10 Inizia la Caccia

Ingtar impose un’andatura fin troppo sollecita per l’inizio d’un lungo viaggio, tanto che Rand si preoccupò un poco per i cavalli. Gli animali potevano mantenere il trotto per ore, ma la fine della giornata era lontana ed era assai probabile che i giorni seguenti fossero uguali al primo. A giudicare dalla sua espressione decisa, si sarebbe detto che Ingtar intendesse catturare già quel giorno, nel giro di un’ora, i ladri del Corno. Ricordando il tono di voce del giuramento all’Amyrlin Seat, Rand non si sarebbe dovuto sorprendere; comunque, non fece commenti. Lord Ingtar aveva il comando; e per quanto si fosse mostrato amichevole verso di lui, non avrebbe gradito consigli da un pastore.

Hurin cavalcava un passo dietro Ingtar, ma era lui a guidare il drappello verso meridione, indicando a Ingtar il percorso. Il territorio era ondulato e coperto di foreste fitte d’abeti, d’ericacee e di querce, ma il percorso indicato da Hurin era quasi dritto come una freccia e non deviava mai, se non per girare intorno alle colline più alte. Lo stendardo del Gufo Grigio s’increspava al vento.

Rand cercò di cavalcare con Mat e Perrin, ma quando rallentò per farsi raggiungere, Mat diede di gomito a Perrin e Perrin, con riluttanza, si unì a lui in testa alla colonna. Rand si disse che non aveva senso cavalcare da solo alla retroguardia e tornò in testa. Mat e Perrin rimasero di nuovo indietro e fu sempre Mat a spingere Perrin.

"Maledizione, voglio solo chiedere scusa” si disse Rand. Si sentiva solo. E non gli era d’aiuto sapere che la colpa era tutta sua.

In cima a un’altura, Huno smontò per esaminare il terreno calpestato da cavalli. Tastò lo sterco e brontolò: «Si muovono davvero in fretta, milord.» Pareva gridare anche quando parlava normalmente. «Non abbiamo guadagnato neppure un’ora, su di loro. Anzi, forse ne abbiamo persa una. Uccideranno i cavalli, se non rallentano.» Toccò l’impronta d’uno zoccolo. «Questo non è un cavallo. Un maledetto Trolloc. Un maledetto piede caprino.»

«Li raggiungeremo» disse Ingtar, deciso.

«I nostri cavalli, milord. Non serve sfiancarli, prima di raggiungerli. Anche se quelli ammazzano i loro, i maledetti Trolloc hanno resistenza superiore ai cavalli.»

«Li raggiungeremo, In sella, Huno.»

Con l’unico occhio Huno guardò Rand, poi scrollò le spalle e montò in sella. Ingtar li spinse a percorrere di corsa il pendio opposto, quasi scivolando fino in fondo, e risalì al galoppo il pendio seguente.

Rand si domandò perché Huno l’avesse guardato in quel modo. Huno era di quelli che non si erano mai mostrati molto amichevoli con lui. Non come Masema, che non nascondeva l’antipatia per Rand: Huno non si mostrava amichevole con nessuno, a parte alcuni veterani brizzolati come lui. Di sicuro non credeva alla storia che Rand era un principe.

Huno si impegnava a cercare tracce, ma quando scopriva Rand intento a guardarlo, gli restituiva occhiata per occhiata e non diceva mai una parola. Non significava molto. Avrebbe fissato negli occhi anche Ingtar. Era il suo modo di fare.

Il percorso scelto dagli Amici delle Tenebre (e da chissà chi altri, si disse Rand, visto che Hurin continuava a borbottare di cose peggiori) girava sempre alla larga dai villaggi. Rand ne scorse alcuni, dalla cima delle alture, a distanza d’un miglio e più, ma nessuno era mai tanto vicino da lasciar distinguere le persone nelle vie. C’erano anche fattorie, con case dalle gronde spioventi, alti fienili e comignoli fumanti, sulla cima delle altura, sui pendii, sul fondovalle, ma nessuna era tanto vicino da far pensare che il fattore avesse scorto la loro preda.

Dopo un poco persino Ingtar fu costretto a riconoscere che i cavalli non potevano mantenere quell’andatura. Imprecò sottovoce, batté i pugni, ma alla fine ordinò a tutti di smontare. Per un miglio andarono a piedi, portando per la briglia i cavalli, su e giù per i pendii; poi rimontarono in sella e continuarono a turni d’un miglio.

Rand notò con sorpresa che, quando toccava andare a piedi e risalire faticosamente un pendio, Loial sogghignava. Fin dal loro primo incontro l’Ogier non si era trovato a suo agio con cavalli e cavalcate, perché preferiva affidarsi ai propri piedi, ma Rand pensava che ormai si fosse abituato.

«Non ti piace correre, Rand?» rise Loial. «A me, sì. Ero il più veloce, a Stedding Shangtai. Una volta ho battuto un cavallo.»

Rand si limitò a scuotere la testa. Non voleva sprecare fiato in chiacchiere. Cercò Mat e Perrin, ma i due erano sempre alla retroguardia e c’erano troppi uomini fra lui e loro, per distinguerli. Si stupì che gli shienaresi riuscissero a sopportare quel modo di viaggiare, visto che avevano l’armatura. Nessuno di loro rallentò né si lamentò. Huno non pareva nemmeno sudato e il portabandiera non fece mai vacillare il Gufo Grigio.

Mantennero un’andatura veloce, ma il crepuscolo cominciò a scendere senza che avessero visto i ladri del Corno, tracce a parte. Alla fine, con riluttanza, Ingtar ordinò d’accamparsi per la notte nella foresta. Gli shienaresi accesero i fuochi e piantarono i picchetti per legare i cavalli, con l’economia di movimenti nata dalla lunga esperienza. Per il primo turno, Ingtar mise di guardia sei uomini, a coppie.

Come prima cosa, Rand cercò nelle ceste dei cavalli da soma il suo fagotto. Non fu difficile, perché c’erano pochi fagotti personali fra le provviste; ma quando aprì il suo, mandò un urlo che fece schizzare in piedi, spada in pugno, ogni uomo dell’accampamento.

Ingtar arrivò di corsa. «Cosa c’è? Qualcuno si è infiltrato nel campo? Non ho udito le sentinelle.»

«Queste giubbe» brontolò Rand, continuando a fissare il contenuto del fagotto. Una giubba era nera, ricamata a filo d’argento; l’altra, bianca, a ricami d’oro. Tutt’e due avevano aironi sul bavero ed erano altrettanto eleganti di quella che indossava. «I servitori m’hanno detto che qui dentro c’erano due buone giubbe funzionali. Guardale!»

Ingtar rinfoderò la spada. «Be’, sono funzionali.»

«Non posso metterle. Non posso andare in giro così vestito ogni momento.»

«Puoi portarle benissimo. Una giubba è sempre una giubba. A quanto ne so, Moiraine stessa ha provveduto a farti preparare il bagaglio. Forse le Aes Sedai non sanno bene cosa s’indossa sul campo.» Ingtar sogghignò. «Quando avremo preso quei Trolloc, faremo un banchetto. Tu, almeno, sarai vestito a festa.» Tornò dove i fuochi per cucinare già ardevano.

Rand si era bloccato nel sentir nominare Moiraine. Fissò le giubbe. Cosa combinava, quella lì? In tutti i casi, non si sarebbe lasciato usare. Rifece il pacco e rimise nella cesta il fagotto. Poteva sempre andare nudo, si disse acidamente.

Gli shienaresi cucinavano a turno; quando Rand tornò accanto ai fuochi, Masema rimestava il contenuto del pentolone e nell’aria c’era profumo di stufato di rape, cipolle e carne secca. Ingtar fu servito per primo; dopo di lui, Huno, e tutti gli altri in fila casuale. Masema lasciò cadere una grossa mestolata di stufato nel piatto di Rand, che arretrò per non farsi schizzare, succhiandosi il pollice scottato. Masema lo fissò, con un sorriso che non arrivava agli occhi. Huno venne avanti e gli diede una sberla.

«Non ne abbiamo abbastanza da gettarlo per terra, maledizione» lo rimproverò. Poi guardò Rand e si allontanò. Masema si toccò la parte colpita, ma con lo sguardo astioso seguì Rand.

Rand si unì a Ingtar e a Loial, seduti per terra sotto i rami d’una quercia. Ingtar si era tolto l’elmo ma non l’armatura. Mat e Perrin, seduti lì vicino, mangiavano come lupi. Mat rivolse un largo sorriso di scherno alla giubba di Rand, ma Perrin alzò appena la testa e gli occhi gialli brillarono alla mezza luce dei fuochi.

Almeno, pensò Rand, stavolta Mat e Perrin non si erano allontanati.

Si sedette a gambe incrociate dall’altra parte di Ingtar rispetto a loro. «Mi piacerebbe sapere perché Huno continua a fissarmi. Forse per questa maledetta giubba.»

Ingtar masticò lentamente il boccone. «Di sicuro Huno si chiede se meriti una spada col marchio dell’airone» disse infine. Mat sbuffò rumorosamente, ma Ingtar proseguì, impassibile. «Non lasciarti impressionare da Huno. Tratterebbe come una recluta anche lord Agelmar, se potesse. Be’, forse non proprio Agelmar, ma chiunque altro. Ha una lingua ruvida come una raspa, ma dà buoni consigli. Mi sembra logico: ha partecipato alle campagne da prima che nascessi. Ascolta i suoi consigli, non badare alla sua linguaccia e con lui andrai d’accordo.»

«Credevo che fosse come Masema» disse Rand, mettendosi in bocca una cucchiaiata di stufato: era troppo caldo, ma lo mandò giù lo stesso. Non mangiavano da quando avevano lasciato Fal Dara e lui aveva anche saltato la colazione, quella mattina. «Masema si comporta come se mi odiasse e non capisco perché.»

«Masema ha servito tre anni nelle Marche Orientali» disse Ingtar. «A Ankor Dail, contro gli Aiel.» Rigirò lo stufato, pensieroso. «Non faccio domande, bada bene. Se Lan Dai Shan e Moiraine Sedai dicono che provieni dall’Andor, dai Fiumi Gemelli, allora è così. Però Masema non riesce a togliersi di mente gli Aiel e quando vede te...» Si strinse nelle spalle. «Non faccio domande.»

Con un sospiro, Rand lasciò cadere nel piatto il cucchiaio. «Tutti pensano che io sia qualcuno che non sono. Vengo dai Fiumi Gemelli, Ingtar. Ho coltivato tabacco, con... con mio padre, e ho badato alle sue pecore. Ecco cosa sono. Un contadino e un pastore dei Fiumi Gemelli.»

«È dei Fiumi Gemelli» intervenne Mat, in tono sprezzante. «Sono cresciuto con lui, anche se ora nessuno lo direbbe. Mettigli in testa anche questa storia degli Aiel, oltre a tutto il resto, e la Luce sa cosa ne verrà fuori. Un principe Aiel, forse.»

«No» disse Loial. «Ne ha davvero l’aspetto. Ricordi, Rand, che una volta te lo dissi, anche se pensavo di sbagliarmi perché a quel tempo non conoscevo molto bene voi esseri umani. Ricordi? “Finché l’ombra è svanita, finché l’acqua è svanita, nell’Ombra con denti snudati, urlando sfida con l’ultimo respiro, per sputare nell’occhio dell’Accecatore, nell’Ultimo Giorno." Lo ricordi, Rand?»

Rand fissò il piatto. «Se ti metti intorno alla testa una shoufa, assomigli tutto a un Aiel.» L’aveva detto Gawyn, fratello di Elayne, l’Erede dell’Andor.

«Cos’è questa storia?» domandò Mat. «Sputare nell’occhio del Tenebroso.»

«Un modo di dire degli Aiel, per indicare fin quando combatteranno» spiegò Ingtar. «E non dubito che non sia vero. A parte venditori ambulanti e menestrelli, gli Aiel dividono il mondo in due: Aiel e nemici. Hanno cambiato questo modo di pensare, nei confronti del Cairhien, cinquecento anni fa, per qualche ragione che nessuno tranne gli Aiel può capire, ma non penso che lo rifaranno.»

«Immagino di no» sospirò Loial. «Ma consentono ai Tuatha’an, i Girovaghi, di attraversare il Deserto. E non considerano nemici noi Ogier, anche se non credo che ci venga voglia d’andare nel Deserto. Di tanto in tanto gli Aiel vengono a Stedding Shangtai per procurarsi ‘legno cantato’. Sono gente dura.»

«Vorrei avere gente dura come loro» commentò Ingtar. «La metà di loro.»

«Ci prendi in giro?» rise Mat. «Se corressi per un miglio, con tutto il ferro che hai addosso tu, cadrei lungo disteso e dormirei per una settimana. Per tutto il giorno hai fatto un miglio dopo l’altro.»

«Gli Aiel sono duri» disse Ingtar. «Uomini e donne. Ho combattuto contro di loro e lo so per esperienza. Fanno cinquanta miglia di corsa e al termine combattono. Sono micidiali, con qualsiasi arma e a mani nude. Tranne la spada. Per chissà quale ragione, non toccano spada. E non montano a cavallo... ma, tanto, non ne hanno bisogno. Se tu hai la spada e un Aiel è a mani nude, il combattimento è equo... se sei bravo con la spada. Pascolano bestiame e capre dove noi moriremmo di sete prima della fine del giorno. Scavano i loro villaggi in enormi guglie di pietra, in pieno Deserto. Vivono lì fin dalla Frattura o quasi. Artur Hawkwing cercò di scacciarli, ma fu sconfitto: l’unica disfatta da lui subita. Di giorno l’aria del Deserto tremola di calore, di notte si gela. E un Aiel ti guarderebbe con quei suoi occhi azzurri e ti direbbe di non voler stare in nessun altro luogo della terra. E non è una bugia. Se mai cercassero di lasciare il Deserto, avremmo un bel da fare, a fermarli. La Guerra Aiel durò tre anni, ma impegnava solo quattro clan su tredici.»

«Gli occhi grigi presi dalla madre non lo rendono un Aiel» disse Mat.

Ingtar si strinse nelle spalle. «L’ho già detto, non faccio domande.»

Quando infine Rand si distese per la notte, aveva la testa piena di pensieri indesiderati. Il ritratto di un Aiel. Moiraine Sedai dice che provieni dai Fiumi Gemelli. Gli Aiel devastarono tutto fino a Tar Valon. Nato sulle pendici di Montedrago. Il Drago Rinato.

«Non mi lascerò usare» borbottò. Ma il sonno fu lungo a venire.

Ingtar tolse il campo di buonora, prima che il sole si levasse. Stavolta mandò in avanscoperta degli esploratori e tenne andatura sostenuta, ma non più al punto da uccidere i cavalli. Forse aveva capito che non avrebbero concluso la caccia in un giorno solo. La pista puntava sempre a meridione, disse Hurin. E poi, due ore dopo il levar del sole, un esploratore tornò al galoppo.

«Campo abbandonato davanti a noi, milord» disse. «Su quell’altura laggiù. Ieri notte saranno stati in trenta, quaranta.»

Ingtar spronò il cavallo come se gli avessero detto che gli Amici delle Tenebre erano ancora lì; Rand fu costretto a mantenersi al passo con lui, per non farsi travolgere dagli altri.

Non c’era molto da vedere. Ceneri fredde di fuochi da campo ben nascosti fra gli alberi e quelli che parevano resti del pasto: un mucchio di rifiuti troppo vicino ai fuochi e già ronzante di mosche.

Ingtar tenne indietro gli altri e smontò per esaminare con Huno il terreno. Hurin fece il giro del campo, annusando. Rand rimase in sella, con gli altri: non aveva nessuna voglia di vedere da vicino il luogo dove si erano accampati Trolloc e Amici delle Tenebre. E un Fade. E qualcosa di peggio.

Mat risalì a piedi l’altura. «Sarebbe questo, un campo di Amici delle Tenebre? Puzza un poco, ma non è molto diverso dagli altri.» Diede un calcio a un mucchietto di cenere, facendo saltare via un pezzo d’osso bruciato. Lo raccolse. «Cosa mangiano, gli Amici delle Tenebre? Non sembra osso di pecora, né di vacca.»

«Qui c’è stato un assassinio» disse Hurin, in tono lamentoso. Con un fazzoletto si strofinò il naso. «Peggio d’un assassinio.»

«Qui c’erano dei Trolloc» disse Ingtar, guardando dritto Mat. Avranno avuto fame. E gli Amici delle Tenebre erano a portata. «Mat lasciò cadere l’osso annerito e sbiancò come se dovesse vomitare.»

«Non vanno più a meridione, milord» disse Hurin, destando l’interesse di tutti. Indicò a metà fra settentrione e levante. «Forse alla fine hanno deciso di puntare verso la Macchia. Girano intorno a noi, Forse volevano solo metterci fuori strada.» Non parve convinto.

«Qualsiasi cosa volessero» ringhiò Ingtar «ora li abbiamo. In sella!»

Nemmeno un’ora dopo, però, Hurin si fermò. «Hanno cambiato di nuovo, milord. Tornano a meridione. E qui hanno ucciso qualcun altro.»

Non c’erano resti di fuochi, nell’avvallamento fra due alture, ma bastarono pochi minuti per trovare il cadavere. Un uomo rannicchiato, spinto sotto dei cespugli, con la nuca fracassata e gli occhi ancora sporgenti per la forza del colpo. Nessuno lo riconobbe, anche se indossava abiti shienaresi.

«Non sprechiamo tempo a seppellire Amici delle Tenebre» ringhiò Ingtar. «Andiamo a meridione.»

Per il resto, la giornata fu uguale alla precedente. Huno esaminò tracce ed escrementi e disse che avevano ridotto un poco le distanze dalla preda. Ma al crepuscolo non avevano ancora visto né Trolloc né Amici delle Tenebre. Al mattino trovarono un altro campo abbandonato, dove, disse Hurin, c’era stato un altro assassinio e scoprirono che la preda ora si dirigeva fra settentrione e ponente. Dopo meno di due ore s’imbatterono in un altro cadavere, un uomo col cranio spaccato da un’ascia. La direzione cambiò ancora: di nuovo a meridione. Ma, secondo Huno, avevano guadagnato terreno. Proseguirono fino a notte, sempre senza vedere altro che fattorie lontane. Il giorno seguente fu identico: cambiamenti di direzione, assassinii e tutto il resto. Fu così anche il giorno dopo ancora.

Ogni giorno arrivavano più vicino alla preda, ma Ingtar fumava di rabbia. Quando al mattino la pista cambiò direzione, per guadagnare tempo propose di tagliare la strada agli inseguiti, sicuro che sarebbero tornati verso meridione; ma prima che qualcuno sollevasse obiezioni, ammise che non era una buona idea. Incitò tutti a muoversi più rapidamente e ricordò che l’Amyrlin Seat li aveva incaricati di ricuperare il Corno di Valere, a tutti i costi. Disse che avrebbero ottenuto gloria e fama, che sarebbero stati citati nelle storie dei menestrelli e nelle canzoni dei bardi. Parlò come se non potesse fermarsi e fissò la pista come se al termine si trovasse la sua stessa speranza della Luce, Perfino Huno cominciò a guardarlo di sottecchi.

E così giunsero al fiume Erinin.

Rand non l’avrebbe definito un villaggio: sei casette dal tetto a scandole spioventi fin quasi a terra, poste in cima a un’altura che guardava sul fiume.

Da qualche ora avevano abbandonato il campo e, secondo lo schema consueto, avrebbero già dovuto trovare quello degli Amici delle Tenebre. Invece non avevano trovato niente.

Il fiume stesso, così vicino alle sue sorgenti nella Dorsale del Mondo, non pareva affatto il grande Erinin delle storie: forse sessanta passi d’acqua turbinosa, da una riva all’altra, costeggiate di alberi, e un traghetto simile a una chiatta, legato alla grossa fune che scavalcava il fiume. Il traghetto era accostato alla riva più lontana.

Una volta tanto la pista portava ad abitazioni umane: andava dritta verso le case sull’altura. Nessuno si muoveva, nell’unica strada di terra battuta attorno alla quale erano raccolte le casette.

«Un’imboscata, milord?» disse piano Huno.

Ingtar diede ordini e gli shienaresi impugnarono la lancia e si aprirono a ventaglio per circondare le case. Al segnale di Ingtar, galopparono fra le case, da quattro direzioni, frugando con gli occhi da tutte le parti e sollevando polvere. Niente si mosse. Gli uomini si fermarono e la polvere si depose.

Rand mise nella faretra la freccia già incoccata e si rimise a tracolla l’arco. Mat e Perrin lo imitarono. Loial e Hurin, fermi dove Ingtar aveva detto loro d’aspettare, guardavano a disagio.

Ingtar agitò il braccio; Rand e gli altri si unirono agli shienaresi.

«Non mi piace l’odore di questo posto» mormorò Perrin, quando furono tra le case. Hurin gli diede un’occhiata e Perrin lo fissò finché l’altro non abbassò gli occhi. «È un odore sbagliato.»

«I maledetti Trolloc e gli Amici delle Tenebre hanno tirato dritto, milord» disse Huno, indicando le poche orme rimaste intatte. «Dritto fino al traghetto, che hanno lasciato dall’altra parte. Maledizione! Ma per fortuna non hanno tagliato la fune.»

«Dov’è la gente?» domandò Loial.

Le porte erano aperte, le tendine sventolavano dalle finestre spalancate, ma nessuno era uscito al frastuono di zoccoli.

«Frugate le case» ordinò Ingtar. Alcuni uomini smontarono e ubbidirono in fretta, ma tornarono scuotendo la testa.

«Se ne sono andati, milord» disse Huno. «Svaniti, maledizione. Come se avessero deciso di andarsene via nel bel mezzo del giorno.» All’improvviso s’interruppe e indicò una casa alle spalle di Ingtar. «C’è una donna, a quella finestra. Come ho fatto a non...» Già correva verso la casa, prima che qualcuno si fosse mosso.

«Non spaventarla!» gridò Ingtar. «Huno, ci servono informazioni. La Luce ti fulmini, non spaventarla!» Huno sparì all’interno. Ingtar alzò di nuovo la voce. «Non ti faremo niente, signora. Siamo sudditi di lord Agelmar, di Fal Dara. Non temere! Non ti faremo niente.»

Una finestra del piano superiore si spalancò e Huno sporse la testa, guardandosi intorno come un pazzo. Con un’imprecazione si ritirò. Tonfi e acciottolii segnarono il suo passaggio, come se per la rabbia prendesse a calci tutto quel che trovava. Alla fine comparve sulla soglia.

«Sparita, milord» disse. «Ma era lì. Una donna vestita di bianco, alla finestra. L’ho vista. E ho anche avuto l’impressione di scorgerla per un attimo, dentro casa. Ma poi è sparita e...» Inspirò a fondo. «La casa è vuota, milord.» Era sconvolto al punto da dimenticarsi d’imprecare.

«Tendine» borbottò Mat, «Diventa nervoso per delle maledette tendine.»

Huno gli lanciò un’occhiataccia e tornò al cavallo.

«Dove saranno andati?» domandò Rand a Loial. «Saranno fuggiti all’arrivo degli Amici delle Tenebre?»

«Credo invece che li abbiano catturati» rispose lentamente Loial. Fece una smorfia che era quasi un ringhio. «Per darli ai Trolloc.»

Rand deglutì e rimpianse d’avere fatto la domanda: non era piacevole pensare al cibo dei Trolloc.

«Qualsiasi cosa sia accaduta qui» disse Ingtar «è opera degli Amici delle Tenebre. Hurin, c’è stata violenza? Uccisioni? Hurin!»

L’annusatore, intento a fissare dalla parte del fiume, sobbalzò e si guardò intorno. «Violenza, milord? Sì. Ma nessuna uccisione. O meglio, non proprio.» Guardò di sguincio Perrin. «Non ho mai fiutato niente del genere, milord. Ma è stato fatto del male.»

«Sei sicuro che abbiano attraversato il fiume? Non sono tornati da questa parte?»

«L’hanno attraversato, milord.» Hurin fissò a disagio la riva opposta. «L’hanno attraversato. Quel che hanno fatto dall’altra parte, però...» Si strinse nelle spalle.

Ingtar annuì. «Huno, voglio il traghetto su questa riva. E voglio che l’altra sia perlustrata, prima d’attraversare. Qui non c’erano imboscate, ma non significa che non ci attacchino mentre siamo divisi dal fiume. Il traghetto non basta a trasportare tutti in un viaggio solo. Provvedi!»

Huno s’inchinò; nel giro di qualche istante Ragan e Masema si erano già tolti l’armatura e i vestiti. Armati solo di una corta spada fissata sulla schiena, andarono al fiume e iniziarono ad attraversarlo reggendosi alla spessa fune del traghetto. Al centro, dove la fune s’incurvava, i due erano nell’acqua fino alla cintola e dovevano contrastare la forte corrente che li tirava a valle; eppure impiegarono meno tempo di quanto Rand s’aspettasse, per arrivare al traghetto e arrampicarsi sulla fiancata d’assicelle. Poi impugnarono la spada e scomparvero fra gli alberi.

Dopo quella che parve un’eternità, ricomparvero e cominciarono a muovere lentamente il traghetto. La chiatta toccò terra alla base del villaggio e Masema la legò, mentre Ragan correva da Ingtar. Era pallido come un cencio e pareva sconvolto.

«L’altra riva... Milord, non ci sono imboscate, sull’altra riva, ma...» Rabbrividì. «Milord, devi vedere di persona. La grande quercia bianca, cinquanta passi a meridione dell’approdo. Non so come dirlo. Devi vedere da te.»

Ingtar corrugò la fronte e girò lo sguardo da Ragan alla riva opposta. «Hai fatto un buon lavoro, Ragan» disse infine. «E anche Masema.» In tono più vivace soggiunse: «Huno, cerca nelle case qualche asciugamano e guarda se hanno lasciato sul fuoco acqua per il tè. Fagli bere qualcosa di caldo, se riesci. Poi trasporta dall’altra parte la seconda squadra e i cavalli da soma.» Si girò verso Rand. «Allora, sei pronto a vedere la riva meridionale dell’Erinin?» Non attese risposta, ma si diresse al traghetto, con Hurin e metà dei lancieri.

Rand esitò solo un momento, prima di seguirli. Loial andò con lui. A sorpresa, Perrin cavalcò giù davanti a loro, con aria tetra. Alcuni lancieri, con battute scherzose, smontarono di sella e tirarono la fune per far muovere il traghetto.

Mat attese fino all’ultimo per dare di tallone e saltare a bordo. «Devo venire, prima o poi, no?» disse, senza fiato, a nessuno in particolare. «Devo trovarlo.»

Rand scosse la testa. Mat pareva in salute come non mai e lui aveva quasi dimenticato che l’amico era con loro per ritrovare il pugnale. Ingtar si pigliasse pure il Corno, pensò Rand, ma lui voleva il pugnale per Mat. «Lo troveremo, Mat» disse.

Mat lo guardò di storto, con un’occhiata beffarda all’elegante giubba rossa, e si girò dall’altra parte. Rand sospirò.

«Andrà tutto a posto, Rand» lo consolò Loial, sottovoce. «In qualche modo tutto si sistemerà.»

La corrente afferrò il traghetto e lo spinse contro la fune, con un rumoroso scricchiolio. I lancieri erano traghettatori insoliti, in elmo e corazza, con la spada sulla schiena, ma portarono abbastanza bene il traghetto in mezzo al fiume.

«Così abbiamo lasciato la nostra casa» disse a un tratto Perrin. «A Taren Ferry. I tonfi degli stivali dei traghettatori sulle tavole del ponte e il gorgoglio d’acqua tutt’intorno. Stavolta sarà peggio.»

«Come può essere peggio?» domandò Rand. Perrin non rispose: frugò la riva opposta e gli occhi giallastri parvero risplendergli, ma non d’impazienza.

Dopo un minuto, Mat domandò: «Come può essere peggio?»

«Sarà peggio. Lo fiuto.» Perrin non volle aggiungere altro. Hurin lo guardò nervosamente; ma a dire il vero, pareva che Hurin guardasse tutti nervosamente fin dalla partenza da Fal Dara.

Il traghetto urtò contro la riva meridionale, con un tonfo sordo di tavolame contro argilla, quasi sotto gli alberi sporgenti; gli shienaresi che avevano tirato la fune rimontarono a cavallo, tranne i due che dovevano riportare indietro il traghetto. Gli altri seguirono Ingtar su per la riva.

«Cinquanta passi fino a una grossa quercia bianca» disse Ingtar, mentre si addentravano fra gli alberi. Lo disse con troppa noncuranza. Se Ragan non se l’era sentita di parlarne... Alcuni soldati sganciarono il fermo della spada e tennero pronta la lancia.

Sulle prime Rand pensò che le figure appese per le braccia ai rami della quercia fossero spaventapasseri. Spaventapasseri scarlatti. Poi riconobbe le facce. Changu e l’altro uomo di guardia, Nidao. Occhi fissi, denti snudati in una smorfia di dolore. Avevano resistito a lungo, dall’inizio della tortura.

Perrin emise un suono strozzato, quasi un ringhio.

«Non ho mai visto niente di peggio, milord» disse debolmente Hurin. «Né fiutato niente di peggio, a parte le prigioni sotterranee di Fal Dara, quella notte.»

Rand cercò freneticamente la calma del vuoto. Che cos’era accaduto ai due sventurati?

Alle sue spalle una voce disse: «Scorticati vivi.» Qualcuno vomitò. Rand ritenne che fosse Mat.

«Toglieteli di lì» ordinò Ingtar, con voce rauca, Esitò un istante, poi soggiunse: «E seppelliteli. Non siamo sicuri che fossero Amici delle Tenebre. Forse erano loro prigionieri. Che abbiano almeno l’ultimo abbraccio della madre.» Alcuni uomini, muniti di coltello, avanzarono cautamente: anche per dei soldati induriti dalle battaglie non era un compito facile staccare dall’albero i cadaveri scorticati di uomini che conoscevano.

«Rand, stai bene?» disse Ingtar. «Neppure io sono abituato a questi spettacoli.»

«Sto... sto bene, Ingtar» rispose Rand, lasciando svanire il vuoto. Aveva ancora lo stomaco sconvolto, ma si sentiva meglio. Ingtar annuì e fece girare il cavallo in modo da guardare il lavoro dei suoi uomini.

Il funerale fu semplice. Due fosse e i cadaveri calati nel terreno, mentre gli altri guardavano in silenzio. Quelli che avevano scavato le fosse cominciarono subito a spalarvi terriccio.

Rand rimase stupito, ma Loial gli spiegò sottovoce: «Gli shienaresi credono che tutti proveniamo dalla terra e dobbiamo tornare alla terra. Non usano bare né sudari e non vestono i cadaveri. La terra racchiude in sé il corpo. L’ultimo abbraccio della madre, lo chiamano, E non ci sono mai parole, tranne: ‘La Luce splenda su di te e il Creatore ti protegga. L’ultimo abbraccio della madre ti accolga a casa’.» Sospirò e scosse la testa. «Non credo che qualcuno le dirà, stavolta. Nonostante le parole di Ingtar, non ci sono dubbi che Changu e Nidao abbiano ucciso le guardie alla Porta del Cane e fatto entrare nella rocca gli Amici delle Tenebre. Sono loro i responsabili di tutto.»

«Allora chi ha scagliato la freccia contro... contro l’Amyrlin?» Si corresse appena in tempo: quasi certamente il vero bersaglio era lui: Loial non rispose.

Huno arrivò con il resto degli uomini e dei cavalli da soma, mentre le ultime palate di terra ricoprivano le due fosse. Qualcuno gli disse che cosa avevano trovato e Huno sputò. «A volte, lungo la Macchia, quei baciacapre di Trolloc fanno cose del genere. Per innervosire o per avvertire di non seguirli. Ma funziona anche qui, maledizione.»

Prima di riprendere il cammino, Ingtar si soffermò accanto alle tombe, due mucchi di terra spoglia che parevano troppo piccoli per contenere un uomo. Dopo un momento disse: «La Luce splenda su di voi e il Creatore vi protegga. L’ultimo abbraccio della madre vi accolga a casa.» Quando rialzò la testa, guardò gli uomini a uno a uno. «Hanno salvato lord Agelmar al passo di Tarwin» disse. Parecchi lancieri annuirono. Ingtar girò il cavallo. «Da quale parte, Hurin?»

«A meridione, milord.»

«Segui la pista! Siamo in caccia!»

Poco dopo, la foresta lasciò posto a una pianura poco ondulata, a volte tagliata da torrenti stretti e profondi, senza mai un’altura o una collina degna di questo nome. Terreno ideale per i cavalli: Ingtar ne approfittò per tenere un’andatura costante e veloce. Di tanto in tanto Rand vide in lontananza una fattoria e una volta un villaggio, con il fumo che si alzava dai comignoli a poche miglia di distanza e qualcosa che lampeggiava bianco al sole; ma il territorio era sempre privo di vita umana: lunghe distese d’erba punteggiate d’arbusti e di qualche albero e di tanto in tanto un boschetto, mai più ampio d’un centinaio di passi.

Ingtar mandò avanti due esploratori, visibili solo quando erano in cima a un’occasionale altura, Aveva al collo un fischietto d’argento, per richiamarli se Hurin diceva che la pista deviava. Ma non ce n’era bisogno. Meridione, sempre meridione.

«A quest’andatura, in tre o quattro giorni arriveremo al campo di Talidar» disse a un certo punto Ingtar. «Il luogo della maggiore vittoria di Artur Hawkwing, quando dalla Macchia i Mezzi Uomini condussero contro di lui i Trolloc. Lo scontro durò sei giorni e sei notti; al termine, i Trolloc fuggirono di nuovo nella Macchia e non osarono più sfidarlo. Artur Hawkwing eresse lì un monumento alla vittoria, una cupola alta cento braccia. Non vi lasciò mettere il suo nome, ma quello di ogni caduto, e un sole d’oro in cima, simbolo del trionfo della Luce sull’Ombra.»

«Mi piacerebbe vederlo» disse Loial. «Non ho mai sentito parlare di questo monumento.»

Ingtar restò in silenzio per un attimo, poi rispose a voce bassa. «Non c’è più, Costruttore. Alla morte di Artur Hawkwing, quelli che si disputarono il suo impero non sopportavano che ci fosse un monumento per commemorare una sua vittoria, anche se non vi era scritto il suo nome. Non rimane niente, tranne la montagnola su cui sorgeva. Fra tre o quattro giorni vedremo questa, almeno.» Il tono lasciava capire che non desiderava continuare la conversazione.

Con il sole alto oltrepassarono un edificio quadrato di mattoni intonacati, a meno d’un miglio dal loro percorso. Non era alto, al massimo due piani nei punti dove non era crollato, ma si estendeva su di un bel tratto di terreno. Aveva in sé un’aria di lungo abbandono, privo di tetto tranne in qualche punto dove tegole scure rimanevano attaccate a pezzi di trave; gran parte dell’intonaco, un tempo bianco, era caduto mettendo a nudo i mattoni scuri per le intemperie; macerie di muri lasciavano scorgere corti e stanze interne in rovina. Cespugli e perfino alberelli crescevano nelle crepe degli antichi cortili.

«Una casa padronale» spiegò Ingtar. Quel po’ di buonumore che gli era tornato parve svanire alla vista della costruzione. «Quando c’era ancora Harad Dakar, il padrone di quella casa coltivava il terreno per una lega tutt’intorno. Frutteti, forse. Gli hardanesi amavano i frutteti.»

«Harad Dakar?» disse Rand. Ingtar sbuffò.

«Non si studia più la storia? Harad Dakar, capitale dell’Hardan, la nazione che attraversiamo adesso.»

«Ho visto un’antica mappa» disse Rand, con voce tesa. «Conosco le nazioni che non esistono più. Il Maredo e il Goboan e il Caralain. Ma sulla mappa non c’era nessun Hardan.»

«Un tempo c’erano altre nazioni che ora non esistono» disse Loial. «Mar Haddon, che ora si chiama Haddon Mirk, e Almoth. Kintara. La Guerra dei Cento Anni spezzettò in molte nazioni, grandi e piccole, l’impero di Artur Hawkwing. Le piccole furono assorbite dalle grandi, oppure si unirono, come l’Altara e il Murandy. Costrette a unirsi sarebbe però l’espressione migliore, ritengo.»

«E che fine hanno fatto?» domandò Mat. Rand non si era accorto che Mat e Perrin si erano avvicinati: l’ultima volta si tenevano alla retroguardia, il più lontano possibile da lui.

«Non riuscirono a restare unite» rispose l’Ogier. «I raccolti vennero a mancare, o mancò il commercio. Qualcosa andò storto in ogni caso e le nazioni s’indebolirono. Spesso i loro territori furono assorbiti dalle nazioni vicine, ma le annessioni non durarono. Col tempo, queste terre furono abbandonate davvero. Qua e là rimangono alcuni villaggi, ma il resto è tutta terra selvaggia. Sono passati tremila anni, da quando Harad Dakar fu abbandonata definitivamente. I paesi e le città dell’Hardan sono scomparsi: contadini e paesani hanno portato via perfino le pietre. Ed è scomparsa anche gran parte delle fattorie e dei villaggi costruiti con quelle pietre. Così ho letto; e non ho visto niente che lo neghi.»

«Harad Dakar per un centinaio d’anni fu proprio una cava» disse Ingtar, amaro. «La gente se ne andò, alla fine, e la città fu portata via, pietra dopo pietra. Tutto svanito. Quasi non c’è nazione che controlli realmente le terre reclamate sulle mappe, come non c’è nazione che comprenda oggi le terre che reclamava un centinaio d’anni fa. Alla fine della Guerra dei Cento Anni, un uomo cavalcava passando da una nazione all’altra, a partire dalla Macchia fino al Mare delle Tempeste. Ora si attraversano terre selvagge che nessuna nazione reclama. Noi delle Marche di Confine abbiamo la nostra guerra con la Macchia ed essa ci mantiene forti e uniti. Forse loro non ebbero quel che occorreva a mantenerli forti. Dici che hanno fallito, Costruttore? Sì, hanno fallito; e quale nazione, oggi integra, fallirà domani? Siamo spazzati via, noi della razza umana. Spazzati via come relitti di un’inondazione. Quanto ci vorrà, prima che rimangano solo le Marche di Confine? Prima che scompaiano anch’esse e rimangano solo Trolloc e Myrddraal, giù fino al Mare delle Tempeste?»

Le domande rimasero senza risposta. Neppure Mat ruppe il silenzio. Ingtar continuò a cavalcare, immerso nei propri pensieri.

Dopo un certo tempo, gli esploratori tornarono al galoppo, dritti in sella, lancia al cielo. «Un villaggio più avanti, milord. Nessuno ci ha visti. Ma il villaggio si trova proprio sulla nostra linea di marcia.»

Ingtar si scosse, ma rimase in silenzio finché non giunsero in cima a una bassa cresta che dominava l’abitato; e anche allora aprì bocca solo per ordinare l’alt. Dalla bisaccia pescò un cannocchiale e se ne servì per esaminare il villaggio.

Anche Rand lo studiò con interesse. Era grande quanto Emond’s Field, ma meno di altri insediamenti da lui visti da quando aveva lasciato i Fiumi Gemelli, per non parlare delle città. Le case erano tutte basse e intonacate d’argilla bianca; pareva che sui tetti inclinati crescesse erba. Una decina di mulini a vento, sparsi per il villaggio, facevano girare pigramente le pale coperte di tela, che mandavano lampi bianchi nella luce del sole. Un basso terrapieno erboso, alto a petto d’uomo, circondava il villaggio; all’esterno c’era un ampio fossato col fondo pieno di bastoni appuntiti. Non c’erano porte, nell’unica apertura visibile, che comunque poteva essere bloccata con facilità utilizzando un carro o un carretto. Non si vedeva nessuno.

«Neppure un cane in vista» disse Ingtar, rimettendo nella bisaccia il cannocchiale. «Siete sicuri che non vi abbiano visto?» domandò poi agli esploratori.

«Sì, a meno che non abbiano la fortuna del Tenebroso, milord» rispose uno di loro. «Non siamo arrivati in cima alla cresta, Ma anche noi non abbiamo visto nessuno.»

Ingtar annuì. «La pista, Hurin?»

Hurin trasse un profondo sospiro. «Dritto sul villaggio, milord. Per quanto posso giudicare da qui.»

«Massima attenzione» ordinò Ingtar, fermando il cavallo. «E non crediate che siano amichevoli solo perché sorridono. Ammesso che ci sia qualcuno.» Procedette al passo verso il villaggio e sganciò il fermo della spada.

Dietro di sé, Rand udì altri imitare Ingtar. Dopo un momento anche lui sganciò il fermo. Meglio cercare di rimanere vivo che diventare un eroe, si disse.

«Credi che quella gente aiuterebbe degli Amici delle Tenebre?» domandò Perrin a Ingtar. Lo shienarese non replicò subito.

«Non amano molto gli shienaresi» disse infine. «Pensano che dovremmo proteggerli. Noi o i cairhienesi. Alla morte dell’ultimo re dell’Hardan, il Cairhien ha reclamato queste terre fino al fiume Erinin. Però non ha potuto mantenerne il possesso e un centinaio d’anni fa ha rinunciato alla pretesa. Chi abita ancora qui, non ha molto da temere dai Trolloc, così a meridione; ma i briganti umani non mancano. Per questo ci sono terrapieno e fossato. In tutti i villaggi. I campi saranno nascosti nelle depressioni qui intorno, ma nessuno vive fuori del villaggio. La gente giurerebbe fedeltà al primo sovrano che garantisca protezione, ma noi abbiamo il nostro bel daffare con i Trolloc. Per questo siamo malvisti.» Arrivati all’apertura nel terrapieno, raccomandò di nuovo la massima attenzione.

Tutte le vie portavano alla piazza del villaggio, ma erano deserte e nessuno scrutava dalle finestre. Non c’era nemmeno un cane, nemmeno una gallina. Usci aperti sbattevano al vento, con un cigolio che faceva da contrappunto a quello, ritmico, dei mulini. Gli zoccoli dei cavalli risuonavano forte, sulle vie di terra battuta.

«Come al traghetto» borbottò Hurin «ma diverso.» Cavalcava ingobbito sulla sella, a testa bassa, come se cercasse di non farsi vedere. «Violenza, ma... non so. Qui è accaduto qualcosa di molto brutto. L’odore è brutto.»

«Huno, prendi dieci uomini e fruga le case» ordinò Ingtar. «Se trovi qualcuno, portalo da me, nella piazza. Ma non spaventarlo, stavolta. Voglio risposte, non gente che scappa per salvare la pelle.» Si diresse con gli altri al centro del villaggio.

Rand esitò e si guardò intorno. Lo scricchiolio di porte, il cigolio di mulini, il tonfo di zoccoli parevano assordanti come se non ci fosse altro rumore al mondo. Passò in rassegna le case. Le tendine di una finestra spalancata sbattevano contro la parete esterna. Tutto pareva privo di vita. Con un sospiro Rand smontò e andò alla casa più vicina, poi si fermò e fissò la porta.

Era solo una porta. Di che cosa aveva paura? Avrebbe preferito non avere la sensazione che qualcuno lo aspettasse dietro l’uscio. Spinse il battente. L’interno era una stanza ordinata. Meglio, lo era stato. Tavola apparecchiata per il pasto, sedie con lo schienale a listelli raccolte intorno al desco, alcuni piatti già pieni. Qualche mosca ronzava sopra ciotole di rape e di piselli; un numero maggiore passeggiava su di un pezzo d’arrosto ormai freddo nel sugo rappreso. Una fetta era tagliata per metà, la forchetta era ancora infilata nella carne e il coltello era accanto al piatto, come se l’avessero lasciato cadere. Rand entrò.

Paff!

Un uomo sorridente, pelato, con abiti grossolani, posò una fetta di carne sul piatto tenuto da una donna dall’aria esausta. Anche lei sorrideva, però. La donna aggiunse nel piatto piselli e rape e lo passò a uno dei bambini intorno al tavolo. Ce n’erano sei, maschi e femmine, di varia età, da quasi adulti a tanto piccoli da arrivare appena al tavolo. La donna disse qualcosa e la bambina a cui porgeva il piatto rise. L’uomo cominciò a tagliare un’altra fetta.

Un’altra bambina strillò e indicò la porta che dava sulla via. L’uomo lasciò cadere il coltello e si girò di scatto, poi urlò anche lui, col viso teso per l’orrore, e afferrò un bambino. La donna ne prese in braccio un altro e gesticolò disperatamente verso i restanti, muovendo le labbra, senza suono. Scapparono tutti verso la porta in fondo alla stanza.

L’uscio si spalancò e...

Paff!

Rand non poteva muoversi. Il ronzio delle mosche sul tavolo divenne più rumoroso. Il respiro gli formò una nuvoletta davanti alla bocca.

Paff!

Un uomo sorridente, pelato, con abiti grossolani, posò una fetta di carne sul piatto tenuto da una donna dall’aria esausta. Anche lei sorrideva, però. La donna aggiunse nel piatto piselli e rape e lo passò a uno dei bambini intorno al tavolo. Ce n’erano sei, maschi e femmine, di varia età, da quasi adulti a tanto piccoli da arrivare appena al tavolo. La donna disse qualcosa e la bambina a cui porgeva il piatto rise. L’uomo cominciò a tagliare un’altra fetta.

Un’altra bambina strillò e indicò la porta che dava sulla via. L’uomo lasciò cadere il coltello e si girò di scatto, poi urlò anche lui, col viso teso per l’orrore, e afferrò un bambino. La donna ne prese in braccio un altro e gesticolò disperatamente verso i restanti, muovendo le labbra, senza suono. Scapparono tutti verso la porta in fondo alla stanza.

L’uscio si spalancò e...

Paff!

Rand cercò si muoversi, ma gli pareva d’avere muscoli di ghiaccio. La stanza era più fredda; Rand voleva rabbrividire, ma non riusciva a muoversi nemmeno di quel tanto. Le mosche camminavano su tutto il tavolo. Rand cercò a tentoni il vuoto. In esso c’era la luce inacidita, ma lui non vi badò. Doveva...

Paff!

Un uomo sorridente, pelato, con abiti grossolani, posò una fetta di carne sul piatto tenuto da una donna dall’aria esausta. Anche lei sorrideva, però. La donna aggiunse nel piatto piselli e rape e lo passò a uno dei bambini intorno al tavolo. Ce n’erano sei, maschi e femmine, di varia età, da quasi adulti a tanto piccoli da arrivare appena al tavolo. La donna disse qualcosa e la bambina a cui porgeva il piatto rise. L’uomo cominciò a tagliare un’altra fetta.

Un’altra bambina strillò e indicò la porta che dava sulla via. L’uomo lasciò cadere il coltello e si girò di scatto, poi urlò anche lui, col viso teso per l’orrore, e afferrò un bambino. La donna ne prese in braccio un altro e gesticolò disperatamente verso i restanti, muovendo le labbra, senza suono. Scapparono tutti verso la porta in fondo alla stanza.

L’uscio si spalancò e...

Paff!

La stanza era di ghiaccio. Mosche annerivano il tavolo, formavano una coltre mutevole su pareti, pavimento, soffitto. Strisciavano su Rand, lo coprivano, gli camminavano sul viso, sugli occhi, gli entravano nel naso, nella bocca. Rand aveva freddo. Le mosche ronzavano con fragore di tuono. Freddo. Il freddo, beffardo, penetrò nel vuoto e avvolse Rand come guaina di ghiaccio. Disperato, Rand allungò la mano verso la luce guizzante. Lo stomaco gli si contrasse, ma la luce era calda. Calda. Bruciante. Anche lui bruciava.

All’improvviso strappava... qualcosa. Non sapeva cosa, né come. Ragnatele d’acciaio. Raggi di luna scolpiti nella pietra. Al suo tocco (ma Rand sapeva di non avere toccato niente) si sbriciolarono, si raggrinzirono, si fusero per il calore che fluiva in lui, calore simile a fuoco di forgia, calore simile al mondo ardente, calore simile...

Svanito. Ansimando, Rand si guardò intorno, a occhi sbarrati. C’erano davvero mosche, sull’arrosto affettato in parte, nel vassoio. Mosche morte. Sei. Solo sei. E altre nelle ciotole, sei macchie nere sulle verdure fredde. Tutte morte. Barcollando, Rand uscì nella via.

In quel momento Mat usciva dalla casa dirimpetto e scuoteva la testa. «Non c’è nessuno» disse a Perrin, ancora in sella. «Parrebbe che si siano alzati nel bel mezzo della cena e se ne siano andati.»

Dalla piazza provenne un grido.

«Hanno trovato qualcosa» disse Perrin, spronando il cavallo. Mat balzò in sella e lo seguì di corsa.

Con più calma, Rand montò in sella a Red, che scartò come se intuisse il disagio del padrone. Mentre procedeva verso la piazza, lanciò occhiate alle case, ma non riuscì a fissarle a lungo. Anche Mat era entrato in una casa, ma non gli era accaduto niente. Rand decise di non mettere piede a nessun costo in un’altra casa di quel villaggio. Spronò Red.

Tutti erano fermi come statue davanti a un grosso edificio con la porta a due battenti. Rand non credette che fosse una locanda, perché non c’era insegna. Forse era il luogo di raduno dei paesani. Si unì al cerchio di spettatori silenziosi e guardò con gli altri.

Ai battenti era appeso un uomo a braccia e gambe allargate, con grossi chiodi conficcati nei polsi e nelle spalle. Altri due chiodi, piantati negli occhi, gli tenevano alta la testa. Sangue scuro e secco formava ventagli lungo le guance. I segni sul legno, lasciati dagli stivali, indicavano che l’uomo era vivo, quando era stato inchiodato al battente.

A Rand mancò il respiro. Non era un uomo. Quei vestiti neri, più neri del nero, non erano mai stati indossati da alcun essere umano. Il vento sbatté un lembo del mantello bloccato dalla schiena del cadavere... cosa che non sempre accadeva, e Rand lo sapeva bene; non sempre il vento toccava quegli abiti... ma non c’erano mai stati occhi, in quel viso livido, esangue.

«Myrddraal» alitò Rand, Fu come se la parola liberasse gli altri, che ripresero a muoversi e a respirare.

«Chi?» cominciò Mat, e fu costretto a fermarsi per deglutire. «Chi può fare una cosa simile a un Fade?»

«Non so» disse Ingtar. «Non so proprio.» Si guardò intorno ed esaminò gli altri; o forse li contò per accertarsi che ci fossero tutti. «E non credo che qui verremo a sapere qualcosa. Proseguiamo. In sella! Hurin, trova la pista, fuori di questo posto.»

«Sì, milord, certo. Con piacere. Da questa parte, milord. Puntano ancora a meridione.»

Si allontanarono a cavallo e lasciarono il Myrddraal dove l’avevano trovato, con il vento che agitava il mantello nero. Hurin fu il primo a varcare il terrapieno, senza aspettare Ingtar; ma Rand gli era subito dietro.

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