L’uomo che, in quel luogo almeno, si faceva chiamare Bors, ebbe una smorfia di scherno al cicaleccio soffocato che risuonava nella vasta sala dal soffitto a volta. Ma la smorfia fu nascosta dalla maschera di seta nera che gli copriva il viso, simile a quella delle altre cento persone presenti nella sala. Cento maschere nere, cento paia d’occhi che cercavano di scoprire che cosa nascondessero.
A un’occhiata distratta, l’enorme sala poteva essere quella di un palazzo, con gli alti camini di marmo e le lampade d’oro appese al soffitto a cupola, con gli arazzi variopinti e il pavimento a mosaico dal complesso disegno. Ma, a ben guardare, i camini erano freddi: lingue di fiamma danzavano su ceppi spessi come cosce d’uomo, ma non emanavano calore. Le pareti coperte d’arazzi e il soffitto erano di pietra grezza, quasi nera. Le finestre mancavano e c’erano solo le porte alle due estremità della sala. Pareva quasi che qualcuno avesse voluto dare al locale l’aspetto da salone di ricevimento, ma senza curarsi troppo dei particolari: un semplice contorno e qualche tocco.
L’uomo che si faceva chiamare Bors non sapeva dove si trovasse quella sala e non credeva che gli altri lo sapessero. Non gli piaceva pensare dove si trovasse quel luogo: era già seccante esservi convocato. E non gli piaceva nemmeno pensare alla convocazione. Ma in casi del genere, anche lui rispondeva.
Si sistemò il mantello, lieto che i fuochi fossero freddi, perché altrimenti nel locale avrebbe fatto troppo caldo per tenere addosso il manto di lana nera che gli arrivava fino a terra. L’uomo vestiva interamente di nero. L’ampio mantello nascondeva la posizione ingobbita per mascherare l’altezza e non rivelava se la figura fosse snella o tozza. Bors non era l’unico ad essersi avvolto in un mantello troppo largo.
In silenzio osservò i colleghi, con la pazienza che aveva segnato gran parte della sua vita. Sempre, se aspettava e osservava abbastanza a lungo, qualcuno finiva per commettere un errore. Si sarebbe detto che la maggior parte degli uomini e delle donne presenti nella sala seguisse la stessa filosofia: quasi tutti osservavano e ascoltavano in silenzio chi si sentiva obbligato a parlare. Alcune persone non sopportano l’attesa, né il silenzio; e così rivelano più di quanto non credano.
Servitori circolavano fra gli ospiti: giovani snelli e biondi, che offrivano vino, con un inchino e un muto sorriso. Tutti, maschi e femmine, indossavano brache bianche, attillate, e ampie camicie bianche. E si muovevano con grazia così perfetta da dare fastidio. Ciascuno pareva la copia esatta degli altri e i ragazzi erano belli quanto le ragazze. Bors non credeva di riuscire a distinguere un servitore dall’altro, eppure aveva occhi acuti e buona memoria per le facce.
Una ragazza sorridente gli presentò il vassoio. Bors prese un calice di cristallo, senza intenzione di bere; se avesse rifiutato, sarebbe parso un gesto di diffidenza o di villania, assai pericoloso, in quel luogo; ma nel vino si poteva versare di nascosto qualsiasi cosa. Di certo alcuni dei presenti non si sarebbero lamentati, se avessero visto diminuire il numero dei propri rivali nella corsa al potere, quali che fossero gli sfortunati.
Bors si domandò oziosamente se, dopo la riunione, sarebbe stato necessario eliminare i servitori. La servitù ascolta tutto, si disse. Incrociò lo sguardo della ragazza: occhi spenti, vuoti, da bambola. Più morti della morte.
Mentre, con movimenti aggraziati, la ragazza si allontanava, Bors rabbrividì e si portò alle labbra il calice: ma la causa del brivido non era il pensiero di quel che avevano fatto alla ragazza. Appena credeva d’avere trovato un punto debole nei padroni che ora serviva, scopriva d’essere stato preceduto: il presunto punto debole era stato eliminato con una precisione spietata che lo lasciava sorpreso. E preoccupato. La prima regola della sua vita era sempre stata quella di cercare i punti deboli, perché ciascuno di essi era una crepa che lui poteva sondare, frugare, influenzare. Se i suoi attuali, e temporanei, padroni non avevano punti deboli...
Bors corrugò la fronte e studiò i colleghi. Fra loro, almeno, c’era abbondanza di punti deboli. Il nervosismo tradiva anche coloro che avevano il buonsenso di tenere a freno la lingua... uno si teneva troppo rigido, un’altra si aggiustava con gesti nervosi le sottane.
Un buon quarto dei presenti, calcolò Bors, non si era preso la briga di modificare il proprio aspetto e si era accontentato di mettersi la maschera. Gli abiti rivelavano molto. Una donna ferma davanti a un tendaggio oro e cremisi parlava sottovoce a una persona — impossibile dire se uomo o donna — con manto e cappuccio grigi: era chiaro che la donna aveva scelto quel punto della sala perché i colori del tendaggio s’intonavano a quelli del vestito. Ed era stata doppiamente sciocca ad attirare su di sé l’attenzione: l’abito scarlatto, assai scollato, lasciava scoperta fin troppa pelle e metteva in mostra le scarpette, rivelando così che la donna era illiana, ricca, forse anche di sangue nobile.
Poco più in là dell’illiana c’era un’altra donna, da sola. Aveva collo da cigno e capelli neri e lucidi lunghi fino alla cintola; si teneva con la schiena alla parete e osservava in silenzio ogni cosa. Non mostrava il minimo nervosismo, solo serena compostezza. In questo era da ammirare; però indossava un abito lungo, accollato, aderente, di stoffa morbida e appena appena opaca, che accennava a tutto senza mostrare nulla; l’abito e la pelle ramata la segnavano con altrettanta chiarezza come appartenente al primo sangue dell’Arad Doman. E se Bors non si sbagliava di grosso, nel largo bracciale d’oro al polso sinistro aveva l’emblema del casato. Del proprio, senz’altro, perché nessuna domanese di sangue puro avrebbe piegato il proprio rigido orgoglio fino al punto di portare i sigilli di un’altra Casa. Una donna non solo sciocca, ma anche stupida.
Un tizio che indossava un soprabito accollato, azzurro cielo, di taglio shienarese, passò accanto a Bors e lo squadrò dalla testa ai piedi. Il modo di camminare, la posizione delle spalle, lo sguardo che non si soffermava mai troppo sullo stesso punto, la mano che pareva sempre pronta a schizzare verso la spada di cui al momento era privo, lo proclamavano soldato. Lo shienarese sprecò poco tempo nell’esame di Bors: le spalle curve e la schiena piegata non rappresentavano una minaccia.
Bors sbuffò, mentre lo shienarese passava oltre, con la destra stretta a pugno e gli occhi già occupati a cercare altrove un eventuale pericolo. Poteva classificarli tutti: mercante e militare, cittadino comune e nobile; del Kandor e del Cairhien, della Saldaea e del Ghealdan; di ogni nazione e quasi di ogni razza. Arricciò il naso, in preda a un improvviso disgusto: c’era perfino un Calderaio, con brache verde vivo e giubba giallo acceso. Di gente così, si disse, non c’era più bisogno, venuto il Giorno.
Anche coloro che avevano pensato a modificare il proprio aspetto, in linea di massima, non si rivelavano migliori degli altri. Bors scorse, sotto l’orlo d’una veste scura, gli stivali lavorati in argento di un Gran Signore di Tear, e sotto un’altra veste, gli speroni a testa di leone portati solo dagli alti ufficiali delle Guardie della Regina dell’Andor. Un tipo smilzo, la cui magrezza non era nascosta dalla veste nera lunga fino a terra e dall’anonimo mantello grigio chiuso da una semplice spilla d’argento, guardava dall’ombra del cappuccio. Poteva essere chiunque, di qualsiasi paese... ma aveva una stella a sei punte, tatuata nella membrana fra il pollice e l’indice della destra: quindi apparteneva al Popolo del Mare e bastava dare un’occhiata alla sinistra per scoprire i simboli del clan e della famiglia. Bors non si prese nemmeno la briga di guardare.
All’improvviso socchiuse gli occhi e fissò una donna intabarrata di nero, tanto da mostrare solo le dita. Alla destra portava un anello d’oro a forma di serpente che si morde la coda. Un’Aes Sedai o quanto meno una donna educata a Tar Valon dalle Aes Sedai: nessun’altra avrebbe portato un anello del genere. Bors distolse lo sguardo prima che la donna s’accorgesse dell’esame; quasi subito individuò un’altra donna avviluppata di nero da capo a piedi, con un anello del Gran Serpente. Le due streghe non davano segno di conoscersi. Quelle maledette se ne stavano nella Torre Bianca come ragni al centro della tela, a impicciarsi degli affari delle altre nazioni, e tiravano fili che facevano ballare re e regine. Bors augurò loro morte eterna e digrignò i denti. Se il numero dei prescelti doveva ridursi (ed era necessario, prima del Giorno) c’era gente la cui mancanza si sarebbe avvertita ancora meno di quella dei Calderai.
Una campanella mandò uno squillo tremulo che proveniva da tutte le parti nello stesso istante e troncò di netto ogni altro rumore.
All’estremità della sala, gli alti battenti della porta si spalancarono e lasciarono entrare due Trolloc, in cotta di maglia nera, lunga fino al ginocchio e decorata con punte di ferro. Tutti si tirarono indietro. Anche l’uomo che si faceva chiamare Bors.
I due Trolloc superavano d’una buona testa i più alti dei presenti; univano in sé tratti umani e animaleschi, in un miscuglio da far rivoltare lo stomaco. Uno aveva, al posto della bocca e del naso, un grosso becco appuntito e piume al posto dei capelli. L’altro, con piedi a zoccolo, aveva viso sporgente a forma di grugno irsuto e corna di capro.
Senza degnare d’uno sguardo gli esseri umani, i Trolloc si girarono verso la porta e s’inchinarono, servili e timorosi. Il primo drizzò le piume in una fitta cresta.
Fra i due avanzò un Myrddraal. I Trolloc piegarono il ginocchio. Il Myrddraal vestiva di un nero che faceva sembrare chiare le cotte dei Trolloc e le maschere degli esseri umani; si muoveva con la grazia d’una vipera, ma gli abiti rimasero immobili, senza la minima increspatura.
Bors si accorse di snudare i denti, in una smorfia che era per metà un ringhio e per metà (si vergognò d’ammetterlo anche con se stesso) espressione di paura. Il Myrddraal era a viso scoperto. Aveva faccia pallida, livida, da uomo, ma priva d’occhi, liscia come guscio d’uovo.
Girò il viso e parve guardare i presenti, uno per uno. Un brivido percorse i convenuti, che cercarono di ritrarsi nella folla. Il Myrddraal contrasse le labbra sottili ed esangui in quello che forse era un sorriso: solo girando la testa, costrinse i presenti a disporsi in un semicerchio che fronteggiava la porta.
L’uomo che si faceva chiamare Bors deglutì. “Giorno verrà, Mezzo Uomo” pensò. “Quando il Sommo Signore delle Tenebre tornerà, sceglierà i nuovi Signori del Terrore. E tu ti farai piccolo davanti a loro. Davanti a semplici uomini. Davanti a me! Perché non parli? Smettila di fissarmi e parla!"
«Ecco il vostro Padrone» disse il Myrddraal, con voce raschiante come sbriciolio di pelle secca di serpente. «Sulla pancia, vermi! Bocconi, se non volete che il suo splendore v’accechi e vi bruci!»
Bors si sentì invadere dalla collera, sia per il tono di comando, sia per le parole insultanti; ma in quel momento l’aria al di sopra del Mezzo Uomo tremolò e il significato fu chiaro. I Trolloc, già bocconi, si contorcevano come se volessero rintanarsi sottoterra.
Senza aspettare di vedere se qualcun altro si muoveva, Bors si lasciò cadere lungo e disteso, con un brontolio perché si era scorticato contro la pietra del pavimento. Parole gli salirono alle labbra, come un talismano contro il pericolo — ed erano davvero un talismano, anche se di scarsa efficacia contro quel che lui temeva — e udì cento altre voci, ansimanti di paura, ripetere le stesse parole: «Il Sommo Signore delle Tenebre è il mio Padrone e con tutto il cuore lo servo fino all’ultimo brandello dell’anima mia.»
In fondo alla mente di Bors, una vocina impaurita mormorò: “Il Tenebroso e tutti i Reietti sono legati..." Con un brivido, Bors la zittì. Da molto tempo non ascoltava più quella vocina.
«Guarda, il mio Padrone è il Padrone della morte. Senza nulla chiedere lo servo in attesa del Giorno della sua venuta, tuttavia lo servo nella certezza della vita eterna.»
"...legati a Shayol Ghul, legati dal Creatore nel momento della creazione. No, servo un padrone diverso, ora."
«Di sicuro i fedeli saranno esaltati sulla terra, esaltati al di sopra degli increduli, al di sopra dei troni, tuttavia io lo servo umilmente in attesa del Giorno del suo Ritorno.»
"La mano del Creatore ci difende e la Luce ci protegge dall’Ombra. No, no! Servo un altro Padrone."
«Rapido giunge il Giorno del Ritorno. Rapido giunge il Sommo Signore delle Tenebre, a guidarci e a regnare sul mondo ora e per sempre.»
L’uomo che si faceva chiamare Bors terminò di recitare la professione di fede; aveva il fiato grosso, come se avesse corso per dieci miglia. E non era il solo, a giudicare dagli ansiti tutt’intorno.
«Alzatevi. Tutti.»
Bors fu colto di sorpresa dalla voce melliflua. A parlare non era stato di sicuro nessuno dei suoi compagni distesi bocconi, col viso mascherato contro il pavimento a mosaico, eppure Bors non si aspettava di udire una simile voce da... Cautamente, alzò la testa quanto bastava a guardare con un occhio.
Una figura umana era librata a mezz’aria. L’orlo della veste rosso sangue pendeva a una spanna dalla testa del Myrddraal. La figura portava una maschera rossa come la veste. Possibile che il Sommo Signore delle Tenebre comparisse in forma d’uomo? Mascherato, per giunta? Eppure il terribile Myrddraal tremava e si faceva piccolo piccolo. Bors cercò una spiegazione accettabile. Forse si trattava di un Reietto.
Ma la presenza di un Reietto in libertà significava che il ritorno del Tenebroso era vicinissimo. I Reietti, tredici fra i più abili a usare l’Unico Potere, in un’Epoca ricca di uomini in grado di usarlo, erano stati imprigionati a Shayol Ghul, insieme col Tenebroso, dal Drago e dai Cento Compagni, perché stessero lontano dal mondo dell’uomo. Come conseguenza, la metà maschile della Vera Fonte era rimasta contaminata: tutti gli Aes Sedai, i maledetti manipolatori del Potere, erano impazziti e avevano distrutto il mondo, l’avevano frantumato come ciotola di terracotta sbattuta sulle pietre. Così, prima di morire, avevano posto fine all’Epoca Leggendaria. Una morte degna di chi era Aes Sedai, secondo Bors. Addirittura troppo buona. Bors rimpiangeva solo che le Aes Sedai non avessero seguito la stessa sorte.
Si costrinse a dominare il panico, Nessun altro si era ancora alzato e pochi avevano osato sollevare la testa.
«Alzatevi.» Questa volta il tono della figura in maschera rossa fu più vivace. L’uomo mosse le mani in un gesto perentorio. «In piedi!»
Bors si mosse goffamente per alzarsi, ma esitò. Quelle mani erano orribilmente ustionate e segnate da screpolature nere che mostravano la carne viva, rossa come la veste. Possibile che il Tenebroso comparisse sotto quella forma? O anche solo un Reietto? Gli occhi della maschera rosso sangue si girarono lentamente verso Bors, che si affrettò ad alzarsi. Quello sguardo pareva emanare il calore d’una fornace spalancata.
Anche gli altri ubbidirono all’ordine, con lo stesso impaccio di Bors e paura non minore. Quando tutti furono in piedi, la figura librata a mezz’aria prese la parola.
«Mi hanno chiamato con molti nomi, ma per voi sarò Ba’alzamon.»
Bors serrò i denti per impedire che battessero. Ba’alzamon. Nella lingua Trolloc, significava Cuore delle Tenebre; perfino gli increduli sapevano che era il nome Trolloc del Sommo Signore delle Tenebre. Colui che non bisogna nominare. Non il Vero Nome, Shai’tan, ma un nome ugualmente vietato. Per le persone riunite nella sala e per altre della loro genia, era bestemmia insudiciare con il linguaggio umano i due nomi. Bors rimase sorpreso e udì anche altri ansimare. Servitori e Trolloc erano spariti, anche se lui non li aveva visti uscire.
«Il luogo dove siete riuniti si trova nell’ombra di Shayol Ghul» proseguì Ba’alzamon. A queste parole si levò più d’un gemito e Bors non fu sicuro che fra gli altri non ci fosse anche il suo. Ba’alzamon allargò le braccia e assunse un tono quasi irridente. «Non abbiate paura, perché il Giorno in cui il vostro Padrone ascenderà al mondo è molto vicino. Il Giorno del Ritorno si approssima. Il fatto che io sia qui a mostrarmi a voi eletti dovrebbe rivelarvelo. Presto sarà spezzata la Ruota del Tempo. Presto il Gran Serpente morirà e col potere della sua morte, la morte del Tempo medesimo, il vostro Padrone rifarà il mondo a sua immagine, per questa Epoca e per tutte le Epoche a venire. E coloro che servono me, con fede e costanza, siederanno ai miei piedi sopra le stelle del cielo e regneranno in eterno sul mondo degli uomini. Così ho promesso e così sarà. Vivrete e regnerete in eterno.»
Un mormorio d’aspettativa percorse gli ascoltatori; alcuni, con aria rapita, mossero un passo verso la sagoma librata. Anche Bors sentì l’attrazione della promessa per la quale aveva dato via l’anima centinaia di volte.
«Il Giorno s’avvicina» disse Ba’alzamon. «Ma c’è ancora molto da fare. Molto.»
Alla sinistra di Ba’alzamon, l’aria tremolò e si rapprese: comparve, un poco più in basso, un giovane. Bors non riuscì a stabilire se fosse un essere vivente o un’immagine. Un ragazzo di campagna, a giudicare dagli abiti, con una luce maliziosa negli occhi castani e un accenno di sorriso sulle labbra, come se ricordasse o pregustasse una burla. Pareva di carne e ossa, ma non respirava e non batteva le palpebre.
Alla destra di Ba’alzamon, in basso, comparve una seconda figura in abiti da paesano: un giovanotto ricciuto, muscoloso come fabbro ferraio, che stranamente portava alla cintura un’ascia da guerra, con la lama a mezzaluna bilanciata dal manico robusto. Bors si sporse a guardare un particolare ancora più. bizzarro: il giovane aveva occhi giallastri.
L’aria si solidificò per la terza volta: comparve un giovane, stavolta proprio sotto Ba’alzamon, quasi ai suoi piedi. Un giovanotto alto, con occhi ora grigi, ora quasi azzurri, a seconda della luce, e capelli d’un rossiccio piuttosto scuro. Un altro paesano, o contadino. Anche se in quel luogo non bisognava aspettarsi che tutto rientrasse nella norma, Bors rimase sorpreso nel notare un’altra bizzarria: il giovane aveva al fianco una spada con un airone di bronzo sul fodero e un altro airone incastonato nella lunga elsa da impugnare a due mani. Un ragazzotto di paese con una spada da mastro spadaccino? Impossibile! Cosa significava? E un ragazzo con occhi gialli? Bors notò che il Myrddraal guardava le tre figure e tremava: se non si sbagliava di grosso, il tremito non era più di paura, ma di odio.
Il silenzio era totale. Ba’alzamon riprese la parola.
«Nel mondo cammina uno che fu e che sarà, ma che non è ancora, il Drago.»
Un mormorio di sorpresa percorse gli astanti.
«Il Drago Rinato! Dobbiamo ucciderlo, Sommo Signore?» A parlare fu l’uomo dello Shienar, che aveva portato ansiosamente la mano alla cintola, dove avrebbe dovuto esserci la spada.
«Forse» rispose Ba’alzamon. «E forse no. Forse sarà possibile piegarlo ai miei scopi. Prima o poi sarà così, in quest’Epoca o in un’altra.»
Bors batté le palpebre. In quest’Epoca o in un’altra? Ma il Giorno non era vicino? Cosa importavano gli avvenimenti di un’altra Epoca, se in questa lui fosse invecchiato e morto? Ma Ba’alzamon aveva ripreso a parlare.
«Già nel Disegno si forma una grinza, uno dei molti punti dove colui che diverrà il Drago può essere piegato al mio servizio. Dev’essere piegato! È meglio che mi serva da vivo, anziché da morto; ma deve servire me, e servirà me, vivo o morto! Guardate bene questi tre giovani, perché ciascuno di loro è un filo del disegno che io intendo tessere e toccherà a voi provvedere che sia disposto come io comando. Studiateli bene, in modo da riconoscerli.»
Di colpo ogni suono spari. Bors, a disagio, cambiò posizione e vide altri che lo imitavano. Tutti, tranne la donna di Illian. Con le mani allargate sul petto quasi a nascondere la pelle esposta, gli occhi sgranati, tra l’impaurito e l’estatico, annuiva con decisione, come se si rivolgesse a qualcuno che le parlasse a faccia a faccia. A volte pareva rispondere, ma Bors non udì suono. A un tratto la donna inarcò all’indietro la schiena, tremò in tutto il corpo e si alzò sulla punta dei piedi. Bors non capì perché non cadesse, a meno che non fosse sostenuta da qualcosa d’invisibile. Poi, con la stessa repentinità, la donna si raddrizzò e annuì di nuovo, con un inchino e un brivido. Quasi nello stesso istante, una delle due donne con l’anello a forma di Gran Serpente sobbalzò e cominciò ad annuire.
"Ciascuno di noi riceve istruzioni senza che gli altri ascoltino” mormorò tra sé Bors, di malumore. Se avesse saputo gli ordini dati anche solo a un altro, avrebbe potuto avvantaggiarsi, ma così... Con impazienza attese il proprio turno, dimenticando perfino di tenersi curvo.
A uno a uno, i presenti ricevettero ordini e lasciarono trasparire indizi stuzzicanti, se solo Bors avesse potuto leggerli. L’uomo degli Atha’an Miere, il Popolo del Mare, annuì e s’irrigidì con riluttanza. Lo shienarese tradì una certa perplessità, pur accettando gli ordini. La seconda donna di Tar Valon trasalì, sorpresa. La figura intabarrata di grigio, di cui Bors non era riuscito a capire il sesso, scosse la testa, prima di cadere in ginocchio e annuire con vigore. Alcuni ebbero le stesse convulsioni della donna illianese, come in preda a una sofferenza che li faceva sollevare sulla punta dei piedi.
«Bors.»
L’uomo che si faceva chiamare Bors trasalì, mentre la maschera rossa gli riempiva la visuale. Bors vedeva ancora la sala, la sagoma di Ba’alzamon e le altre tre figure, ma nello stesso tempo poteva vedere soltanto la maschera rossa. Stordito, ebbe l’impressione che gli spaccassero il cranio e gli cavassero gli occhi. Per un attimo credette di scorgere lingue di fiamma, nei fori della maschera.
«Sei fedele... Bors?»
Al tono beffardo sentì un brivido lungo la schiena. «Sono fedele, Sommo Signore. Non posso nascondertelo.»
«No, non puoi.»
La certezza, nella voce di Ba’alzamon, gli seccò la gola, ma Bors si costrinse a rispondere: «Ordina, Sommo Signore, e ubbidirò.»
«In primo luogo, tornerai a Tarabon e continuerai i tuoi buoni lavori. In pratica, ti ordino di raddoppiare gli sforzi.»
Bors, perplesso, fissò Ba’alzamon; ma poi le lingue di fiamma avvamparono di nuovo dietro la maschera e lui trovò la scusa d’un inchino per distogliere lo sguardo. «Sarà come comandi, Sommo Signore.»
«In secondo luogo, con i tuoi seguaci terrai gli occhi aperti, nel caso ti accadesse di vedere i tre giovani. Stai attento: quei tre sono pericolosi.»
L’uomo che si faceva chiamare Bors lanciò un’occhiata alle tre figure librate davanti a Ba’alzamon. Com’era possibile che riuscisse a vederle, se vedeva soltanto la faccia di Ba’alzamon? Si sentì scoppiare la testa. Aveva le mani sudate, sotto i guanti leggeri, e la camicia appiccicata alla schiena. «Pericolosi, Sommo Signore? Ragazzi di campagna? Uno di loro è forse il...»
«Una spada è pericolosa per chi si trova dalla parte della punta, non per chi è dalla parte dell’elsa. A meno che chi regge la spada non sia uno sciocco, o un imprudente, o un incapace, nel qual caso è doppiamente pericoloso, tanto per se stesso quanto per gli altri. Basta che t’abbia detto di conoscerli. Basta che tu mi ubbidisca.»
«Sarà come comandi, Sommo Signore.»
«In terzo luogo, a nessuno farai parola di coloro che sono sbarcati a Capo Toman e dei domanesi. Quando tornerai a Tarabon...»
Bors ascoltò a bocca aperta le istruzioni. Non avevano senso. “Se conoscessi gli ordini dati a qualcun altro” si disse “forse riuscirei a cavare un significato anche dai miei."
All’improvviso si sentì afferrare la testa come da una mano gigantesca che gli schiacciasse le tempie, si sentì sollevare e vide il mondo suddividersi in migliaia di esplosioni, dove ciascun lampo di luce diveniva un’immagine che gli saettava nella mente o roteava e rimpiccioliva in lontananza senza dargli il tempo di scorgerla con chiarezza. Vide un cielo irreale di nuvole striate, rosse e gialle e nere, in corsa come sotto la spinta del vento più potente mai visto al mondo. Una donna — una ragazza? — vestita di bianco rimpicciolì nel buio e svanì con la repentinità con cui era comparsa. Un corvo lo fissò negli occhi, lo riconobbe e sparì. Un uomo in armatura, con un orrido elmo sagomato e dipinto a forma d’insetto mostruoso, alzò la spada e si gettò di lato, fuori vista. Un corno ricurvo, d’oro massiccio, giunse a gran velocità; mandò una nota penetrante, mentre s’avvicinava a lui come un lampo e gli strattonava l’anima; all’ultimo istante si mutò in un accecante anello di luce dorata che passò attraverso di lui e lo gelò più della morte. Un lupo balzò dall’ombra e gli lacerò la gola. Lui non poté urlare. Il torrente d’immagini continuò a travolgerlo, lo annegò, lo seppellì. Ricordava a stento chi era. Dai cieli piovve fuoco; caddero luna e stelle; fiumi si riempirono di sangue e i morti camminarono; la terra si spaccò e schizzò roccia fusa...
L’uomo che si faceva chiamare Bors si ritrovò accovacciato nella sala, con gli altri, quasi tutti intenti a fissarlo, tutti silenziosi. Da qualsiasi parte guardasse, la maschera rossa di Ba’alzamon gli confondeva gli occhi. Le immagini che gli avevano invaso la mente ormai sbiadivano; parecchie, ne era sicuro, erano già svanite dalla memoria. Con esitazione si raddrizzò, sempre sotto gli occhi di Ba’alzamon.
«Sommo Signore, cosa...»
«Alcuni ordini sono troppo importanti perché siano a conoscenza anche di colui che li esegue.»
Bors si piegò in un profondo inchino. «Come vuoi, Sommo Signore» mormorò con voce rauca.
Quando si raddrizzò, si ritrovò di nuovo nel silenzio. Un altro, il Gran Signore di Taren, annuì e s’inchinò a una presenza invisibile. Con mano incerta Bors si toccò la fronte e tentò di conservare qualcuna delle immagini che gli erano turbinate nella mente, pur non essendo sicuro di voler ricordare. Gli ultimi residui svanirono e a un tratto lui si trovò a domandarsi che cosa cercasse di ricordare. Si strofinò le mani, con una smorfia alla sensazione di sudore sotto i guanti, e rivolse l’attenzione alle tre figure sospese davanti a Ba’alzamon.
Il giovane ricciuto e muscoloso; il paesano con la spada; il ragazzo con l’aria maliziosa. Nella sua mente li aveva già soprannominati il Fabbro, lo Spadaccino e il Burlone. Quale posto avevano, nell’enigma? Di sicuro erano importanti, altrimenti Ba’alzamon non li avrebbe posti al centro della riunione. Ma, solo dai suoi ordini, potevano morire in qualsiasi momento; ed era indotto a pensare che alcuni dei presenti avessero ordini altrettanto micidiali al loro riguardo. Fino a che punto i tre erano importanti? Gli occhi celesti di uno di loro significavano forse l’appartenenza alla nobiltà dell’Andor (poco probabile, con quelle vesti), ma anche alcune persone delle Marche di Confine avevano occhi chiari, e certi tarenesi, per non parlare di alcuni ghealdanesi e ovviamente degli... No, quell’indizio non gli avrebbe rivelato niente. Ma gli occhi gialli? Chi erano, quei tre? Cos’erano?
Sobbalzò, perché gli avevano toccato il braccio; scoprì d’avere al fianco un servitore vestito di bianco, un ragazzo. Anche gli altri servitori erano ricomparsi, in numero superiore a prima, uno per ogni ospite. Bors batté le palpebre. Ba’alzamon era svanito. Anche il Myrddraal era scomparso: dove prima si apriva la porta, c’era solo pietra scabra. Le tre figure però erano sempre librate a mezz’aria. Bors ebbe l’impressione che fissassero proprio lui.
«Se non ti spiace, milord Bors, ti mostrerò la tua stanza.»
Evitando quegli occhi morti, Bors diede un’ultima occhiata alle tre figure e seguì il servitore, domandandosi come mai il ragazzo sapesse quale nome usare. Solo quando i battenti bizzarramente scolpiti si chiusero alle sue spalle e lui ebbe percorso una decina di passi, si rese conto d’essere da solo nel corridoio. Aggrottò sospettosamente le ciglia, ma il servitore anticipò la sua domanda.
«Anche gli altri sono stati accompagnati nella propria stanza, milord» spiegò. «Prego, milord. Il tempo è scarso e il nostro Padrone è impaziente.»
L’uomo che si faceva chiamare Bors digrignò i denti, sia per la mancanza d’informazioni, sia per l’implicazione d’uguaglianza fra lui stesso e il servitore, ma lo seguì in silenzio. Solo uno sciocco si arrabbia con i servitori; e poi, pensando allo sguardo vacuo del giovane, non era sicuro di ottenere risultati. Ma come faceva a sapere che cosa lui stava per domandargli? Il servitore sorrise.
Bors non si sentì per niente a suo agio, finché non fu di nuovo nella stanza in cui aveva atteso, appena arrivato. E non fu più tranquillo nemmeno nel vedere che le chiusure delle bisacce della sella non erano state manomesse.
Il servitore si fermò nel vano della porta, senza entrare. «Puoi rimetterti i tuoi vestiti, se lo desideri, milord» disse. «Nessuno assisterà alla tua partenza, né al tuo arrivo a destinazione; ma forse è meglio arrivare già vestiti in modo corretto. Fra poco verrà un incaricato a mostrarti la via.»
Mossa da mani invisibili, la porta si chiuse.
L’uomo che si faceva chiamare Bors rabbrividì senza volerlo. Si affrettò ad aprire le bisacce e a prendere il suo solito mantello. In fondo alla mente, una vocina gli domandò se il potere promesso, e perfino l’immortalità, valessero un’altra riunione come quella; ma lui si affrettò a tacitarla con una risata. Per tutto quel potere, avrebbe riverito il Sommo Signore delle Tenebre anche nella stessa Cupola della Verità. Ricordandosi degli ordini ricevuti da Ba’alzamon, toccò il sole d’oro e il pastorale rosso dietro il sole, ricamati sul petto del mantello bianco e simbolo della sua carica nel mondo degli uomini; quasi si mise a ridere. Aveva del lavoro, lavoro importante, a Tarabon e nella Piana di Almoth.