Mezz’ora dopo il tuffo della macchina volante nelle acque del porto di Mazatlán, io e Margrethe sedevamo con il sergente Dominguez nella mensa dei soldati della Guardia Costiera. Eravamo un po’ in ritardo per il pasto di mezzzogiorno, ma venimmo serviti ugualmente. E mi venne dato un vestito. O, almeno, parte di esso: un paio di calzoni grigio-verdi. Ma la differenza tra la nudità e un paio di calzoni è assai superiore a quella tra un paio di calzoni da fatica e un manto d’ermellino. Provare per credere.
Prima dell’arrivo dei calzoni, una piccola barca venne a prenderci al punto di ormeggio dell’aeroplano; poi dovetti camminare lungo il porto, fino alla caserma della Guardia Costiera, e poi attendere che mi portassero l’indumento; per tutto il tragitto continuai a essere osservato con curiosità da sconosciuti, tra cui varie donne. Ora capisco cosa si prova a essere esposto alla berlina. Orrendo! Non provavo un simile imbarazzo da quando avevo cinque anni e, durante le lezioni di catechismo, mi era successo un incidente analogo, sgradevolissimo.
Ma adesso la cosa era superata, e avevo da mangiare e da bere; per il momento, mi sentivo felice come una pasqua. I piatti non erano quelli a cui ero abituato, ma, come ha detto qualcuno, l’appetito è il miglior condimento. Sottili frittelle di mais e fagioli con un denso sugo, minestra calda, un piatto di pomodori piccoli e gialli, caffè forte e nero… cosa chiedere di più?
(All’inizio ero un po’ irritato dal fatto di dover mangiare nella mensa dei soldati semplici invece di andare con il tenente Sanz a mangiare con gli ufficiali. Successivamente mi venne fatto notare che il mio era un errore di giudizio caratteristico dei civili: un civile privo di esperienza militare tende inconsciamente a uguagliare la propria posizione a quella degli ufficiali, non a quella dei soldati di truppa. Soprattutto in America, dove ciascuno “vale quanto ciascun altro e anche un poco di più”.)
Il sergente Dominguez aveva di nuovo la sua camicia. Mentre cercavano un paio di calzoni per me, una donna — che doveva essere la donna delle pulizie, perché la Guardia Costiera messicana non aveva donne tra i suoi effettivi — della caserma era stata mandata a prendere qualcosa per Margrethe e aveva fatto ritorno con una gonna e una camicetta, entrambe di cotone a colori vivaci. Abiti molto semplici ed economici, ma che indosso a Margrethe facevano un figurone.
Nessuno di noi aveva scarpe, ma la cosa non pareva importante: il clima era caldo e secco. Avevamo mangiato, ci avevano dato dei vestiti, ci avevano salvato… il tutto con una calda ospitalità che mi fece pensare ai messicani come al più gentile popolo della terra.
Dopo la seconda tazza di caffè, dissi: «Cara, come si fa a ringraziare tutti e ad andarcene senza fare la figura dei maleducati? Penso che dovremmo cercare in fretta il console americano».
«Dobbiamo ritornare alla capitaneria.»
«Altre scartoffie?»
«Penso che si possa chiamarle così. Ci devono chiedere nuovi particolari sulla nostra storia. Occorre ammettere che può sembrare alquanto strana.»
«Suppongo di sì.» Il nostro primo colloquio con il comandante del porto non era stato molto soddisfacente. Se fossi stato solo, mi avrebbe dato del bugiardo… ma è difficile, per un uomo gonfio di orgoglio maschile, dire quel genere di cose a Margrethe.
A metterci nei pasticci era stata la nostra fedele Konge Knut.
La nave era affondata, non era mai giunta in porto, non era mai esistita.
La cosa mi aveva sorpreso, ma solo moderatamente. Se si fosse trasformata in un brigantino o in una quinquireme, non mi sarei stupito affatto. Mi ero aspettato un’altra nave con lo stesso nome: pensavo che lo imponessero le regole del gioco. Ma evidentemente non avevo capito le regole. Sempre che ce ne fossero.
A conferma di questo, Margrethe mi aveva detto che la Mazatlán in cui ci trovavamo non era la città da lei conosciuta in precedenza. La nostra era molto più piccola e non era una città turistica: in effetti, nel porto non c’era neppure il lungo molo a cui attraccava abitualmente la Konge Knut. Credo che sia stata questa mancanza, ancor più della macchina volante, a convincere Margrethe che non ero semplicemente affetto da mania di persecuzione. Lei conosceva bene la città; il molo era grosso e robusto, e adesso era sparito. Margrethe era rimasta assai impressionata.
Chi non era rimasto affatto impressionato, invece, era il comandante del porto. Aveva rivolto più domande a Sanz che a noi. E non mi era parso molto soddisfatto di Sanz.
Al momento, c’era un’altra cosa che non capivo, e che mi è sempre rimasta un po’ oscura. Il diretto superiore di Sanz era un “capitano” (o capitán); anche il comandante del porto, però, era un “capitano”, ma il grado non era lo stesso.
La Guardia Costiera aveva adottato ì gradi della Marina. Però, la piccola parte dei suoi effettivi che pilotava le macchine volanti aveva i gradi dell’Esercito: penso che la differenza fosse dovuta a ragioni storiche. In qualsiasi caso, c’era un po’ di insofferenza tra i due corpi: il capitano con quattro strisce (Marina) diffidava abitualmente dei rapporti degli ufficiali volanti.
Il tenente Sanz aveva salvato due naufraghi nudi che gli avevano raccontato una storia assurda; il comandante del porto pareva ritenere che le parti più assurde fossero colpa di Sanz.
Il tenente, però, non si era lasciato impressionare. Secondo me, non provava un vero e proprio rispetto per un ufficiale che non era mai salito più in alto di una coffa. (Dopo avere volato nella sua trappola mortale, capivo perché non fosse disposto a genuflettersi di fronte a un qualsiasi marinaio. Anche tra i piloti di dirigibili avevo notato la tendenza a dividere il mondo in due categorie: quelli che volano e quelli che non volano.)
Dopo qualche tempo, visto che non riusciva a smuovere Sanz, a smuovere Margrethe e a parlare con me senza l’intermediazione di questa, il comandante aveva alzato le spalle e ci aveva mandato tutti a pranzo. Io avevo pensato che la cosa finisse lì. Ma adesso ricominciava, mi dissi.
Invece, il nostro secondo incontro con il comandante fu breve. Ci disse che dovevamo presentarci quel pomeriggio stesso, alle quattro, davanti al giudice, che avrebbe deciso per ciò che riguardava la nostra immigrazione; l’edificio era quello del tribunale, non c’era una corte d’immigrazione separata. Nel frattempo, ecco la distinta di quanto dovevamo; per il pagamento, ci saremmo messi d’accordo direttamente con il giudice.
Margrethe rimase a bocca aperta nel prendere da lui il foglio; io le chiesi che cosa avesse detto il comandante.
Lei tradusse; io guardai il foglio.
Più di ottomila pesos!
Non occorreva una grande conoscenza dello spagnolo per leggere il conto; le parole erano sufficientemente chiare. Tres horas era come “tre ore”, e ci venivano addebitate tre ore di volo dell’aeroplano, parola che già avevo sentito da Margrethe: la loro macchina volante. Inoltre ci veniva addebitato anche il tempo del tenente Sanz e del sergente Dominguez. Più un fattore che doveva significare “lavoro straordinario”, o qualcosa di analogo.
Inoltre il consumo dell’aeroplano e una quota fissa per la manutenzione.
I calzoni erano pantalones… e c’era il prezzo di quelli che indossavo.
Falda era la gonna e camisa la camicetta: i vestiti di Margrethe.
Una delle voci mi sorprese più di ogni altra: pensavo che fossimo ospiti. Due pasti, dodici pesos ciascuno.
C’era anche un addebito per il tempo del comandante.
Stavo già per chiedere quanto facesse, in dollari, ottomila pesos… ma mi azzittii subito, perché non avevo la minima idea del potere d’acquisto del dollaro, in quel nuovo mondo dove eravamo capitati.
Margrethe parlò del conto con il tenente Sanz, che pareva alquanto imbarazzato. Si scusò a lungo, allargò molte volte le mani. Lei ascoltò, poi mi disse: «Alec, non è un’idea di Anibal, e non è neppure colpa del comandante. Le tariffe di questi servizi, salvataggio in mare, uso dell’aeroplano e così via, sono fissate da el Distrito Real, il Distretto Reale, che deve essere Città del Messico. Il tenente Sanz mi dice che in alto loco è stata istituita una politica del risparmio, e che tutti i servizi pubblici devono essere autosufficienti. Se il comandante non addebitasse a noi le spese del salvataggio, e la cosa venisse a conoscenza dell’Ispettore Reale, la cifra gli verrebbe trattenuta dallo stipendio. Oltre alle eventuali punizioni decise da un’apposita commissione reale. Anibal dice che gli dispiace moltissimo di questa situazione imbarazzante. Se l’aeroplano fosse suo, noi saremmo semplicemente suoi ospiti. Per lui, dice, noi siamo come un fratello e una sorella.»
«Digli che lo stesso vale anche per me.»
«Sì. E anche per Roberto.»
«Certamente. Ma chiedi come si possa rintracciare il console americano. Siamo un po’ nei pasticci.»
Venimmo affidati alla custodia del tenente Anibal Sanz fino all’ora della nostra comparsa in tribunale; con questo fummo congedati. Sanz incaricò il sergente Roberto di accompagnarci all’ufficio del console, si scusò di non poterci accompagnare di persona a causa di impegni di servizio, batté i tacchi e si chinò a baciare la mano a Margrethe. Con quel semplice gesto ottenne un grande risultato; vidi che lei ne era compiaciuta. Nel Kansas non mi avevano mai insegnato simili raffinatezze. Peccato.
Mazatlán si trova su una penisola; la caserma della Guardia Costiera è sulla costa meridionale, non lontano dal faro (il più alto del mondo: impressionante!); il consolato americano è a un chilometro e mezzo di distanza, dall’altra parte della città, a nord, in fondo all’avenida Miguel Alemàn: una piacevole passeggiata, impreziosita a metà strada da un’elegante fontana.
Ma io e Margrethe eravamo a piedi nudi.
Il sergente Dominguez non suggerì di prendere un taxi; e io non avevo i soldi per pagare.
A tutta prima, la mancanza di scarpe non parve molto importante. Nel viale c’erano altre persone a piedi nudi, e molte di esse erano adulte (né io ero il solo a torso nudo). Quand’ero bambino, camminare a piedi nudi era un lusso, un piacere. Andavo a piedi nudi l’intera estate, e tornavo a infilarmi le scarpe con riluttanza all’apertura della scuola.
Ora, invece, già dopo il primo isolato cominciai a chiedermi perché, da bambino, andare a piedi nudi mi piacesse tanto. Poi chiesi a Margrethe di dire al sergente, per favore, di rallentare per darmi modo di camminare all’ombra; quel maledetto selciato mi arrostiva le piante dei piedi!
(Margrethe non si lamentava mai… e la cosa mi irritava alquanto. Godevo costantemente dell’esempio fornitomi dalla fortitudine angelica di Margrethe… e trovavo difficile imitarla.)
Da quel momento in poi, dedicai ogni mia attenzione ai miei poveri, teneri piedi. Ero desolato e mi chiedevo perché la cosa fosse capitata proprio a me.
“Piangevo perché non avevo le scarpe, finché non incontrai un uomo senza piedi.” Non so chi l’abbia detto per primo, ma questo proverbio fa giustamente parte della nostra eredità culturale.
E capitò proprio a me.
A circa metà strada, dove il viale Miguel Alemàn incontra il calle Aquiles Serdan in corrispondenza della fontana, incontrammo un mendicante. Guardò in alto e ci sorrise, e ci mostrò una manciata di matite… “guardò in alto” perché stava su un carrettino a ruote; non aveva le gambe.
Il sergente Roberto lo salutò per nome e gli lanciò una moneta. Il mendicante la afferrò e se la mise in tasca, disse: «Gracias!» e si rivolse a me.
Io mi affrettai a dire: «Margrethe… per favore, puoi spiegargli che non ho soldi?»
«Sì, Alec.» Si piegò sulle ginocchia e gli parlò faccia a faccia. Poi si alzò. «Pepe dice che va bene; glieli darai quando sarai ricco.»
«Digli che ritornerò. Glielo prometto.»
Lei glielo disse. Pepe mi sorrise, lanciò un bacio a Margrethe e salutò me e il sergente. Proseguimmo.
Da quel momento in poi, non mi lamentai più del calore del selciato; l’incontro con Pepe mi aveva indotto a riflettere sull’intera situazione. Da quando avevo scoperto che il governo messicano, anziché ritenersi onorato di avermi potuto salvare, si aspettava che pagassi per il disturbo, avevo continuato a compiangermi e mi ritenevo ingannato e trattato male. Mi ero ripetuto che avevano ragione i miei compatrioti che accusavano i messicani di essere ladri e di volersi arricchire a spese dei turisti gringos! Esclusi Roberto e il tenente, è naturale… ma gli altri! Tutti oziosi, tutti parassiti con le mani tese ad afferrare il dollaro yankee.
Pensai a tutti i messicani che avevo conosciuto quel giorno, e chiesi mentalmente perdono di averli insultati. I messicani erano semplicemente dei nostri compagni di viaggio, nel tragitto che andava dalla nascita alla morte. Alcuni portavano bene i loro fardelli, altri li portavano male. E altri ancora portavano con coraggio e con grazia un carico molto più pesante del mio. Come Pepe.
Ieri vivevo nel lusso; oggi ero povero e indebitato. Ma avevo la salute, avevo l’intelligenza… e avevo Margrethe. I miei pesi erano leggeri. Avrei dovuto portarli con gioia. Grazie, Pepe!
Sulla porta del consolato c’era una piccola bandiera americana, e sopra di essa l’aquila in bronzo. Tirai la catena del campanello.
Dopo molto tempo, nella porta si aprì uno spiraglio, e una voce femminile ci disse di andarcene. (Non ebbi bisogno di traduzione; il tono era inconfondibile.) La porta cominciò a chiudersi. Il sergente Roberto cominciò a gridare, e la fessura tornò ad aprirsi. Discussero a lungo, e Margrethe mi riferì: «Le dice di avvertire don Ambrosio che due cittadini americani gli chiedono un colloquio urgente perché devono presentarsi in tribunale oggi alle quattro».
Aspettammo ancora. Dopo venti minuti, la cameriera ci fece entrare e ci accompagnò in un ufficio buio. Il console arrivò, mi fissò negli occhi e mi chiese perché gli avevo interrotto la siesta.
Poi scorse Margrethe e si calmò subito. A lei disse: «Come posso esserle d’aiuto? E posso avere l’onore di offrirle un bicchiere di vino? O una tazza di caffè?»
Anche scalza e con un vestito da quattro soldi, Margrethe era una signora… io un pezzente. Non chiedetemi il perché; era così, e basta. L’effetto era più rimarchevole quando si trattava di uomini. Ma funzionava anche con le donne. Se cercaste di spiegarlo, vi trovereste costretti a usare parole come “regale”, “nobile”, “aristocratico”, “signorilità innata”… tutti concetti che fanno a pugni con l’ideale democratico americano. A voi decidere se la cosa sia più rivelatrice a proposito dell’ideale democratico americano o di Margrethe.
Don Ambrosio era un asino pomposo, ma fui lieto di conoscerlo perché parlava americano: vero americano, non inglese, dato che veniva da Brownsville, Texas. (Secondo me, i suoi genitori avevano ancora la “schiena umida”, ossia avevano attraversato clandestinamente il fiume del confine.) Nel Texas doveva essersi dato da fare politicamente tra i suoi amici chicanos, e se ne era servito per procurarsi quell’incarico-sinecura, consistente nel dire ai poveri viaggiatori gringos nella terra di Montezuma che non potevano avere quel che occorreva loro disperatamente.
Fu quel che fece nel nostro caso.
Lasciai parlare Margrethe, perché mi pareva che conducesse meglio di me quel genere di trattative. Lei esordì dicendo che eravamo “il signore e la signora Graham”: durante il tragitto ci eravamo accordati per servirci di quel nome. Al momento del salvataggio aveva usato “Graham Hergensheimer” perché io potessi scegliere, e io avevo continuato a servirmi del solo “Graham” perché era il sistema più semplice: Margrethe mi chiamava sempre così, e per quasi due settimane ero stato “Graham” sulla nave. Inoltre, durante la mia permanenza al consolato dovetti dire un’altra decina di bugie per rendere credibile la nostra storia, e non desideravo ulteriori complicazioni.
(Piccola osservazione teologica. Molta gente ritiene che i comandamenti proibiscano tutte le bugie. Niente affatto! La proibizione riguarda la falsa testimonianza ai danni di un vicino: un tipo specifico e quanto mai odioso di menzogna. Ma non c’è alcun precetto biblico che imponga di dire sempre e dovunque la verità. Secondo vari teologi, nessuna società umana sarebbe in grado di sopravvivere alle tensioni che scaturirebbero da un’assoluta onestà. Se vi pare che esagerino, provate a dire a qualche conoscente quel che veramente pensate dei suoi figli… sempre che ne abbiate il coraggio.)
Dopo infinite ripetizioni (nelle quali la Konge Knut si ridusse progressivamente di stazza e divenne il nostro yacht privato), don Ambrosio mi disse: «È inutile, signor Graham. Non posso rilasciarle neppure un documento provvisorio per sostituire il suo passaporto perduto, e questo perché lei non mi ha dato alcuna prova di essere un cittadino americano».
«Don Ambrosio» gli risposi «sono stupefatto. So che mia moglie ha un leggero accento; come le ho detto, è nata in Danimarca. Ma pensa che una persona possa parlare come me se non è nata nel Kansas?»
Lui fece un’alzata di spalle, molto latina. «Non sono un esperto di accenti del Midwest. Per me, lei potrebbe essere un inglese che è andato a scuola di recitazione… tutti sanno che un buon attore può rivestire qualsiasi ruolo. La Repubblica Popolare di Gran Bretagna sarebbe disposta a qualsiasi cosa pur di introdurre spie negli Stati Uniti; lei potrebbe essere di Lincoln, Inghilterra, anziché di Lincoln, Nebraska.»
«Lo crede davvero?»
«Il problema non sta in quel che credo io. Il fatto è che non posso firmare un foglio che la dichiari cittadino americano se non ho le prove che lei lo è davvero. Mi spiace. Posso fare altro?»
(Come si può fare “altro” se fino a quel momento non si è fatto ancora niente?) «Forse potrebbe darmi un consiglio.»
Gli mostrai il conto che ci era stato presentato, e chiesi: «È regolare? Le tariffe sono giuste?»
Lui lesse le varie voci. «Gli addebiti sono certamente legali, sia per la loro legge che per la nostra. Se sono giusti? Non mi ha detto che vi hanno salvato la vita?»
«Di questo non c’è dubbio. Oh, c’era la possibilità di essere salvati da qualche pescatore se non ci avesse trovato la Guardia Costiera. Ma sono stati loro ad avvistarci e a salvarci.»
«E la vostra vita… le vostre due vite… valgono meno di ottomila pesos? La mia vale molto di più, le assicuro.»
«Non si tratta di questo, signore. Non abbiamo denaro, non un centesimo. Tutto è affondato con la barca.»
«Allora, fatevi mandare dei soldi. Potete farveli mandare qui al consolato. Non ho niente in contrario.»
«Grazie. Ma occorrerà del tempo. Intanto, come posso togliermeli dalle costole? Mi hanno detto che questo giudice vuole i soldi in contanti, e subito.»
«Oh, la cosa non è brutta come si dice. È vero che la loro legge non permette di fare fallimento come la nostra, e hanno un carcere vecchio stile per imprigionare i debitori. Ma non lo usano mai: lo tengono solo come minaccia. La corte vi troverà un lavoro che vi permetterà di pagare i debiti. Don Clemente è un giudice molto umano; si prenderà cura di voi.»
A parte qualche inutile complimento a Margrethe, il colloquio era finito. Recuperammo il sergente Roberto, che era stato ospitato in cucina dalla cameriera e dalla cuoca, e ci dirigemmo verso il tribunale.
Don Clemente (il giudice Ibañez) era proprio come don Ambrosio l’aveva descritto. Dato che informammo subito il cancelliere di accettare il debito ma di non avere i soldi per pagare, non ci fu processo. Ci fu detto di metterci a sedere nell’aula vuota mentre il giudice si occupava delle altre cause. Notai che faceva piuttosto in fretta. In parte si trattava di piccoli reati che venivano estinti con un’ammenda, altre erano cause per debiti, altri erano rinvii di qualche procedimento. Non capivo molto di quel che succedeva, e il giudice non voleva che si bisbigliasse in aula; di conseguenza, Margrethe non poté spiegarmi molto. Ma non era certamente il giudice dei sette capestri.
Le cause finirono. A una parola del cancelliere ci unimmo al gruppo di coloro che dovevano pagare multe o debiti: in gran parte si trattava di contadini. Finimmo su una bassa piattaforma, di fronte a un gruppo di uomini. Margrethe chiese che cos’era, e le venne risposto: «La subasta».
«Che cos’è?» le chiesi.
«Alec, non saprei. Non conosco la parola.»
Gli altri casi vennero sbrigati in fretta; a quanto capii, per molti di loro non era la prima volta. Poi, sulla piattaforma rimanemmo soltanto noi, e dabbasso rimase soltanto una persona dall’aria ricca e ben pasciuta. Sorrise e mi chiese qualcosa. Margrethe gli rispose. «Che dice?» le domandai.
«Ha chiesto se sai lavare i piatti. Gli ho detto che non parli spagnolo.»
«Digli che naturalmente so lavare i piatti, ma che non è il lavoro che mi piaccia di più.»
Cinque minuti più tardi, il nostro debito era stato pagato in contanti al cancelliere, e noi avevamo un patrón: il señor Jaime Valera Guzman. Pagò sessanta pesos al giorno per Margrethe e trenta per me, più vitto e alloggio. Spese di giudizio 2500 pesos, più il costo di due permessi di lavoro per non residenti, più tassa di guerra. Il cancelliere fece i conti per noi: in soli 121 giorni — quattro mesi — avremmo saldato il debito con il nostro patrón. A meno che, naturalmente, non spendessimo dei soldi nel corso di tale periodo.
Ci indirizzò anche al locale del nostro patrón: restaurante Pancho Villa. Il nostro patrón se n’era già andato via con la sua auto. I patrónes vanno in macchina; i peones a piedi.