A volte, mentre li lavavo, mi divertivo a calcolare l’altezza della pila di piatti che avevo lavato da quando avevo iniziato a lavorare per il nostro patrón, don Jaime. Con i normali piatti del ristorante Pancho Villa, in una pila di mezzo metro ce ne stavano 35. Inoltre decisi arbitrariamente che una tazza e un piattino, o due bicchieri, contavano come un piatto, perché non si potevano fare bene le pile. E così via.
Il grande faro di Mazatlán era alto 157 metri: soltanto dodici in meno del monumento a Washington. Ricordo il giorno che completai il mio primo “faro di piatti”. Avevo già detto a Margrethe, all’inizio della settimana, che ero vicino alla meta e che mi aspettavo di raggiungerla giovedì sera o venerdì mattina.
E così fu, quel giovedì sera. Lasciai l’acquaio, raggiunsi la porta fra la cucina e la sala, incrociai lo sguardo con quello di Margrethe, sollevai le braccia e mi presi una mano nell’altra come un pugile.
Margrethe si fermò — stava prendendo le ordinazioni da una famiglia — e mi rivolse un applauso. Dovette poi spiegare ai clienti l’accaduto, e pochi istanti più tardi passò da me, all’acquaio, e mi diede un biglietto da dieci pesos, che il capofamiglia aveva voluto donarmi per congratularsi con me. Dissi a Margrethe di ringraziarlo, e di riferirgli che iniziavo in quel momento il mio secondo faro, dedicato a lui e alla sua famiglia.
Questo scambio di parole indusse la señora Valera a spedire il marito don Jaime a chiedere perché Margrethe perdesse tempo in cucina invece di fare il suo lavoro… e questo indusse a sua volta don Jaime a chiedermi quanto mi avessero regalato i clienti e a donarmi la stessa cifra.
La señora non aveva ragione di lamentarsi: non soltanto Margrethe era la sua migliore cameriera, ma era anche la sola che parlasse inglese. Il giorno che cominciammo a lavorare per i Sr. y Sra. Valera, venne chiamato un pittore di insegne che tracciò sulla vetrina un enorme e sgrammaticato ENGLIS SPOKE HERE. Da allora in poi, oltre a essere disponibile per la clientela di lingua inglese, Margrethe preparò i menù in questa lingua (e sui prezzi inglesi c’era un supplemento del quaranta per cento rispetto a quelli in spagnolo).
Don Jaime non era un cattivo padrone. Era allegro e, nel complesso, gentile con i dipendenti. Dopo un mese che lavoravamo da lui, mi disse che non si sarebbe fatto carico del mio debito se il giudice non avesse insistito perché il mio contratto fosse unito a quello di Margrethe, dato che eravamo marito e moglie (altrimenti sarei finito a lavorare nei campi, e avrei potuto vedere mia moglie solo in rare occasioni… come mi aveva detto don Ambrosio, don Clemente era un giudice molto umano).
Gli dissi che ero lieto che il contratto includesse anche me, e che nell’assumere Margrethe aveva fatto un vero affare.
Anche lui ammise che questo era vero. Già da varie settimane frequentava l’asta dei lavoratori per trovare una donna bilingue a cui insegnare il lavoro di cameriera, e alla fine aveva assunto anche me per avere Margrethe… ma ora desiderava dirmi che era soddisfattissimo del mio lavoro, perché non aveva mai visto la cucina così pulita, i piatti così bianchi e le posate così lucide.
Gli assicurai che consideravo un privilegio quell’occasione di contribuire a tenere alto il prestigio e l’onore del restaurante Pancho Villa e del suo stimato patrón, el don Jaime.
In realtà mi sarebbe stato difficile non migliorare la pulizia della cucina. Non appena entrato, mi era parso che il pavimento fosse di terra battuta. E così era — veniva voglia di piantarci le patate! — ma sotto lo strato di sporcizia, spesso circa un centimetro, c’era il cemento. Io pulii il pavimento e lo mantenni pulito: ero tuttora senza scarpe. Poi chiesi la polvere contro gli scarafaggi.
Ogni mattina spazzavo via gli scarafaggi morti e lavavo il pavimento. Ogni sera, prima di chiudere la cucina, spargevo l’insetticida. È impossibile (secondo me) sterminare gli scarafaggi, ma con la lotta si può arrivare a bloccarli, costringerli a una ritirata strategica e mantenere le posizioni acquisite.
Quanto alla qualità dei miei lavaggi, non poteva essere diversamente; mia madre aveva la fobia dello sporco e io, dato che appartenevo a una famiglia numerosa, ho lavato e asciugato piatti sotto il suo controllo dai sette ai tredici anni d’età (allorché fui dispensato da quel compito per incaricarmi di una consegna di giornali che non mi lasciava il tempo di lavare i piatti).
Ma per il semplice fatto che li lavassi bene, non dovete pensare che il lavaggio dei piatti fosse la mia passione. Da bambino mi aveva annoiato; da adulto anche.
Allora, perché continuavo a lavarli? Perché non fuggivo?
Non è evidente? Per rimanere con Margrethe. Per alcuni debitori, la fuga poteva essere una soluzione — non penso che la polizia perdesse molto tempo a rincorrere i debitori che scomparivano in qualche notte buia — ma la fuga non era possibile per una coppia sposata, di cui la moglie era una bionda vistosa in un paese dove tutte le bionde erano vistose, e il marito non era in grado di parlare spagnolo.
E anche se tutt’e due lavoravamo sodo — dalle undici del mattino alle undici di sera, con in teoria due ore per la siesta e mezz’ora ciascuno per pranzo e cena — avevamo per noi l’altra metà della giornata e l’intero martedì.
Probabilmente alle Cascate del Niagara avremmo fatto una luna di miele migliore. Avevamo una stanza all’ultimo piano, sul retro del ristorante. Era surriscaldata, ma di giorno non c’eravamo mai, e alle undici di sera era abbastanza fresca, anche nei giorni di sole. A Mazatlán, la stragrande maggioranza dei residenti del nostro ceto sociale (zero!) non aveva i servizi igienici. Ma noi lavoravamo e abitavamo in un ristorante; c’era una toilette che condividevamo con gli altri dipendenti durante le ore di lavoro e che rimaneva a nostra disposizione per il resto della giornata. (C’era anche un gabinetto alla turca in fondo al cortile: me ne servivo qualche volta durante il lavoro; non credo che Margrethe l’abbia mai usato.)
Avevamo a disposizione una doccia al piano terreno, accanto alla toilette dei dipendenti, e le esigenze della cucina imponevano al ristorante di avere un grosso boiler. La señora Valera ci rimproverava sempre di usare troppa acqua calda («Il gas costa caro!»); noi ascoltavamo in silenzio e continuavamo a usare tutta l’acqua calda che ci serviva.
Il contratto fra lo stato e il nostro patrón gli imponeva di fornirci vitto e alloggio (e anche i vestiti, per legge, ma lo venni a sapere troppo tardi per approfittarne): ecco perché dormivamo laggiù, e naturalmente mangiavamo laggiù… non certo i piatti speciali dello chef, ma cibo di ottima qualità.
Margrethe, dato che riceveva molte mance, e in particolare dai gringos, accumulava lentamente una piccola somma. Cercavamo di spendere il meno possibile — ci limitammo ad acquistarci un paio di scarpe ciascuno — e mettevamo il denaro da parte, per il giorno in cui, scaduto il nostro contratto, saremmo potuti partire per il nord. Non pensavo che la nazione a nord del Messico fosse il paese in cui ero nato… ma era il suo equivalente nel mondo dove ci trovavamo; vi si parlava l’inglese ed ero certo che la sua cultura fosse vicina a quella che conoscevamo.
Le mance di Margrethe furono fin dalla prima settimana motivo di litigio con la señora Valera. Mentre don Jaime era per la legge il nostro patrón, la proprietaria del ristorante era lei: così ci disse la cuoca, Amanda. Jaime Valera era in origine il capo cameriere e aveva sposato la figlia del padrone, così divenendo definitivamente il maître d’hôtel. Alla morte del suocero, lui era divenuto il padrone del ristorante agli occhi del pubblico; ma chi teneva i cordoni della borsa e controllava il registratore di cassa era la moglie.
(Forse si potrebbe qui osservare che era “don Jaime” per noi perché era il nostro patrón; ma per la gente non era un “don”. Questo titolo onorifico non ha un equivalente americano, ma il fatto di possedere un ristorante non ti rende automaticamente un “don”… mentre ti rende “don”, per esempio, essere un giudice.)
La prima volta che Margrethe ricevette una mancia, la señora le disse di consegnargliela: alla fine della settimana le avrebbe dato la sua percentuale.
Margrethe venne direttamente da me in cucina. «Alec, come devo fare? Sulla Konge Knut, le mance erano la mia principale fonte di guadagno, e nessuno mi ha mai chiesto di dividerle con le altre. Quella donna può chiedermi una cosa simile?»
Le dissi di non consegnare le sue mance alla señora, ma di riferirle che ne volevamo parlare con lei alla fine della giornata.
C’è un vantaggio nell’essere un peón: non si viene licenziati per un disaccordo con il datore di lavoro. Potevamo essere licenziati, certo… ma in questo caso i Valera avrebbero perso la decina di migliaia di pesos che avevano investito su di noi.
Alla fine della giornata io sapevo esattamente cosa dire e come dirlo… ossia, come farlo dire a Margrethe, perché mi sarebbe occorso ancora un mese, prima che assorbissi quel tanto di spagnolo che permetteva di tenere un minimo di conversazione.
«Signore e signora, non comprendiamo questa richiesta relativa ai doni che mi fanno i clienti. Chiediamo di vedere il giudice e di sapere da lui che cosa preveda il nostro contratto.»
Come sospettavo, non avevano intenzione di recarsi dal giudice. Avevano legalmente diritto al lavoro di Margrethe, ma non potevano avanzare alcuna pretesa sui doni che lei riceveva da terzi.
La cosa non finì lì. La señora Valera era talmente irritata, per aver dovuto fare retromarcia di fronte a una semplice cameriera, che fece mettere un cartello: NO PROPINAS — VIETATE LE MANCE. La stessa scritta venne posta sui menù.
I peones non possono fare sciopero. Ma c’erano altre cinque cameriere, due delle quali erano figlie di Amanda. Il giorno che impose il divieto delle mance, la señora Valera si trovò con una sola cameriera (Margrethe) e senza cuoca. Rinunciò al divieto. Ma se la legò al dito.
Don Jaime ci trattava come dipendenti; sua moglie come schiavi. E, nonostante il vecchio detto sulla “schiavitù del proletariato”, tra le due cose c’è un’enorme differenza. Dato che tutt’e due cercavamo di essere dei bravi dipendenti finché non avessimo saldato il nostro debito, ma ci rifiutavamo di essere schiavi, era inevitabile che venissimo ai ferri corti con la señora Valera.
Poco dopo il disaccordo sulle mance, Margrethe cominciò a sospettare che la señora andasse a curiosare nella nostra camera da letto. Se questo era vero, non avevamo modo di fermarla: la porta non aveva la chiave e lei poteva entrare in qualsiasi momento durante le nostre ore di lavoro.
Per qualche tempo fui tentato di mettere delle trappole, ma Margrethe me lo proibì. Si limitò, da quel momento in poi, a tenere sulla propria persona tutto il denaro che possedeva. Ma il fatto che fosse ridotta a queste misure perché temeva di essere derubata dimostra la bassa considerazione in cui tenevamo la nostra “padrona”.
Ma non permettemmo alla señora Valera di rovinare la nostra felicità. E non permettemmo alla nostra condizione di coppia sposata di rovinarci la luna di miele. Oh, io sarei riuscito a rovinarla perché ho sempre avuto il maledetto desiderio di analizzare cose che in realtà non sapevo come analizzare. Ma Margrethe, che era molto più pratica di me, non mi permetteva di farlo. Per esempio provai a giustificare la nostra relazione dicendo che la poligamia non era proibita dalle sacre scritture, ma solo dalle leggi e dal costume moderni, e lei mi bloccò subito, dicendo che non le interessava sapere il numero delle mogli e delle concubine di re Salomone, e che non considerava né lui né gli altri personaggi biblici dei modelli di comportamento da seguire. Se non volevo stare con lei, avevo solo da parlare!
Io non parlai più. Alcuni problemi è meglio lasciarli stare, anziché cercare di risolverli a parole. Per me, la moderna ansia di risolvere tutto con una spiegazione è molto spesso un errore e non una risposta.
Ma la sua avversione per i personaggi biblici mi era parsa un po’ esagerata, e più tardi le chiesi cosa pensasse in generale della Bibbia. Le spiegai che la chiesa cui appartenevo sosteneva l’interpretazione letterale dei Testamenti — volevamo “una Bibbia completa, non una Bibbia piena di buchi” — e che da noi la Scrittura era vista come la parola letterale di Dio. Altre chiese, invece, sostenevano che si dovesse seguire lo spirito e non la lettera: alcune di esse, anzi, si prendevano tali libertà da non dare quasi più importanza alla Bibbia. Eppure, tutte si definivano cristiane.
«Margrethe, amore mio, come segretario esecutivo delle Chiese Unite per la Decenza ero sempre in contatto con membri di tutte le sette protestanti americane, e anche con esponenti della chiesa cattolica romana, nel caso di argomenti di interesse comune. Ho visto che la mia chiesa non aveva certo il monopolio delle persone virtuose. Un uomo poteva fare grosse confusioni sulle questioni religiose fondamentali ed essere ugualmente un buon cittadino e un ottimo cristiano.»
Mi ritornò in mente un episodio; feci una risatina. «Vale anche l’inverso, perché uno dei miei amici cattolici, padre Mahaffey, mi diceva sempre che perfino io potevo arrivare in Cielo, perché il buon Dio, nella sua infinita saggezza, teneva conto anche dell’ignoranza e della testardaggine dei protestanti.»
Questa conversazione ebbe luogo un martedì, nostro giorno di libertà perché il ristorante era chiuso. Eravamo in cima a el Cerro de la Nevería — Collina del Ghiacciaio, ma il nome spagnolo è più bello — e avevamo appena finito un picnic. La collina si trovava in centro, a poca distanza dal ristorante Pancho Villa, ma era un’oasi bucolica; i cittadini di Mazatlán avevano seguito l’abitudine spagnola di trasformare le colline in parchi, invece di abbandonarle alla speculazione edilizia. Un posto tranquillo.
«Mia cara, non voglio certo convertirti alla mia chiesa, ma mi interessa sapere ogni cosa di te. Non conosco bene le chiese danesi: penso che siano luterane, ma da voi c’è una chiesa di stato come in altre nazioni europee? Comunque sia, qual è la tua chiesa, ed è fondamentalista o liberale? E tu, cosa ne pensi? Ricorda che, come ti ho detto, non credo che la mia chiesa sia l’unica che apre le porte del Cielo.»
Io ero steso sull’erba; Margrethe era seduta e guardava in direzione del mare. In quella posizione non riuscivo a vederla in faccia. Non rispose alla mia domanda; dopo un po’, le chiesi: «Cara, mi hai sentito?»
«Ti ho sentito.»
Attesi ancora, poi aggiunsi: «Se ho fatto una domanda che non dovevo fare, non importa, lascia perdere.»
«No. Sapevo che prima o poi avrei dovuto parlarne. Alec, devi sapere che non sono cristiana.» Si girò verso di me e mi guardò negli occhi. «Puoi ottenere il divorzio con la stessa semplicità con cui hai ottenuto il matrimonio: basta che tu lo dica. Io non mi opporrò; me ne andrò via senza fare chiasso. Ma, Alec, quando mi hai detto che mi amavi, e più tardi, quando mi hai detto che eravamo sposati davanti a Dio, non mi hai chiesto la mia religione.»
«Margrethe.»
«Sì, Alec?»
«Per prima cosa, lavati la bocca. Poi chiedimi perdono.»
«Nella bottiglia c’è ancora un po’ di vino, e posso usarlo per sciacquarmi la bocca. Ma non posso chiederti perdono per non avertelo raccontato. Ti avrei detto la verità, in qualsiasi momento. Ma tu non me lo hai mai chiesto.»
«Lavati la bocca per avere parlato di divorzio. Chiedimi perdono per avere pensato che potessi dirti di allontanarti da me, per qualsiasi motivo. Se non facessi il tuo dovere, donna, ti sculaccerei, ma non ti manderei mai via. Nella ricchezza e nella povertà, nella salute e nella malattia, ora e per sempre! Io ti amo: ficcatelo nella testa.»
All’improvviso lei fu tra le mie braccia, con le lacrime agli occhi. Era la seconda volta che la vedevo piangere, e feci la sola cosa possibile, ossia la baciai.
Sentii applaudire dietro di me e girai la testa. Avevamo tutta la collina per noi, dato che era un giorno lavorativo, ma c’era un piccolo pubblico, composto di due monelli di strada, così giovani che non si capiva se fossero maschi o femmine. Uno dei due mi guardò negli occhi e applaudì di nuovo, mentre con la bocca faceva forti schiocchi, come per dare baci.
«Via di qua!» gridai. «Andatevene! Vaya con Dios! Ho detto bene, Margrethe?»
Lei disse qualcosa ai ragazzini, che se ne andarono dopo un’ultima risata. L’interruzione mi aveva fatto comodo. Avevo parlato in quel modo a Margrethe perché era l’unico modo possibile, ma ero alquanto preoccupato.
Feci per dire qualcosa, poi pensai che per quel giorno avevo già detto anche troppo. Ma anche Margrethe tacque, e il silenzio si prolungò. La questione, pensai, non poteva rimanere in sospeso. Tornai a chiedere: «Qual è la tua religione, cara? Giudaismo? Ricordo ora che in Danimarca ci sono anche degli ebrei.»
«Sì, qualche ebreo c’è. Ma uno su mille. No, Alec. Uh… ci sono Dei più antichi.»
«Più vecchi di Geova? Impossibile!»
Margrethe non disse niente. Era una sua caratteristica: quando non era d’accordo, faceva scena muta. Diversamente dal 99 per cento della razza umana, che si farebbe ammazzare piuttosto di stare zitta, non le interessava avere l’ultima parola.
Perciò, per impedire che la discussione si spegnesse, fui costretto a fare sia la parte dell’accusa sia quella della difesa.
«Ritiro quel che ho detto» mi corressi. «Non avrei dovuto parlare di impossibilità. Pensavo alla cronologia del vescovo Ussher, che negli scorsi secoli ha calcolato la data della creazione, basandosi sulla Bibbia. Se si accettano le sue cifre, il mondo compirà 5998 anni il prossimo ottobre. Naturalmente, questa cifra non compare nelle sacre scritture; Hales ha ricavato un’altra cifra: mi pare 7405. Altri studiosi arrivano a cifre ancora diverse.
«Ma tutti dicono che quattromila o cinquemila anni prima di Cristo c’è stato quell’evento particolare che è la creazione. In quell’istante, Geova ha creato il mondo e, così facendo, ha creato anche il tempo. Il tempo non può esistere da solo. Di conseguenza non c’è niente… né cose, né persone, né Dei… che possa essere più vecchio di Geova, perché è stato Geova a creare il tempo. Ti pare?»
«Avrei fatto meglio a stare zitta» disse lei.
«Cara! Lo dicevo solo per discutere; non intendevo ferire i tuoi sentimenti. Ti spiegavo il punto di vista dei fondamentalisti. Tu, chiaramente, segui un altro sistema. Perché non me lo spieghi? Parlami di questi Dei più antichi.»
«Li conosci. Da chi prendono il nome i giorni della settimana?»
«Dalle divinità pagane: martedì da Marte nei paesi latini e da Thor in quelli sassoni, mercoledì rispettivamente da Mercurio e da Wotan…»
«Odino. “Wotan” è la distorsione tedesca. Padre Odino e i suoi due fratelli hanno creato il mondo. All’inizio c’era il vuoto, il nulla; poi il resto della narrazione assomiglia alla Genesi, ci sono perfino gli equivalenti di Adamo ed Eva, ma si chiamano Askr ed Embla.»
«Forse è davvero la Genesi, Margrethe.»
«Cosa intendi dire, Alec?»
«La Bibbia è la parola di Dio, e le sue versioni nelle varie lingue sono ispirate da Dio: in particolare quella in lingua inglese eseguita sotto Re Giacomo, che fu tradotta dai più grandi studiosi dell’epoca; nel caso di diversità di opinione, le risolse direttamente il Signore, a cui si fece ricorso mediante la preghiera. Perciò anche la versione inglese della Bibbia è la parola di Dio.
«Ma non è detto che sia la sola» continuai. «Anche i libri sacri di un’altra razza, scritti in un’altra lingua, possono essere ispirati da Dio… se corrispondono alla narrazione biblica. Non mi hai detto che ci sono delle corrispondenze?»
«Be’, solo la creazione e Adamo ed Eva, Alec» disse lei. «La cronologia non corrisponde affatto. Hai detto che il mondo è stato creato circa seimila anni fa, vero?»
«Più o meno. Secondo Hales, il periodo è più lungo. La Bibbia non fornisce date; quella delle date è un’invenzione moderna.»
«Ma anche il periodo più lungo… quello di Hales?… non sarebbe sufficiente» obiettò lei. «La cifra dovrebbe essere di circa centomila anni.»
Stavo per protestare… ma mi fermai in tempo: non volevo che Margrethe s’interrompesse. «Continua, cara. E i vostri scritti religiosi riferiscono quel che è successo durante l’intero periodo?»
«Gran parte di questi fatti sono successi prima della scoperta della scrittura. In parte sono conservati nei poemi epici cantati dai poeti guerrieri, gli scaldi. Ma anche la poesia iniziò soltanto quando gli uomini impararono a vivere in tribù e Odino insegnò loro il canto. Per la maggior parte del tempo, il mondo fu dominato dai giganti del ghiaccio: a quell’epoca, gli uomini erano poco più di animali selvatici, a cui veniva data la caccia. Ma la vera differenza tra le cronologie è questa, Alec. La Bibbia va dalla creazione al giorno del giudizio universale, poi ci sarà il Millennio… mille anni di regno di Cristo sulla terra, a cui farà seguito la guerra nei cieli e la fine del mondo. Da quel momento in poi esisteranno solo la città dei cieli e l’eternità: il tempo si fermerà. È giusto?»
«Sì. Un esperto di escatologia cristiana direbbe che è una descrizione un po’ semplificata, ma hai descritto bene le linee principali. I particolari sono dati nel Libro delle Rivelazioni: l’Apocalisse di san Giovanni. Molti profeti avevano predetto questi eventi, ma l’unica descrizione completa è quella di san Giovanni, perché fu Cristo a dargliela, per porre fine agli inganni dei falsi profeti. La cronologia completa è dunque la seguente: la creazione, poi il peccato originale, i lunghi secoli di prove e di lotte, poi la battaglia finale, seguita dal giudizio e dal regno di Dio. La tua fede cosa dice, amore?»
«La nostra battaglia finale si chiama Ragnarok e non Armageddon…»
«La terminologia non cambia la sostanza.»
«No, caro. Il nome non ha importanza, ma ha importanza quel che succederà. Nel vostro giorno del giudizio, le capre saranno separate dalle pecore. I prescelti andranno alla beatitudine eterna, i dannati alla punizione eterna. Giusto?»
«Giusto. Per completezza, però, occorre ricordare che alcuni studiosi ritengono che le pene dell’inferno non sono eterne, perché l’amore di Dio è troppo grande: prima o poi anche i dannati saranno accolti in cielo. Per certi teologi, questa è un’eresia… ma a me piace. L’idea della dannazione eterna non mi è mai piaciuta: evidentemente, sono un sentimentale.»
«Lo so, Alec, ed è per questo che ti amo. Penso che l’antica religione dovrebbe piacerti: essa, per esempio, non prevede la dannazione.»
«No?»
«No. Con il Ragnarok, il mondo che conosciamo sarà distrutto. Ma non sarà questa la fine. Dopo un lungo periodo di guarigione e di assestamento, sarà creato un nuovo universo, migliore di questo e privo dei suoi mali. Anch’esso durerà per infiniti millenni, finché le forze del ghiaccio e del male non si opporranno nuovamente a quelle del bene e della luce. Poi ci sarà un nuovo periodo di riposo, seguito da una nuova creazione e da un altro periodo di prova per gli uomini. Niente è mai finito, niente è mai concluso, ma ogni volta la razza degli uomini ha una nuova possibilità di migliorarsi, senza fine.»
«E tu credi a questo, Margrethe?»
«Trovo più facile credere a questo che al piacere eterno dei beati e alla disperazione dei dannati, come previsto dalla fede cristiana. Si dice che Geova sia onnipotente. Se questo è vero, allora i poveri dannati dell’inferno sono laggiù perché Geova l’ha voluto fin dall’inizio, ha progettato la cosa nei dettagli. No?»
Esitai a rispondere. Quello di conciliare tra loro l’onnipotenza, l’onniscienza e la suprema bontà divine è il problema più spinoso della teologia: perfino i gesuiti ci si sono spaccati la testa per secoli senza risolverlo. «Margrethe, certi misteri divini non si possono spiegare facilmente. I mortali devono accettare come articolo di fede che il Padre sia benevolo verso di noi, anche se non comprendiamo le sue opere.»
«Allora, anche un bambino di pochi giorni deve capire le intenzioni benevole di Dio, quando gli spaccano la testa contro le pietre? E mentre se ne fila dritto all’inferno, deve lodare il Signore per la sua saggezza e la sua bontà, che sono infinite?»
«Margrethe! Cosa dici!»
«Mi riferisco ai punti dell’Antico Testamento dove Geova ordina di uccidere i bambini, e in particolare di ucciderli sbattendoli contro le pietre. Prendi il salmo che inizia con le parole “Lungo i fiumi di Babilonia” e che dice: “beato chi prende e sbatte i bambini tuoi contro le rupi”. E le parole del Signore Geova in Osea: “I loro figli saranno fatti a pezzi, e le loro donne gestanti sventrate”. C’è anche l’episodio di Eliseo e dei bambini. Alec, ti sembra giusto che Dio abbia mandato gli orsi a sbranare quei bambini solo perché avevano preso in giro la calvizie di un vecchio?»
Attese la mia risposta. Poi, visto che non parlavo, chiese: «Anche la storia dell’orsa e dei 42 bambini è la parola di Dio da prendere alla lettera?»
«Certo, ma non pretendo di capirla fino in fondo. Forse è da prendere come una parabola. Non so. Se vuoi la spiegazione dettagliata di tutte le azioni di Dio, pregaLo che ti illumini! Del resto, mi pare che anche il tuo Odino abbia diverse uccisioni al suo attivo.»
«Sì, ma non sulla scala di Geova, che ha fatto distruggere una città dopo l’altra, sterminandone tutti gli abitanti. Odino ha ucciso solo in combattimento, e contro avversari della sua stessa forza. Ma, soprattutto, Odino non è onnipotente e non pretende di essere il depositario di ogni saggezza.»
(Una teologia che evita i problemi più spinosi… come chiamarlo “Dio” se non è onnipotente?)
Margrethe proseguì: «Alec, caro, non voglio attaccare la tua fede. Ma tu mi hai chiesto cosa pensavo della Bibbia, e onestamente ti devo dire che il Geova o Yahweh dell’Antico Testamento mi pare un sadico, sanguinario e genocida. Non vedo come si possa conciliarlo con la figura gentile del Cristo del Nuovo Testamento, neanche attraverso la mediazione di una misteriosa Trinità».
Stavo già per rispondere, ma lei mi interruppe. «Ascolta ancora una cosa, caro, prima di cambiare argomento. C’è una cosa che mi preoccupa. La tua religione è in grado di spiegare questa strana cosa che ci è successa? Una volta a me, due volte a te… questo cambiamento di mondo?»
(Quanto me l’ero domandato io stesso!) «Devo ammettere di no» risposi. «Mi piacerebbe avere una bibbia per cercare la spiegazione. Ma ho cercato fra i brani che ricordo, e non ho trovato niente. È qualcosa di assolutamente imprevisto. Però…» le sorrisi «…la provvidenza ti ha messa accanto a me: ogni mondo è il mio, se sono con Margrethe.»
«Caro. Te l’ho chiesto perché l’antica religione riesce invece a spiegarlo.»
«Cosa?»
«Sì, ma la spiegazione non è affatto piacevole. All’inizio del presente ciclo, Loki è stato vinto… sai chi è Loki?»
«Più o meno. Il dio che combina guai.»
«“Guai” è un termine un po’ fiacco. È l’origine del male. È rimasto prigioniero per migliaia di anni, incatenato a una grande roccia. Alec, la fine di ogni ciclo della storia dell’uomo comincia nello stesso modo: Loki riesce a liberarsi dalle sue catene, e ha inizio il caos.»
Mi guardò con grande tristezza. «Alec, mi spiace… ma credo che Loki si sia liberato. Questi portenti lo indicano. Adesso può succedere qualsiasi cosa. Entriamo nel crepuscolo degli Dei. Il Ragnarok si avvicina. Il nostro mondo finisce.»