Mi sentivo completamente a mio agio e non avevo voglia di svegliarmi. Ma una sorda pulsazione che mi sentivo alle tempie mi dava fastidio e, volente o nolente, dovetti svegliarmi. Scossi la testa per liberarmi della pulsazione e inghiottii una sorsata d’acqua. Mi affrettai a sputarla.
«Alec?» Margrethe era accanto a me.
Galleggiavo sulla schiena, in un’acqua calda come quella di una bagnarola e salata, come avevo potuto accertare poco prima. Tutto era buio attorno a me. Che fosse la morte? «Margrethe?»
«Oh, Alec! Sono così contenta! Sei rimasto svenuto per tanto tempo. Come ti senti?»
Controllai: contai qui e là, mossi questo e quello, e constatai che Margrethe mi teneva sollevata la testa, da dietro, in una delle posizioni consigliate dal solito manuale di salvataggio. Muoveva lentamente le gambe con i movimenti del nuoto a rana, non perché ci dovessimo muovere in una direzione particolare, ma per galleggiare meglio. «Tutto a posto, mi pare. E tu?»
«Anch’io mi sento meglio, caro… adesso che ti sei svegliato.»
«Che cosa è successo?»
«Hai battuto la testa contro il berg.»
«Berg?»
«La montagna di ghiaccio. L’iceberg.»
(Un iceberg? Cercai di ricordare cosa era successo.) «Quale iceberg?»
«Quello che ha urtato la nave.»
Ricordai qualcosa alla rinfusa, ma la situazione non mi era molto chiara. Un urto come se la nave avesse urtato contro una barriera corallina, e poi eravamo finiti in acqua. Lo sforzo di allontanarsi dalla nave… il colpo alla testa. «Margrethe, qui siamo nei tropici, sul parallelo delle Hawaii. Come fa a esserci un iceberg?»
«Non lo so, Alec.»
«Ma…» Stavo per dire che era impossibile, ma da qualche giorno quella parola, almeno nel mio caso, era priva di significato. «Quest’acqua è troppo calda per gli iceberg. Senti, puoi fare a meno di nuotare; nell’acqua salata io galleggio come un pezzo di legno.»
«Bene. Ma lascia che ti tenga. Prima, in questa oscurità, per poco non ti ho perduto; ho paura che succeda di nuovo. Quando siamo caduti in mare, l’acqua era fredda. Adesso è calda, perciò dobbiamo essere lontani dall’iceberg.»
«Tienti a me, certo; neanch’io voglio perderti.» Ora ricordati: l’acqua era fredda, al momento del nostro tuffo. Almeno, fredda rispetto al calore della cuccetta, sotto le coperte. E soffiava un vento gelido. «Dov’è finito l’iceberg?»
«Alec, non lo so. Siamo caduti in acqua insieme. Tu mi hai tenuta e mi hai portata lontano dalla nave. Sono certa che questo ci abbia salvati. Ma era buio come in una notte di dicembre, e nell’oscurità hai battuto la testa contro il ghiaccio.
«È stato allora» proseguì «Che per poco non mi sei sfuggito. Hai perso i sensi, caro, e mi hai lasciata andare. Io sono finita sott’acqua e ho bevuto; poi, quando sono riaffiorata e ho sputato l’acqua, non sono riuscita a trovarti. Alec» terminò «non sono mai stata così spaventata in tutta la mia vita. Non c’eri più, non ti vedevo da nessuna parte; ho cercato dappertutto, non ti ho trovato; ti ho chiamato, ma non rispondevi.»
«Mi dispiace» dissi io.
«No, non avrei dovuto farmi prendere dal panico. Ma avevo paura che affogassi. Poi, nel muovere le braccia, sono riuscita a toccarti, e allora mi sono afferrata a te e mi è parso che tutto fosse a posto… finché non ho notato che non rispondevi. Ho controllato, e ho sentito che il cuore ti batteva normalmente; allora ti ho tenuto sollevata la testa e alla fine ti sei svegliato. Adesso è davvero tutto a posto.»
«Non penso che ti sia fatta prendere dal panico; se fosse stato così, a quest’ora sarei morto. Poche persone sarebbero in grado di fare quello che hai fatto tu.»
«Oh, no, ce ne sono tante. Sono stata sorvegliante di una spiaggia a nord di Kbenhavn per due estati… il venerdì davo lezioni di salvataggio. L’ho insegnato a un mucchio di gente.»
«Tenere la testa a posto in un momento di pericolo e per di più al buio non è una cosa che si impara; non essere così modesta. Ma dov’è finita la nave? E l’iceberg?»
«Alec non lo so. Dopo averti trovato ed essermi assicurata che stavi bene, mi sono guardata attorno, ed era come adesso. Tutto buio.»
«Mi chiedo se la nave è affondata. Ha preso un bel colpo! Non c’è stata un’esplosione? Hai sentito qualcosa?»
«Non ho sentito esplosioni. Solo il rumore del vento e della collisione: devi averlo sentito anche tu; poi alcune grida, quando già eravamo in acqua. Non ho visto affondare la nave, ma… Alec, nell’ultima mezz’ora ho nuotato con la testa appoggiata a un oggetto che sembra un cuscino o un materasso. Questo significa che la nave è affondata? Sono i relitti che galleggiano dopo che la nave è colata a picco?»
«Non è detto, ma la cosa non promette niente di buono. Perché hai continuato ad appoggiarci la testa?»
«Perché forse ci potrà essere utile. Se è uno dei materassini della piscina, è imbottito di kapok e può servire da salvagente in caso di emergenza.»
«È quanto volevo chiederti. Se è un salvagente, perché ti limiti ad appoggiare la testa? Perché non ci sei montata sopra, e non sei uscita dall’acqua?»
«Perché dovevo tenerti sollevata la testa.»
«Oh. Margrethe, quando saremo di nuovo a riva, puoi darmi un grosso calcione? Comunque, adesso sono sveglio. Controlliamo cosa abbiamo trovato. A tastoni.»
«Certo. Ma preferisco tenermi a te, finché è buio.»
«Cara, ti assicuro che neanch’io voglio perderti. Facciamo così: prendimi la mano, e con l’altra mano afferrati al bordo. Dopo, io mi attaccherò a te e risalirò fino al materassino. Poi decideremo cosa fare.»
Era un grosso materassino, di circa due metri di lato: sufficiente per due persone o anche per tre, nel caso di vecchi conoscenti. Era quasi una scialuppa di salvataggio!
La salita su un materasso molle come uno straccio, in una notte scura come l’interno di una catasta di carbone non è solo difficoltosa: è impossibile. Per salire fu necessario un lavoro di squadra: io mi afferrai al bordo con entrambe le mani, mentre Margrethe lentamente scivolò su di me. Poi mi aiutò a salire, un centimetro alla volta.
Quando ero già a buon punto, commisi l’imprudenza di appoggiarmi su un gomito e finii di nuovo in mare; poi, orientandomi sulla voce di Margrethe, riuscii a ritrovare il galleggiante.
A capo di vari tentativi, scoprimmo che il modo migliore per sfruttare le sue capacità di galleggiamento era quello di stendersi con le braccia e le gambe larghe, come nel disegno di Leonardo da Vinci, per distribuire meglio il peso.
«Sei a posto, cara?» chiesi.
«Perfettamente.»
«Ti serve qualcosa?»
«Sì, ma tutte cose che qui non abbiamo. Sono tranquilla, non ho più paura.»
«Anch’io. Ma cosa ti piacerebbe avere, se dovessi esprimere un desiderio?»
«Ecco… un bel gelato alla crema, tagliato con cioccolata calda.»
Riflettei per qualche istante. «No. Per me, un gelato al cioccolato, con amarene. E una tazza di caffè a parte.»
«Meglio una tazza di cioccolata, allora. Con panna. È un vizio che ho preso in America. Noi danesi facciamo un mucchio di buone cose con il gelato, ma non abbiamo l’abitudine di versarci sopra qualcosa di caldo. Crema e cioccolata calda, allora. E lo voglio doppio.»
«Va bene. Te l’offro doppio, se è quello che vuoi. Una volta data la parola, non mi tiro indietro. E tu mi hai salvato la vita.»
Lei mi strinse la mano. «Alec, a volte sei davvero buffo… e io sono felice. Pensi che ne usciremo vivi?»
«Non so, cara. La massima ironia della vita è che nessuno ne esce mai vivo. Ma ti prometto una cosa: farò del mio meglio per offrirti quel gelato.»
Ci svegliammo tutt’e due all’alba. Certo, mi addormentai e si addormentò anche Margrethe, perché mi svegliai un po’ prima di lei, ascoltai il suo respiro regolare e rimasi immobile finché non le vidi aprire gli occhi. Non credevo di poter dormire, ma non sono affatto sorpreso (adesso) di esserci riuscito: il letto era comodo, il silenzio era completo, la temperatura era giusta, tutt’e due eravamo stanchi… e non avevamo alcuna preoccupazione, perché non potevamo far niente prima dell’alba. Credo che il mio ultimo pensiero, prima di addormentarmi, fosse: “Sì, Margrethe ha ragione; meglio alla crema e cioccolata calda che al cioccolato con amarene”. In seguito sognai quel gelato: una sorta di incubo in cui affondavo il cucchiaino, ne prendevo una grossa porzione… mi portavo il cucchiaino alla bocca e lo trovavo vuoto. Credo che sia stato questo a svegliarmi.
Margrethe girò la testa verso di me e sorrise. Era celestiale: in quel momento non dimostrava più di sedici anni. «Buon giorno, bellissima.»
Lei rise. «Buon giorno, principe azzurro. Hai dormito bene?»
«A dire il vero, Margrethe, da un mese non dormivo così bene. Strano. In questo momento, l’unica cosa che vorrei è la colazione a letto.»
«Immediatamente, signore!»
«Non importa. Un bacio sarà sufficiente. Pensi che possiamo riuscire a darci un bacio senza cadere nell’acqua?»
«Sì, ma non muoverti. Gira solo la testa.»
Fu un bacio simbolico, non uno di quelli speciali: non volevamo correre il rischio di rovesciare la zattera. Inoltre, ero preoccupato da qualcosa di più che un semplice tuffo nell’oceano.
Decisi di parlarne con lei. «Margrethe, secondo la carta nautica della sala da pranzo, dovremmo trovarci a ovest della costa del Messico, all’altezza di Mazatlán. A che ora è affondata la nave? Voglio dire, a che ora c’è stata la collisione?»
«Non saprei.»
«Neanch’io. Dopo la mezzanotte, però. Ne sono sicuro. La Konge Knut doveva arrivare questa mattina alle otto. Perciò, la costa potrebbe essere a più di cento chilometri da noi, oppure potrebbe essere a pochi chilometri di distanza. Su quella costa ci sono montagne: dovremmo scorgerle non appena sparirà la foschia. Cara, com’è la tua resistenza al nuoto? Se dovessimo avvistare le montagne, saresti disposta a cercare di raggiungere la costa?»
Rifletté a lungo, prima di rispondere. «Alec, se lo desideri, proveremo a farlo.»
«Non è esattamente la risposta alla mia domanda.»
«Certo. In un’acqua calda come questa, posso nuotare per tutto il tempo necessario. Una volta ho fatto la traversata dello stretto, con acqua molto più fredda di questa. Ma, Alec, nello stretto non ci sono pescecani. Qui sì. Li ho visti.»
Sospirai. «Sono lieto che tu l’abbia detto; non volevo dirlo io. Cara, penso che dobbiamo rimanere qui e cercare di non muoverci. Non richiamare l’interesse dei pescecani. Io posso benissimo rinunciare alla colazione… soprattutto alla colazione degli squali.»
«Ci va tempo, prima di morire di fame.»
«Oh, non moriremo di fame. Se potessi scegliere, quale sceglieresti? Morire di fame? O di scottature solari? Mangiata dai pescecani? O morire di sete? In tutte le storie di naufragi alla Robinson Crusoe che ho letto, il protagonista aveva almeno qualche attrezzo. Noi non abbiamo neppure uno stuzzicadenti. Margrethe, cosa mi consigli di fare?»
«Penso che qualcuno ci salverà.»
Lo pensavo anch’io, ma per motivi che non volevo esporre a Margrethe. «Sono lieto di sentirtelo dire. Ma perché ne sei tanto convinta?»
«Alec, sei mai stato a Mazatlán?»
«No.»
«È un’importante città di pescatori, commerciale e da diporto. All’alba cominciano a mettere in mare centinaia di imbarcazioni. Le più grandi e le più veloci si spingono molto al largo. Basterà attendere: ci troveranno.»
«Se avremo fortuna. L’oceano è grande. Ma hai ragione: nuotare è un suicidio. La nostra unica speranza è quella di rimanere qui.»
«Verranno a cercarci, Alec.»
«Verranno? chi?»
«Se la Konge Knut non è affondata, il capitano conosce il punto dove siamo caduti fuori bordo. Quando raggiungerà il porto, chiederà di fare ricerche. E anche nel caso che la nave fosse affondata, farebbero ricerche in tutta la zona, per trovare i superstiti.»
«Mi sembra logico.» (Io avevo un’altra idea, non del tutto logica.)
«Allora, dobbiamo solo sopravvivere fino al momento del recupero, evitando squali, sete e scottature: e questo richiede di rimanere fermi. Per tutto il tempo. Ma dovremmo girarci di tanto in tanto, per non esporre sempre la stessa parte al sole.»
«E augurarci che il cielo rimanga coperto. Certo. E forse dovremmo evitare di parlare. Ci farebbe sentire meno la sete, eh?»
Rimase in silenzio a lungo, forse per fare come avevo suggerito. Poi disse: «Caro, può darsi che non si riesca a sopravvivere.»
«Lo so.»
«Se dobbiamo morire, preferisco sentire la tua voce, anziché cercare inutilmente di vivere per qualche minuto in più.»
«Sì, cara. Sì.»
Nonostante la decisione, parlammo poco. Ci limitammo a tenerci per mano.
Molto tempo dopo — circa tre ore, credo — sentii che Margrethe tratteneva bruscamente il fiato.
«C’è qualche pericolo?»
«Alec! Guarda lassù!» Mi indicò la direzione. Io guardai.
Fu il mio turno di trattenere il fiato, ma in un certo modo Margrethe mi aveva avvertito, e perciò non mi allarmai: in alto nel cielo c’era un oggetto a forma di croce, simile a un grande uccello che volasse senza battere le ali, ma molto più grande. Si trattava chiaramente di un oggetto costruito dall’uomo. Una macchina volante…
Mi era sempre stato detto che le macchine volanti erano impossibili; alla facoltà di ingegneria avevo studiato la nota dimostrazione matematica del professor Simon Newcomb, in cui si affermava che i tentativi del professor Langley e d’altri di costruire un aerodino capace di trasportare un uomo erano inutili e vani, perché in base alla teoria dimensionale nessun dispositivo capace di trasportare un uomo poteva contenere una macchina termica grande a sufficienza per sollevarlo da terra… e tantomeno con un passeggero a bordo.
Quella era stata l’ultima parola della scienza su tanti progetti dissennati: essa aveva posto la parola fine allo spreco di denaro pubblico per inseguire una chimera. Gli investimenti vennero dirottati sul settore dei dirigibili, con notevole successo.
Tuttavia, nei giorni precedenti, la parola “impossibile” aveva perso gran parte dei suoi significati. Nel vedere in cielo una vera macchina volante, non rimasi eccessivamente sorpreso.
Credo che Margrethe abbia trattenuto il respiro finché non lo vide scomparire all’orizzonte. Anch’io rimasi senza fiato per qualche momento, ma poi mi costrinsi a respirare con calma: era una macchina talmente bella, argentea, snella e veloce… Non avevo modo di valutare la sua dimensione, ma se le macchie scure sul suo fianco erano finestrini, doveva essere davvero enorme.
Non capivo come facesse a muoversi.
«Alec… è un’aeronave?»
«No. Almeno, non è la cosa che intendevo io quando ti ho parlato di aeronavi. Questa è piuttosto una “macchina volante”. Non so dire altro: non ne ho mai viste in precedenza. Ma adesso posso dirti una cosa… una cosa molto importante.»
«Sì?»
«Non moriremo… e adesso so perché la nave è affondata.»
«Perché, Alec?»
«Per impedirmi di controllare un’impronta digitale.»