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«Ossia, per dirlo con maggiore esattezza, c’era laggiù l’iceberg e la collisione ha avuto luogo perché non potessi fare il confronto tra la mia impronta e quella sulla patente di Graham. Può darsi che la nave non sia affondata: forse la cosa non era necessaria.»

Margrethe non fece commenti.

Perciò fui io a parlare per lei. «Dillo pure, cara. Togliti questo peso; non m’importa. Di’ che sono pazzo, che ho la mania di persecuzione.»

«Alec, non ho detto nulla di simile. Non l’ho neppure pensato.»

«Sì, non l’hai detto. Ma questa volta la mia aberrazione mentale non può essere spiegata come un vuoto di memoria. Cioè, se tutti e due abbiamo visto la stessa cosa. Tu, che cosa hai visto?»

«Io ho visto uno strano oggetto nel cielo. Ho sentito anche il suo rumore. Tu mi hai detto che è una macchina volante.»

«Be’, pensavo che fosse quello. Ma lasciamo da parte il suo nome. Diciamo solo che era qualcosa di nuovo e di strano. Come lo descriveresti?»

«Un oggetto che si muoveva nel cielo. Veniva da quella parte, è passato sopra di noi e poi è scomparso laggiù.» Indicò il nord. «Aveva pressappoco forma di croce, di un crocefisso. Sui due bracci c’erano delle sporgenze, mi pare quattro. La parte davanti aveva gli occhi come una balena, e la parte dietro aveva le pinne, anch’essa come una balena. Una balena con le ali… ecco cosa mi sembrava, Alec; una balena che volava nel cielo!»

«Pensi che sia viva?»

«Uh, non saprei. Penso di no, ma non ne sono sicura.»

«Io non credo che fosse viva; credo che fosse una macchina. Una macchina volante. Una specie di barca con le ali. Ma, in qualsiasi caso… macchina o balena volante… hai mai visto qualcosa di simile?»

«Alec, era una cosa talmente strana che fatico a credere ai miei occhi.»

«Lo so. Ma sei stata tu la prima a vederla, e poi me l’hai mostrata. Perciò non sono stato io a farti credere di averla vista.»

«Non credo che faresti una cosa simile.»

«Certo, non lo farei. Ma sono lieto che l’abbia vista per prima tu: significa che è vera, e che non è uno scherzo della mia immaginazione. Quella cosa non viene dal mondo che tu conosci… e non è uno dei dirigibili di cui ti ho parlato; non viene dal mondo in cui sono cresciuto. Perciò, adesso siamo in un altro mondo ancora.» Sospirai. «La prima volta c’è voluta una nave da ventimila tonnellate per dimostrarmi di avere cambiato mondo. Questa volta mi è bastato vedere una cosa che nel mio mondo non esiste, per capire che mi hanno rifatto lo scherzo. Mi hanno cambiato di mondo mentre ero privo di sensi, e credo che l’abbiano fatto per impedirmi di controllare l’impronta. Questa è paranoia: l’illusione che tutto il mondo sia un’enorme congiura. Però, nel mio caso non si tratta di illusione.»

La fissai negli occhi. «Allora?»

«Alec… non è possibile che ce lo siamo immaginato tutti e due? Chissà, una sorta di delirio? Entrambi abbiamo fatto una brutta esperienza… tu hai battuto la testa contro l’iceberg; forse l’ho battuta anch’io quando c’è stata la collisione.»

«Margrethe, non potremmo avere fatto lo stesso sogno. Inoltre, resta da spiegare la presenza dell’iceberg così a sud. La congiura è la spiegazione più semplice; ma si tratta di una congiura contro di me: tu hai solo avuto la sfortuna di trovarti coinvolta. Mi dispiace.» (In realtà, non mi dispiaceva affatto. Una zattera in mezzo all’oceano non è il posto adatto per trovarsi da soli.)

«Eppure, penso che si possa condividere lo stesso sogno… Alec, sta ritornando!» Indicò un punto nel cielo.

A tutta prima, non riuscii a scorgere niente; poi lo vidi: un puntino scuro, che pian piano divenne una forma a croce, la forma della “macchina volante”. Lo vidi ingrandirsi sempre più.

«Margrethe, deve avere fatto il giro. Forse ci ha visto.»

«Forse.»

Quando fu più vicino, vidi che non sarebbe passato esattamente sopra di noi, ma un po’ alla nostra destra. Margrethe disse all’improvviso: «Non è quello di prima».

«E non è una balena volante» aggiunsi io. «A meno che le balene non abbiano larghe strisce rosse sui fianchi…»

«Non è una balena. Voglio dire che non è viva. Hai ragione, Alec; è una macchina. Caro, pensi davvero che contenga alcune persone? L’idea è spaventosa.»

«Secondo me, sarebbe ancor più spaventosa se non ci fosse nessuno dentro.» (Mi era tornata in mente una storia fantastica tradotta dal tedesco: vi si parlava di un mondo popolato unicamente da macchine automatiche… non era una storia piacevole.) «In realtà, è una buona notizia. Ora sappiamo che l’altra macchina che abbiamo visto non era un sogno o un’illusione. Perciò, l’unica spiegazione è che ci troviamo in un mondo diverso dal nostro. E che verrà qualcuno a salvarci.»

Lei disse, con esitazione: «Non mi sembra di capire bene».

«È perché non vuoi darmi del pazzo… e, grazie, cara, ma quella della pazzia è l’ipotesi più comoda. Se l’Entità che ci ha giocato questa burla cosmica avesse avuto intenzione di uccidermi, avrebbe potuto farlo con l’iceberg. O prima, quando ho attraversato il fuoco. Ma non vuole uccidermi, o almeno non adesso. Vuole giocare con me, come il gatto con il topo. Perciò, io verrò salvato. E verrai salvata anche tu, perché siamo insieme. Tu eri con me quando siamo stati colpiti dall’iceberg… una sfortuna per te. Sei ancora con me adesso, e verrai salvata… la tua fortuna. Non cercare di negarlo, cara. Io ho avuto alcuni giorni a disposizione per abituarmi, e ho scoperto di poter accettare tutto, una volta deciso di affrontarlo con una certa tranquillità. La paranoia è l’unico atteggiamento logico, quando siamo vittime di una congiura.»

«Ma, Alec, il mondo non dovrebbe funzionare così!»

«Il “dovrebbe” non esiste, amore. L’essenza della filosofia impone di accettare l’universo così com’è, invece di cercare di costringerlo entro schemi precostituiti» commentai. «Attenta! Non cadere in mare. Non vorrai fare da colazione ai pescecani, proprio adesso che qualcuno viene a salvarci!»


Per circa un’ora non successe niente… tranne il fatto che avvistammo un paio di pesci volanti. Le nubi si allontanarono da noi e io cominciai ad augurarmi che qualcuno venisse a salvarci presto; mi pareva di meritarmelo! Non era il caso di farmi prendere una scottatura! Margrethe era in grado di sopportare il sole meglio di me: lei era bionda, ma aveva l’abbronzatura integrale… gran bello spettacolo! Invece io, fatta eccezione per la faccia e le mani, ero bianco come la pancia di una rana. Un giorno di esposizione al sole dei Tropici poteva farmi finire all’ospedale. O peggio.

A est, l’orizzonte cominciava a coprirsi di macchie grigie che forse erano montagne… o, almeno, così continuai a dirmi, anche se non si può vedere molto, quando si guarda la riva da quindici centimetri d’altezza sul pelo dell’acqua. Se erano davvero montagne, la terra doveva essere a pochi chilometri di distanza da noi. Da un momento all’altro avremmo dovuto avvistare i pescherecci di Mazatlán… se in quel mondo esisteva ancora Mazatlán.

Poi comparve una terza macchina volante.

Assomigliava solo vagamente alle altre due. Le prime volavano parallelamente alla costa: una da sud, l’altra da nord. Questa invece veniva dalla direzione della costa e si dirigeva approssimativamente verso ovest, anche se procedeva a zig-zag.

Passò a nord della nostra posizione, poi fece un giro sopra di noi e descrisse un ampio cerchio. Si abbassò notevolmente, e ora potei vedere che c’erano davvero uomini a bordo: ne contai due.

La sua forma è difficile da descrivere. Immaginate per prima cosa un gigantesco aquilone a forma di scatola, lungo dieci metri, largo un metro e mezzo e alto un metro.

Immaginate poi di prendere questo aquilone e di collocarlo trasversalmente su una barca fatta come un kayak eschimese, ma molto più grande: grande come l’aquilone.

Sotto tutto questo ci sono altre due forme simili a canoe, più piccole di quella principale e parallele a essa.

A un’estremità della macchina c’è un motore (come potei vedere più tardi), che termina con un’elica aperta, come quelle delle navi. A tutta prima non riuscii ad accorgermene, perché l’elica ruotava a una tale velocità da risultare invisibile. La si poteva sentire, però! Il chiasso fatto da quella macchina era assordante.

La macchina si voltò nella nostra direzione e si inclinò in modo da puntare esattamente su di noi, come un pellicano che scende a raccogliere un pesce.

Con noi nella parte del pesce. Era spaventoso. Almeno per me; Margrethe non fiatò. Ma sentii che mi stringeva con forza la mano. Certo, non eravamo pesci e una macchina non poteva inghiottirci, ma tutto questo non rendeva meno terrificante la sua discesa.

Nonostante il terrore, riuscii a vedere che la costruzione era larga almeno il doppio di quanto non mi fosse parso in origine. A bordo c’erano due guidatori, seduti l’uno accanto all’altro, dietro un ampio finestrino anteriore. I motori erano due, ed erano montati tra i due ordini di ali a forma di aquilone, uno per parte.

All’ultimo istante, la macchina s’impennò come un cavallo che salta l’ostacolo, e ci mancò di poco. Lo spostamento d’aria rischiò di scagliarci in acqua e il rumore mi fece ronzare le orecchie.

Poi tornò a innalzarsi, descrisse un’ampia curva nella nostra direzione e si abbassò di nuovo, ma questa volta non puntò proprio contro di noi. I due kayak più piccoli toccarono l’acqua e crearono una bella cometa di spuma; poi l’oggetto rallentò e si fermò e, una volta fermo sull’acqua, non affondò! Adesso le eliche ruotavano molto lentamente, e io potei osservarle per la prima volta… e ammirare l’intelligenza con cui erano progettate. Anche se meno efficienti dei tubi-turbina dei nostri dirigibili, mi parvero una buona soluzione in un caso in cui era difficile, se non impossibile, installare un tubo di guida dell’aria.

Ma quei motori così rumorosi! Non capivo come potessero accettarli, gli ingegneri! Come sosteneva uno dei miei professori (prima che la termodinamica mi convincesse che avevo la vocazione del predicatore), il rumore è sempre un effetto dell’inefficienza. Un motore ben progettato deve essere silenzioso.

La macchina si avvicinò a noi: questa volta, si muoveva molto lentamente. I suoi manovratori la spostarono in modo che passasse a un metro da noi prima di fermarsi. Poi uno degli uomini uscì dall’abitacolo dietro il finestrino e si tenne con una mano alle travi che distanziavano tra loro i due ordini di ali. Nell’altra teneva una corda.

Quando la macchina volante passò accanto a noi, l’uomo lanciò la corda verso di me. Io tesi il braccio e l’afferrai, e se non finii in acqua devo ringraziare Margrethe che afferrò me.

Le passai la corda. «Fatti aiutare a salire. Io mi tuffo e ti vengo dietro.»

«No!»

«Come? Non mi sembra il momento di discutere.»

«Alec, sta’ zitto! Sta cercando di dirci qualcosa.»

Io mi affrettai a tacere, un po’ offeso. Margrethe continuò ad ascoltare. (Inutile che io ascoltassi; il mio spagnolo si limita a “gracias” e “por favor”. Invece, lessi la scritta che compariva sul fianco della macchina: EL GUARDACOSTAS REAL DE MÉXICO.)

«Alec, dice di fare attenzione. Ci sono gli squali.»

«Ouch.»

«Esatto. Dice di non spostarci. Lui tirerà piano la corda. Penso che voglia farci salire a bordo senza costringerci a scendere nell’acqua.»

«Condivido l’idea!»

Provammo a farlo, ma la cosa non funzionò. Si era levata una leggera brezza, che allontanava da noi la macchina volante: il nostro materasso era praticamente immobile, perché non offriva alcuna presa al vento. Invece di tirarci verso la macchina volante, il nostro salvatore era costretto a dare sempre più corda per non trascinarci in acqua.

Gridò alcune parole; Margrethe rispose e poi si voltò verso di me: «Dice di lasciare la corda. Faranno un altro giro e ritorneranno indietro, per passare sopra di noi, ma lentamente. Quando saranno alla minima distanza, dovremo salire sull’aeroplano. Sulla macchina.»

«Benissimo.»

La macchina si allontanò sulla superficie del mare e fece un ampio giro. Nell’attesa che ritornasse, noi non ci annoiammo di certo: a intrattenerci c’era la pinna dorsale di un grosso pescecane. Non ci assalì; forse non aveva ancora chiaro in mente (in mente?) se fossimo commestibili. Credo che riuscisse a vedere solo la parte inferiore del materassino.

Adesso la macchina volante puntò direttamente verso di noi, come una mostruosa libellula che lambiva la superficie. Dissi: «Cara, quando la macchina sarà qui, tu aggrappati al montante più vicino a te; io ti spingo da dietro. Poi ti seguo.»

«No, Alec.»

«Come sarebbe a dire?» Ero irritato. Margrethe era sempre stata una perfetta compagna di avventure… e all’improvviso scoprivo quanto fosse ostinata. Nel momento sbagliato.

«Non puoi spingermi. Non hai una base dove appoggiarti. E non puoi alzarti in piedi. Non puoi neppure metterti a sedere. Ascolta, tu cerca di arrampicarti a destra, io mi arrampicherò a sinistra. Se uno di noi non riesce ad afferrarsi, l’altro deve ritornare sul materassino, e in fretta! L’aeroplano farà di nuovo il giro.»

«Ma…»

«No, ti dico di fare così.»

Non c’era molto tempo; la macchina era quasi sopra di noi. Le gambe o aste di collegamento fra il corpo della macchina e i galleggianti passarono ai lati del materassino, uno per parte: uno per poco non colpì me, l’altro per poco non colpì Margrethe. «Adesso!» esclamò lei. Io mi gettai dalla mia parte, afferrai una delle aste.

Mi sentii quasi strappare il braccio, ma continuai a muovermi come una scimmia: mi aggrappai con tutt’e due le mani, posai una gamba sul galleggiante, mi voltai.

Vidi una mano tendersi verso Margrethe, che salì rapidamente sull’ala e poi scomparve all’interno dell’abitacolo. Io feci per arrampicarmi dalla mia parte… poi, all’improvviso, levitai fino a raggiungere l’ala. Di solito, la levitazione non mi riesce, ma questa volta avevo un incentivo: una pinna grigiastra, troppo grossa per appartenere a qualsiasi pesce decente, che solcava l’acqua in direzione del mio piede.

Mi trovai accanto alla piccola cabina da cui i due uomini manovravano il loro strano vascello dell’aria. Il secondo uomo (non quello che era uscito per aiutarci a salire), sporse la testa da un finestrino, mi sorrise, e aprì una piccola portiera. Io strisciai dentro, a testa in avanti. Margrethe era già all’interno.

L’abitacolo aveva quattro sedili: due davanti, dove sedevano gli operatori, due dietro, dove ci trovavamo noi.

L’operatore che mi stava accanto si guardò attorno, disse qualcosa e continuò — me ne accorsi benissimo! — a fissare Margrethe. Certo, lei era nuda, ma non per colpa sua, e se fosse stato un po’ cavaliere, quell’uomo avrebbe distolto lo sguardo.

«Dice» mi spiegò Margrethe «che dobbiamo chiudere le cinture. Credo che intenda queste.» Mi mostrò una fibbia a un’estremità di una cinghia; l’altra estremità era avvitata ai montanti del seggiolino.

Scoprii che anch’io ero seduto su un’analoga fibbia, che si stava già scavando un buco nel mio fondoschiena arrossato dal sole. Fino a quel momento non me n’ero accorto, perché avevo badato a tutt’altre cose. (Perché il manovratore non guardava se stesso? Sentivo quasi la voglia di gridare. In un primo momento non mi venne in mente che quell’uomo, con grave rischio, avesse salvato la vita a lei e a me; mi stavo semplicemente infuriando perché si approfittava così vergognosamente di una signora indifesa.)

Rivolsi la mia attenzione alla fastidiosa cintura e cercai di ignorare l’accaduto. L’uomo disse qualcosa al compagno, che rispose con entusiasmo. Margrethe li interruppe.

«Che cosa dicono?» chiesi.

«Il poveretto vuole togliersi la camicia per darla a me. Io ho protestato… ma non tanto da fermarlo. È davvero gentile da parte loro, caro, e anche se non mi formalizzo eccessivamente sulla cosa, preferisco avere qualcosa addosso, se sono con estranei.» Ascoltò per qualche istante le loro parole, poi aggiunse: «Stanno discutendo tra loro per sapere chi dei due avrà l’onore».

Non dissi più niente. Pensai che i due giovanotti avevano molte scusanti. Probabilmente, perfino il papa di Roma avrebbe dato una sbirciatina, di tanto in tanto.

A quanto si vide poi, la discussione doveva essere stata vinta dal giovanotto di destra. Si girò prima di qua e poi di là — lo spazio non era sufficiente per alzarsi in piedi — e si sfilò la camicia, poi si voltò verso di noi e la diede a Margrethe. «Señorita. Por favor.» Aggiunse altre parole, ma io non le capii.

Margrethe rispose con dignità e grazia, e continuò a chiacchierare con loro mentre si infilava la camicia. La copriva per una certa parte. Lei si rivolse a me. «Caro, il comandante è il teniente Anibal Sanz Garcia e il suo assistente è il sargento Roberto Dominguez Jones, entrambi della Guardia Costiera del Regno del Messico. Sia il tenente sia il sergente volevano prestarmi la camicia, ma il sergente ha vinto a pari o dispari e quindi mi ha dato la sua.»

«È molto generoso da parte loro. Chiedi se nella macchina c’è qualcosa che io possa indossare.»

«Cercherò» mi promise. Disse alcune frasi; sentii anche il mio nome. Poi tradusse: «Signori, ho l’onore di presentarvi mio marito, il señor Alexandro Graham Hergensheimer.» Poi tornò allo spagnolo.

Quando gli uomini le risposero, spiegò: «Il tenente dice con grande dispiacere di non poterti dare niente. Ma promette sull’onore di sua madre di procurarti qualcosa non appena raggiungeremo Mazatlán e la locale caserma della Guardia Costiera. Adesso però ci chiede di legarci strettamente la cintura perché tra poco devono volare. Alec, ho paura!»

«Non avere paura. Ti terrò la mano.»

Il sergente Dominguez si voltò di nuovo verso di noi, ci tese una borraccia. «Agua?»

«Oh, dio, sì» esclamò Margrethe. «Sí sí sí.»

Non ricordavo che l’acqua fosse così buona.

Quando gli restituimmo la borraccia, il tenente si girò verso di noi, sorrise, strinse le dita a pugno e sollevò il pollice in un gesto che doveva essere antico come il Colosseo, poi fece qualcosa ai suoi motori che ne rese ancora più acuto il ronzio. Prima, le eliche ruotavano molto lentamente; ora giunsero a un frastuono incredibile. La macchina girò su se stessa fino a disporsi nella direzione del vento. Per tutta la mattina, il vento aveva continuato ad alzarsi; adesso era giunto a sollevare riccioli di spuma sulla cresta delle onde. Il tenente aumentò ancor di più la velocità dei motori, fino a raggiungere una violenza inimmaginabile, e la macchina prese a saltellare sull’acqua, con una serie incredibile di scossoni.

Poi cominciammo a colpire con forza spaventosa un’onda ogni dieci. Non so come quella macchina riuscisse a resistere.

All’improvviso ci trovammo a cinque metri d’altezza sulla superficie dell’acqua e gli urti cessarono. Le vibrazioni e il frastuono proseguirono. C’innalzammo lungo una ripida traiettoria… e poi ci voltammo e ritornammo a scendere. Per poco non mi schizzò via dallo stomaco il sorso d’acqua che avevo bevuto con tanta soddisfazione.

L’oceano si stendeva davanti a noi come un muro compatto. Il tenente girò la testa e pronunciò alcune parole.

Avrei voluto gridargli di fare attenzione alla guida… ma non lo feci. «Che cosa ha detto?» chiesi.

«Dice di guardare nel punto da lui indicato. Ci porterà su di esso. El tiburón blanco grande… il grande squalo bianco che per poco non ci ha divorati.»

(Ne avrei fatto volentieri a meno.) Ed effettivamente, in mezzo a quella parete d’acqua, c’era uno spettro grigio, con una pinna che tagliava l’acqua. Proprio quando ero ormai certo che stessimo per finirci dentro, il muro azzurro del mare si inclinò e si allontanò da noi, in basso. Venni spinto contro il sedile, mi sentii pulsare le orecchie e mi occorse tutta la forza di volontà per non colpire con uno schizzo d’acqua i miei salvatori.

Poi la macchina si mise a volare orizzontalmente e il viaggio divenne quasi sopportabile, a parte il chiasso e le vibrazioni.

I dirigibili sono molto più eleganti.

La catena montuosa parallela alla costa, così difficile da scorgere dalla nostra zattera di fortuna, divenne chiaramente visibile non appena fummo in volo, e così pure la costa: una serie di bellissime spiagge e la città che era la nostra meta. Il sergente si guardò attorno, indicò la città e pronunciò alcune parole.

«Che cosa dice?»

«Il sergente Roberto dice che arriveremo per l’ora di pranzo. Almuerzo, ha detto, ma ha aggiunto che per noi è la piccola colazione: desayuno.»

Improvvisamente, il mio stomaco decise di stare tranquillo. «Digli che lo chiami pure come vuole: per me va benissimo.»

Margrethe tradusse e i due uomini risero. Poi il tenente abbassò di nuovo la sua macchina verso le onde e si girò a parlare con Margrethe, che continuò a sorridergli come se niente fosse… e che mi piantò le unghie nel palmo della raano destra.

Ci fermammo. Nessuno perse la vita. Ma continuo a preferire i dirigibili.

A pranzo! Tutto andava per il meglio.

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