non poteva sapere quante dozzine di milioni di Ssi-ruuk vivevano su Lwhekk, nel loro distante ammasso stellare. L’ammiraglio Ivpikkis, invece, aveva catturato e interrogato diversi umani. Così aveva scoperto che il loro Impero si estendeva per diversi parsec. I suoi innumerevoli sistemi stellari erano come tiepide sabbie da schiusa, pronti ad accogliere la semina degli Ssi-ruuk.

Ma poi l’imperatore era morto. Non ci sarebbe più stato nessun accordo. Gli umani traditori avevano abbandonato la flotta ssi-ruuvi mandata in avanscoperta senza preoccuparsi di come questa, con l’energia quasi esaurita poteva tornare a casa. Così l’ammiraglio Ivpikkis si era fatto avanti con l’incrociatore da battaglia Shriwirr e una piccola forza d’avanguardia, costituita da appena una mezza dozzina di navi d’attacco dotate d’equipaggiamento di supporto per l’intecnamento. Il grosso della flotta era rimasto indietro, ad aspettare notizie della vittoria o del fallimento.

Se fossero riusciti a conquistare un mondo umano di una qualche importanza, quell’equipaggiamento di intecnamento, sotto il comando del suo padrone Firwirrung, gli avrebbe consentito di impadronirsi dell’intero Impero umano. Bakura, appena fosse caduta, avrebbe fornito la tecnologia per costruire un’altra dozzina di sedie d’intecnamento. Ogni Bakurano intecnato avrebbe comandato o difeso un droide da combattimento o avrebbe rivitalizzato qualche componente di uno degli incrociatori. Con dozzine di squadre di intecnamento pronte e addestrate, la flotta ssi-ruuvi avrebbe potuto conquistare i popolosi Mondi del Nucleo. I pianeti da liberare erano dozzine di migliaia. C’era tanta bontà da distribuire.

Dev provava un’ammirazione sconfinata per il coraggio dei suoi padroni, che avevano rischiato tanto ed erano venuti da tanto lontano per il bene dell’Impero ssi-ruuvi e la liberazione delle altre specie. Quando uno Ssi-ruu moriva lontano dal suolo consacrato di uno dei suoi mondi, sapeva che il suo spirito si sarebbe aggirato per sempre, solo, nell’universo.

Dev scosse la testa e rispose: «All’esterno, sento solo il vento tranquillo della vita. A bordo dello Shriwirr, lutto e confusione tra i tuoi nuovi figli».

Firwirrung accarezzò il braccio di Dev, la sua soffice pelle priva di scaglie si arrossò un po’ sotto il tocco dei tre artigli. Dev sorrise: sapeva che cosa provava il suo padrone. Firwirrung non aveva a bordo compagni di schiusa; la vita militare comporta lunghe ore solitarie e terribili rischi. «Padrone», chiese Dev, «forse che, un giorno.., potremo tornare su Lwhekk?»

«Io e te non torneremo mai a casa, Dev. Ma presto consacreremo un nuovo pianeta nella tua galassia. Faremo arrivare la nostra famiglia...» Firwirrung guardò la sua cuccia e una zaffata di acre alito di rettile sfiorò la faccia di Dev.

Dev non ebbe alcun moto di disgusto. Era abituato a quell’odore. L’odore del suo corpo invece disgustava gli Ssi-ruuk e quindi lui beveva dei solventi speciali con i quali, inoltre, si lavava quattro volte al giorno. In particolari occasioni, si radeva completamente. «Una covata tutta sua», mormorò.

Firwirrung piegò la testa e lo fissò con un occhio nero. «Il tuo lavoro mi aiuta ad avvicinarmi sempre di più a quella covata. Ma per adesso, sono stanco.»

«La sto tenendo sveglio», esclamò Dev, pentito. «La prego, riposi. Io arriverò subito.»

Una volta che Firwirrung fu sistemato nel suo nido di cuscini, il corpo intiepidito dai generatori del ponte sottostante e le tre palpebre che proteggevano i begli occhi neri, Dev fece il bagno serale e bevve i suoi farmaci deodoranti. Per distrarsi dai crampi all’addome che immancabilmente seguivano l’assunzione delle medicine, avvicinò la sedia a un lungo banco-scrivania curvo. Tolse dalla libreria un libro non ancora finito e lo caricò nel suo lettore.

Da mesi stava lavorando a un progetto che gli avrebbe permesso di servire l’umanità ancora meglio di quanto la serviva ora (in effetti, temeva che gli Ssi-ruuk avrebbero finito per intecnarlo in un circuito che avrebbe completato questo lavoro, invece che nel droide da combattimento che lui sperava di ottenere).

Anche prima che gli Ssi-ruuk lo adottassero sapeva leggere e scrivere, sia in lettere sia in notazione musicale. Combinando le due simbologie, stava escogitando un sistema per scrivere lo ssi-ruuvi in simboli umani. Sul pentagramma annotava l’altezza dei suoni. Con alcuni simboli inventati da lui annotava se il fischio era labiale, linguale, semilinguale o gutturale. Le lettere mostravano le vocali e i passaggi finali. Per scrivere «Ssi-ruu» ci voleva un’intera riga di notazioni. Un fischio semilinguale saliva di una quinta perfetta mentre la bocca formava la lettera «e». Poi un fischio labiale giù di una terza minore. Ssi-ruu era la forma singolare. Il plurale, Ssi-ruuk, finiva con uno schiocco in gola. La lingua ssi-ruuvi era complessa ma dolcissima, come il canto degli uccelli che Dev ricordava dalla sua infanzia sul pianeta G’rho.

Dev aveva un buon orecchio, ma il compito di codificare il linguaggio alieno era complesso e invariabilmente, all’ora tarda in cui si metteva a lavorare, se ne sentiva sopraffatto. Appena i crampi e la nausea furono passati, spense il visore e strisciò nel buio verso l’odore vagamente fetido del letto di Firwirrung. Usò alcuni dei cuscini per isolare il suo corpo dal sangue troppo freddo dal calore del ponte sottostante. Poi si accucciò nell’angolo più lontano dal suo padrone e pensò alla sua casa.

I doni di Dev avevano attirato l’attenzione di sua madre già in tenera età, quando ancora erano su Chandrila. Sua madre era un’apprendista Jedi, che non aveva completato il suo addestramento e che gli aveva potuto insegnare solo poco sulla Forza. Ma l’avevano sempre usata per comunicare, anche a grande distanza.

Poi era arrivato l’Impero, che aveva perseguitato e ucciso i Jedi. La sua famiglia era fuggita su G’rho, un pianeta isolato sull’orlo della galassia.

Subito dopo il loro arrivo, erano giunti gli Ssi-ruuk. La presenza di sua madre nella Forza era svanita, lasciandolo su un mondo straniero, orfano e spaventato davanti alle astronavi nemiche. Il padrone Firwirrung gli diceva sempre che i genitori di Dev lo avrebbero ucciso, se avessero potuto, piuttosto che lasciare che gli Ssi-ruuk lo adottassero. Che pensiero terrificante... il loro stesso figlio!

Ma Dev era sfuggito a entrambe le morti. Le avanguardie ssi-ruuvi lo avevano scoperto mentre si nascondeva nelle rovine. Affascinato dalle lucertole giganti con gli scuri occhi tondi, il piccolo undicenne aveva accettato da loro cibo e affetto. Lo avevano rispedito su Lwhekk, dove era vissuto per cinque anni. Alla fine, aveva scoperto perché non lo avevano intecnato subito. Le sue straordinarie abilità mentali facevano di lui uno strumento prezioso per la ricognizione di altri sistemi stellari umani. E gli permettevano anche di calmare i soggetti destinati all’intecnamento. Gli sarebbe tanto piaciuto sapere che cosa aveva detto o fatto per rivelargli i suoi poteri.

Aveva insegnato agli Ssi-ruuk tutto quello che sapeva degli umani, da come pensavano a come si comportavano, a come si vestivano (compreso il particolare delle scarpe, che li aveva divertiti a non finire). Li aveva già aiutati a conquistare diversi avamposti isolati su pianeti periferici. Ma Bakura sarebbe stato il pianeta chiave... stavano vincendo! Presto agli Imperiali che difendevano Bakura non sarebbero più rimaste navi da guerra e gli Ssi-ruuk si sarebbero potuti avvicinare al popoloso pianeta. Una dozzina di mezzi da sbarco dei P’w’eck erano già stati caricati con bombe paralizzanti, ed erano pronti a scaricarli sugli umani appena fosse venuto il momento.

Su un canale di comunicazione standard Dev aveva già annunciato ai Bakurani la buona notizia che presto sarebbero stati liberi dalle loro limitazioni umane. Il padrone Firwirrung aveva detto che una certa resistenza era normale: a differenza degli Ssi-ruuk, gli umani avevano paura dell’ignoto. E l’intecnamento era un genere di cambiamento dal quale nessuno tornava per riferire. Dev sbadigliò. I suoi padroni lo avrebbero protetto dall’Impero e un giorno lo avrebbero ricompensato. Firwirrung gli aveva promesso che sarebbe stato accanto a lui e avrebbe abbassato di persona l’arco d’intecnamento.

Dev si sfregò la gola con aria sognante. Gli aghi sarebbero entrati... qui. E qui. Un giorno, un giorno.

Si coprì la testa con le braccia e dormì.

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