Egwene e Elayne chinarono brevemente la testa a ogni gruppo di donne che incontravano nella Torre. Era un bene che quel giorno ci fossero tante donne venute da fuori: troppe, perché ognuna avesse per scorta un’Aes Sedai o un’Ammessa. Da sole o in piccoli gruppi, vestite riccamente o poveramente, in abiti d’almeno cinque nazioni diverse, alcune ancora impolverate per il viaggio fino a Tar Valon, le donne badavano ai fatti propri e aspettavano il turno per rivolgere domande alle Aes Sedai o presentare petizioni. Alcune — nobildame o mogli di mercanti — avevano con sé servitù femminile. Perfino alcuni uomini erano giunti per presentare petizioni: se ne stavano in disparte, parevano insicuri e guardavano a disagio ogni altro.
All’avanguardia, Nynaeve teneva lo sguardo fisso davanti a sé e camminava, col mantello svolazzante, come se sapesse con esattezza dove andare e avesse pieno diritto d’andarci. Abbigliate ora con le vesti che si erano portate a Tar Valon, le quattro non avevano certo l’aspetto di residenti della Torre. Ciascuna aveva scelto l’abito migliore che fosse anche adatto a cavalcare e un mantello di lana riccamente ricamato, Se si tenevano lontano da chi le conosceva, si disse Egwene, potevano farcela.
«Sarebbe più adatta per un giro nel parco d’un lord, che non per il viaggio a cavallo fino a Capo Toman» aveva detto Nynaeve, in tono pungente, mentre Egwene l’aiutava ad abbottonare la veste di seta grigia con ricami a filo d’oro e perline disposte a fiore sul petto e sulle maniche. «Ma forse ci permetterà di andarcene inosservate.»
Ora Egwene si aggiustò il mantello e lisciò la veste di seta verde ricamata in oro; diede un’occhiata a Elayne, in veste azzurra con bande color crema, e si augurò che Nynaeve avesse ragione. Fino a quel momento tutti le avevano scambiate per postulanti, nobili o quanto meno ricche; ma a lei pareva proprio di risaltare troppo. Con sorpresa, capì il motivo: si sentiva a disagio, negli abiti eleganti, dopo avere indossato per alcuni mesi la semplice veste bianca delle novizie.
Un capannello di paesane in pesanti abiti di lana scura eseguì la riverenza, al loro passaggio. Egwene girò la testa per dare una rapida occhiata a Min, appena furono a una certa distanza. Min aveva tenuto le brache e l’ampia camicia, sotto una giubba e un mantello marrone da ragazzo, con un vecchio cappello a tesa larga calcato sui capelli tagliati corti. «Una di noi deve impersonare la cameriera» aveva detto, ridendo. «Donne vestite con la vostra eleganza ne hanno sempre almeno una. M’invidierete le brache, se ci toccherà scappare.» Portava quattro paia di bisacce da sella, piene di abiti caldi, perché sarebbe arrivato di sicuro l’inverno, prima del ritorno. C’erano anche pacchetti di viveri prelevati di nascosto dalle cucine, sufficienti finché non avessero potuto comprare provviste.
«Sei sicura che non posso portare un paio di bisacce?» domandò ora Egwene.
«M’impacciano soltanto» rispose Min, con un sorriso. «Non sono pesanti.» Pareva prenderlo come gioco o fingeva di pensarlo. «E la gente si stupirebbe che una dama elegante come te porti le bisacce. Puoi portare le tue, e anche le mie, se ti fa piacere, appena siamo...» Perdette il sorriso e bisbigliò ferocemente: «Aes Sedai!»
Egwene girò di scatto la testa. Un’Aes Sedai, con capelli lunghi, neri e lisci, e la pelle color avorio antico, percorreva il corridoio e veniva verso di loro, ascoltando una donna dai rozzi abiti di contadina e dal mantello rattoppato. L’Aes Sedai non aveva ancora visto Egwene e le altre, ma Egwene la riconobbe: Takima, dell’Ajah Marrone, che insegnava storia della Torre Bianca e delle Aes Sedai, e che avrebbe riconosciuto a cento passi di distanza una delle proprie allieve.
Senza cambiare passo, Nynaeve svoltò in un corridoio laterale; un’Ammessa, smilza e con un cipiglio costante, le oltrepassò di fretta, tirando per l’orecchio una novizia rossa in viso.
Egwene fu costretta a deglutire, prima di parlare. «Quelle erano Irella e Else. Ci avranno notate?» Non ebbe il coraggio di girarsi a controllare.
«No» disse Min, dopo un momento. «Hanno visto solo i nostri abiti.»
Egwene tirò un lungo sospiro di sollievo, imitata da Nynaeve.
«Il cuore rischia di scoppiarmi, prima che arriviamo alle stalle» mormorò Elayne. «Le avventure sono sempre così, Egwene? Il cuore in gola e lo stomaco sotto le ginocchia?»
«Mi sa di sì» rispose Egwene, Trovava difficile pensare che un tempo era stata ansiosa d’avere avventure, di vivere imprese pericolose ed eccitanti, come i personaggi delle storie. Ora pensava che la parte eccitante è quella che si ricorda quando ci si guarda indietro e che le storie tralasciavano una buona quantità d’aspetti spiacevoli. Lo disse a Elayne.
«Tuttavia» rispose con fermezza l’Erede «non ho mai avuto avventure davvero eccitanti e non è probabile che ne abbia, finché mia madre avrà voce in capitolo, ossia finché non salirò al trono.»
«Fate silenzio, voi due» disse Nynaeve: finalmente nel corridoio non si vedeva nessuno, né da una parte né dall’altra. Indicò una breve rampa di scale che portava al piano inferiore. «Dovrebbe essere questa» soggiunse. «Se non mi sono smarrita, con tutti i giri e le svolte che abbiamo fatto.»
Imboccò le scale come se fosse sicura; le altre la seguirono. La porticina in fondo alla rampa si apriva davvero sulla corte polverosa della Stalla Meridionale, dove erano tenuti i cavalli delle novizie, finché le padrone non ne avessero avuto di nuovo bisogno, cosa che in genere accadeva quando diventavano Ammesse o erano rispedite a casa. Alle loro spalle s’innalzava la massa luccicante della Torre stessa: il complesso della Torre Bianca comprendeva una zona assai ampia, cintata da mura più alte di quelle d’alcune città.
Nynaeve entrò a passo deciso nella stalla, come se ne fosse la padrona. La stalla aveva un buon odore di fieno e di cavalli; due lunghe file di box correvano nelle ombre tagliate da strisce di luce proveniente dagli sfiatatoi posti in alto. Per un caso fortunato, l’irsuta Bela e la giumenta grigia di Nynaeve occupavano due box accanto alla porta. Bela sporse il muso e nitrì piano a Egwene. Si vedeva un solo mozzo di stalla, un tipo dall’aria simpatica, con qualche filo grigio nella barba, che masticava una paglia.
«Vogliamo che ci selli i cavalli» gli disse Nynaeve, col suo tono più esigente. «Questi due. Min, trova il tuo cavallo e quello di Elayne.» Min lasciò cadere le bisacce e precedette Elayne nell’ombra più fitta.
Lo stalliere corrugò la fronte, le guardò, si tolse di bocca la paglia. «Dev’esserci un errore, milady» disse. «Questi cavalli...»
«Sono nostri» lo interruppe Nynaeve, decisa; incrociò le braccia, in modo da mostrare l’anello a forma di serpente. «Li sellerai subito.»
Egwene trattenne il respiro. Era il piano disperato: Nynaeve si sarebbe fatta passare per Aes Sedai, se avessero avuto difficoltà con qualcuno che potesse ritenerla tale. Nessuna vera Aes Sedai e nessuna Ammessa si sarebbero lasciate ingannare, ovviamente, e forse neppure una novizia, ma un mozzo di stalla...
L’uomo guardò con sorpresa l’anello, poi Nynaeve. «Avevano parlato di due persone» disse infine, tutt’altro che impressionato. «Una delle Ammesse e una novizia. Non hanno detto niente di voi quattro.»
Egwene ebbe voglia di ridere. Liandrin non avrebbe mai pensato che sapessero prendersi il cavallo da sole.
Nynaeve parve delusa e indurì il tono di voce. «O porti fuori quei cavalli e li selli, o avrai bisogno del Talento di Guaritrice di Liandrin, ammesso che lei sia disposta.»
Lo stalliere ripeté il nome di Liandrin, ma diede un’occhiata alla faccia di Nynaeve e si occupò dei cavalli; borbottò, ma non a voce tanto alta da farsi udire. Min e Elayne tornarono con i loro cavalli proprio mentre l’uomo terminava di stringere il secondo sottopancia. Il cavallo di Min era un castrone grigio, alto di garrese; quello di Elayne, una giumenta baia dal collo arcuato.
Appena furono tutte in sella, Nynaeve si rivolse di nuovo allo stalliere. «Senza dubbio t’hanno detto di non parlarne a nessuno. L’ordine non è mutato, fossimo due o duecento. Se hai qualche dubbio, pensa alla reazione di Liandrin.»
Mentre uscivano, Elayne gettò allo stalliere una moneta e mormorò: ~ Per il tuo disturbo, brav’uomo. Hai lavorato bene. «Fuori della stalla incrociò lo sguardo di Egwene e sorrise.» Come dice mia madre, un bastone coperto di miele funziona sempre meglio d’un bastone normale.
«Speriamo di non averne bisogno, con le guardie» commentò Egwene. «Mi auguro che Liandrin abbia provveduto.»
Però, alla Porta di Tarlomen, che interrompeva le mura meridionali della Torre, non fu possibile capire se Liandrin avesse o meno parlato alle guardie. Queste ultime, con un’occhiata e un inchino frettoloso, indicarono di passare: servivano a tenere fuori la gente pericolosa e non avevano l’ordine di trattenere nessuno.
Mentre percorrevano lentamente le vie della città, si calarono il cappuccio per ripararsi dalla fresca brezza che soffiava dal fiume. Il rumore degli zoccoli sulle pietre del lastrico si perdeva nel mormorio della folla che riempiva le vie e nella musica che proveniva da alcuni edifici. Persone in abiti d’ogni nazione, da quelli scuri e cupi dei cairhienesi a quelli vivacemente colorati dei Girovaghi, aprivano un varco davanti alle quattro donne a cavallo, come acqua d’un fiume intorno a un masso sporgente, ma l’andatura rimaneva lenta.
Egwene non badò alle favolose torri con i loro ponti aerei, né agli edifici che parevano onde di frangenti o scogliere erose dal vento o fantastiche conchiglie, anziché costruzioni in pietra. Le Aes Sedai si recavano spesso in città e nella folla potevano trovarsi a faccia a faccia con una di loro, senza nemmeno accorgersene. Dopo un poco notò che le altre stavano attente quanto lei, ma si sentì davvero sollevata, quando furono in vista del boschetto Ogier.
Al di sopra dei tetti erano visibili i Grandi Alberi, la cui cima si allargava a un centinaio di braccia d’altezza. Querce e olmi, ericacee e abeti, parevano rimpiccioliti al confronto. Una sorta di muraglia circondava il boschetto ampio due miglia buone, ma era una semplice serie d’arcate in pietra, ciascuna alta dieci braccia e larga il doppio. Dall’altro lato della muraglia, carri, carretti e persone affollavano una via, mentre all’interno c’era terreno incolto. Il boschetto non aveva né l’aspetto curato d’un parco né quello del tutto casuale delle foreste: pareva invece l’ideale della natura, quasi fosse il bosco perfetto, il più bello possibile. Una parte delle foglie aveva già iniziato a cambiare colore e fra il verde anche le piccole chiazze d’arancione, di giallo, di rosso parevano a Egwene il modo preciso in cui doveva presentarsi il fogliame dell’autunno.
Alcune persone camminavano sotto le arcate, ma nessuna guardò due volte le quattro donne che s’inoltravano fra gli alberi. La città sparì rapidamente alla vista e anche i rumori s’affievolirono e cessarono. Nel giro di dieci passi si aveva l’impressione di trovarsi a varie miglia dalla città più vicina.
«La parte settentrionale del boschetto» mormorò Nynaeve. Si guardò intorno. «Non c’è un punto più a settentrione di...» S’interruppe, perché due cavalli sbucarono da un folto di sambuco nero: una giumenta dal pelo scuro e lustro e un animale da soma con poco carico.
La giumenta s’inalberò e scalciò, perché Liandrin aveva tirato bruscamente le redini. Il viso dell’Aes Sedai era una maschera di furia. «Vi avevo detto di non parlarne a nessuno!» sbraitò. «A nessuno!»
Egwene notò sul cavallo da soma alcuni pali a cui era appesa una lanterna e la ritenne una scelta bizzarra.
«Sono amiche» cominciò Nynaeve e irrigidì la schiena.
Elayne intervenne: «Scusaci, Liandrin Sedai. Loro non hanno detto niente: siamo state noi a udire tutto. Non volevamo origliare cose che non ci riguardavano, ma abbiamo ascoltato. Anche noi vogliamo aiutare Rand al’Thor. E gli altri due, naturalmente.»
Liandrin scrutò Elayne e Min. La luce del tardo pomeriggio penetrava di sbieco fra i rami e nascondeva il viso sotto il cappuccio dei mantelli. «E va bene» disse infine l’Aes Sedai, scrutando sempre le altre due. «Avevo dato disposizioni perché ci si prendesse cura di voi due. Dal momento che siete qui, restate pure. In quattro o in due, il viaggio è uguale.»
«Ci si prendesse cura, Liandrin Sedai?» disse Elayne. «Non capisco.»
«Bambina, tutte sanno che tu e l’altra siete amiche di queste due. Credi che non vi avrebbero fatto domande, alla loro scomparsa? Credi che l’Ajah Nera si mostrerebbe gentile con te solo perché sei l’erede a un trono? Se restavi nella Torre Bianca, rischiavi di non vedere il nuovo giorno.» A queste parole, le quattro si zittirono. Liandrin girò il cavallo e ordinò: «Seguitemi!»
L’Aes Sedai le guidò nel folto del bosco, fino a un’alta recinzione di ferro battuto, sormontata da punte aguzze, che curvava un poco, come se racchiudesse un’area assai estesa, e spariva fra gli alberi. Ma c’era un cancello, chiuso da un grosso catenaccio. Liandrin lo aprì con una grossa chiave presa dalla tasca del mantello, indicò alle altre di passare, richiuse il catenaccio e si affrettò a precederle. Uno scoiattolo protestò al loro passaggio e da un punto imprecisato provenne il tamburellare d’un picchio.
«Dove andiamo?» domandò Nynaeve. Liandrin non rispose e Nynaeve guardò con rabbia le altre. «Perché ci addentriamo nel bosco? Dobbiamo attraversare un ponte, o imbarcarci su di una nave, se vogliamo lasciare Tar Valon; e non ci sono ponti né navi, nel...»
«C’è questa» la interruppe Liandrin. «La recinzione tiene lontano chi potrebbe nuocere a se stesso, ma oggi noi abbiamo una necessità.» Indicò un’alta e massiccia lastra di pietra, posta per dritto, con un lato scolpito a forma di foghe e di tralci fittamente intrecciati.
Egwene si sentì serrare la gola: all’improvviso capì perché Liandrin aveva portato le lanterne e non ne fu affatto entusiasta. Udì Nynaeve mormorare: «Una Porta delle Vie.»
«Le abbiamo già percorse una volta» disse, tanto a se stessa quanto a Nynaeve. «Possiamo rifarlo.» Se Rand e gli altri avevano bisogno del loro aiuto, dovevano aiutarli.
«È davvero...» cominciò Min, con voce strozzata, e non riuscì a terminare la frase.
«Una Porta delle Vie» alitò Elayne. «Credevo che non fosse più possibile percorrerle. Almeno, che non fosse consentito.»
Liandrin era già smontata e aveva tolto dal bassorilievo la foglia d’Avendesora: simili a due enormi battenti di tralci vivi, le due metà della Porta si aprirono e lasciarono scorgere una sorta di specchio opaco e argenteo che rifletté confusamente la loro immagine.
«Non sei obbligata a venire» disse Liandrin a Elayne. «Puoi aspettare qui, al sicuro. Ma forse l’Ajah Nera ti troverà per prima.» Il suo sorriso non fu piacevole a vedersi. Dietro di lei, la Porta si spalancò completamente.
«Non ho detto di non voler venire» replicò Elayne, ma diede una lunga occhiata al bosco in penombra.
«Se proprio dobbiamo entrare lì» disse Min, con voce rauca «sbrighiamoci.» Fissava a occhi sgranati la Porta. A Egwene parve di sentirla borbottare: «La Luce t’incenerisca, Rand al’Thor!»
«Devo essere l’ultima» disse Liandrin. «Entrate. Io vi seguo.» Adesso teneva d’occhio anche il bosco, come se pensasse d’essere seguita. «Presto! Presto!»
Egwene non sapeva che cosa Liandrin s’aspettasse di vedere; però, se veniva qualcuno, probabilmente avrebbe impedito loro d’usare la Porta. “Rand, stupido testa di legno” pensò “perché per una volta non ti cacci in un guaio che non mi costringa a comportarmi come l’eroina delle storie?"
Spronò Bela e l’irsuta giumenta, irrequieta per il troppo tempo trascorso nella stalla, scattò in avanti.
«Vai piano!» gridò Nynaeve; ma era ormai tardi.
Egwene e Bela si lanciarono verso la propria immagine riflessa: due cavalli irsuti si toccarono il naso e parvero fondersi. Poi, con un brivido gelido, Egwene si unì alla propria immagine. Le parve che il tempo si dilatasse, che il gelo strisciasse su di lei un pelo alla volta e per ogni pelo occorressero minuti.
All’improvviso Bela inciampò nel buio color pece, tanto da rischiare un volo a capofitto. Ma si riprese subito e si fermò, tremante; Egwene smontò e tastò le zampe della giumenta, per accertarsi che non si fosse ferita. Fu quasi contenta che il buio nascondesse il rossore che sentiva in viso: tempo e distanza erano diversi, dall’altra parte della Porta, e lei si era mossa senza riflettere.
Tutt’intorno c’erano solo tenebre, a parte il rettangolo della Porta spalancata, simile a una finestra di vetro affumicato, Non lasciava passare la luce — le tenebre parevano comprimerla via — ma Egwene scorgeva le altre, che si muovevano per incrementi minimi, simili a figure d’un incubo. Nynaeve insisteva per dare a ciascuna un palo e per accendere la lanterna; Liandrin le dava di malagrazia il permesso e la spronava a fare in fretta.
Quando Nynaeve varcò la Porta, portando sottomano la giumenta grigia, con lentezza esasperante, Egwene quasi corse ad abbracciarla: almeno metà della sua contentezza riguardava la lanterna accesa. Il lume formava una chiazza di luce più piccola del dovuto (le tenebre premevano contro la luce, cercavano di ricacciarla dentro la lanterna) ma Egwene aveva cominciato a sentire su di sé l’oscurità, come se il buio avesse peso. Invece, disse solo: «Bela è a posto e io non mi sono rotta il collo come meritavo.»
Un tempo le Vie erano luminose, prima che la contaminazione del Potere adoperato per costruirle, la contaminazione del Tenebroso su Saidin, le corrompesse.
Nynaeve diede a Egwene il palo con la lanterna e si girò a toglierne un altro da sotto la cinghia della sella. «Se sai di meritarlo» mormorò «non lo meriti più.» All’improvviso ridacchiò. «A volte penso che sono stati soprattutto proverbi come questo a creare le Sapienti. Be’, eccone un altro. Se ti rompi il collo, te lo faccio aggiustare per essere io a rompertelo di nuovo.»
Era un rimprovero alla buona e anche Egwene sorrise... finché non ricordò dove si trovava. Anche il divertimento di Nynaeve non durò a lungo.
Min e Elayne varcarono con esitazione la Porta, portando per la briglia il cavallo e reggendo un palo con la lanterna: sulle prime, parvero sollevate nel trovare solo buio, ma ben presto s’innervosirono per il senso d’oppressione provocato dalle tenebre e continuarono a spostare da un piede all’altro il peso del corpo. Liandrin rimise a posto la foglia d’Avendesora e, tirandosi dietro il cavallo da soma, varcò la Porta che cominciava a chiudersi.
Non attese che la Porta si chiudesse; senza una parola, gettò a Min la cavezza del cavallo da soma e iniziò a seguire una linea bianca, resa visibile dalla luce della lanterna. Il fondo delle Vie pareva di pietra corrosa e butterata dall’acido. Egwene rimontò in sella a Bela e con le altre si affrettò dietro Liandrin. Pareva che al mondo ci fosse soltanto il fondo scabro sotto gli zoccoli dei cavalli.
Dritta come una freccia, la linea bianca li portò nel buio a una grossa lastra di pietra con una scritta in lingua Ogier, intarsiata in argento. Le stesse cicatrici che segnavano il fondo della Via deturpavano in alcuni punti la scritta.
«Una Guida» mormorò Elayne. «Elaida m’ha insegnato qualcosa delle Vie. Ma non ne parlava molto. Non abbastanza» aggiunse, in tono cupo «o forse troppo.»
Liandrin esaminò con calma la Guida raffrontandola con una pergamena che ripose nella tasca del mantello, prima che Egwene potesse dare un’occhiata.
Quando l’Aes Sedai s’allontanò dalla Guida, la luce delle lanterne, che si fermava bruscamente anziché affievolirsi man mano, mostrò un largo muretto di pietra smozzicato in vari punti. Un’Isola, la definì Elayne; il buio rendeva difficile giudicare le dimensioni, ma Egwene ritenne che l’Isola fosse larga un centinaio di passi.
Ponti di pietra e piani inclinati interrompevano la balaustra; ciascuno era affiancato da una colonna con una singola riga di scrittura Ogier. I ponti parevano estendersi nel nulla. Le rampe andavano in salita o in discesa. Passando, era impossibile scorgere più del loro inizio.
Liandrin si fermava solo a esaminare le colonne di pietra: imboccò una rampa in discesa e ben presto ci furono solo tenebre. Il silenzio era opprimente: Egwene ebbe l’impressione che perfino l’acciottolio degli zoccoli non s’estendesse molto al di là della chiazza luminosa.
La rampa continuò sempre in discesa, curvando a spirale, finché non raggiunse un’altra Isola, con la solita balaustra fra ponti e piani inclinati, e con la Guida che Liandrin raffrontò con la pergamena. L’Isola pareva solida pietra, proprio come la precedente. Egwene s’innervosì al pensiero che la prima Isola si trovava proprio sulla loro testa.
All’improvviso Nynaeve espresse a voce quella stessa preoccupazione, in tono fermo, ma interrompendosi a metà frase per deglutire.
«Può... può darsi» disse debolmente Elayne. Alzò gli occhi e si affrettò a riabbassarli. «Secondo Elaida, le regole naturali non hanno valore, nelle Vie. Almeno, non come all’esterno.»
«Luce santa!» borbottò Min; poi alzò la voce. «Per quanto tempo intendi tenerci qui dentro?» domandò.
Liandrin girò la testa a guardarle. «Finché non vi porto fuori» rispose in tono secco. «Più m’infastidite, più tempo impiegheremo.» Si rimise a studiare la pergamena e la Guida.
Egwene e le altre si zittirono.
Liandrin continuò da Guida a Guida, percorrendo rampe e ponti che parevano privi di sostegno nel buio interminabile. L’Aes Sedai badava ben poco alle altre; Egwene si scoprì a domandarsi se Liandrin si sarebbe girata a cercare, nel caso che una di loro fosse rimasta indietro. Forse le altre ebbero lo stesso pensiero, perché procedettero strettamente raggruppate alle spalle della giumenta scura.
Egwene notò con sorpresa di sentire sempre l’attrazione di Saidar, sia come presenza della metà femminile della Vera Fonte, sia come desiderio d’incanalarne il flusso. Aveva pensato che nelle Vie la contaminazione dell’Ombra avrebbe nascosto Saidar. Percepiva anche la contaminazione: era debole e non riguardava Saidar, ma lei era sicura che protendersi verso la Vera Fonte sarebbe stato come infilare in un fumo oleoso il braccio nudo per prendere una tazza pulita. Qualsiasi cosa avesse fatto, sarebbe stata contaminata. Per la prima volta in parecchie settimane non trovò la minima difficoltà a resistere all’attrazione di Saidar.
Fuori delle Vie era di certo notte fonda, quando su di un’Isola Liandrin smontò all’improvviso e annunciò che si sarebbero fermate per cenare e dormire; disse che nella soma del cavallo c’era del cibo.
«Dividetelo» soggiunse, a nessuna in particolare. «Occorreranno quasi due giorni per arrivare a Capo Toman. Non vi farò arrivare affamate, anche se siete state tanto sciocche da non portare provviste.» Tolse la sella e impastoiò la giumenta; poi si sedette sulla sella posata per terra e aspettò che una di loro le portasse da mangiare.
Elayne le portò gallette e formaggio. L’Aes Sedai mostrò chiaramente di voler stare da sola, perciò le altre si sedettero un po’ in disparte a mangiare la loro razione di gallette e formaggio. Le tenebre al limitare della chiazza di luce furono un pessimo condimento.
Dopo un poco, Egwene disse: «Liandrin Sedai, e se incontriamo il Vento Nero?» Elayne si lasciò scappare un ansito. «Moiraine Sedai ha detto che è impossibile ucciderlo» continuò Egwene «o anche solo ferirlo; e io sento che la contaminazione di questo luogo aspetta solo di distorcere qualsiasi cosa facciamo usando il Potere.»
«Non dovete nemmeno pensare alla Fonte, se non ve lo dico io» replicò Liandrin, brusca. «Se una di voi tentasse d’usare il Potere nelle Vie, rischierebbe d’impazzire. Non avete l’addestramento per trattare con la contaminazione degli uomini che crearono le Vie. Se il Vento Nero compare, me ne occuperò io.» Sporse le labbra e studiò un pezzo del formaggio. «Moiraine sa meno di quanto crede» concluse. Con un sorriso, addentò il formaggio.
«Non la posso soffrire» mormorò Egwene, a voce molto bassa, per essere sicura che l’Aes Sedai non udisse.
«Se Moiraine può collaborare con lei» disse Nynaeve, sottovoce «possiamo collaborare anche noi. Moiraine non mi è più simpatica di Liandrin; ma se ricominciano a impicciarsi di Rand e degli altri...» Tacque e si avvolse nel mantello. Non faceva freddo, ma le tenebre ne davano l’impressione.
«Cos’è il Vento Nero?» domandò Min. Elayne lo spiegò, con molti riferimenti alle parole di Elaida e della propria madre. Min sospirò: «Il Disegno deve rispondere di molte cose. Non so se un qualsiasi uomo si meriti una cosa del genere.»
«Non eri obbligata a venire» le ricordò Egwene. «Potevi andartene in qualsiasi momento. Nessuno ti fermava, se lasciavi la Torre.»
«Oh, potevo andarmene» replicò Min, ironica. «Facilmente, quanto te o Elayne. Il Disegno se ne frega dei nostri desideri. Egwene, cosa farai se, dopo tutto il tuo daffare per lui, Rand non ti sposa? Se sposa una donna che non hai mai visto, o Elayne, o me?»
«Mia madre non approverebbe» ridacchiò Elayne.
Egwene restò in silenzio per un poco. C’era il rischio che Rand non vivesse tanto da sposarsi. E in caso contrario... Non riusciva a immaginare Rand che nuocesse a qualcuno, Neppure da pazzo? Doveva esserci un modo di bloccare la pazzia, un modo di cambiare le cose; le Aes Sedai sapevano tanto, potevano fare tanto. Se potevano bloccarla, perché non l’avevano già fatto? L’unica risposta era: perché non potevano. Ma non era la risposta che Egwene voleva.
Cercò d’assumere un tono leggero. «Non credo che sposerò lui. Ben di rado le Aes Sedai prendono marito, lo sapete. Ma non metterei gli occhi su di lui, se fossi in te. O in te, Elayne. Non credo che...» Sentì un groppo in gola e tossì per mascherarlo. «Non credo che si sposerà mai. Ma se dovesse sposarsi, farei tutti i miei auguri alla sposa, chiunque fosse, anche una di voi.» Ritenne d’avere parlato in maniera convincente. «È testardo come un mulo e fin troppo ostinato nell’errore, ma d’animo gentile.» Sentì un tremito nella voce, ma riuscì a mutarlo in una risata.
«Dici che non t’interessa» replicò Elayne «ma secondo me approveresti ancora meno di mia madre. Rand è interessante davvero, Egwene. Più d’ogni uomo che ho conosciuto, anche se è un pastore. Se sei tanto sciocca da gettarlo via, dovrai prendertela solo con te stessa, se decido di affrontare te e mia madre insieme. Non è la prima volta che il Principe dell’Andor non ha alcun titolo. Ma tu non sarai sciocca fino a questo punto, quindi non fare finta. Sceglierai l’Ajah Verde e farai di lui uno dei tuoi Custodi. Che sappia io, le Verdi con un solo Custode sono tutte sposate.»
Egwene si costrinse a stare allo scherzo e disse che, se fosse diventata una Verde, avrebbe avuto dieci Custodi.
Min la osservò, con la fronte corrugata, e Nynaeve osservò Min, con aria assorta. Ma erano tutte silenziose, quando si cambiarono e indossarono abiti più adatti al viaggio, presi dalle bisacce. Non era facile mantenersi su di morale, in quel luogo.
Egwene impiegò del tempo ad addormentarsi ed ebbe un sonno inquieto, pieno di brutti sogni. Non sognò Rand, ma l’uomo con occhi di fuoco. Questa volta non era mascherato e faceva inorridire, con le ustioni non del tutto guarite. Si limitò a guardarla e a ridere, ma fu un sogno peggiore di quelli che seguirono, sogni in cui si smarriva per sempre nelle Vie, sogni in cui era inseguita dal Vento Nero. Fu lieta quando sentì contro le costole la punta dello stivale di Liandrin; si svegliò, ma si sentiva come se non avesse dormito per niente.
Il giorno successivo, o quello che passava per tale, visto che c’erano solo le lanterne a fare le veci del sole, Liandrin le spinse duramente e si fermò a dormire solo quando non si reggevano più in sella. La pietra era un letto duro, ma Liandrin, implacabile, le svegliò dopo poche ore di sonno e si avviò quasi senza aspettare che montassero a cavallo. Rampe e ponti, Isole e Guide si susseguirono. Egwene ne scorse tante da perdere il conto. Da un pezzo aveva anche perduto il conto delle ore o dei giorni. Liandrin permetteva solo brevi soste per mangiare e far riposare i cavalli; e l’oscurità continuava a pesare su tutte loro. Stavano abbandonate in sella come sacchi di grano, tranne Liandrin. L’Aes Sedai pareva non sentire la stanchezza e non impressionarsi per il buio. Era fresca come se fosse tornata nella Torre Bianca e altrettanto gelida. Non permise a nessuna di dare un’occhiata alla pergamena che usava per controllare le Guide; quando Nynaeve chiese di vederla, la rimise in tasca, con un secco: «Tanto non ci capiresti niente.»
E poi, mentre Egwene si sentiva chiudere gli occhi per la stanchezza, Liandrin si scostò da una Guida e si diresse non verso un altro ponte o un’altra rampa, ma seguì una linea bianca e butterata che portava giù nelle tenebre. Egwene guardò le altre e tutte insieme si affrettarono a seguire l’Aes Sedai. Liandrin era già impegnata a staccare dal bassorilievo d’una Porta la foglia d’Avendesora.
«Ci siamo» disse, sorridendo. «Finalmente vi ho portate dove dovete andare.»