Il sole nascente spinse il bordo cremisi al di sopra dell’orizzonte e gettò lunghe ombre sulle vie acciottolate che scendevano verso il porto di Falme. La brezza piegò verso l’entroterra il fumo dei fuochi per cuocere la colazione. Il fiato si condensava nel freddo dell’alba e solo i più mattinieri erano già fuori casa. A paragone della folla che fra un’ora avrebbe riempito le vie, la cittadina pareva quasi deserta.
Seduta su di un barile capovolto, di fronte a una bottega di ferramenta ancora chiusa, Nynaeve si scaldò le mani tenendole sotto le ascelle e passò in rassegna il proprio esercito. Min, seduta sul gradino d’una porta dall’altra parte della via, avvolta nel mantello di foggia Seanchan, mangiava una prugna secca; Elayne, nel soprabito di pelle di pecora, era accoccolata all’imboccatura d’un vicolo, un po’ più in là rispetto a Min. Teneva accanto a sé, ben piegato, un grosso sacco rubato sui moli.
Una sul’dam con la propria damane risaliva la via: una donna dai capelli biondi, col bracciale, e una dai capelli scuri, col collare. Tutt’e due sbadigliavano con aria assonnata. I pochi falmesi in istrada distolsero lo sguardo e lasciarono spazio alle due donne, In direzione del porto, fin dove arrivava con lo sguardo, Nynaeve non scorse altri Seanchan. Non girò la testa: si stiracchiò e scrollò le spalle, come per sciogliersi i muscoli, e riprese la stessa posizione.
Min gettò via i resti della prugna, diede un’occhiata noncurante alla parte alta della via e si appoggiò allo stipite. Con questo segnale indicava che da quella parte la via era libera, altrimenti si sarebbe toccata le ginocchia. Aveva iniziato a fregarsi nervosamente le mani e ora anche Elayne saltellava con ansia.
Se per colpa loro ci scoprono, pensò Nynaeve, le piglio a calci nel sedere. Ma sapeva che, se le avessero scoperte, sarebbero stati i Seanchan a decidere la loro sorte. In realtà non aveva la minima idea se il piano avrebbe funzionato. Ancora una volta si ripromise che, in caso d’insuccesso, avrebbe attirato su di sé l’attenzione per consentire la fuga a Min e a Elayne. Aveva detto loro di darsela a gambe, in caso di guai, e che pure lei sarebbe scappata. Non sapeva cosa avrebbe fatto, ma non si sarebbe lasciata prendere viva a nessun costo.
Sul’dam e damane risalirono la via fino a trovarsi in mezzo alle tre donne in attesa. Una decina di falmesi passava a buona distanza dalle due.
Nynaeve radunò tutta la propria ira. Pensò alle Incatenate e a Coloro che Reggevano il Guinzaglio: avevano messo a Egwene il loro lurido collare e l’avrebbero messo a lei e a Elayne, se avessero potuto. Si era fatta raccontare da Min come le sul’dam imponevano il proprio volere. In un attimo, un fiore bianco in un ramo nero e spinoso si dischiuse alla luce, a Saldar. Nynaeve si riempì dell’Unico Potere. Sapeva d’avere intorno a sé un alone, per chi poteva scorgerlo. La sul’dam sobbalzò e la damane rimase a bocca aperta, ma Nynaeve non diede loro alcuna possibilità. Incanalò solo un rivolo di Potere, ma lo vibrò con uno schiocco, come frusta che spazzi via una pagliuzza.
Il collare argenteo si aprì di scatto e cadde con un tintinnio sui ciottoli del lastrico. Nynaeve mandò un sospiro di sollievo e balzò in piedi.
La sul’dam fissò il collare come se fosse un serpente velenoso. La damane si portò la mano alla gola; ma prima che la donna con l’emblema dei fulmini avesse il tempo di muoversi, la damane si girò e le diede un pugno in piena faccia; la sul’dam piegò le ginocchia e quasi cadde.
«Ben fatto!» gridò Elayne. Già avanzava di corsa, imitata da Min.
Prima che arrivassero vicino alle due donne, la damane si guardò intorno, con aria sorpresa, e scappò a tutta velocità.
«Non ti faremo niente!» le gridò Elayne. «Siamo amiche!»
«Silenzio!» sibilò Nynaeve. Trasse di tasca uno straccio e lo cacciò in bocca alla sul’dam che ancora barcollava. Min allargò il sacco e lo infilò sulla testa della sul’dam, giù fino alla cintola.
«Abbiamo già richiamato troppa attenzione» disse ancora Nynaeve.
Era vero: la via si vuotava rapidamente, ma la gente evitava di guardare dalla loro parte. Nynaeve aveva contato su di una reazione del genere — la gente cercava d’ignorare qualsiasi cosa riguardasse i Seanchan — per guadagnare attimi preziosi. Alla fine i passanti avrebbero parlato, ma a bassa voce; forse sarebbero trascorse delle ore, prima che i Seanchan venissero a sapere che cos’era accaduto.
La donna nel sacco cominciò a dimenarsi e a mugolare, soffocata dallo straccio; Nynaeve e Min la spinsero nel vicolo. Guinzaglio e collare tintinnarono sui ciottoli.
«Raccoglili» ordinò Nynaeve a Elayne. «Non mordono!»
Elayne raccolse con diffidenza il collare, quasi temesse sul serio d’essere morsicata. Nynaeve si sentì dispiaciuta, ma non troppo: la riuscita del piano si basava sul fatto che ciascuna eseguisse bene la propria parte.
La sul’dam scalciò e cercò di liberarsi, ma Nynaeve e Min la costrinsero a procedere lungo il vicolo e poi in un altro un poco più largo, dietro alcune case, e in un altro ancora, fino a un capanno di legno che un tempo ospitava due cavalli, a giudicare dai box. Dopo l’arrivo dei Seanchan, pochi potevano permettersi di mantenere dei cavalli e nel giorno che Nynaeve aveva trascorso a tenere d’occhio il capanno, nessuno si era avvicinato. L’interno, polveroso e puzzolente di muffa, rivelava che il capanno era abbandonato da tempo. Appena furono entrate, Elayne lasciò cadere il guinzaglio argenteo e con una manciata di paglia si pulì le mani.
Nynaeve incanalò un altro rivolo di Potere e anche il bracciale cadde a terra, aperto. La sul’dam mugolò e si dimenò come una furia.
«Pronte?» disse Nynaeve. Le altre due annuirono e tirarono via il sacco.
La sul’dam starnutì, lacrimando per la polvere del sacco, ma era rossa in viso anche per la collera. Si lanciò verso la porta, ma fu bloccata al primo passo. Non era debole, ma non poteva farcela, contro tre avversarie, che la spogliarono e la deposero in un box, saldamente imbavagliata e legata mani e piedi con una corda robusta.
Min si tastò il labbro gonfio per un colpo e guardò la veste con gli emblemi dei fulmini e i morbidi stivali. «Forse andranno bene a te, Nynaeve. A me e a Elayne, no di sicuro.»
«Lo vedo anch’io. Comunque, tu eri esclusa dall’inizio. Ti conoscono troppo bene.» Si spogliò rapidamente, gettò da parte i vestiti e indossò la veste della sul’dam. Min l’aiutò ad abbottonarsi.
Nynaeve s’infilò gli stivali, che le stavano un po’ stretti. Anche la veste le era stretta intorno al petto e troppo larga ai fianchi; inoltre, con l’orlo sfiorava il terreno. Ma indosso alle altre due sarebbe andata ancora peggio. Nynaeve prese il bracciale e se lo mise al polso: le estremità si fusero e parvero diventare un pezzo unico, ma le diedero la sensazione d’un comune monile. Nynaeve aveva temuto che fosse diverso.
«Elayne, prendi la veste» disse. Avevano tinto due vesti, una di Nynaeve e una di Elayne, del grigio tipico delle damane e le avevano nascoste nel capanno. Elayne continuò a fissare il collare e a umettarsi le labbra. «Elayne, devi metterla tu» proseguì Nynaeve. «Min è troppo conosciuta. L’avrei messa io, se questa fosse andata bene a te.» Sarebbe diventata matta, se avesse dovuto portare il collare: per questo non riusciva a mostrarsi brusca con Elayne.
«Lo so» sospirò Elayne. «Solo, vorrei conoscere l’effetto del bracciale.» Si scostò i capelli. «Min, aiutami, per favore.» Min le sbottonò la schiena della veste.
Nynaeve riuscì, senza trasalire, a raccogliere da terra il collare argenteo. «C’è un solo modo per scoprirlo» disse. Con una brevissima esitazione, si chinò ad agganciarlo al collo della sul’dam. Se c’era una che lo meritava, era proprio quella Seanchan, si disse. «Forse ci darà qualche informazione utile» soggiunse. «La donna guardò il guinzaglio che dal proprio collo andava al polso di Nynaeve e fissò quest’ultima, con aria sprezzante.»
«Non funziona nell’altro senso» disse Min. Ma Nynaeve quasi non la udì.
Era... consapevole... dell’altra donna, di quel che sentiva: la fune che le segava la carne delle caviglie e dei polsi legati dietro la schiena, il gusto di pesce rancido dello straccio che l’imbavagliava, la paglia che penetrava nel sottile tessuto della sottoveste. Non era come se lei, Nynaeve, provasse queste sensazioni, ma come se in testa avesse un grumo di sensazioni che sapeva appartenere alla sul’dam.
Deglutì, cercò d’ignorarle (si rifiutavano di scomparire) e si rivolse alla prigioniera. «Non ti farò niente, se rispondi con sincerità alle domande. Non siamo Seanchan. Ma se provi a mentire...» Sollevò, minacciosa, il guinzaglio.
La donna agitò le spalle e increspò le labbra in un ringhio soffocato dal bavaglio. Nynaeve impiegò un momento a capire che la sul’dam rideva.
Serrò le labbra, ma poi ebbe un’idea. Quel grumo dentro la propria testa sembrava riguardare tutte le sensazioni fisiche dell’altra. A titolo sperimentale, provò ad aggiungere qualche sensazione nuova.
Con occhi che all’improvviso parvero schizzare dalle orbite, la sul’dam emise un grido che il bavaglio soffocò solo in parte. Agitò le mani come se cercasse di tenere a bada chissà cosa e s’inarcò sulla paglia, in un futile tentativo di fuga.
Nynaeve spalancò la bocca e s’affrettò a liberarsi delle sensazioni da lei aggiunte. La sul’dam si lasciò cadere distesa, piangendo.
«Cosa... Cosa le hai fatto?» domandò debolmente Elayne. Min si limitò a guardare a bocca aperta.
«La stessa cosa che ti ha fatto Sheriam, quando hai tirato una ciotola a Marith» rispose Nynaeve, burbera.
Elayne deglutì rumorosamente. «Oh!»
«Ma in teoria l’a’dam non funziona in senso inverso» disse Min. «Sostengono che non agisce sulle donne incapaci d’incanalare il Potere.»
«Della teoria non m’importa niente, visto che funziona» replicò Nynaeve. Afferrò il guinzaglio nel punto d’unione al collare e sollevò da terra la sul’dam, fino a fissarla negli occhi. Occhi pieni di terrore. «Apri bene le orecchie» disse. «Voglio risposte. E se non rispondi, ti scortico viva.» La sul’dam impallidì e Nynaeve si sentì nauseata, rendendosi conto che l’altra aveva preso alla lettera la minaccia. Quindi sapeva che era possibile metterla in atto: ecco a che cosa servivano i guinzagli. Nynaeve si dominò per non strapparsi dal polso il bracciale e indurì il viso. «Sei pronta a rispondere? O hai bisogno d’un piccolo sprone?»
Il frenetico scuotimento di testa fu sufficiente. Nynaeve le tolse il bavaglio e la sul’dam esitò solo per deglutire una volta, prima di farfugliare: «Non farò rapporto su di te, lo giuro. Ma toglimi questa roba. Ho delle monete d’oro, prendile. Ti giuro, non ne parlerò a nessuno.»
«Silenzio» ordinò Nynaeve. La sul’dam tacque di colpo. «Come ti chiami?»
«Setha. Ti prego. Risponderò a tutte le domande, ma toglimelo, ti prego! Se qualcuno lo vede su di me...» Abbassò gli occhi a fissare il guinzaglio, poi li serrò. «Ti prego» mormorò.
Nynaeve capì che non avrebbe mai costretto Elayne a portare quel collare.
«Meglio procedere come previsto» disse Elayne, decisa. Ormai era anche lei in sottoveste. «Lasciami indossare l’altra veste e...»
«Rimetti i tuoi vestiti» disse Nynaeve.
«Una di noi dovrà pur fingere d’essere damane» obiettò Elayne. «Altrimenti non arriveremo mai a Egwene.»
«T’ho detto di rivestirti. Abbiamo già la nostra Incatenata.» Nynaeve diede uno strattone al guinzaglio e la sul’dam ansimò.
«No! No, ti prego! Se qualcuno mi vede...» S’interruppe, sotto l’occhiata gelida di Nynaeve.
«Per quanto mi riguarda, sei peggio di un’assassina, peggio di un’Amica delle Tenebre. Portare al polso quest’affare, essere uguale a te anche solo per un’ora, mi fa venire la nausea. Perciò, se pensi che ci sia qualcosa che esiterei a farti, rifletti meglio. Non vuoi che qualcuno ti veda? Bene. Non lo vogliamo neppure noi. Comunque, nessuno in pratica guarda le damane. Se tieni bassa la testa, come devono fare le Incatenate, nessuno ti noterà. Ma ti conviene impegnarti perché nessuno noti neppure noi: in caso contrario, vedranno di sicuro anche te; se questo non basta a trattenerti, ti prometto che ti farò maledire anche il primo bacio di tua madre a tuo padre. Ci siamo capite?»
«Sì» rispose debolmente Setha. «Lo giuro.»
Nynaeve fu costretta a togliersi il bracciale, in modo da far passare la veste grigia di Elayne lungo il guinzaglio e infilarla e Setha. Non le andava molto bene, larga di petto e stretta di fianchi, ma neppure quella preparata per Nynaeve le sarebbe andata meglio e per giunta era troppo corta. Nynaeve si augurò che la gente non guardasse davvero le damane. Con riluttanza, si mise al polso il bracciale.
Elayne raccolse gli abiti di Nynaeve, li avvolse nelle vesti tinte di grigio e confezionò un fagotto... un fagotto come poteva portare una donna in abiti da paesana che seguiva una sul’dam con la damane. «Gawyn si roderà il fegato, quando saprà questa storia» disse, ridendo. Ma la risata non parve molto spontanea.
Nynaeve esaminò attentamente Elayne e poi Min: ora veniva la parte pericolosa.
«Siete pronte?» domandò.
Elayne perdette il sorriso. «Sono pronta» rispose.
«Pronta» confermò Min, concisa.
«Dove andate... cioè, andiamo?» disse Setha. E si affrettò a soggiungere: «Se posso domandarlo.»
«Nella tana dei leoni» le rispose Elayne.
«A danzare col Tenebroso» soggiunse Min.
Nynaeve sospirò e scosse la testa. «Andiamo nell’edificio dove sono rinchiuse le damane e intendiamo liberarne una» spiegò.
Setha era ancora a bocca aperta per lo stupore, quando la spinsero fuori del capanno.
Dal ponte della nave Bayle Domon guardò sorgere il sole. I moli cominciavano ad affollarsi, anche se le vie che risalivano dal porto erano quasi deserte. Un gabbiano, appollaiato in cima a un palo, lo fissò. I gabbiani avevano occhi spietati.
«Sei convinto di questa storia, capitano?» domandò Yarin. «Se i Seanchan si chiedono come mai siamo tutti a bordo...»
«Tu bada solo che ci sia un’ascia accanto a ogni cavo d’ormeggio» rispose Domon, asciutto. «E... Yarin? Se qualcuno taglia una fune prima che quelle donne siano a bordo, gli spacco il cranio.»
«E se non vengono, capitano? Se vengono invece i soldati?»
«Calma, Yarin! Se vengono i soldati, corro all’imboccatura del porto e la Luce abbia pietà di noi tutti. Ma finché non li vedo, intendo aspettare quelle donne. Adesso vai a fare finta d’essere impegnato nel lavoro.»
Gli girò le spalle e scrutò la città, in direzione dell’edificio dove erano chiuse le damane. Tamburellava nervosamente sulla murata.
La brezza di mare portò alle narici di Rand l’odore dei fuochi per la cottura della colazione e gli tirò i lembi del mantello. Negli abiti trovati al villaggio non c’era una giubba che gli andasse bene; mentre spingeva Red verso la città, Rand si strinse nel mantello: preferiva tenere nascosti i ricami in argento sulle maniche e gli aironi sul colletto. E poi, l’atteggiamento dei Seanchan verso chi girava armato forse non comprendeva chi aveva una spada col marchio dell’airone.
Davanti a lui comparivano le prime ombre del mattino. Rand scorgeva appena Hurin procedere fra i depositi per i carri e i recinti per i cavalli. Solo un paio d’uomini si muoveva lungo le file di carri dei mercanti e portava il lungo grembiule tipico di fabbri e carradori. Ingtar, il primo a entrare, era già fuori vista. Perrin e Mat venivano dietro, a intervalli. Rand non girò la testa a guardare dov’erano. In teoria, niente collegava l’uno agli altri: cinque uomini che entravano a Falme di buon’ora, ma non insieme.
Si ritrovò circondato dai recinti, dove i cavalli erano già lungo gli steccati in attesa del cibo. Dallo spazio fra due stalle ancora chiuse e sbarrate, Hurin sporse la testa, vide Rand, gli rivolse un segnale e si ritrasse. Rand deviò da quella parte.
Hurin, in piedi, teneva per le redini il cavallo. Al posto della solita giubba indossava una lunga veste e rabbrividiva di freddo, malgrado il pesante mantello che nascondeva la spada e il frangilama. «Lord Ingtar è laggiù» disse, indicando con un cenno il fondo dello stretto passaggio. «Lasciamo qui i cavalli e proseguiamo a piedi.» Mentre Rand smontava, soggiunse: «Fain ha percorso proprio quella via, lord Rand. Quasi ne sento l’odore anche da qui.»
Rand accompagnò Red dietro la stalla, dove Ingtar aveva già legato il proprio cavallo. Lo shienarese non aveva tanto l’aria da lord, col soprabito di pelle di pecora, sporco e strappato in vari punti; con la spada alla cintola, faceva una bizzarra figura. Nello sguardo aveva un’intensità febbrile.
Rand legò il cavallo accanto a quello di Ingtar; di fronte alle bisacce, esitò. Non se l’era sentita d’abbandonare lo stendardo. Non pensava che gli shienaresi frugassero nelle bisacce, ma non si fidava di Verin e non aveva idea di quale sarebbe stata la reazione dell’Aes Sedai nel trovare lo stendardo. Eppure si sentiva ancora a disagio, ad averlo con sé. Alla fine decise di lasciare le bisacce legate dietro la sella.
Mat si unì a loro; dopo qualche momento, giunsero anche Hurin e Perrin. Mat portava brache a sbuffo, infilate negli stivali, e Perrin indossava un mantello troppo corto. Rand pensò che avevano l’aspetto di mendicanti di malaffare, tutti e cinque; ma non avevano destato la minima curiosità, nei villaggi attraversati.
«E ora» disse Ingtar «vediamo quel che c’è da vedere. Imboccarono la strada di terra battuta, come se non avessero in mente una destinazione particolare, chiacchierando; oltrepassarono i depositi per i carri e si trovarono su vie acciottolate in pendenza. Secondo il piano di Ingtar, dovevano avere l’aspetto d’uno dei tanti gruppetti di persone, ma nelle vie la gente era troppo poca: cinque uomini diventavano una folla, a quell’ora del mattino.»
Hurin li guidava, annusando l’aria e svoltando ora in questa ora in quella via. Gli altri lo seguivano come se avessero una meta ben precisa.
«Ha girato la città in lungo e in largo» borbottò Hurin, con una smorfia. «Il suo odore è dappertutto, così forte da non far capire se è vecchio o recente. Almeno so che è ancora qui. In certi punti l’odore non risale a più d’un giorno, ne sono sicuro.»
Cominciarono a comparire altre persone, qua un fruttivendolo che metteva sui banchi la merce, là un tipo che si muoveva speditamente e portava sotto il braccio un grosso rotolo di pergamene e una tavola da disegno appesa sulla schiena, laggiù un arrotino che oliava il mozzo della ruota da macina sulla carriola. Passarono due donne, in senso opposto, una con gli occhi bassi e un collare argenteo, l’altra con la veste adorna di fulmini e in mano un guinzaglio arrotolato.
Rand trattenne il fiato e con uno sforzo riuscì a non girarsi a guardarle.
«Quella era...» disse Mat, a occhi sgranati «era una damane? »
«Così le hanno descritte» rispose Ingtar, asciutto, «Hurin, dobbiamo proprio percorrere ogni via di questa città maledetta dall’Ombra?»
«Ha girato dappertutto, lord Ingtar» rispose Hurin. «Il suo puzzo è ovunque.»
Erano giunti in una zona dove le case di pietra, grandi come locande, avevano tre piani, anche quattro. Girarono un angolo e Rand restò sorpreso alla vista d’una ventina di soldati Seanchan, di guardia a una grande casa sul lato della via... e alla vista di due donne con l’emblema dei fulmini che parlavano sulla soglia della casa sul lato opposto. Un vessillo sventolava sopra la casa protetta dai soldati: un falco d’oro che afferrava due fulmini.
Niente contrassegnava l’altra casa, tranne le due donne. L’ufficiale portava una corazza lucente, rosso, nero e oro, ed elmo dorato e dipinto a somiglianza di testa di ragno. Poi Rand notò le due grosse creature dalla pelle coriacea, accucciate fra i soldati, e trasalì.
Grolm. Impossibile confondere la testa triangolare e i tre occhi. Si rifiutò di crederci. Forse era davvero addormentato e sognava. Forse lui e gli altri non erano ancora neppure partiti per Falme.
Nel passare davanti alla casa sorvegliata, anche gli altri fissarono le creature.
«In nome della Luce, che bestie sono?» domandò Mat.
Anche Hurin aveva sgranato gli occhi. «Lord Rand, quelle sono... Quelle sono...»
«Non importa» tagliò corto Rand. Dopo un attimo, Hurin annuì.
«Siamo qui per il Corno» disse Ingtar. «Non per guardare come allocchi i mostri dei Seanchan. Hurin, pensa a trovare Fain.»
I soldati quasi non guardarono il gruppetto. La via scendeva dritta verso il porto. Rand vedeva le navi alla fonda: alte, squadrate, con un grande albero maestro.
«È stato qui un mucchio di tempo» disse Hurin; col dorso della mano si fregò il naso. «La via puzza di lui, strato su strato su strato. Secondo me, è stato qui anche ieri, lord Ingtar. Forse ieri notte.»
All’improvviso Mat si tirò la giubba. «È là dentro» mormorò. Si girò e tornò sui suoi passi, scrutando la casa con lo stendardo. «Il pugnale è là dentro. Prima non l’ho notato, a causa di quelle... di quelle creature; ma ora lo percepisco.»
Perrin gli piantò un dito fra le costole. «Bene, però smettila, prima che si chiedano perché li guardi a occhi sbarrati come un pazzo.»
Rand si lanciò un’occhiata alle spalle: l’ufficiale guardava dalla loro parte.
Mat si girò, imbronciato. «Dobbiamo continuare la passeggiata e basta? È là dentro, ve lo dico io.»
«Cerchiamo il Corno» ringhiò Ingtar. «Voglio trovare Fain e farmi dire dove si trova.» Non rallentò neppure.
Mat non replicò, ma aveva un’espressione di supplica.
"Anch’io devo trovare Fain” pensò Rand. Ma guardò il viso di Mat e disse: «Ingtar, se il pugnale è in quella casa, è facile che lì ci sia anche Fain. Non è da lui, perdere di vista il pugnale e il Corno.»
Ingtar si fermò. «Può darsi» disse, dopo un momento. «Ma da qui fuori non lo sapremo mai.»
«Teniamo d’occhio la casa e vediamo se esce» propose Rand. «Se esce a quest’ora del mattino, allora ha trascorso la notte lì dentro. E sono sicuro che dove dorme lui c’è anche il Corno. Se lo vediamo uscire, in mezza giornata possiamo tornare da Verin e prima di sera avremo fatto un piano.»
«Non voglio aspettare Verin» disse Ingtar. «E neppure aspettare la notte. Ho aspettato già troppo. Voglio avere fra le mani il Corno, prima che il sole tramonti.»
«Ma non sappiamo se è lì!»
«Io so che il pugnale c’è» disse Mat.
«E Hurin dice che Fain era lì ieri notte» replicò Ingtar. «Per la prima volta la traccia risale a meno d’un paio di giorni, Riprenderemo il Corno adesso. Subito!»
«E come?» obiettò Rand. L’ufficiale non guardava più dalla loro parte, ma c’erano almeno venti soldati davanti all’edificio. E un paio di grolm. “Ma questa è follia” si disse Rand. “Qui i grolm non esistono!" Però il pensiero non fece scomparire i mostri.
«Pare che dietro le case ci siano dei giardini» disse Ingtar, guardandosi intorno, pensieroso. «Se un vicolo corre lungo il muro di un giardino... A volte la gente sorveglia l’ingresso principale e trascura quello secondario. Venite.» Puntò con decisione verso il più vicino passaggio fra due case, Hurin e Mat gli furono subito alle calcagna.
Rand guardò Perrin, che rispose con una scrollata di spalle; tutt’e due seguirono gli altri.
Il vicolo era largo poco più d’un braccio, ma correva fra alte mura di cinta dei giardini e ne incrociava un altro, anch’esso acciottolato, largo a sufficienza per un carretto. Però vi si affacciava solo il retro degli edifici: finestre chiuse da scuri, pareti di pietra e l’alto muro dei giardini, sopra il quale sporgevano rami spogli.
Ingtar li guidò lungo questo vicolo finché si trovarono dalla parte opposta dello, stendardo. Da sotto il soprabito prese i guanti col dorso di ferro, li calzò e spiccò un balzo per afferrarsi alla cima del muro; poi si tirò su di peso, quanto bastava a scrutare il giardino. «Alberi» riferì. «Aiuole. Vialetti. Non c’è anima... Un momento! Una guardia. Un solo uomo. Non ha nemmeno l’elmo. Contate fino a cinquanta, poi seguitemi.» Mise il piede sul muro e si lasciò cadere all’interno; scomparve prima che Rand potesse dire una sola parola.
Mat cominciò a contare. Rand trattenne il fiato. Perrin tormentò il manico dell’ascia. Hurin strinse l’elsa della spada e del frangilama.
«E cinquanta» terminò Mat. Hurin si era già arrampicato sul muro, con Perrin al fianco.
Rand pensò che forse Mat aveva bisogno d’aiuto, a giudicare da com’era pallido e tirato; ma l’amico s’arrampicò senza difficoltà: le pietre del muro fornivano molti appigli. Dopo qualche attimo, anche lui fu nel giardino, acquattato con gli altri contro il muro.
Il giardino era nella morsa dell’autunno avanzato: aiuole brulle, a parte qualche arbusto sempreverde, rami quasi spogli. Il vento faceva turbinare la polvere nei vialetti lastricati. Sulle prime Rand non riuscì a scorgere Ingtar; poi lo vide, appiattito contro il muro posteriore della casa, con la spada in pugno: segnalava di venire avanti.
Rand scattò di corsa, piegato in due. Con un sospiro di sollievo, si appiattì contro la parete, accanto a Ingtar.
Mat continuava a borbottare: «È lì dentro. Lo sento.»
«La guardia?» domandò Rand in un bisbiglio.
«Morta» rispose Ingtar. «Quell’uomo era troppo sicuro di sé. Non ha neppure tentato di gridare. Ho nascosto il cadavere sotto uno di quei cespugli.»
Rand fissò Ingtar. Il Seanchan era troppo sicuro di sé? L’unica cosa che gli impedì di tornare subito indietro fu l’angosciato mormorio di Mat.
«Ci siamo quasi» disse Ingtar, come se parlasse tra sé. «Ci siamo quasi. Su, andiamo.»
Rand sguainò la spada e cominciò a salire i gradini posteriori. Hurin impugnò la corta spada e l’ammaccato frangilama. Perrin estrasse con riluttanza l’ascia dal passante alla cintura.
Entrarono in uno stretto corridoio. A destra, da una porta socchiusa, provenivano odori di cucina. Diverse persone si muovevano in quella stanza: si udivano voci indistinte e, di tanto in tanto, l’acciottolio d’un coperchio contro la pentola.
Ingtar segnalò a Mat di fare strada; senza il minimo rumore passarono davanti alla porta socchiusa. Rand tenne d’occhio lo spiraglio, finché tutti non ebbero girato l’angolo.
Da una porta più avanti uscì una ragazza snella, dai capelli scuri, che reggeva un vassoio con una singola tazzina. I cinque impietrirono. La ragazza andò nell’altra direzione, senza neppure un’occhiata dalla loro parte. Rand rimase di stucco: la lunga veste della ragazza era quasi trasparente. La cameriera scomparve dietro l’angolo.
«Visto che roba?» disse Mat, rauco. «Mostrava anche...»
Ingtar gli tappò la bocca e mormorò: «Ricorda perché siamo qui. Trovalo. Trovami il Corno.»
Mat indicò una stretta scala a chiocciola. Salirono una rampa e Mat li guidò verso la parte anteriore della casa. Il mobilio, nei corridoi, era scarso e pareva tutto curve. Qua e là c’era un arazzo alla parete o un paravento pieghevole, con disegni stilizzati: alcuni uccelli su di un ramo, un fiore o due. Su di un paravento era dipinto un ruscello, ma il disegno si limitava all’acqua increspata e alle rive.
Tutt’intorno si udivano rumori di gente in movimento, fruscio di pantofole, frasi sottovoce. Rand non vide nessuno, ma immaginava che cosa sarebbe accaduto se qualcuno fosse entrato nel corridoio, avesse visto cinque uomini che s’aggiravano con la spada in pugno e avesse dato l’allarme...
«Là dentro» bisbigliò Mat; indicò, più avanti, una porta dai battenti scorrevoli, adorna solo di maniglie intagliate. «Almeno, il pugnale è lì.»
Ingtar guardò Hurin: l’annusatore fece scorrere i battenti e Ingtar balzò nella stanza, pronto a usare la spada. Non c’era nessuno. Rand e gli altri entrarono rapidamente e Hurin s’affrettò a chiudere la porta.
Paraventi dipinti nascondevano le pareti ed eventuali altre porte e velavano la luce che entrava dalle finestre sulla via. A un’estremità della sala c’era un alto armadio circolare. All’altra, un tavolino e un tappeto con una singola sedia girata dalla parte dell’armadio. Ingtar ansimò, ma Rand si limitò a un sospiro di sollievo: sul tavolo, sopra un sostegno, c’era il Corno di Valere. Sotto il Corno brillava il rubino nell’elsa del pugnale.
Mat scattò verso il tavolo, afferrò Corno e pugnale. «Li abbiamo» gracchiò, agitando il pugnale. «Li abbiamo tutt’e due.»
«Parla piano» disse Perrin, con una smorfia. «Ancora non li abbiamo portati fuori di qui.» Con le dita tormentava nervosamente il manico dell’ascia.
«Il Corno di Valere» disse Ingtar, con stupore reverenziale. Toccò il Corno, esitò, seguì col dito la scritta d’argento intarsiata lungo il bordo e la tradusse a bassa voce; poi, con un brivido d’entusiasmo, ritrasse la mano. «È il Corno» disse. «Luce santa, è proprio il Corno! Sono salvo.»
Hurin spostò i paraventi davanti alle finestre e scrutò la via. «I soldati sono sempre lì; pare che abbiano messo radici.» Rabbrividì. «Anche quelle... creature.»
Rand si accostò a Hurin. Le due creature erano grolm, impossibile negarlo. «Come hanno...» Lasciò morire la frase e guardò da sopra il muro nel giardino della casa di fronte. Delle donne sedevano sulle panche o camminavano per i vialetti, sempre a coppie. Donne unite da guinzagli argentei. Una di loro, col collare, sollevò gli occhi. Rand era troppo lontano per distinguere i particolari, ma per un attimo incrociò lo sguardo della donna e la riconobbe. Sbiancò in viso. «Egwene» alitò.
«Cosa ti salta in mente?» disse Mat. «Egwene è al sicuro a Tar Valon. Vorrei esserci anch’io.»
«È qui» disse Rand. Le due donne ora tornavano verso un edificio sul lato più lontano dei giardini. «Egwene è in quella casa dall’altra parte della via» ripeté Rand. «Luce santa, porta il collare!»
«Sei sicuro?» disse Perrin. Andò alla finestra e scrutò fuori. «Non la vedo, Rand. E... e io la riconoscerei, se la vedessi, anche da questa distanza.»
«Sicurissimo» rispose Rand. Le due donne erano scomparse in una casa che fronteggiava la prima via trasversale. Lo stomaco gli si era contratto. In teoria Egwene era al sicuro nella Torre Bianca. «Devo farla fuggire. Voialtri...»
«Ah!» La voce strascicata non fece più rumore dei battenti che scorrevano nell’apposito alloggiamento. «Non siete chi aspettavo.»
Per un attimo Rand rimase a fissare l’intruso: un uomo alto, con la testa rasata, veste azzurra che sfiorava il pavimento, unghie così lunghe da chiedersi come facesse a maneggiare le cose. I due uomini che si tenevano rispettosamente dietro di lui avevano la testa rasata solo per metà: i capelli, acconciati a treccia, ricadevano sulla guancia destra. Uno dei due reggeva una spada inguainata.
L’attimo dopo, i paraventi si ribaltarono e misero in mostra, ai capi della stanza, due vani di porta affollati di soldati Seanchan: quattro o cinque per parte, a testa scoperta, ma con spada e corazza.
«Siete alla presenza del Sommo Signore Turak» cominciò l’uomo che reggeva la spada, guardando con ira Rand e gli altri; ma si bloccò al piccolo movimento d’un dito dall’unghia laccata d’azzurro. L’altro servitore avanzò, con un inchino, e iniziò a sbottonare la veste di Turak.
«Quando una mia guardia è stata trovata morta» disse con calma l’uomo dalla testa rasata «ho sospettato dell’uomo che si fa chiamare Fain. Ho sospettato di lui, fin da quando Huon è morto in maniera così misteriosa; e poi Fain desiderava troppo il pugnale.» Allargò le braccia in modo che il servitore gli togliesse la veste. Malgrado la voce morbida, quasi musicale, nelle braccia e nel petto glabro aveva muscoli robusti; alla cintola, una fascia azzurra sorreggeva ampie brache bianche che parevano fatte di centinaia di pieghine. Turak parve disinteressato e indifferente alle loro spade. «E ora trovo degli estranei, che hanno preso non solo il pugnale, ma anche il Corno. Mi farà piacere uccidere un paio di voi, per il disturbo, I superstiti mi diranno chi siete e perché siete venuti.» Senza guardare, tese la mano (l’uomo che reggeva la spada gli porse l’elsa) ed estrasse la pesante spada ricurva. «Non voglio che il Corno sia danneggiato» dichiarò.
Non fece altri segni, ma un soldato avanzò nella stanza e allungò la mano per prendere il Corno. Rand non sapeva se ridere o piangere. Il soldato portava la corazza, ma aveva un’aria arrogante e pareva indifferente quanto Turak al fatto che gli intrusi fossero armati.
Mat spezzò l’incantesimo. Il Seanchan allungò la mano e Mat la colpì con un fendente del pugnale dall’elsa di rubino. Il soldato imprecò e si ritrasse, sorpreso. Poi urlò: un urlo che gelò la stanza e stupì tutti. Il soldato sollevò davanti a sé la mano ferita, che diventava nera a partire dal taglio sanguinante sul palmo. Spalancò la bocca e ululò, si artigliò il braccio e poi la spalla. Scalciò, sobbalzò, cadde bocconi, rovinò il tappeto di seta, urlò, mentre anche il viso gli si anneriva e gli occhi si gonfiavano come susine troppo mature, finché la lingua scura ed enfiata non soffocò le urla. Il soldato si contorse, tossì, scalciò ancora e non si mosse più. Ogni pezzetto di pelle visibile era diventato nero come pece imputridita e pareva pronto a scoppiare al minimo tocco.
Mat si umettò le labbra e deglutì; cambiò a disagio la presa sull’elsa. Perfino Turak guardava a bocca aperta.
«Come vedi» disse Ingtar, con calma «non siamo facili prede.» Di scatto scavalcò il cadavere e si lanciò contro i soldati ancora sconvolti per la sorte del loro compagno. «Shinowa!» gridò «Seguitemi!»
Hurin balzò dietro di lui e i soldati arretrarono di fronte all’assalto, mentre cresceva il rumore di ferro contro ferro.
I Seanchan all’altro capo della stanza avanzarono, ma anche loro si ritrassero davanti al pugnale di Mat, ancor più che davanti all’ascia vibrata da Perrin con ringhi animaleschi.
Nel giro di qualche istante Rand si trovò da solo a fronteggiare Turak, che teneva la spada alta di fronte a sé: l’attimo di sorpresa era già passato. Con occhi attenti, guardava in viso Rand: il cadavere gonfio e nero d’un suo soldato era come se non fosse mai esistito. E non pareva esistere nemmeno per i due servitori, non più di Rand e della sua spada, o dei rumori di lotta che si affievolivano in due direzioni verso l’interno della casa. I servitori avevano iniziato con calma a ripiegare la veste di Turak, non appena il Sommo Signore aveva impugnato la spada, e non avevano alzato gli occhi nemmeno alle urla del moribondo. Ora si misero in ginocchio ai lati della porta e guardarono, impassibili.
«Sospettavo che forse si sarebbe arrivati a noi due» disse Turak, facendo girare con scioltezza la spada, un giro completo in un senso, poi nell’altro, muovendo delicatamente le dita sull’elsa. Le unghie lunghissime, a quanto pareva, non lo impacciavano affatto. «Sei giovane. Vediamo cosa si richiede, da questa parte dell’oceano, per guadagnare l’airone.»
Solo allora Rand vide il marchio sulla spada di Turak. Con il poco addestramento che aveva, doveva affrontare un vero mastro spadaccino. Si affrettò a gettare da parte l’ingombrante mantello. Turak attese.
Rand voleva disperatamente cercare il vuoto. Era chiaro che gli occorreva tutta la sua abilità, fino all’ultimo briciolo, e che le probabilità di lasciare vivo quella stanza erano piccolissime. Ma doveva restare vivo. Egwene era lì vicino, quasi a portata di voce, e lui doveva liberarla in qualche modo. Ma nel vuoto c’era Saidin: il pensiero gli fece balzare il cuore per la bramosia e nello stesso tempo gli rivoltò lo stomaco. Ma con Egwene c’erano quelle altre donne. Damane. Se lui avesse toccato Saidin e se avesse incanalato il Potere, loro l’avrebbero saputo, come aveva detto Verin, e si sarebbero poste delle domande. Forse sarebbe sopravvissuto a Turak solo per morire affrontando le damane. Non poteva permettersi di morire, prima che Egwene fosse libera. Alzò la spada.
Senza il minimo rumore, Turak scivolò verso di lui. Una lama cozzò contro l’altra, con rumore di martello sull’incudine.
Fin dall’inizio Rand capì che Turak lo saggiava, che usava solo la forza sufficiente per scoprire che cosa fosse in grado di fare e poi aumentare un poco la pressione, e ancora un poco. Non tanto l’abilità, quanto la rapidità di polsi e di piedi manteneva Rand in vita. Senza il vuoto, lui era sempre in ritardo d’un attimo. La punta della spada di Turak scavò un solco bruciante appena sotto l’occhio sinistro di Rand. Un lembo di manica gli penzolò dalla spalla, più scuro perché bagnato. Dopo un fendente sotto il braccio destro, preciso come taglio di sarto, Rand sentì un umido tepore diffondersi lungo le costole.
Il viso del Sommo Signore mostrò delusione. Turak arretrò d’un passo, disgustato. «Dove hai trovato quella spada, ragazzo?» sbuffò. «O danno davvero l’airone a chi è abile solo quanto te? Non importa. Raccomanda l’anima alla Luce. È ora di morire.» Ripartì all’attacco.
Il vuoto avviluppò Rand. Saidin fluì verso di lui, risplendente per la promessa dell’Unico Potere, ma Rand lo ignorò. Non era più difficile che ignorare una spina uncinata che gli strappasse le carni. Rand si rifiutò di farsi riempire dal Potere, rifiutò d’essere un tutt’uno con la metà maschile della Vera Fonte. Era tutt’uno con la spada, con il pavimento, con le pareti. Con Turak.
Riconobbe le figure usate dal Sommo Signore: erano un po’ diverse da quelle che aveva appreso, ma non troppo. La rondine si leva in volo contro Il taglio della seta. Luna sull’acqua contro L’oca dei boschi danza. Nastro nell’aria contro Le pietre cadono dalla scogliera. I due avversari si mossero come in una danza e la musica era acciaio contro acciaio.
Delusione e disgusto svanirono dagli occhi scuri del Sommo Signore e lasciarono posto alla sorpresa e poi alla concentrazione. Col viso lucido di sudore, Turak andò all’assalto con forza rinnovata. Fulmine a tre rebbi contro Foglia nella brezza.
I pensieri di Rand fluttuarono fuori del vuoto, lontano da lui, quasi inavvertiti . Non era sufficiente. Rand affrontava un mastro spadaccino: col vuoto e con tutta l’abilità riusciva a stento a resistere. Doveva terminare lo scontro, prima che fosse Turak a farlo. Saidin? No! Ricordò le parole di Lan: «A volte è necessario Inguainare la spada nella propria carne». Ma così non avrebbe aiutato Egwene. Doveva terminare lo scontro subito. Subito.
Rand venne avanti. Turak sgranò gli occhi; fino a quel momento l’avversario si era soltanto difeso; ora attaccava. Il cinghiale s’avventa dalla montagna. Ogni movimento della lama era un tentativo di arrivare al corpo dell’avversario. Ora Turak poteva solo parare e arretrare lungo tutta la stanza fino alla porta.
In un istante, mentre Turak tentava ancora di fronteggiare Il cinghiale, Rand cambiò: Il fiume erode l’argine. Si lasciò cadere su di un ginocchio e vibrò la spada in orizzontale. Non ebbe bisogno dell’ansito di Turak, né della resistenza alla lama, per capire. Udì due colpi sordi e girò la testa: seguì con gli occhi la linea della propria lama bagnata di rosso, fino al corpo disteso del Sommo Signore, che aveva lasciato cadere dalla mano inerte la spada; una macchia scura bagnava gli uccelli tessuti nel tappeto. Gli occhi di Turak erano ancora aperti, ma già velati dalla morte.
Il vuoto tremò. In precedenza Rand aveva affrontato dei Trolloc, la progenie dell’Ombra. Mai, se non in allenamento, un essere umano armato di spada. Aveva appena ucciso un uomo. Il vuoto tremò e Saidin cercò di riempirlo. Disperatamente Rand se ne liberò e si guardò intorno. Trasalì nel vedere i due servitori ancora inginocchiati accanto alla porta. Li aveva dimenticati e ora non sapeva che cosa fare di loro. Nessuno dei due pareva armato, però bastava un loro grido...
I due non lo guardarono, né si guardarono. Fissarono invece in silenzio il cadavere del Sommo Signore. Da sotto la veste estrassero un pugnale e si puntarono al petto la lama. «Dalla nascita alla morte» intonarono all’unisono «servo il Sangue.» E si conficcarono nel cuore il pugnale. Si piegarono in avanti, quasi in pace, testa sul pavimento, come se s’inchinassero al proprio signore.
Rand li fissò, incredulo. Pazzi, pensò. Forse lui sarebbe impazzito, ma quei due erano già impazziti.
Si rialzò, scosso; in quel momento Ingtar e gli altri rientrarono di corsa. Tutti avevano qualche segno; la giubba di Ingtar era macchiata in più d’un punto. Mat aveva ancora il Corno e il pugnale, con la lama più scura del rubino sull’elsa. Anche l’ascia di Perrin era arrossata e lui pareva sul punto di vomitare da un momento all’altro.
«Hai provveduto tu a loro?» disse Ingtar, guardando i cadaveri. «Allora abbiamo terminato, se nessuno ha dato l’allarme. Questi sciocchi non hanno gridato aiuto neppure una volta.»
«Vedo se le guardie hanno udito qualcosa» disse Hurin, correndo alla finestra.
Mat scosse la testa. «Rand, questa gente è pazza. L’ho già detto altre volte, ma questi sono pazzi davvero. I servitori...» Rand trattenne il respiro, domandandosi se tutti si fossero suicidati. Mat disse: «Ogni volta che ci vedevano combattere, cadevano in ginocchio, faccia a terra, e con le braccia si coprivano la testa. Non si sono mossi, non hanno gridato; non hanno cercato d’aiutare i soldati né di dare l’allarme. Sono ancora lì, per quanto ne so.»
«Non conterei sul fatto che se ne restino in ginocchio» disse Ingtar, ironico. «Ce ne andiamo subito, a tutta velocità.»
«Andate voi» disse Rand. «Egwene...»
«Stupido!» lo rimbeccò Ingtar, aspro. «Abbiamo quel che siamo venuti a cercare. Il Corno di Valere. La speranza di salvezza. Cosa conta una ragazza, anche se l’ami, di fronte al Corno e a quel che rappresenta?»
«Il Tenebroso può prenderselo, per quel che mi riguarda! Cosa conta ritrovare il Corno, se abbandono Egwene a questa gente? Se lo facessi, il Corno stesso non potrebbe salvarmi. Il Creatore non potrebbe salvarmi. Mi dannerei da solo.»
Ingtar lo fissò, con viso indecifrabile. «Intendi proprio questo, vero?»
«Fuori c’è trambusto» disse Hurin, in tono pressante. «È giunto un uomo di corsa e tutti si agitano come pesci in un secchio. Un momento. L’ufficiale viene qui dentro!»
«Andiamo!» disse Ingtar. Cercò di prendere il Corno, ma Mat si era già messo a correre. Rand esitò; Ingtar l’afferrò per il braccio e lo tirò nel corridoio. Gli altri seguivano Mat; Perrin diede a Rand uno sguardo addolorato, prima di muoversi.
«Non puoi salvare la ragazza, se resti qui a morire!» disse ancora Ingtar.
Rand corse via con loro. “Tornerò” si disse, odiandosi perché fuggiva. “In qualche modo libererò Egwene."
Ai piedi della stretta scala a chiocciola udirono una voce maschile, profonda, che proveniva dalla parte frontale della casa e ordinava con rabbia che qualcuno desse spiegazioni. Una cameriera in veste quasi trasparente era inginocchiata in fondo alla scala; una donna dai capelli grigi, vestita di lana bianca, con un lungo grembiule infarinato, era in ginocchio accanto alla porta della cucina. Stavano esattamente come aveva detto Mat, faccia a terra e mani a coprire la testa; non mossero muscolo, quando i cinque passarono di corsa. Rand si sentì più sollevato nel notare che le due donne respiravano.
I cinque attraversarono a tutta velocità il giardino e si arrampicarono in fretta sul muro. Ingtar imprecò, quando Mat gettò davanti a sé il Corno di Valere; cercò di nuovo di prenderlo, appena si lasciò cadere dall’altra parte. Mat raccolse in fretta il Corno. «Non si è nemmeno graffiato!» disse. E risalì di corsa il vicolo.
Dalla casa provennero altre grida; una donna strillò e qualcuno cominciò a battere un gong.
"Tornerò per lei” si disse Rand. “Tornerò a liberarla." E corse dietro gli altri, alla massima velocità di cui era capace.