34 La Ruota gira e ordisce

La prima luce del giorno già imperlava il cielo, quando Thom Merrilin si trovò a tornare verso Il Grappolo d’Uva. Anche nella zona dov’erano più numerose le sale e le taverne, c’era un breve periodo della notte in cui Fuoriporta era silenziosa e raccoglieva il fiato. Thom era di umore tale che, se le vie deserte fossero state in fiamme, non se ne sarebbe nemmeno accorto.

Alcuni invitati avevano insistito perché si fermasse anche dopo che la maggior parte degli ospiti era andata via da un pezzo e Barthanes stesso era andato a dormire. Era stata colpa sua, perché aveva smesso di declamare La Grande Cerca del Corno ed era passato al tipo di storie e di ballate buone per i villaggi: ‘Mara e i tre Re sciocchi’ e Come Susa domò Jain Fairstrider e storie di Anla la Consigliera Saggia. Quelle scelte erano un suo commento privato sulla stupidità dei nobili: nemmeno si sognava che l’avrebbero ascoltato. E invece avevano chiesto altre storie dello stesso genere, ma avevano riso nei momenti sbagliati e alle cose sbagliate. Avevano riso anche di lui, pensando forse che non se ne sarebbe accorto, oppure che un borsello pieno avrebbe guarito ogni ferita. Già due volte era stato sul punto di gettare via le monete così guadagnate.

Proprio quel borsello rigonfio gli bruciava tasca e orgoglio, ma non era l’unico motivo del suo malumore. E neppure il disprezzo dei nobili. Costoro gli avevano fatto domande su Rand, senza neppure prendersi la briga di mascherarle, visto che si rivolgevano a un menestrello. Perché Rand era a Cairhien? Perché un lord andorano aveva preso da parte lui, un menestrello? Troppe domande. E lui non era sicuro che le risposte fossero state abbastanza ingegnose. Non aveva più i riflessi d’una volta, per giocare il Grande Gioco.

Prima di dirigersi al Grappolo d’Uva, era andato al Grande Albero: a Cairhien non era difficile scoprire dove qualcuno alloggiava, se si metteva qualche moneta d’argento nelle mani giuste. Ancora non sapeva bene che cosa avrebbe voluto dire. Ma Rand era già partito, con i suoi amici e con l’Aes Sedai. La notizia aveva lasciato a Thom l’impressione d’un lavoro rimasto incompiuto. Ma il ragazzo ormai doveva cavarsela da solo: Luce santa, lui ne era fuori!

Attraversò a passo deciso la sala comune, deserta come di rado accadeva, e salì gli scalini a due per volta. Almeno, ne aveva avuto l’intenzione però non riusciva a piegare bene il ginocchio destro e rischiò di cadere. Brontolando, salì più lentamente le scale e aprì la porta della sua stanza, Cercò di non fare rumore, per non svegliare Dena.

Malgrado tutto, sorrise nel vederla dormire col viso contro la parete, ancora vestita. Si era addormentata aspettandolo. Sciocca d’una ragazza! Ma era un pensiero gentile: era quasi convinto che le avrebbe perdonato qualsiasi cosa. D’impulso decise che quella era la notte in cui le avrebbe permesso d’esibirsi per la prima volta; posò per terra l’astuccio dell’arpa e le mise la mano sulla spalla, per svegliarla e dirglielo.

Dena rotolò inerte sulla schiena e lo fissò con occhi sbarrati, vitrei: aveva un ampio squarcio nella gola. Il lato del letto, nascosto dal suo corpo, era scuro e inzuppato di sangue.

Thom si sentì rivoltare lo stomaco: se non avesse avuto la gola serrata come da una morsa, avrebbe vomitato, o urlato, o tutt’e due.

Fu messo in allarme dal lieve cigolio dell’anta dell’armadio. Si girò di scatto e con un solo movimento estrasse dalla manica i coltelli e li lanciò. Il primo colpì alla gola un uomo grasso e calvo con un pugnale in mano; l’uomo barcollò all’indietro e il sangue gli gorgogliò fra le dita serrate, mentre lui cercava di gridare.

Però, ruotando sulla gamba rigida, Thom mancò il secondo lancio: il coltello si conficcò nella spalla destra d’un uomo assai muscoloso, col viso pieno di cicatrici, che usciva dall’altro armadio. L’uomo lasciò cadere dalle dita inerti il pugnale e si diresse rumorosamente alla porta.

Prima che lo sconosciuto movesse un secondo passo, Thom estrasse un altro coltello e gli vibrò un fendente alla gamba. L’uomo mandò un urlo e inciampò; Thom lo afferrò per i capelli e gli sbatté la faccia contro la parete. L’uomo urlò di nuovo, quando il manico del coltello conficcato nella spalla urtò contro la porta.

Thom spinse la lama del coltello a un dito dall’occhio dell’uomo. Le cicatrici sul viso gli davano un’aria da duro, ma l’uomo fissò la punta del coltello senza battere ciglio né fare la minima mossa. Il grassone, disteso metà dentro l’armadio e metà fuori, scalciò per l’ultima volta e giacque immobile.

«Prima che ti uccida» disse Thom «rispondimi. Perché?» Parlò a voce bassa, intorpidita: si sentiva intorpidito anche dentro.

«Il Grande Gioco» rispose in fretta l’uomo. Il modo di parlare e i vestiti erano quelli d’uno della strada, ma gli abiti erano un filino troppo ben fatti, troppo poco consumati: l’uomo aveva da spendere più soldi d’un normale abitante di Fuoriporta. «Niente di personale contro di te, capisci? È solo il Gioco.»

«Il Gioco? Non sono coinvolto nel Daes Dae’mar! Chi vorrebbe la mia morte per il Grande Gioco?» L’uomo esitò. Thom avvicinò il coltello, Se l’uomo avesse battuto le palpebre, avrebbe sfiorato la punta. «Chi?»

«Barthanes» fu la risposta. «Lord Barthanes. Non ti avremmo ucciso. Barthanes vuole informazioni. Volevamo soltanto scoprire che cosa sai. Puoi guadagnarci anche tu. Una bella corona d’oro, forse due.»

«Bugiardo! Stanotte ero nel palazzo di Barthanes, vicino a lui quanto lo sono a te, Se avesse voluto qualcosa, non sarei mai uscito vivo.»

«Ti dico che da giorni cerchiamo chiunque conosca quel lord andorano. Non ti avevo mai sentito nominare, prima di ieri sera, al piano di sotto. Lord Barthanes è generoso. Forse ti darà cinque corone.»

L’uomo cercò di scostare la testa e Thom lo spinse contro la parete. «Quale lord andorano?» domandò. Ma sapeva già la risposta.

«Rand. Di Casa al’Thor. Alto. Giovane. Mastro spadaccino, almeno a giudicare dalla spada. So che è venuto a trovarti. Con un Ogier, E che avete parlato. Dimmi quel che sai. Potrei aggiungere un paio di corone di mio.»

«Idiota» alitò Thom. Dena era morta per questo? Luce santa, Dena era morta. Gli venne voglia di piangere. «Il ragazzo è un pastore.» Un pastore con una giubba da nobile, intorno al quale ronzavano le Aes Sedai, come api intorno alle rose. «Un semplice pastore» ripeté. Aumentò la stretta sui capelli dell’uomo.

«Aspetta! Aspetta! Puoi guadagnare più di cinque corone, più di dieci. Cento, probabilmente. Ogni Casa vuole informazioni su questo Rand al’Thor. Due tre mi hanno già contattato. Con quel che sai tu, e con me che conosco la gente da conoscere, ci riempiremo le tasche. E c’era una donna, una dama, di cui ho sentito parlare più d’una volta, facendo domande su di lui. Se scopriamo chi è questa dama... ecco, potremo vendere anche questa informazione.»

«In tutta questa storia hai commesso un solo, vero errore» disse Thom.

«Errore?» L’uomo cominciò a far scivolare la mano verso la cintura. Senza dubbio vi teneva un altro pugnale. Thom non gli badò.

«Non avresti mai dovuto toccare la ragazza.»

L’uomo mosse di scatto la mano, poi sobbalzò convulsamente, mentre il coltello di Thom andava a bersaglio.

Thom lasciò cadere l’uomo lontano dalla porta e si alzò per un momento, prima di chinarsi a ricuperare il coltello. La porta si spalancò, urtando contro la parete. Thom si girò di scatto, con un ringhio in viso.

Zera soffocò uno strillo, si ritrasse, fissò Thom. «Quell’idiota di Ella» disse, con voce malferma «mi ha riferito solo ora che due uomini di Barthanes facevano domande su di te, ieri sera. E con le voci di stamattina... Avevi detto che non giocavi più il Gioco, se non sbaglio.»

«Mi hanno trovato» rispose stancamente Thom.

Zera sgranò gli occhi, nel vedere i cadaveri dei due uomini. Entrò in fretta nella stanza e chiuse la porta. «Brutto affare, Thom. Dovrai lasciare Cairhien.» Posò sul letto lo sguardo e rimase senza fiato. «Oh no Oh, no. Oh, Thom, mi spiace davvero.»

«Non posso ancora andarmene, Zera» disse Thom. Esitò, poi con gentilezza distese una coperta sul cadavere di Dena, coprendole il viso. «Prima devo uccidere un altro uomo.»

La locandiera si scosse e staccò gli occhi dal letto. «Se ti riferisci a Barthanes, è troppo tardi. Ormai tutti ne parlano. È morto. I suoi domestici l’hanno trovato stamattina, fatto a pezzi nella sua stessa camera da letto. Hanno capito che era lui solo perché la sua testa era infilata in un chiodo sopra il camino.» Gli posò la mano sul braccio. «Thom non puoi nascondere d’essere stato lì, ieri notte. Aggiungi questi due cadaveri e nessuno a Cairhien crederà che non sei coinvolto.» Nelle ultime parole c’era una lieve traccia interrogativa, come se anche lei se lo domandasse.

«Ormai non ha importanza» disse Thom, con voce spenta. Continuava a guardare il letto e la sagoma nascosta dalla coperta. «Forse tornerò nell’Andor. A Caemlyn.»

Zera lo prese per le spalle e lo costrinse a dare la schiena al letto. «Voi uomini» sospirò «ragionate sempre con i muscoli o con il cuore, mai con il cervello. Caemlyn vale Cairhien, per te: là o qui, finirai morto o in galera. Pensi che lei ne sarebbe contenta? Se vuoi onorarne la memoria, resta vivo.»

«Hai voglia di occuparti del...» Non riuscì a terminare la frase. Diventava vecchio, si disse; e rammollito. Tolse di tasca il borsello rigonfio e lo mise fra le mani di Zera. «Dovrebbe bastare... a tutto. E ti sarà utile anche quando cominceranno a fare domande su di me.»

«Provvederò io a tutto» rispose lei, in tono gentile. «Devi andare via, Thom. Subito.»

Thom annuì con riluttanza; senza fretta, cominciò a riempire due bisacce da sella. Zera diede la prima occhiata da vicino al grassone disteso per metà fuori dell’armadio e ansimò rumorosamente. Thom la guardò con aria interrogativa: da quando la conosceva, Zera non era il tipo da perdere i sensi alla vista del sangue.

«Questi non sono uomini di Barthanes, Thom» disse Zera. «Almeno, costui non lo è.» Con un cenno indicò il grassone. «Che lavorava per Casa Riatin è il segreto più mal custodito di Cairhien. Un uomo di Galldrian.»

«Galldrian» ripeté Thom, in tono piatto. In quale pasticcio l’aveva cacciato, quel maledetto pastore? In quale pasticcio le Aes Sedai avevano cacciato Rand e lui stesso? Ma erano stati gli uomini di Galldrian a uccidere Dena.

Probabilmente la sua faccia lo tradì. «Dena ti vuole vivo, stupido!» disse Zera, in tono aspro. «Tenta d’uccidere il re e sarai morto prima d’arrivare a cento passi da lui, se pure t’avvicinerai così tanto!»

Dalle mura della città provenne un ruggito, come se metà dei cairhienesi si fosse messa a urlare. Accigliato, Thom scrutò dalla finestra. Sopra le mura grigie sovrastanti i tetti di Fuoriporta si alzava nel cielo una densa colonna di fumo. Molto al di là delle mura. Accanto a quella, altri tentacoli grigi divennero rapidamente una seconda colonna di fumo nero e altri riccioli comparvero. Thom calcolò le distanze e inspirò a fondo.

«Forse conviene anche a te pensare alla partenza» disse. «Mi sa che incendiano i granai.»

«Ho già affrontato le sommosse. Ora vattene, Thom.»

Con un’ultima occhiata alla sagoma di Dena, Thom raccolse le sue cose e si apprestò ad andarsene.

«Hai negli occhi una luce pericolosa, Thom Merrilin» disse ancora Zera. «Immagina Dena seduta qui, viva e vegeta. Pensa a quel che direbbe. Ti lascerebbe andare a farti ammazzare senza scopo?»

«Sono soltanto un vecchio menestrello» replicò Thom, dalla soglia. “E Rand al’Thor è soltanto un pastore” pensò. “Ma tutt’e due dobbiamo fare quel che va fatto." E soggiunse: «Per chi potrei essere pericoloso?»

Mentre tirava il battente nascondendo Zera, nascondendo Dena, gli comparve sul viso un ghigno privo d’allegria, da lupo. La gamba gli doleva, ma Thom se ne accorse appena: scese a passo deciso le scale e uscì dalla locanda.

Padan Fain fermò il cavallo in cima a un’altura sovrastante Falme, in uno dei pochi boschi che rimanevano sulle colline all’esterno della città. Il cavallo da soma con il prezioso carico gli urtò la gamba; Fain gli diede un calcio nelle costole, senza guardare; l’animale sbuffò e si ritrasse quanto permetteva la cavezza legata alla sella. La donna non aveva voluto cedere il cavallo e del resto nessuno degli Amici delle Tenebre che l’avevano seguito aveva voluto restare da solo fra le colline in compagnia dei Trolloc. Fain aveva risolto facilmente il problema: la carne nella pentola dei Trolloc non aveva bisogno d’un cavallo. I compagni della donna erano già scossi dal viaggio lungo le Vie fino a una Porta nei pressi d’uno stedding da tempo abbandonato, a poca distanza da Capo Toman: guardare i Trolloc che si preparavano la cena li aveva resi estremamente docili.

Dal limitare degli alberi, Fain esaminò la città priva di mura e sogghignò. Una piccola carovana di mercanti procedeva fra le stalle, i recinti per cavalli e i terreni per i carri che orlavano la città, e non sollevava molta polvere dal terreno battuto da molti anni di simile traffico. A giudicare dai vestiti, i conducenti dei carri e i pochi uomini che cavalcavano al loro fianco erano tutti del posto; tuttavia, almeno quelli a cavallo avevano la spada e anche lance e archi. I pochi soldati visti fino a quel momento non si curavano se gli sconfitti giravano armati, pareva.

Fain aveva appreso qualcosa degli invasori, i Seanchan, nel periodo trascorso a Capo Toman, un giorno e una notte. Almeno, quel poco che gli sconfitti sapevano. Non era mai difficile trovare una persona da sola; e quella persona rispondeva sempre alle domande poste nel modo giusto. Gli uomini raccoglievano informazioni sugli invasori, come se credessero veramente di metterle prima o poi a frutto, ma a volte si mostravano reticenti. Le donne parevano in generale interessate a continuare la propria vita, chiunque fosse al comando, ma notavano particolari che agli uomini sfuggivano e parlavano più in fretta, appena smettevano di urlare. I bambini parlavano ancora più in fretta, ma di rado davano informazioni utili.

Fain aveva scartato i tre quarti delle informazioni, ritenendole stupidaggini e voci destinate a diventare favole; ma ora si rimangiò alcuni di questi giudizi. Chiunque poteva entrare a Falme, a quanto pareva. Con un sobbalzo, quando venti soldati uscirono dalla città, capì che un’altra delle presunte ‘stupidaggini’ era semplice verità. Non riusciva a distinguere chiaramente le cavalcature, ma non erano di sicuro cavalli: correvano con grazia e agilità e la loro pelle scura pareva mandare riflessi nel sole del mattino come se fosse formata di scaglie. Fain storse il collo per guardarli scomparire nell’entroterra, poi spronò il cavallo verso la città.

La gente del posto, fra le stalle e i carri in deposito e i recinti per i cavalli, non gli rivolse più d’un paio d’occhiate. E neppure Fain era interessato a loro: continuò a cavalcare nella città, sulle vie acciottolate che scendevano al porto. Vedeva chiaramente il porto e le grosse navi Seanchan, dalla forma bizzarra, che vi erano ancorate. Nessuno lo infastidì, mentre cercava vie che non fossero né affollate, né deserte. Lì c’era un numero maggiore di soldati Seanchan. La gente andava in fretta per i propri affari, a occhi bassi, inchinandosi ogni volta che passavano i soldati, ma i Seanchan non badavano a nessuno. Falme pareva pacifica, malgrado i Seanchan in armatura per le vie e le navi nel porto, ma Fain intuiva la tensione sotto la superficie. Lui se la cavava sempre bene, quando la gente era tesa e spaventata.

Giunse a una grande casa davanti alla quale montavano la guardia più di dieci soldati. Si fermò e smontò da cavallo. A parte un ufficiale, quasi tutti i soldati indossavano armatura d’un nero uniforme ed elmo che faceva pensare alla testa delle cavallette. Due animali dalla pelle coriacea, con tre occhi e becco corneo al posto della bocca, stavano acquattati come ranocchie ai lati della porta anteriore; il soldato fermo accanto a ciascuno dei due animali aveva un disegno a forma di tre occhi dipinto sul pettorale della corazza. Fain guardò la bandiera orlata d’azzurro che sbatteva al di sopra del tetto, con il falco ad ali spiegate che artigliava fulmini, e ridacchiò tra sé.

Donne entravano e uscivano da una casa dalla parte opposta della strada, donne legate da guinzagli argentei. Fain le ignorò: i paesani gli avevano parlato delle damane. Forse in seguito gli sarebbero servite, ma non ora.

I soldati lo guardavano, in particolare l’ufficiale, la cui armatura era color oro e rosso e verde.

Fain si sforzò di mostrare un sorriso ingraziante ed eseguì un profondo inchino. «Milord» disse «ho un oggetto che interesserà il vostro Sommo Signore. Vi assicuro che vorrà vederlo e vorrà vedere anche me di persona.» Indicò la sagoma quadrata posta sul cavallo da soma, ancora avvolta nell’ampia coperta a strisce, così come i suoi l’avevano trovata.

L’ufficiale squadrò Fain in lungo e in largo. «Non sembri di queste parti» disse. «Hai fatto i giuramenti?»

«Ubbidisco, aspetto e servirò» rispose Fain, con calma. Tutte le persone da lui interrogate avevano parlato dei giuramenti, anche se nessuno ne capiva il significato. Se quelli volevano giuramenti, lui era pronto a giurare qualsiasi cosa.

L’ufficiale indicò a due soldati di guardare che cosa c’era sotto la coperta, I brontolii di sorpresa nel sentire il peso si mutarono in ansiti di stupore, appena tolta la coperta. L’ufficiale fissò senza espressione lo scrigno d’oro con intarsi d’argento, posato sui ciottoli; poi guardò Fain. «Un dono che andrebbe bene per la stessa Imperatrice» disse. «Vieni con me.»

Un soldato perquisì senza troppa delicatezza Fain, che sopportò in silenzio e notò intanto che l’ufficiale e i due soldati con lo scrigno consegnavano spada e pugnale, prima d’entrare nell’edificio. Qualsiasi informazione, per quanto insignificante, poteva rivelarsi utile, anche se lui aveva la massima fiducia nel proprio piano.

Mentre varcavano la porta, l’ufficiale lo guardò, accigliato, e per un momento Fain se ne chiese il motivo. Ma subito capì che si trattava dei due animali, Qualsiasi cosa fossero, di sicuro non erano peggiori dei Trolloc e non reggevano certo il confronto con un Myrddraal: lui non li aveva degnati d’una seconda occhiata e ormai era troppo tardi per fingersi spaventato. Comunque, il Seanchan non disse niente e si limitò a guidarlo nella casa.

E così Fain si ritrovò prostrato faccia a terra in una sala priva d’arredamento, a parte i paraventi pieghevoli che nascondevano le pareti, mentre l’ufficiale informava del dono il Sommo Signore Turak. Alcuni servitori portarono un tavolo su cui sistemare lo scrigno in modo che il Sommo Signore non dovesse chinarsi: di loro, Fain vide solo pantofole in rapido movimento. Dominò l’impazienza: fra non molto sarebbero stati gli altri, a inchinarsi a lui.

Poi i soldati furono congedati e Fain ricevette l’ordine di alzarsi. Ubbidì lentamente e ne approfittò per esaminare sia il Sommo Signore, con la testa rasata e le lunghe unghie e la veste di seta ricamata a boccioli, sia l’uomo accanto a lui, per metà rasato e per metà con una lunga treccia biondo chiaro. Si convinse che l’uomo in verde era un semplice servitore, anche se di un certo livello: i servitori potevano essere utili, soprattutto quelli tenuti in gran conto dal padrone.

«Un dono meraviglioso» disse Turak, spostando lo sguardo dallo scrigno a Fain. Il Sommo Signore emanava profumo di rose. «Tuttavia si pone la domanda: in quale modo una persona come te è venuta in possesso d’uno scrigno che molti nobili minori non potrebbero permettersi? Sei un ladro?»

Fain si tirò la giacca, consunta e non troppo pulita. «A volte è necessario apparire inferiori a quanto non si sia, Sommo Signore. L’aspetto da straccione mi ha consentito di portarti questo dono senza essere disturbato. Uno scrigno antico, Sommo Signore; antico quanto l’Epoca Leggendaria. E contiene un tesoro che pochissimi hanno visto. Presto, molto presto, sarò in grado d’aprirlo e di darti l’oggetto che ti permetterà di conquistare queste terre fin dove vorrai, fino alla Dorsale del Mondo, fino al Deserto Aiel e anche al di là. Niente ti si opporrà, Sommo Signore, appena avrò...» S’interruppe, perché Turak aveva cominciato a far scorrere sullo scrigno le dita dalle lunghe unghie.

«Ho visto scrigni come questo, scrigni dell’Epoca Leggendaria» disse Turak. «Ma non così belli. In teoria solo chi conosce il disegno li può aprire, ma io... ah!» Premette un punto fra volute e rosoni: si udì uno scatto e Turak sollevò il coperchio. Per un attimo parve deluso.

Fain si morsicò a sangue l’interno della guancia per impedirsi di ringhiare. Non era stato lui ad aprire lo scrigno e quindi si trovava ad avere una carta in meno da giocare. Tuttavia, se avesse pazientato, poteva attenersi ancora al proprio piano.

«Questi sono tesori dell’Epoca Leggendaria?» disse Turak. Prese in una mano il Corno e nell’altra il pugnale con il rubino nell’elsa d’oro. Fain strinse i pugni, per impedirsi d’afferrare quest’ultimo. «L’Epoca Leggendaria» ripeté piano Turak; con la punta del pugnale seguì l’iscrizione intarsiata intorno alla campana del Corno. Inarcò le sopracciglia, sorpreso, ma cancellò subito l’emozione. «Hai idea di cosa sia?»

«Il Corno di Valere, Sommo Signore» rispose Fain con calma, compiaciuto nel vedere che l’uomo con la treccia restava a bocca aperta. Turak si limitò ad annuire, quasi tra sé.

Il Sommo Signore si girò e si allontanò. Fain rimase sorpreso e aprì bocca per protestare; poi, a un secco gesto dell’uomo con la treccia, seguì in silenzio Turak.

Si trovò in un’altra stanza il cui mobilio era stato sostituito da paraventi pieghevoli: c’era una sola poltrona, davanti a un armadio alto e rotondo. Reggendo sempre Corno e pugnale, Turak guardò l’armadio. Non aprì bocca, ma l’altro Seanchan emise degli ordini in tono rapido e brusco; nel giro di qualche istante, da una porta dietro i paraventi entrarono uomini in semplici vesti di lana e sistemarono nella stanza un altro tavolino. Dietro di loro entrò una giovane donna dai capelli così chiari da sembrare quasi bianchi; portava una serie di piccoli cavalletti in legno lucidato, di vana forma e grandezza. Era vestita di seta bianca quasi trasparente, ma Fain aveva occhi solo per il pugnale. Il Corno era un mezzo per raggiungere un fine, ma il pugnale era una parte di lui stesso.

Turak sfiorò un cavalletto di legno e la ragazza lo depose al centro del tavolino. I servitori, all’ordine dell’uomo con la treccia, girarono la poltrona in modo che si trovasse di fronte al tavolino. I servi di grado inferiore avevano capelli lunghi fino alla spalla. Uscirono quasi subito, inchinandosi fin quasi a toccare con la testa le ginocchia.

Turak depose sul cavalletto il Corno, in modo che stesse dritto; poi mise davanti al Corno il pugnale e prese posto nella poltrona.

Fain non riuscì più a resistere. Allungò la mano verso il pugnale.

L’uomo con la treccia gli afferrò il polso, in una stretta da spezzare le ossa. «Cane irsuto! La mano che tocca senza un ordine la proprietà del Sommo Signore, viene mozzata.»

«È mio» ringhiò Fain.

Turak, appoggiato alla spalliera, alzò un’unghia laccata d’azzurro e Fain fu tirato da parte in modo che il Sommo Signore potesse esaminare il Corno senza che ci fossero ostacoli.

«Tuo?» disse Turak. «In uno scrigno che non sapevi aprire? Se desterai a sufficienza il mio interesse, potrei darti il pugnale. Anche se risale all’Epoca Leggendaria, mi lascia indifferente. Prima di tutto, risponderai a una domanda. Perché mi hai portato il Corno di Valere?»

Ancora per un momento Fain guardò con desiderio il pugnale, poi con uno strattone si liberò il polso e se lo massaggiò, facendo un inchino. «Perché tu possa suonarlo, Sommo Signore. Allora potrai conquistare tutte queste terre, se vorrai. Il mondo intero. Potrai abbattere la Torre Bianca e ridurre in polvere le Aes Sedai, perché nemmeno i loro poteri fermeranno gli eroi chiamati dalla tomba.»

«Devo suonarlo io» disse Turak, in tono piatto. «E abbattere la Torre Bianca. Perché? Sostieni di ubbidire, aspettare, servire; ma questa è una terra di gente che infrange i giuramenti. Perché mi dai la tua terra? Hai rancori personali verso queste... donne?»

Fain si sforzò di mostrarsi convincente. Doveva avere pazienza, come un tarlo che scava dall’interno. «Sommo Signore, la mia famiglia si tramanda di generazione in generazione un giuramento. Era al servizio del grande Artur Paendrag Tanreall; e quando costui fu assassinato dalle streghe di Tar Valon, gli è rimasta fedele. Mentre altri lottavano e smembravano l’impero di Artur Hawkwing, noi abbiamo tenuto fede al giuramento e ne abbiamo sopportato le conseguenze. Dobbiamo aspettare il ritorno degli eserciti inviati da Artur Hawkwing al di là dell’oceano Aryth, dobbiamo aspettare il ritorno del sangue di Artur Hawkwing per distruggere la Torre Bianca e riprendere quel che era del Sommo Sovrano. E quando il sangue di Artur Hawkwing tornerà, serviremo e consiglieremo, come facevamo per il Sommo Sovrano. A parte il bordo azzurro, il vessillo che sventola sopra questo tetto è il vessillo di Luthair, il figlio che Artur Paendrag Tanreall inviò con i suoi eserciti al di là dell’oceano.» Fain si lasciò cadere sulle ginocchia, in una buona imitazione di chi si sente sconvolto dal ricordo. «Voglio solo servire e consigliare il sangue del Sommo Sovrano.»

Turak rimase in silenzio così a lungo che Fain cominciò a chiedersi se occorresse insistere, per convincerlo. Ma il Sommo Signore si decise infine a parlare. «Pare che tu conosca cose che nessuno, né d’alto né di basso rango, ha mai detto, da quando è stata avvistata questa terra. Qui la gente la ritiene una diceria come tante, ma tu sai. Te lo leggo negli occhi, lo sento nella voce. Penserei quasi che ti abbiano mandato a tendermi una trappola. Ma chi, se l’avesse, userebbe in questo modo il Corno di Valere? Nessuno del Sangue poteva avere il Corno, perché secondo la leggenda era nascosto in questa terra. E di sicuro ogni lord locale lo userebbe contro di me, anziché metterlo nelle mie mani. Come sei entrato in possesso del Corno? Ti dichiari un eroe, come nella leggenda? Hai compiuto imprese eroiche?»

«Non sono un eroe, Sommo Signore» rispose Fain; rischiò un sorriso di modestia, ma non vide alcun cambiamento nell’espressione di Turak e lasciò perdere. «Il Corno fu trovato da un mio antenato, durante i tumulti scoppiati alla morte del Sommo Sovrano. Lui sapeva come aprire lo scrigno, ma il segreto morì con lui, nella Guerra dei Cento Anni che distrusse l’impero di Artur Hawkwing; noi discendenti sapevamo solo che nello scrigno c’era il Corno e che dovevamo custodirlo fino al ritorno del sangue del Sommo Sovrano.»

«Vorrei quasi crederti.»

«Credimi, Sommo Signore. Appena avrai suonato il Corno...»

«Non rovinare la credibilità che sei riuscito a ottenere. Non ho intenzione di suonarlo. Quando tornerò nel Seanchan, lo consegnerò all’Imperatrice, come il più prezioso dei miei trofei. Forse sarà l’Imperatrice stessa, a suonarlo.»

«Ma, Sommo Signore» protestò Fain «devi...» Si ritrovò disteso sul fianco, con la testa che gli ronzava; solo quando gli si schiarì la vista, s’accorse che l’uomo con la treccia si massaggiava le nocche e capì che cos’era accaduto.

«Certe parole» disse l’uomo, con calma «non si usano mai, nei confronti del Sommo Signore.»

Fain decise di quale morte sarebbe morto l’uomo con la treccia.

Turak spostò lo sguardo da Fain al Corno, con la massima calma, come se non avesse visto niente. «Forse ti darò all’Imperatrice, insieme con il Corno di Valere. Potrebbe trovare divertente un uomo che sostiene d’avere mantenuto il giuramento, quando tutti gli altri l’hanno infranto o dimenticato.»

Fain si tirò in piedi e approfittò del gesto per nascondere l’esultanza. Non sapeva che ci fosse un’Imperatrice e la possibilità di entrare in contatto con una sovrana apriva nuovi sentieri, permetteva nuovi piani. Una sovrana che avrebbe avuto alle spalle la potenza dei Seanchan e nelle mani il Corno di Valere. Molto meglio che rendere quel Turak un Sommo Sovrano.

Alcune parti del piano originario potevano aspettare. Doveva mostrarsi calmo, non far capire a Turak quanto fosse entusiasta. Dopo tanto tempo, poteva ben pazientare ancora un poco. «Come il Sommo Signore desidera» disse, sforzandosi di assumere il tono umile di chi vuole solo servire.

«Sembri quasi ansioso» notò Turak. Fain riuscì a stento a soffocare una smorfia.

«Ti dirò perché non intendo suonare il Corno di Valere e neppure tenerlo» proseguì il Sommo Signore. «Forse la spiegazione curerà la tua ansia. Non voglio che un mio dono offenda l’Imperatrice; se la tua ansia non potrà essere curata, non sarà mai soddisfatta, perché tu non lascerai mai queste rive. Chi suonerà il Corno di Valere, da quel momento sarà vincolato a esso. E finché lui vivrà, per chiunque altro il Corno sarà solo un semplice corno. Io sono al dodicesimo posto nella linea di successione al Trono di Cristallo. Se tengo il Corno di Valere, quelli fra me e il trono penseranno che intendo essere il primo; e l’Imperatrice, se da una parte vuole che gareggiamo fra noi in modo che il suo successore sia il più forte e il più astuto, dall’altra favorisce al momento la propria seconda figlia, che non vedrebbe di buon occhio qualsiasi minaccia a Tuon. Se suonassi il Corno, anche se poi le mettessi ai piedi queste terre e ogni donna della Torre Bianca in catene, l’Imperatrice, possa vivere in eterno, di sicuro penserebbe che non miro soltanto alla successione.»

Fain si trattenne appena in tempo dal suggerire che non avrebbe avuto difficoltà a salire sul trono, con l’aiuto del Corno. Qualcosa, nel tono del Sommo Signore, pareva indicare — per quanto a Fain riuscisse difficile crederlo — che l’augurio di lunga vita all’Imperatrice fosse sincero. E Fain doveva essere paziente. Un tarlo nelle radici.

«Gli Ascoltatori dell’Imperatrice possono trovarsi dovunque» continuò Turak. «Possono essere chiunque. Huan è nato e cresciuto nella Casa di Aladon, e la sua famiglia prima di lui, per undici generazioni: eppure anche lui potrebbe essere un Ascoltatore.» L’uomo con la treccia accennò a un gesto di protesta, ma si trattenne e tornò immobile. «Anche un lord o una dama d’alto lignaggio possono scoprire che i propri segreti più gelosamente custoditi sono noti agli Ascoltatori» proseguì Turak. «Possono svegliarsi e trovarsi già affidati ai Cercatori della Verità. La verità è sempre difficile da trovare, ma i Cercatori non risparmiano alcuna sofferenza nella loro ricerca e proseguono fin quando lo ritengono necessario. Fanno grandi sforzi per non permettere a un lord o a una dama di morire, quando sono affidati a loro, perché mano d’uomo non può uccidere chi ha nelle vene il sangue di Artur Hawkwing. Se l’Imperatrice deve ordinare la morte di uno del Sangue, lo sciagurato è messo, vivo, in un sacco di seta, appeso alla parete esterna della Torre dei Corvi e lasciato lì finché non marcisce. Per uno come te non sono necessarie tante attenzioni. Alla Corte delle Nove Lune, a Seandar, per affidare ai Cercatori uno come te basta un ammiccamento, una parola sbagliata, un capriccio. Sei ancora ansioso?»

Fain riuscì a mostrare un tremito di ginocchia. «Desidero solo servire e consigliare, Sommo Signore. Conosco molte cose che possono risultare utili.» Quella corte a Seandar pareva un luogo dove i suoi piani e i suoi talenti avrebbero trovato terreno fertile.

«Finché non salperò per il Seanchan, mi divertirai con il racconto della tua famiglia e della sua tradizione. È un sollievo, trovare in questa terra dimenticata dalla Luce un secondo uomo che possa divertirmi, anche se tutt’e due raccontate menzogne, come sospetto.» Non ci furono altre parole, ma la ragazza con i capelli quasi bianchi e la veste quasi trasparente comparve come se l’avessero chiamata, s’inginocchiò a testa china a fianco del Sommo Signore e gli offrì, su di un vassoio laccato, una tazzina fumante.

«Sommo Signore» disse Fain. L’uomo con la treccia, Huan, gli afferrò il braccio, ma Fain si liberò. Huan serrò le labbra, furioso, mentre Fain eseguiva l’inchino più profondo della sua vita e si riprometteva d’uccidere assai lentamente il servo. «Sommo Signore, sono inseguito. Uomini che vogliono impossessarsi del Corno di Valere. Amici delle Tenebre e peggio ancora. Avranno un paio di giorni di ritardo su di me.»

Turak bevve dalla tazzina, tenuta in punta di dita, un sorso di liquido nero. «Nel Seanchan rimangono pochi Amici delle Tenebre» disse. «Quelli che sopravvivono ai Cercatori della Verità incontrano la scure del boia. Potrebbe essere divertente incontrare un Amico delle Tenebre.»

«Sommo Signore, sono pericolosi. Con loro hanno dei Trolloc. Sono guidati da uno che si fa chiamare Rand al’Thor. Giovane, ma abietto oltre ogni dire, al servizio dell’Ombra, con lingua subdola e menzognera. In diversi luoghi ha sostenuto d’essere un personaggio diverso; ma, quando c’è lui, i Trolloc giungono sempre. E uccidono.»

«Trolloc» rifletté Turak. «Non c’erano Trolloc, nel Seanchan. Ma gli Eserciti della Notte avevano altri alleati. Altre creature. Mi sono spesso domandato se un grolm può uccidere un Trolloc. Metterò uomini di guardia, per i tuoi Trolloc e i tuoi Amici delle Tenebre, se non sono un’altra menzogna. Questa terra mi uccide di noia.» Mandò un sospiro e aspirò i vapori della tazzina.

Fain lasciò che Huan lo tirasse fuori della stanza e quasi non ascoltò la dura ramanzina su quel che gli sarebbe accaduto se, avutone il permesso, non avesse lasciato subito la presenza di lord Turak. Quasi non s’accorse d’essere spinto nella strada, con una moneta e l’ordine di tornare l’indomani. Rand al’Thor era suo, ora. Finalmente l’avrebbe visto morto. E poi il mondo avrebbe pagato per i torti che gli aveva fatto.

Ridacchiando tra sé, prese i cavalli e scese in città a cercare una locanda.

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