Scesi la rampa di scale e mi recai direttamente allo sportello del commissario di bordo, senza guardare i miei tre visitatori. Il signor Henderson mi disse a bassa voce, quando mi avvicinai a lui: «Questi tre. Li conosce?»
«No. Non li conosco. Vado a vedere cosa vogliono. Ma ci tenga d’occhio, per favore.»
«Giusto!»
Mi voltai e feci per allontanarmi dai tre simpaticoni. Ma Cervello disse: «Graham! Fermo! Dove crede di andare?»
Io, senza fermarmi, dissi: «Zitto, idiota! Vuole rovinare tutto?» Muscoli mi bloccò la strada, come una torre, e Rivoltella si mise alle mie spalle. In stile “ora d’aria nella prigione di stato”, parlando dall’angolo della bocca, dissi: «La pianti di fare la scena, e faccia scendere dalla nave questi scimmioni! Noi due dobbiamo parlare».
«Certo, parliamo. Ici! Qui. Subito.»
«Non dica sciocchezze» risposi a bassa voce, e mi guardai nervosamente a sinistra e destra. «Non qui. Troppe donne. Troppa gente che ascolta. Venga con me. Ma dica agli altri due di aspettarla sul molo.»
«Non!»
«Dio ne scampi e liberi! Ascolti con attenzione» bisbigliai. «Lei dirà ai due bestioni di lasciare la nave e di aspettarla ai piedi della passerella. Poi noi due andremo sul ponte, dove potremo parlare senza essere ascoltati da nessuno. Altrimenti non se ne fa niente… e io dico al mio capo che siete stati voi a non voler trattare. Chiaro? Subito! Altrimenti, ritorni pure indietro e dica che l’affare non si combina più.»
Lui esitò per qualche istante, poi disse qualcosa in fretta, in un francese che non riuscii a capire (il mio francese è della forza di La piume de ma tante). Il gorilla non era troppo convinto, ma il killer alzò le spalle e si avviò verso la passerella.
Dissi al piccoletto: «Venga! Non perdiamo tempo, la nave sta per partire!» e mi diressi a poppa, senza guardare se mi seguisse.
Camminai in fretta, costringendolo a seguirmi per non perdermi di vista. Tra la mia testa e la sua c’era quasi una spanna: la stessa differenza che c’era tra l’altezza del gigante e la mia. Il piccoletto dovette trottare per starmi dietro.
Proseguii fino al ponte scoperto, oltrepassai bar e tavolini, fino a raggiungere la piscina.
Come mi aspettavo, la piscina era chiusa, dato che la nave era agli ormeggi. C’era il solito cartello: CHIUSA DURANTE LA PERMANENZA IN PORTO, e una sorta di barriera simbolica, costituita da una corda tesa tra due paletti, ma la piscina era ancora piena d’acqua. Scavalcai la corda e mi fermai con la schiena alla piscina. L’amico mi seguì, ma io alzai una mano. «Si fermi lì.» Lui si fermò.
«Adesso possiamo parlare» dissi. «Bene! Cosa le salta in mente di richiamare tanta attenzione su di sé? Portare a bordo quei due! Su una nave danese, addirittura! Il nostro amico B. sarà irritatissimo con lei, glielo garantisco. Lei come si chiama?»
«Lasci perdere il mio nome. Dov’è il pacco?»
«Quale pacco?»
Cominciò a strillare, ma io l’interruppi. «Lasci perdere queste sciocchezze; non mi fanno impressione. La nave sta per partire; le restano pochi minuti per dirmi esattamente cosa vuole e per convincermi a dargliela. Continui a minacciare, e dovrà ritornare dal suo capo per dirgli che non c’è riuscito. Parli! Che cosa vuole?»
«Il pacchetto!»
Sospirai. «Questo lo sappiamo già. Che tipo di pacchetto? Cosa c’è dentro?»
Lui ebbe un attimo di esitazione. «Soldi.»
«Interessante. Quanti soldi?»
Questa volta, lui esitò ancora di più, e io lo interruppi di nuovo. «Se non sa la cifra esatta» dissi «le posso dare due franchi per pagarsi una birra e ci salutiamo qui. È questo, ciò che desidera? Due franchi?»
Non pensavo che un uomo così magro potesse avere una pressione così alta. Farfugliò: «Dollari americani. Un milione».
Gli risi in faccia. «E perché dovrei avere con me una cifra così alta? Inoltre, perché dovrei darli a lei? Come può dimostrarmi di essere autorizzato a riceverli?»
«È impazzito? Sa benissimo chi sono.»
«Me lo dimostri. Ha qualcosa agli occhi, e la voce è diversa. Ho l’impressione che lei sia un impostore.»
Mi rispose con rabbia… in francese, suppongo. Non credo che fossero dei complimenti. Cercai nella mia memoria e gli ripetei le parole che la gentildonna aveva pronunciato la sera prima e che le avevano fatto dire, da parte del marito, che dava troppo peso a una cosa di poca importanza. Forse non erano le frasi più appropriate, ma io volevo semplicemente farlo montare in collera.
A quanto potei constatare, ci riuscii perfettamente. Lui alzò la mano, io lo presi per il polso, finsi di inciampare, finii dentro la piscina, di schiena, e tirai dentro anche lui. Nel cadere gridai: «Aiuto!»
Finimmo sott’acqua. Io lo afferrai bene, mi sollevai (e di conseguenza spinsi in basso lui) e cominciai a dire: «Aiuto! Mi tira sotto!»
Finimmo di nuovo sott’acqua, lottando debolmente tra noi. Io gridai aiuto ogni volta che mi trovai con la testa fuori dall’acqua. Non appena vidi arrivare qualcuno, finsi di svenire e lasciai il mio avversario.
Rimasi “svenuto” finché non cominciarono a farmi la respirazione bocca a bocca. A quel punto, tossii e aprii gli occhi. «Dove sono?»
Qualcuno disse: «Ha ripreso i sensi. È a posto».
Mi guardai attorno. Ero steso sulla schiena, sul bordo della piscina. Qualcuno mi aveva tirato fuori con un robusto strattone: avevo il braccio sinistro quasi slogato. A parte quello, non avevo subito danni. «Dov’è finito? L’uomo che mi ha spinto nella piscina?»
«È sceso dalla nave.»
Riconobbi la voce. Girai la testa. Era il mio amico Henderson, il commissario di bordo.
«Oh, davvero?»
Questo mise la parola fine all’incidente. Il mio amico Faccia Di Topo era uscito dall’acqua mentre i marinai mi ripescavano, e si era affrettato ad allontanarsi. Quando io avevo ripreso i sensi, Piccoletto e i suoi due gorilla erano già lontano.
Henderson mi fece rimanere sdraiato finché non arrivò il medico di bordo. Questi mi appoggiò sul petto uno stetoscopio e comunicò che stavo bene. Raccontai un paio di piccole bugie, una mezza verità e feci qualche accenno vago. Ormai la passerella era stata ritirata e la sirena della nave annunciò che avevamo lasciato il porto.
Mi guardai bene dal raccontare che il mio sport preferito, al liceo, era la pallanuoto.
I giorni successivi furono molto dolci, nel senso che l’uva più dolce cresce sui fianchi dei vulcani attivi.
Tornai a consumare i pasti con i miei compagni di tavolo senza che questi notassero qualcosa di strano in me. Appresi i loro nomi con il semplice espediente di aspettare che qualcun altro li pronunciasse. Tutti mi trattavano nel più cordiale dei modi: oltre a non essere più un diseredato — essendo salito a Portland — ero una celebrità, un piccolo eroe, perché avevo camminato sul fuoco.
Non andai mai in piscina. Non sapevo se Graham amasse il nuoto, ma dopo essere stato “salvato” preferii non rivelare capacità di nuotatore in disaccordo con quel “salvataggio”. Inoltre, anche se mi ero abituato (e con piacere) a vedere nudità che un tempo avrei giudicato sconvolgenti, dubitavo di riuscire a mantenere il necessario distacco, se mi fossi accostato eccessivamente alle bagnanti.
Dato che non avevo elementi per risolverlo, evitai di pensare al mistero di Faccia Di Topo e delle sue guardie del corpo.
Idem per il mistero di chi era Graham e di come era arrivato sulla Konge Knut. Accantonato per mancanza di dati. Del resto, la mia situazione era quella consueta di ogni altro essere umano: nessuno di noi sa chi siamo, da dove veniamo, perché siamo al mondo. Il mio problema era forse un po’ più personale, ma non diverso.
Una delle cose, forse l’unica, che ho imparato in seminario, è di affrontare con serenità l’antico mistero della vita, senza preoccuparmi della mia incapacità di risolverlo. I ministri del culto onesti non traggono alcun conforto dalla religione; le uniche loro consolazioni sono quelle ascetiche della filosofia. Io non sono mai diventato un grande metafisico, ma una cosa l’ho imparata: a non preoccuparmi dei problemi che non posso risolvere.
Trascorsi molto tempo a leggere, o nella biblioteca o sul ponte, e ogni giorno imparai qualcosa di nuovo sul mondo in cui mi trovavo, e mi sentii maggiormente a mio agio. I giorni felici trascorrevano velocemente, come nell’infanzia i sogni.
E tutti i giorni vedevo Margrethe.
Ero come un ragazzino alla prima cotta.
Era una strana relazione, la nostra. Non parlavamo mai d’amore. Io non ne avevo il coraggio, e lei era molto riservata. Ogni giorno mi faceva da cameriera (a me come agli altri passeggeri a lei affidati) e si occupava di me come una madre (lo faceva anche con gli altri? Pensavo di no… ma non ne avevo la prova). Era un rapporto amichevole, ma non c’era niente di intimo. Poi, ogni giorno, quando la “ricompensavo” per avermi fatto il nodo alla cravatta, Margrethe era la mia donna, dolce e appassionata. Ma solo in quei pochi momenti.
Per tutto il resto del tempo, io ero per lei il “signor Graham” e Margrethe si rivolgeva a me come se fossi solo un passeggero simpatico, e non ci fosse niente di personale tra noi. Chiacchierava con me, senza sedersi e con la porta della cabina aperta; mi raccontava tutto quello che succedeva sulla nave. Ma niente di più che una governante perfetta. Ogni giorno venivo a conoscere qualcosa di lei… e non trovai in Margrethe, mai, il benché minimo difetto.
Per me, la giornata iniziava quando la vedevo: di solito, mentre andavo a fare colazione, la incontravo nel corridoio o la scorgevo all’interno di una cabina, intenta a riordinare… Tutto si limitava a un: «Buon giorno, Margrethe» e a un: «Buon giorno, signor Graham» ma per me il sole non sorgeva fino a quel momento.
Poi, durante il giorno, la scorgevo di tanto in tanto, e la giornata raggiungeva il suo culmine con l’aureo rituale del nodo alla cravatta.
Infine la vedevo la sera, per qualche istante. Dopo avere cenato, tornavo nella stanza per un minuto, a darmi un’occhiata allo specchio prima delle attività della sera: lo spettacolo, la musica, una partita o anche solo qualche lettura in biblioteca. A quell’ora, Margrethe era intenta a preparare le cuccette o a riordinare i bagni: a rendere le cabine accoglienti per la notte. Io la salutavo, poi la aspettavo nella mia cabina (anche se a volte lei l’aveva già messa in ordine) perché sapevo che presto l’avrei vista, anche solo per chiedermi: «Le serve altro, per questa sera, signore?»
E io le sorridevo e dicevo: «Oh, no, grazie, non ho bisogno di niente, Margrethe. Grazie». Lei mi augurava la buona notte e per me la giornata finiva lì, indipendentemente da quel che facevo prima di andare a dormire.
Certo avevo la tentazione — ogni volta! — di rispondere: “Sai benissimo cosa mi serve!” ma non potevo farlo. Per prima cosa: ero un uomo sposato. Sì, mia moglie era chissà dove, in un altro mondo. Ma il sacro vincolo del matrimonio non si può sciogliere fino alla morte. Inoltre: la sua relazione amorosa (se tale era) riguardava Graham, di cui avevo preso il posto. Non potevo rifiutarle il bacio serale (solo gli angeli sono così perfetti!) ma per onestà verso mia moglie non potevo spingermi al di là di quello. E poi un uomo d’onore deve offrire il matrimonio alla donna che ama, e io non potevo farlo.
Perciò, quel periodo fu più agro che dolce. Di giorno in giorno si avvicinava il momento che mi avrebbe costretto a lasciare Margrethe, e da quel giorno in poi non l’avrei più rivista.
E non osavo dirle quanto sarebbe stata dolorosa la perdita. Fino a quel giorno avevo conosciuto solo l’“amore” di una donna che amava troppo il Signore per poter avere un vero affetto per una creatura umana.
Mai sposare una donna che prega troppo.
Eravamo partiti da Papeete da dieci giorni, e la costa del Messico stava per comparire all’orizzonte, quando il nostro idillio precario ebbe bruscamente termine. Da qualche tempo Margrethe sembrava farsi sempre più riservata; quella sera, quando mi annodò la cravatta, sopraggiunse la crisi.
Come sempre, sorrisi, la ringraziai e la baciai.
Poi mi fermai, senza smettere di abbracciarla, e chiesi: «C’è qualcosa che non va? So che sai baciare meglio di così».
Lei rispose: «Signor Graham, credo che sia meglio smettere».
«Ah, siamo di nuovo al “signor Graham”, eh? Margrethe, che cosa ho fatto?»
«Piuttosto, è quel che non ha fatto!»
«Allora… cara, non piangere!»
«Mi spiace. Non volevo piangere.»
Presi il fazzoletto, le asciugai le lacrime e dissi con gentilezza: «Non ho mai avuto la minima intenzione di ferirti. Dimmi che cosa non va, e cercherò di rimediare.»
«Se lei non lo sa, signore, non so come spiegarlo.»
«Non vuoi neppure compiere il tentativo? Per favore!» (Che fosse uno dei turbamenti emotivi ciclici a cui vanno soggette le donne?)
«Uh… signor Graham, sapevo che non poteva continuare dopo la fine del viaggio… e mi creda, non ho mai pensato di costringerla a continuare anche dopo. Suppongo che la cosa sia più importante per me che per lei. Ma non ho mai pensato che lei potesse troncare tutto, senza spiegazioni, prima del necessario.»
«Margrethe… non capisco.»
«Eppure, lo sa!»
«No, non so.»
«Deve saperlo. Sono undici giorni. Ogni sera gliel’ho chiesto, e ogni sera lei mi ha rifiutata. Signor Graham, non intende mai più chiedermi di ritornare più tardi?»
«Oh, ecco cos’era! Margrethe…»
«Sì?»
«Io non sono Graham.»
«Come?»
«Io mi chiamo “Hergensheimer”. Sono passati undici giorni da quando ti ho vista la prima volta. Mi dispiace. Non ti so dire quanto mi dispiaccia. Ma è la verità.»