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Lungi da me l’idea di biasimare il capitano Hansen. Per gli scandinavi, l’alcool etilico è l’antigelo che mettono nel sangue per proteggersi dai loro inverni lunghi e rigidi, e di conseguenza non pensano che talune persone possano anche non reggere alle bevande forti. E poi, nessuno mi aveva tenuto per le braccia, nessuno mi aveva sollevato la testa e versato in gola il liquore con la forza. Fui io, a bere.

La nostra chiesa non segue la dottrina che la carne è debole e che perciò il peccato è umanamente comprensibile e facilmente perdonabile. I peccati si possono anche perdonare, ma non bisogna credere che la cosa sia facile, e prima, in ogni caso, occorre subire la punizione. Il peccato vuole vendetta.

Conobbi anch’io la sofferenza specifica del mio peccato. È quello che viene comunemente chiamato mal di testa.

“Doposbronza”, lo chiamava il mio zio ubriacone. Zio Ed sosteneva che non si poteva raggiungere la temperanza senza prima avere sperimentato a fondo gli eccessi: altrimenti, quando la tentazione si accosta a noi, non sappiamo come affrontarla.

Forse la mia esperienza dimostra che lo zio aveva ragione. A casa nostra, zio Ed veniva considerato un cattivo esempio per la gioventù, e se non fosse stato il fratello di mamma, mio padre non lo avrebbe neppure fatto entrare. Però non veniva mai incoraggiato a fermarsi a lungo, né era mai invitato a ritornare presto.

Non feci neppure in tempo a sedermi che il capitano mi offrì un bicchiere di akvavit. I bicchieri usati per quel liquore non sono grandi; sono molto piccoli… ed è proprio questo a tradirti.

Il capitano ne aveva in mano un bicchiere. Mi guardò negli occhio e disse: «Al nostro eroe! Skaal!» sollevò la testa e lo mandò giù.

Da tutto il tavolo giunse un coro di «Skaal!» e tutti bevvero come il capitano.

Me compreso. Potrei dire che essere l’ospite d’onore mi imponeva certi obblighi, che quando si è in ballo occorre ballare e così via. Ma in realtà non ebbi il coraggio di rifiutare. Mi dissi: “Un bicchierino così piccolo non mi farà certo male” e bevvi.

Nessun problema. Mi scivolò nella gola come olio. La piacevole sensazione di inghiottire qualcosa di gelido, poi un sapore pungente, che in qualche modo ricordava quello della liquerizia. Non sapevo che cosa avessi bevuto, ma avrei detto che non fosse neppure alcolico.

Ci sedemmo e qualcuno mi mise un piatto davanti, poi il cameriere personale del capitano mi versò un’altra dose di liquore. Cominciavo ad assaggiare il cibo — antipasti danesi, smörgåsbord — quando mi sentii toccare sulla spalla.

Alzai gli occhi. Era l’Uomo Vissuto.

E con lui c’erano l’Esperto e lo Scettico.

I loro nomi non erano gli stessi. L’Entità che aveva deciso di divertirsi con me, non aveva osato spingersi a tanto. “Gerald Fortescue” era adesso “Jeremy Forsyth”, per esempio. Ma, a parte le piccole differenze, riuscii a riconoscerli senza difficoltà, e i loro nomi erano abbastanza simili a quelli vecchi da farmi capire che lo scherzo dell’Entità proseguiva.

(Allora, perché il mio nuovo nome era tanto diverso da “Hergensheimer”? “Hergensheimer” ha un suo che di grande e dignitoso, una sua rotondità. “Graham” è un cognome dozzinale.)

«Alec» disse Forsyth «La avevamo giudicata male. Io, Duncan e Pete siamo pronti ad ammetterlo. Ecco i tremila che le dobbiamo, e…» tirò fuori la mano destra, che fino a quel momento aveva tenuta nascosta dietro la schiena; mostrò un’enorme bottiglia «…il migliore champagne della nave, come segno della nostra stima.»

«Cameriere!» disse il capitano.

Pochi istanti più tardi, il cameriere faceva il giro del tavolo, per riempire i bicchieri. Ma, prima che lo champagne venisse servito, mi trovai di nuovo in piedi, a brindare uno «Skaal!» all’akvavit per tre volte — una per perdente — mentre incassavo i tremila dollari (dollari degli Stati Uniti, non dell’Unione). In quel momento non ebbi il tempo di chiedermi perché da trecento si fosse passati a tremila; del resto, ormai avevo già assistito a troppe meraviglie.

Il capitano Hansen disse al cameriere di portare altre sedie per Forsyth e i suoi compagni, ma tutti e tre dissero che le mogli e gli amici li aspettavano ai loro tavoli, e che avevano promesso di ritornare. Del resto, non c’era neppure il posto per farli sedere, anche se il capitano Hansen non si perdeva per certe bazzecole. È un vichingo, grosso come un armadio; mettetegli in mano un martello e lo scambieranno per il dio Thor: è pieno di muscoli, perfino in certi posti dove gli altri non hanno niente. Un uomo così non si lascia facilmente convincere.

Ma accettò un compromesso. Potevano tornare al loro tavolo, ma prima si dovevano unire a lui e a me nel brindare ai tre angeli protettori del loro amico Alec: Sidrac, Misnac e Abdenago (ma perché veniva in mente a un vichingo come il capitano quel riferimento biblico a tre giovani ebrei chiusi da re Nabucodonosor nella fornace?). Anzi, al brindisi dovevano partecipare tutti coloro che erano al suo tavolo. «Cameriere!»

Perciò pronunciammo tre nuovi «Skaal!» e ci bagnammo l’ugola con nuove dosi di antigelo danese.

Se avete tenuto il conto, finora sono sette. A questo punto finite pure di contare, perché fui ancora colto da quel senso di distacco che avevo provato mentre attraversavo il letto di carboni accesi. Il cameriere aveva terminato di servire lo champagne (a un gesto del capitano, ne aveva portato una seconda bottiglia). Era di nuovo giunto il momento di brindare a me, che proposi di levare il bicchiere in onore dei tre perdenti; poi tutti brindammo al capitano Hansen e infine all’ottima nave Konge Knut.

Il capitano brindò agli Stati Uniti, e tutti i presenti si alzarono in piedi a bere con lui; fu giocoforza che io proponessi un brindisi alla regina danese: questo portò tutti a brindare a me, per ringraziarmi, e il capitano mi chiese di fare un discorso. «Ci racconti: cosa si prova a star dentro alla fornace rovente?»

Tentai di schermirmi, ma tutti gridarono: «Discorso! Discorso!»

Mi alzai con qualche difficoltà, cercai di ricordare il discorso che avevo preparato per l’ultima colletta delle missioni in terre pagane. Non riuscii a ricordarmelo. Allora dissi: «Dovete sapere, amici, è stata una cosa da niente. Tendete l’orecchio alla costa, appoggiate la spalla alla barra, e non perdete di vista le stelle: potrete farlo anche voi. Grazie, grazie a tutti, e la prossima volta troviamoci a casa mia».

Un altro «Evviva!» e un altro «Skaal!», non so con quale scusa, e la signora che sedeva alla destra del capitano si alzò e venne a baciarmi; poi tutte le signore sedute al nostro tavolo la imitarono. La cosa parve fornire un utile suggerimento alle altre signore della sala, perché tutte vennero a reclamare un abbraccio da me, e, già che c’erano, a dare un bacio al capitano.

Nel corso di questa processione, mi vidi portare via una bistecca che avevo sul piatto e con la quale intendevo fare un lungo discorso. Non me ne accorsi, perché l’interminabile sfilata baciatoria mi aveva messo in una sorta di stupore estatico, come già mi era accaduto con le donne del villaggio dei camminatori sul fuoco.

Del resto, lo stupore era iniziato al mio ingresso in sala da pranzo. Mettiamola così: anche le mie compagne di viaggio erano in abbigliamento da National Geographic.

Be’, non proprio, ma gli abiti che indossavano le facevano sembrare ancor più nude di quelle simpatiche polinesiane. Non descriverò i loro “abiti da sera” perché non è il caso, ma in genere lasciavano in vista almeno l’ottanta per cento di quel che le signore del mio mondo tenevano obbligatoriamente coperto in analoghe occasioni. Dalla cintola in su, voglio dire. Quanto alle gonne, che molte volte erano lunghe fino a terra, avevano tagli e pieghe sorprendenti.

Alcune delle signore avevano il busto completamente coperto… ma la stoffa era trasparente come vetro, o quasi.

E alcune delle più giovani, poco più che ragazze, erano scoperte come le mie polinesiane. Ma, chissà perché, queste giovani donne non mi parvero affatto indecenti.

Mi ero accorto dello spettacolo non appena messo piede nella sala. Ma avevo cercato di non fissare tutte quelle scollature, e il capitano e i suoi brindisi mi avevano tenuto occupato. Però, quando una donna ti si avvicina, ti abbraccia e ti vuole baciare, è difficile non notare che quel che indossa non la protegge affatto dalla polmonite. Né da altre affezioni delle vie respiratorie.

Ma riuscii a tenermi a freno, nonostante l’ebbrezza.

Più che la pelle nuda, scoprii, mi sorprendevano le frasi troppo crude: termini che non avevo mai sentito in pubblico, e che anche in privato si ascoltavano raramente, e solo tra uomini. Uomini, dico, e non gentiluomini, perché un gentiluomo non pronuncerebbe mai quelle parole… nel mondo dove sono nato.

L’esperienza più sconvolgente della mia vita era legata a quel tipo di intemperanza. Un giorno, nel passare per la piazza principale della città, notai che nell’angolo delle punizioni s’era radunato un gruppetto di persone. Mi accostai per vedere chi fosse stato punito, e perché… e constatai che l’uomo alla berlina era il mio capo scout. Per poco non caddi a terra svenuto.

La sua colpa era di avere proferito oscenità, come diceva il cartello che portava al petto. L’accusa veniva dalla sua stessa moglie; lui non aveva sollevato obiezioni e si era rimesso alla clemenza del giudice… il diacono Brumby, che non sapeva neppure da dove cominciasse (la clemenza).

Il signor Kirk, mio capo scout, lasciò la città due settimane più tardi, e non si fece mai più rivedere: la berlina fa quest’effetto sulla gente. Non so quali fossero esattamente le male parole che il signor Kirk si era lasciato sfuggire, ma non doveva essere niente di grave, se il diacono Brumby si era dovuto limitare a un solo giorno di punizione, dall’alba al tramonto.

Quella sera, al tavolo del capitano della Konge Knut, udii una dolce signora rivolgere al marito una filza di parole proibite, comprendente una bestemmia e l’invito ad atti sessuali contro natura. Se l’avesse detto in pubblico dove sono nato io, sarebbe stata condannata alla massima esposizione sulla berlina e sarebbe stata poi cacciata dalla città. (I nostri cittadini avevano rinunciato alla pece e alle piume; la pratica veniva considerata una barbarie.)

Eppure, la cara signora della nave non ricevette neppure un rimprovero. Il marito si limitò a sorriderle e a dirle che si preoccupava di un nonnulla.

Tra i discorsi sconvolgenti, le esibizioni invereconde e le bevande traditrici, dispensate senza freno, io ero al massimo della confusione. Come uno straniero in terra straniera, ero sopraffatto dall’incontro con costumi nuovi e sconvolgenti. Ma per tutto il tempo mi aggrappai alla convinzione di dovermi dimostrare uomo di mondo, di essere a casa mia, di non trovare niente di strano. Nessuno doveva sospettare che ero Alexander Hergensheimer e non Alec Graham… altrimenti mi sarebbe capitato qualcosa di terribile.

Mi sbagliavo, perché naturalmente la cosa terribile era già successa. Ero un completo estraneo… ma ora, riflettendo con il senno di poi, penso che non avrei assolutamente peggiorato la mia situazione se mi fossi lasciato scappare la verità.

Nessuno mi avrebbe creduto.

Perché? Perché io stesso faticavo a crederlo.

Il capitano Hansen, uomo posato e amante delle buone bevute, sarebbe scoppiato a ridere alla mia “battuta” e avrebbe proposto un altro brindisi. Se poi avessi insistito a parlargli della mia allucinazione, mi avrebbe affidato al medico di bordo.

Però, concentrandomi sulla parte di Graham e cercando di non far capire che ero un sosia, un cuculo insediatosi nel suo nido, penso di essere riuscito a superare più facilmente quella sbalorditiva serate.

Erano stati appena piazzati davanti a me un trancio di diplomatica — una torta meravigliosa, con più strati di crema, che ricordavo di avere assaggiato sull’altra Konge Knut — e una tazzina di caffè ristretto, quando il capitano si alzò. «Venga, Alec! Andiamo nel salone; lo spettacolo sta per iniziare… ma non possono farlo finché non arrivo io. Venga! Non vorrà mangiare quella roba dolce che fa stare male. Il caffè possiamo prenderlo in salone. Ma prima dobbiamo bere qualcosa da uomini, eh? Non questa roba da ragazzini. Le va la vodka?»

Mi prese sottobraccio, e scoprii di essermi incamminato verso il salone delle feste. Nella decisione, il libero arbitrio non aveva avuto alcuna voce in capitolo.

Lo spettacolo era la solita mescolanza che avevo già visto sull’altra Konge Knut: il mago che faceva cose improbabili, ma sempre meno di quella che avevo fatto io (o che mi avevano fatto); il comico del varietà che dimostrava poca varietà nelle sue comiche; la bella ragazza che cantava; le ballerine. Le principali differenze erano quelle che avevo già avuto occasione di incontrare: nudità e parole sboccate, ma ormai l’esperienza e l’akvavit mi avevano corazzato contro tutt’e due.

I vestiti della ragazza che cantava erano ridotti al minimo, e le parole della sua canzone avrebbero fatto arrossire perfino la malavita di Newark, New Jersey (almeno, credo; non ho esperienza diretta di quel famoso pozzo di iniquità). Badai soprattutto al suo fisico, dato che una volta tanto non dovevo distogliere cortesemente lo sguardo; la buona educazione vuole che si guardi la cantante.

Si può pensare, tanto per discutere, che gli usi possano essere quanto mai diversi, nel campo del vestiario, senza che ciò pregiudichi la struttura della società. È un’idea che non mi sento di condividere, ma che mi pare più che legittima, soprattutto quando la persona che esibisce la differenza è una donna giovane e ben fatta.

La cantante era giovane e ben fatta. Provai un sincero dispiacere nel vederla uscire dal palco.

La principale attrazione della serata era un corpo di ballo tahitiano; non fui affatto sorpreso nel vedere che erano nudi dalla cintola in su, a parte qualche collana di fiori o di conchiglie… sarei rimasto sorpreso se fossero stati vestiti. L’unica cosa che riuscì a stupirmi fu, alla fine del ballo, il comportamento dei passeggeri (anche se c’era già da aspettarselo).

Prima i ballerini — otto donne e due uomini — danzarono per noi: le danze che avevo visto quel giorno nel villaggio dei camminatori sul fuoco, e che qualche giorno prima, a Papeete, avevo visto sull’altra Konge Knut, quando erano saliti a bordo i danzatori. Forse sapete che la hula di Tahiti è diversa da quella lenta e aggraziata del Regno delle Hawaii, perché è molto più veloce ed energica. Io non sono un esperto nell’arte della danza, ma ho visto i due tipi di hula nei rispettivi paesi d’origine.

Preferisco la hula havvaiana, che avevo visto a Hilo, quando il Count von Zeppelin si era fermato laggiù per un giorno, nel viaggio fino a Papeete. La hula di Tahiti mi sembra più un esercizio di ginnastica che una forma d’arte. Ma la sua energia e la sua velocità le diedero connotati sorprendenti, quando la vidi danzare nel costume (o nell’assenza di costume) di quelle ragazze.

E la cosa non finì lì. Dopo una lunga danza che includeva ravvicinamenti tra le donne e i due ballerini… in cui venne eseguito un prosieguo di azioni che avrebbe sorpreso perfino il gallo del pollaio (mi aspettavo che il capitano Hansen, da un momento all’altro, ponesse fine allo scandalo) il capo cerimoniere o animatore della nave fece un passo avanti.

«Signore e signori» annunciò «e altre persone inebriate di nascita irregolare…» (qui devo un po’ correggere le sue espressioni) «…molti di voi della categoria da punta, e un numero più limitato in quella da riporto, hanno fatto buon uso dei quattro giorni di permanenza dei nostri danzatori per aggiungere al loro carniere la hula tahitiana. Tra poco avrete modo di mostrare quel che avete imparato e di mettervi il bollino di genuinità, come le autentiche papaie di Papeete. Ma quel che non sapete è che ci sono stati anche degli altri, nella vecchia Konge Knut, che si sono allenati. Maestro, musica!»

Da dietro il palcoscenico si fece avanti un’altra decina di danzatrici di hula. Ma queste non erano polinesiane: erano bianche. Il costume era quello tradizionale: gonnellino e collana, un fiore nei capelli e basta. Ma, invece di bruna, la loro pelle era chiara; molte erano bionde, due erano rosse.

E la cosa è diversa. Ormai ero pronto ad ammettere che quel costume era giusto, e magari anche pudico, per le donne polinesiane: paesi diversi, usi diversi. Chi più vereconda di Madre Eva, nella sua semplicità prima del peccato originale?

Ma per le donne americane ed europee, l’abbigliamento dei mari del sud è fuori luogo.

Comunque, la cosa non mi impedì di osservare con attenzione il balletto. Vidi con stupore che le ragazze danzavano quella hula veloce e complessa con la stessa abilità (almeno, al mio occhio inesperto) delle polinesiane. Lo dissi al capitano. «Hanno imparato a ballare in soli quattro giorni?»

Lui sollevò le spalle. «Si allenano tutte le volte, quelle che erano con noi nelle scorse crociere. E queste si preparavano fin da quando eravamo a San Diego.»

Solo allora riconobbi una delle danzatrici — Astrid, la dolce fanciulla che mi aveva aperto la cabina — e capii perché fossero tanto esperte nel ballare la hula: erano le cameriere della nave. La guardai (a bocca aperta) con maggiore interesse. Lei se ne accorse e mi sorrise. E io, come uno sciocco, invece di restituirle il sorriso, arrossii e mi affrettai a guardare da un’altra parte. Per nascondere l’imbarazzo, mi portai alle labbra il bicchiere che avevo in mano.

Uno dei ballerini canachi piroettò fino alle ragazze e ne invitò una a ballare con lui. Dio mi salvi, era Margrethe!

Il liquore mi andò di traverso e non riuscii a respirare. Era l’apparizione più miracolosa che avessi mai visto, e le uniche parole che conoscessi per descriverla erano quelle del Cantico dei cantici: “Il tuo ombelico è una coppa rotonda… I tuoi seni sono due giovani caprioli gemelli…”

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