“Con gli omaggi della direzione”! E come avevano fatto a sapere? Nessuno era al corrente del mio arrivo prima che mi sbattessero fuori a calci nel sedere dalla porta di Giuda. Che san Pietro avesse un “telefono rosso” collegato all’inferno? Che ci fosse qualche genere di collaborazione sotterranea con l’Avversario? Alec, come si sarebbe scandalizzato, il tuo Comitato dei Vescovi!
E poi: perché quell’appartamento in omaggio? Ma non ebbi il tempo di rifletterci, perché la diavolessa suonò il campanello e gridò: «All’ingresso!»
Il fattorino che accorse alla chiamata era umano, e mi parve un giovane molto attraente. Mi chiesi perché fosse morto così giovane e perché non fosse andato in paradiso. Ma la questione non mi riguardava, e perciò non feci domande. Notai però una cosa, quando mi precedette verso il mio appartamento: ancheggiava in modo piuttosto equivoco. Che fosse stato quel vizio a farlo finire laggiù?
Mi dimenticai della cosa quando entrai nell’appartamento.
Il salotto era piccolo per il gioco del rugby, ma per il tennis poteva andare bene. L’arredamento sarebbe stato definito “adeguato” anche da un principe delle Mille e una notte. Nell’alcova che mi fu indicata come “per uno spuntino” c’era un buffet freddo per una cinquantina di persone, con, in fondo, anche qualche piatto caldo: un maiale arrostito — con la mela in bocca — un pavone al forno con le piume rimesse al loro posto, e altri bocconi del genere. Di fronte al buffet c’era un bar fornito di tutto punto: il commissario di bordo della Konge Knut si sarebbe tolto tanto di cappello.
Il mio fattorino (“Pat”, disse di chiamarsi) apriva le tende, controllava le finestre, metteva a posto gli asciugamani: le solite attività che svolgono i fattorini per prendere una buona mancia, e io intanto mi chiedevo come dargliela. Ci si poteva far addebitare sul conto le mance per il personale? Decisi di chiederlo a lui stesso. Perciò attraversai la stanza da letto (lunga come una passeggiatina digestiva!) e lo trovai nel bagno.
Intento a spogliarsi. Con i calzoni a mezz’asta e sul punto di toglierseli; il fondoschiena rivolto verso di me. «Ehi, ragazzo! No! Grazie del pensiero… ma la mia passione non sono precisamente i bei giovanotti.»
«La mia, sì» rispose Pat. «Ma io non sono un giovanotto.» E si voltò verso di me.
Pat aveva ragione. Non era affatto un giovanotto.
Rimasi lì a bocca aperta, mentre si toglieva il resto dei vestiti e li metteva nel cestino della lavanderia. «Finalmente!» esclamò. «Come sono contenta di essermi tolta quel vestito da scimmia! L’ho infilato non appena mi hanno avvertito di averti individuato sul radar. Che ti è successo, sant’Alexander? Ti sei fermato a bere una birra?»
«Be’… sì. Due o tre birre, anzi.»
«Lo supponevo. C’era di guardia Bert Kinsey, vero? Se il Lago traboccasse fino a coprire di lava questa parte di città, Bert si fermerebbe ancora a bere una birra, prima di squagliarsela. Ehi, cosa c’è che non va? Ho detto qualcosa di sbagliato?»
«Uh, signorina. Lei è molto graziosa… ma non avevo chiesto neppure una ragazza.»
Lei si avvicinò a me e mi sfiorò la guancia. Sentii il suo respiro sulla pelle, sentii il suo profumo. «Sant’Alec» mi disse piano «non sono qui per sedurti. Oh, sono disponibile, certo; ogni appartamento di lusso ha in dotazione una o più entraîneuse. Ma io posso fare molte altre cose.» Afferrò un asciugamani e se lo drappeggiò attorno alle anche. «Ragazza di bagno ichiban, anche. Piego, vuole me massaggiale schiena?» Sorrise e si sfilò l’asciugamani. «Sono anche una barista di prima classe. Vuoi uno zombie danese?»
«Chi ti ha detto che mi piace lo zombie?»
Si era allontanata da me, per andare ad aprire un armadio. «Tutti i santi che conosco ne bevono. Ti piaccio con questo?» Mi mostrò una vestaglia che pareva fatta di nebbia azzurra.
«Incantevole. Quanti santi conosci?»
«Uno. Tu. Anzi, due, ma l’altro non beve zombie. Scusa. Volevo solo fare una battuta.»
«No, te l’ho chiesto perché l’informazione mi potrebbe servire. Te l’ha mica detto una ragazza danese? Biondo-cenere, alta come te, più o meno della stessa corporatura? Margrethe, o Marga. Anche “Margie”.»
«No, l’ho letto nel promemoria che ho ricevuto quando mi hanno assegnato a te. Questa Margie… è una tua amica?»
«Qualcosa di più di un’amica. È per cercare lei che mi trovo all’inferno. O nell’inferno? In inferno? Come si dice?»
«Come preferisci. No. Sono certa di non avere mai visto la tua Margie.»
«Come si fa per trovare un’altra persona, quaggiù? Ci sono delle guide? Degli elenchi elettorali, o che so io?»
«Mai visti. L’inferno non è molto bene organizzato. È un’anarchia, temperata qua e là da un tocco di monarchia assoluta.»
«Pensi che possa chiederlo a Satana?»
Lei ci pensò sopra, poi disse: «Non conosco nessuna legge che vieti di scrivere una lettera a Sua Maestà Infernale. Ma, se è solo per questo, non conosco nessuna legge che assicuri che la legga. Penso che verrebbe aperta e letta da qualche segretario; non credo che si limitino a gettarla nel Lago, non credo proprio.» E aggiunse: «Vuoi che andiamo a vedere? O vuoi già andare a letto?»
«Oh, penso che farò un bagno. Mi pare di averne bisogno.»
«Bello! Non ho mai fatto il bagno a un santo. Dev’essere uno spasso!»
«Oh, non ho bisogno di aiuto. Posso fare da me.»
Fu lei a farmi il bagno.
Poi mi tagliò le unghie e i capelli. Quando le chiesi una lametta, aprì un armadietto del bagno e mi mostrò una decina di sistemi di rasatura. «Suggerisco quel rasoio elettrico con tre testine inclinabili, ma, se ti fidi di me, vedrai che sono abilissima con il vecchio rasoio a mano libera.»
«Mi basta una lametta Gillette.»
«Non so di che tipo siano, ma qui ci sono rasoi di sicurezza adatti a tutte le lame.»
«Preferirei le mie. Inossidabili.»
«Wilkinson Sword?»
«Potrebbero andare… Ah, eccole! Inossidabili Gillette. “Prendi tre pacchetti e ne paghi due.”»
«Bene. Ti faccio la barba.»
«No, questa voglio farmela io.»
Mezz’ora più tardi appoggiavo la schiena ai cuscini, su un letto monumentale, adatto alla luna di miele di un re. Avevo fatto una leggera cena, tenevo in mano uno zombie che doveva servirmi per farmi addormentare e indossavo un pigiama di seta color marrone e oro antico. Pat si tolse il peignoir azzurro che aveva sempre tenuto addosso tranne quando mi aveva fatto il bagno e si sedette accanto a me, dopo avere posato sul comodino, a portata di mano, il suo bicchiere (Glenlivet e ghiaccio).
(Dissi a me stesso: “Ascolta, Marga, non sono stato io a volerlo. C’è solo un letto. Ma è grosso, e lei non cerca di strofinarsi addosso a me. Non vorrai mica che la cacci via, vero? È una brava ragazza; non voglio urtare la sua suscettibilità. E poi sono stanco. Bevo questo e mi addormento subito”.)
Invece, non mi addormentai subito. Pat non era affatto aggressiva, ma era molto ben disposta a collaborare. Con una parte della mente seguivo le sue attività, con l’altra chiedevo scusa a Marga.
Poi ci addormentammo per un po’. Al risveglio guardammo un ologramma animato che, Pat mi disse, era “a luce rossa” (anche se la luce mi parve normale), e venni a conoscenza di molte cose che non sapevo. Risultò che invece Pat le conosceva bene e che era disposta a mostrarmele: prima di farmele insegnare, comunque, spiegai mentalmente a Marga che le imparavo nell’interesse di tutt’e due.
Poi tornammo a dormire.
Qualche tempo dopo, Pat mi svegliò. «Girati verso di me: fatti guardare in faccia. Lo supponevo. Sei ancora triste per la tua innamorata. Cosa devo fare, perché tu possa dormire tranquillo? Dimmelo, descrivimelo. O lo farò io, o farò finta, o chiederò aiuto a qualcuno. Comincio a sentirmi ferita nell’orgoglio professionale!»
«No, no, vai benissimo…» le dissi, per consolarla.
«Ne dubito. Vuoi altre ragazze? Vuoi qualcosa di più fantasioso? L’albergo può preparare tutti gli scenari che vuoi. Giardino persiano, scuola femminile, harem turco, riti della giungla, convento di clausura… già, “convento”… ti ho mai raccontato cosa facevo prima di morire?»
«Non ero neanche sicuro che tu fossi morta.»
«Oh, certo. Non sono un diavolo che posa da essere umano; sono una donna. Pensi che qualcuno possa avere un posto di questo genere senza esperienza umana? La storia sulle superiori qualità amatorie dei succubi è solo una pubblicità, messa in giro da loro stessi. Io ero una monaca, Alec; lo sono stata dall’adolescenza alla morte, e per gran parte di questo tempo ho insegnato grammatica e aritmetica a bambini che non avevano voglia di imparare.
«Presto mi sono accorta che la mia vocazione non era sincera. Ma non sapevo come togliermi di lì. E così ci sono rimasta. A trent’anni ho scoperto quanto fosse stato grave il mio errore, perché la mia sessualità è maturata. Voglio dire che sentivo il desiderio di avere un uomo, e che questo desiderio aumentava ogni anno.
«Il grave non era il fatto di essere soggetta alla tentazione, ma quello di non esserlo affatto… perché avrei approfittato di qualsiasi occasione e poi mi sarei messa il cuore in pace. Ma non ne ho mai avute. Il mio confessore avrebbe potuto guardarmi con interesse se fossi stata un ragazzino del coro, ma, così com’ero, non gli interessavo. Quando mi confessavo, dormiva. D’altra parte, la cosa non mi stupiva, perché i miei peccati erano noiosi anche per me.»
«E che peccati erano, Pat?»
«Fantasie erotiche, che in gran parte finivo per non confessare. Non essendo perdonate, finivano direttamente sui registri di san Pietro. “Fornicazione adultera blasfema.”»
«Davvero, Pat? Dovevi avere un’immaginazione notevole!»
«Non è detto. Probabilmente non conosci la condizione delle monache. Una monaca è una sposa di Gesù: così dice il contratto. Perciò le basta pensare al sesso per essere una moglie adultera nel senso peggiore.»
«Già. Però, Pat, recentemente ho incontrato due monache in Cielo. Tutt’e due mi parevano ragazze abbastanza sportive, soprattutto una. Eppure, erano lassù.»
«Non c’è nessuna contraddizione. Gran parte delle monache confessa regolarmente i peccati e viene perdonata. Poi muoiono tra le loro sorelle, alla presenza del cappellano o del confessore. Quando ricevono l’estrema unzione, tutti i loro peccati sono stati assolti, e queste monache filano dritte in cielo, pure come gigli. Ma per me non è andata così.» Sorrise. «Sono stata punita per i miei peccati, e sono contenta di esserlo. Sono morta nel 1918, durante la grande epidemia di spagnola, e in quel periodo è morta così tanta gente, e così in fretta, che non hanno fatto in tempo a chiamare un prete che mi spedisse in Cielo. E sono arrivata qui. Alla fine del mio millennio di apprendistato…»
«Un momento! Non sei morta nel 1918?»
«Sì. Nata nel 1878, morta nel 1918, il giorno del mio quarantesimo compleanno. Preferisci che dimostri quarant’anni? Se vuoi, posso farlo.»
«No, no, vai bene come sei. Ma non cambiare discorso. Hai citato un “millennio di apprendistato”.»
«Sì.»
«Ma hai anche detto di essere morta nel 1918. L’Ultima Tromba ha risuonato nel 1994: lo so perché ero presente. A me, sembra che da allora siano passati solo pochi giorni; massimo un mese. Ma qualcuno mi ha detto che sono passati più di sette anni. Anche così, non possono essere mille.» (Maledizione, che siano passati mille anni da quando sono stato separato da Margrethe? Non vale!)
«Oh, Alec, nell’eternità, quando si dice “mille anni” o “un millennio” non significa un intervallo preciso di tempo; vuole semplicemente dire una durata molto lunga. Nel mio caso, il tempo necessario per capire se avevo predisposizione per le attività amatorie. Quando sono arrivata qui, devi sapere, il mio desiderio era forte, ma le mie conoscenze erano quasi nulle. Zero! Però, pian piano ho imparato, e alla fine Maria Maddalena mi ha dato una buona votazione e mi ha raccomandato per un posto fisso.»
«Come? Anche lei è qui?»
«No. Viene solo come consulente; ha la cattedra all’università celeste.»
«E che materia insegna, in Cielo?»
«Non ne ho idea, ma non quella che insegna qui. Almeno, non credo. Uhm. Alec, lei è uno dei grandi dell’eternità; fa quello che vuole. Ma adesso sei stato tu a farmi perdere il filo. Ti dicevo che non conosco la durata del mio apprendistato perché la durata del tempo è quella che ognuno di noi sente. Da quanto tempo siamo qui, secondo te?»
«Be’, un po’. Ma non tantissimo. Più o meno, adesso sarà mezzanotte.»
«È mezzanotte se vuoi che sia mezzanotte. E adesso lascia fare a me.»
L’indomani mattina (o quello che era) io e Pat andammo a fare colazione sulla balconata che dava sul Lago. Lei si era vestita nel modo preferito da Marga: calzoncini corti e un “top” che minacciava di scoppiare se traeva un respiro troppo profondo. Non so dove avesse preso i vestiti, ma nella notte qualcuno mi aveva lavato e stirato calzoni, camicia e biancheria… l’inferno è pieno di demonietti che si occupano di questo genere di servizi.
Inoltre, nell’ultima parte della notte non mi sarei svegliato neppure se fosse entrato nella mia stanza un branco di oche imbizzarrite.
Studiai la faccia di Pat, seduta dirimpetto a me, e approvai la sua aria di ragazza pratica e spigliata, senza grilli per la testa. Perché, mi chiesi, per tanto tempo avevo associato al sesso un senso di colpa? Adesso avevo avuto la prova che non c’era alcun legame tra le due cose (a meno che uno non volesse sentirlo come un’attività peccaminosa).
Quando ero giunto laggiù, ero triste e frastornato dopo tutte le irritazioni che avevo provato in Cielo e la scenata finale con san Pietro… Pat mi aveva ridato la calma e la fiducia, mi aveva aiutato a riposare, e adesso mi permetteva di godermi quella bella mattinata.
Questo non toglie che sono sempre ansiosissimo di trovarti, Marga, amore… ma adesso sono in forma migliore per riprendere la ricerca.
(Chissà se anche Margrethe sarà disposta a vedere le cose in questo modo?)
Be’, Marga non era mai stata gelosa di me…
Che cosa avrei detto, se anche lei si fosse presa un interludio — interludio sessuale — come il mio della notte prima? Ecco, anche questa è una buona domanda.
Mi affrettai a guardare il Lago. Le fiamme illuminavano di luce rossastra il fumo che si alzava sulla sua superficie, ma tutt’attorno, sulle sponde, si scorgevano i colori di una dolce riviera marina: alberi verdi, terra marrone, monti lontani, con le cime coperte di neve perenne. «Pat…»
«Sì?»
«Tra noi e il lago non possono esserci più di cento passi. Ma non sento odore di zolfo.»
«Osserva la direzione del vento: guarda quelle bandiere. La brezza soffia sempre verso il Lago. Giunta sopra di esso, si solleva lungo il Pozzo… e, detto per inciso, questa corrente rallenta le anime che arrivano di moto balistico. Dall’altra parte del pianeta c’è un’analoga corrente in discesa, su un pozzo di ghiaccio. Laggiù l’idrogeno solforato reagisce con l’ossigeno e dà acqua e zolfo. Lo zolfo si deposita e l’acqua ritorna in circolazione come vapore acqueo dell’atmosfera. I due pozzi e la circolazione dell’aria controllano il clima del pianeta, un po’ come la luna controlla quello della terra, ma con meno sbalzi.»
«La fisica non è mai stata il mio forte… ma non mi sembrano le leggi naturali che mi hanno insegnato a scuola.»
«E infatti non lo sono. Qui c’è un altro Capo, e gestisce il pianeta come piace a lui.»
La mia risposta fu sommersa da un forte suono di gong, proveniente dall’appartamento. «Vado a vedere?» chiese lei.
«Sì, ma probabilmente è solo la cameriera del piano.»
«No, Alec. La cameriera entra in una stanza senza annunciarsi, quando vede che non ci serve più.»
Corse nell’appartamento e ritornò pochi istanti più tardi, con una busta. «Una lettera, portata per corriere imperiale. Per te.»
«Per me?» La presi, con cautela, e la aprii. In cima c’era uno stemma in rilievo: il Diavolo in una raffigurazione convenzionale, in rosso, con le corna, gli zoccoli, la coda, il forcone, e circondato dalle fiamme. Sotto:
Sant’Alexander Hergensheimer
Sans Souci Sheraton
Capitale
In risposta alla sua petizione per un’udienza con Sua Maestà Infernale, Satana Mekratig, Sovrano dell’Inferno e delle Sue Colonie Esterne, Primo dei Troni Caduti, Principe delle Menzogne, mi pregio di informarla che Sua Maestà le chiede di corredare la richiesta fornendo a questo ufficio un memoriale completo e sincero della sua vita. Al ricevimento di detto memoriale verrà presa una decisione definitiva relativamente alla petizione in oggetto.
Vorrei inoltre unire al messaggio di Sua Maestà un suggerimento a titolo personale: qualsiasi tentativo di omettere, riassumere, o alterare fatti nella convinzione di compiacere Sua Maestà non sarà affatto apprezzato.
Distinti saluti (Firmato) Beelzebub
Segretario di Sua Maestà
La lessi a Pat. Lei batté gli occhi per la sorpresa e si lasciò sfuggire un fischio. «Allora, è meglio darsi da fare!» disse.
«Io…» Il foglio prese fuoco. Lo lasciai cadere nel piatto sporco, tra gli avanzi. «Succede sempre così?»
«Non saprei. È la prima volta che vedo un messaggio proveniente dal Capo. Ed è la prima volta che sento parlare di udienze, sia pure sotto condizione.»
«Pat, non ho chiesto nessuna udienza. Pensavo di farlo, e oggi mi proponevo di informarmi sulla procedura. Ma la petizione di cui si parlava nella lettera non l’ho ancora scritta.»
«Allora, è meglio che ti sbrighi a farlo, subito. Non bisogna lasciare le cose in sospeso. Te la batto a macchina io.»
Durante la nostra assenza, i diavoletti dovevano essersi dati da fare. In un angolo dell’immenso soggiorno avevano portato due scrivanie: su una c’erano fogli e penne, sull’altra un’attrezzatura molto più complicata. Pat si recò subito a questa scrivania. «Mio caro, vedo che sono ancora assegnata al tuo servizio. Adesso sono la tua segretaria. Il più recente sistema di videoscrittura Hewlett-Packard… sarà uno spasso! Oppure sai scrivere a macchina?»
«Temo di no.»
«Okay, tu scrivi a mano; io te lo ribatto, e controllo anche la bella forma. Tu pensa solo a scrivere. Ora capisco perché mi hanno scelta. Non per i miei sorrisi… ma per la mia velocità di dattilografa. In gran parte, le mie colleghe non sanno scrivere a macchina. Hanno scelto la carriera dell’intrattenitrice perché stenografare e dattilografare erano troppo difficili. Ma non io! Diamoci da fare: per terminare il lavoro, occorreranno giorni, settimane; non so neppure io quanto. Vuoi che continui a dormire qui?»
«Perché, vuoi andare via?»
«Mio caro, questa è una decisione che spetta al cliente.»
«Allora, non voglio che te ne vada.» (Marga! Sforzati di capirmi!)
«Hai fatto bene a dare questa risposta, perché altrimenti sarei scoppiata in lacrime. E poi, una buona segretaria deve essere sempre vicina, caso mai saltasse su qualcosa nella notte.»
«Pat, questa battuta era già vecchia quando ero bambino.»
«Era già vecchia quando dovevi ancora nascere, mio caro. Mettiamoci al lavoro.»
Immaginate un calendario (che qui non c’è) e pensate al vento che porta via i fogli, uno per volta. Il manoscritto diventava sempre più lungo, ma Pat continuava a dire che il consiglio del principe Beelzebub andava preso alla lettera.
Pat faceva due copie di quello che scrivevo; una copia diventava progressivamente sempre più spessa, sulla mia scrivania, l’altra scompariva ogni notte. I soliti diavoletti, indubbiamente. Pat diceva che la copia che spariva finiva probabilmente a Palazzo, quasi di certo sulla scrivania del principe: questo significava che il lavoro fatto fino a quel momento doveva essere soddisfacente.
Ogni volta, Pat impiegava meno di due ore a ribattere quello che io scrivevo in una giornata di lavoro. Ma a un certo punto rallentai il ritmo, perché arrivò un biglietto scritto a mano:
Lei lavora troppo. Si diverta un poco. Porti la ragazza a teatro. Vada a prendere aria, faccia un picnic. Si rilassi.
(f.) B.
Il biglietto si distrasse non appena letto, e da questo ebbi la prova che era autentico. Perciò obbedii. Con piacere. Ma non intendo descrivere i lussi della città satanica.
Questa mattina ho raggiunto lo strano punto in cui scrivevo (scrivo) quello che sta succedendo in questo preciso momento… e passo a Pat l’ultima pagina.
Meno di un’ora dopo che ebbi scritto la riga precedente, il gong suonò. Pat si recò nel foyer, tornò indietro di corsa e mi abbracciò. «È un addio, mio caro. Non ci vedremo più.»
«Cosa?»
«Proprio come ho detto. Questa mattina mi hanno informato che il mio attuale lavoro è finito. E devo dirti ancora una cosa. Devi sapere che tutti i giorni ho fatto rapporto su di te. Non prendertela. È il mio lavoro; faccio anche parte del servizio di sicurezza imperiale.»
«Maledizione! Allora, ogni tuo abbraccio, ogni tuo sospiro, erano falsi.»
«No, nemmeno uno! E quando troverai la tua Marga, dille da parte mia che è fortunata.»
«Sorella Mary Patricia, è un’altra bugia?»
«Sant’Alexander, non ti ho mai mentito. Alcune cose ho potuto solo dirtele quando mi hanno dato il permesso. Tutto qui.» Si staccò da me.
«Ehi, non mi dai neppure il bacio d’addio?»
«Alec, se vuoi baciarmi, hai solo da farlo.»
E così feci io. Se Pat finse anche allora, è un’attrice migliore di quel che penso.
Due giganteschi angeli caduti mi aspettavano per portarmi al Palazzo. Erano armati di pesanti spade, e portavano elmo e corazza. Pat aveva infilato in un’elegante cartellina il mio manoscritto e mi aveva detto che dovevo portarlo con me. Feci per allontanarmi… poi mi ricordai all’improvviso di una cosa: «Il rasoio!»
«Guarda nel taschino.»
«Uh? Come c’è finito?»
«Sapevo che non saresti più ritornato.»
Anche ora notai che quando ero in compagnia degli angeli — caduti o no — ero in grado di volare. Prendemmo il volo dal mio balcone, girammo attorno al Sans Souci Sheraton, attraversammo la Piazza e atterrammo su un balcone del piano nobile del palazzo di Satana: Pandemonium. Poi percorremmo un’infinità di corridoi, salimmo alcuni scalini troppo alti per gli esseri umani, io inciampai, uno dei miei accompagnatori mi sorresse… il tutto senza dire neppure una parola.
Due grandi battenti di bronzo, grossi e istoriati come quelli delle cattedrali papiste, si spalancarono. Venni accompagnato all’interno. E laggiù lo vidi.
Una navata buia e piena di fumo, guardie schierate lungo entrambe le pareti, un trono altissimo, e, seduto sul trono, un Essere alto almeno il doppio di un uomo… e quell’Essere era il solito diavolo che si vedeva su certe vecchie etichette pubblicitarie della mia infanzia: corna, coda, occhi di brace, il forcone al posto dello scettro, riflessi delle fiamme dei bracieri sulla pelle lucida e di color rosso scuro, muscoli possenti. Dovetti dirmi che il Principe delle Menzogne poteva assumere qualsiasi aspetto volesse: probàbilmente, se mi si era mostrato in quella forma, era perché voleva incutermi timore.
Quando parlò, la sua voce mi parve una sirena da nebbia: «Sant’Alexander, puoi accostarti a me».