Lo strato di carboni accesi era lungo otto metri e largo tre, e profondo almeno mezzo metro. Il fuoco bruciava ormai da alcune ore. Dalla distesa di braci arroventate si levava una vampata di calore insopportabile, che si sentiva anche dalla mia posizione situata a cinque metri di distanza, nella seconda fila di turisti.
Avevo ceduto la mia sedia di prima fila a una delle signore della nave, per potermi riparare dal calore dietro la sua carcassa ben pasciuta. Ero tentato di indietreggiare ancora… ma volevo vedere da vicino coloro che avrebbero camminato sul fuoco. Dopotutto, non capita tutti i giorni di assistere a un miracolo.
«È un trucco» disse l’Uomo Vissuto. «Vedrete.»
«Non proprio un trucco come crede lei, Gerald» ribatté l’Esperto Universale. «Solo un po’ meno di quello che ci vogliono far credere. Non ci sarà l’intero villaggio; forse non vedremo le danzatrici di hula e neppure i bambini. Ci sarà un paio di giovanotti, con i calli spessi come cuoio sotto le piante dei piedi, e pieni fino alle orecchie di oppio o di qualche altra droga locale, che attraverseranno di corsa lo strato di carboni. Gli abitanti del villaggio applaudiranno, e il nostro amico canaco che traduce per noi ci costringerà con le buone maniere a dare una mancia a coloro che hanno camminato sul fuoco, anche se abbiamo già pagato per il luau, per la danza e per lo spettacolo.
«Del resto, non si può neppure parlare di imbroglio vero e proprio» continuò. «Sul dépliant dell’escursione si accennava a una “dimostrazione di camminatori sul fuoco”.. E questo è quanto avremo. Non badi a chi parlava di un intero villaggio che camminava sui carboni accesi. Non rientra nel contratto.» L’Esperto fece un sorrisino di superiorità.
«Ipnotismo di massa» sentenziò il Noioso Di Professione.
Io ero tentato di chiedergli cosa significava “ipnotismo di massa”, ma a me nessuno avrebbe dato retta: io ero un novellino… non necessariamente di anni, ma di navigazione sulla nave da crociera Konge Knut. È la legge delle crociere: chi è salito a bordo in uno dei porti intermedi ha un rango inferiore a chi si è imbarcato fin dal porto di partenza. È una regola che risale probabilmente al tempo dei medi e dei persiani, e non ammette deroghe. Io, che ero arrivato a Papeete con il Count von Zeppelin e che dovevo ritornare a casa con l’Admiral Moffett, sarei rimasto per sempre un diseredato della terra, costretto a star zitto ad ascoltare, mentre i miei superiori pontificavano.
Sulle navi da crociera si trovano il miglior cibo del mondo e le conversazioni peggiori. Nonostante questo, il giro delle isole mi piaceva; riuscivo perfino a sopportare il Teosofo, l’Astrologo Dilettante, il Freudiano Da Salotto e la Numerologa, dato che non li ascoltavo.
«Lo fanno mediante la quarta dimensione» spiegò il Teosofo. «Vero, Gwendolyn?»
«Esattamente, caro» confermò la Numerologa. «Oh, stanno arrivando! Saranno in numero dispari, vedrai.»
«Quante cose sai, amore!»
«Uhm» brontolò lo Scettico.
L’indigeno che faceva da guida alla nostra escursione sollevò le braccia per chiederci di fare silenzio. «Prego, ascoltate tutti! Grazie molte. L’alto sacerdote e la sacerdotessa adesso invocano gli Dei perché il fuoco non faccia male agli abitanti del villaggio. Vi prego di ricordare che questa è una cerimonia religiosa molto antica; per favore, siate rispettosi, come se foste nella vostra chiesa…»
Un canaco vecchissimo lo interruppe; lui e la guida si scambiarono alcune parole in una lingua che non conoscevo — polinesiano, probabilmente, a giudicare dal suo timbro liquido — e il nostro accompagnatore si girò di nuovo verso di noi.
«L’alto sacerdote mi dice che alcuni dei bambini attraversano il fuoco per la prima volta, compreso il bambino che è ancora in braccio alla madre. Vi chiede di rimanere in silenzio durante le preghiere, perché i bambini potrebbero farsi male. Lasciatemi aggiungere che io sono cattolico. A questo punto invoco sempre la Vergine Maria perché protegga i bambini; chiedo anche a voi di pregare secondo la vostra religione. O, almeno, fate silenzio e pensate qualcosa di buono su di loro. Se l’alto sacerdote non si riterrà soddisfatto del vostro comportamento, se non lo giudicherà abbastanza rispettoso, non permetterà ai bambini di entrare nel fuoco. Una volta ha perfino cancellato l’intera cerimonia.»
«Capito, Gerald?» commentò l’Esperto Universale, con un mormorio da terza fila di platea. «Prima tutta la scena, poi l’avvertimento, e adesso non se ne farà nulla, e daranno la colpa a noi!»
L’Esperto — si chiamava Cheevers — continuava a irritarmi da quando ero salito sulla nave. Mi piegai verso di lui e gli dissi piano: «Se quei bambini dovessero davvero camminare sul fuoco, lei avrebbe il coraggio di imitarli?»
Che questo sia di lezione a tutti. Imparate dal mio cattivo esempio. Non perdete mai il buon senso per una banale ripicca verso uno scocciatore. Nel giro di pochi istanti, la mia sfida venne rivoltata contro di me, e ciascuno del terzetto — Esperto, Scettico e Uomo Vissuto — scommise un biglietto da cento che io non avrei avuto il coraggio di camminare sui carboni accesi, ammesso e non concesso che ci camminassero i bambini.
Poi il traduttore ci intimò nuovamente di fare silenzio; i due sacerdoti salirono sui carboni e nessuno parlò più. Suppongo che alcuni di noi pregassero. Io recitai la prima cosa che venne in mente.
“Angelo di Dio che sei il mio custode…”
Chissà perché, in quel momento mi parve una preghiera molto adatta.
Il sacerdote e la sacerdotessa non camminarono sui carboni accesi; fecero qualcosa di molto più spettacolare e, almeno pensai io, di molto più pericoloso. Rimasero fermi sulle braci, a piedi nudi, e pregarono per vari minuti. Vidi che muovevano le labbra. Di tanto in tanto il vecchio sacerdote spargeva una polverina sul fuoco. Di qualsiasi cosa si trattasse, quando toccava i carboni si levava una nube di scintille.
Cercai di vedere dove avevano i piedi, se li posavano sulle braci o sulle pietre, ma non riuscii a capirlo; d’altra parte, non avrei saputo dire quali delle due fossero peggio. Eppure, la vecchia sacerdotessa, secca come un pezzo di legno, rimaneva placidamente ferma sui carboni: come unica precauzione si era rimboccata il lava-lava come si fa con certi pannolini per neonati. Evidentemente, era più preoccupata di bruciarsi i vestiti che di bruciarsi le gambe.
Tre uomini con lunghi bastoni avevano continuato a spianare i carboni, in modo che lo strato fosse sufficientemente compatto, a beneficio di coloro che l’avrebbero attraversato. Io guardai attentamente il loro lavoro, dato che entro pochi minuti mi sarei trovato a camminare su quelle braci… se prima non mi fossi ritirato, con conseguente perdita della scommessa. Forse era possibile attraversare il letto di braci camminando sulle pietre invece che sui tizzoni.
Poi capii che la cosa non sarebbe stata affatto diversa. Nel Kansas, da bambino, camminando a piedi nudi sul marciapiede riscaldato da sole, una volta mi ero scottato i piedi. La temperatura delle braci doveva essere di varie centinaia di gradi; le pietre erano lambite dalle fiamme da diverse ore. Tra la padella e la brace non c’è mai stata molta differenza…
Intanto, la voce della ragione mi diceva che con tre soli biglietti da cento mi sarei tolto dal pericolo… o preferivo camminare per il resto della vita su due moncherini arrostiti?
Terminato di spianare i carboni, i tre uomini si recarono a un’estremità dello strato di braci, alla nostra sinistra; il resto del villaggio si radunò dietro di loro… compresi i maledetti ragazzini! Che gli era preso, ai loro genitori, di fargli correre un simile rischio? Perché non erano a scuola a studiare?
I tre che avevano spianato i carboni iniziarono l’attraversamento, in fila indiana, nel centro della distesa rovente: tenevano un passo regolare, né troppo lento, né troppo affrettato. Gli altri uomini del villaggio li seguirono uno alla volta, come in processione. Poi venne il turno delle donne, compresa la giovane madre con il bimbo in braccio.
Quando il neonato fu colpito dalla vampata di calore, cominciò a piangere. Allora la madre, senza fermarsi, se lo accostò al petto; il bambino prese a succhiare e non pianse più.
Poi fu la volta dei ragazzi, dagli adolescenti in giù, fino ai bambini in età da asilo d’infanzia. Per ultima passò una ragazzina di circa otto anni, che teneva per mano il fratellino dagli occhi spalancati. Questi non dimostrava più di quattro anni ed era vestito soltanto della propria pelle.
Guardai il bambino e capii che ero servito di barba e capelli: a quel punto non potevo più tirarmi indietro. Una volta, il bambino inciampò, ma la sorella lo aiutò a stare in piedi, e lui proseguì a passetti decisi. Quando giunse alla fine, qualcuno si chinò su di lui e lo prese in braccio.
Era il mio turno.
Il traduttore mi disse: «Come certo avrà compreso, il ministero del Turismo polinesiano non si ritiene in alcun modo responsabile della sua incolumità. Può bruciarsi, o anche morire. La gente del villaggio riesce ad attraversare il fuoco senza danni perché ha fede».
Gli assicurai che anch’io avevo fede, e nello stesso tempo mi chiesi come potessi mentire con tanta sfacciataggine. Gli firmai il documento che mi presentò, in cui lo liberavo di ogni responsabilità.
In men che non si dica, mi trovai a un capo della distesa di braci, con i calzoni rimboccati fino al ginocchio. Calze, scarpe e portafogli erano all’altra estremità dei carboni, su uno sgabello, in attesa che andassi a prenderli. Erano la mia meta, il mio premio… mi chiesi: se non ce l’avessi fatta, se li sarebbero giocati ai dadi? O li avrebbero spediti ai miei eredi?
L’uomo mi suggerì: «Attraversi nel centro; non corra, ma cerchi di non fermarsi».
L’alto sacerdote disse qualcosa, e il mio mentore tradusse: «Dice di non correre, neanche se sentirà bruciare i piedi. Rischierebbe di cadere sui carboni, e a quel punto non potrebbe più rialzarsi. Dice che potrebbe morire. Se posso dire la mia opinione, lei non corre il rischio di morire, a meno che non respiri le fiamme. Ma corre il rischio di procurarsi delle bruttissime scottature. Perciò, non corra, e faccia attenzione a non cadere. Vede quella pietra piatta? È il punto di partenza. Que le bon Dieu vous garde. Buona fortuna».
«Grazie.» Diedi un’occhiata all’Esperto Universale, che sogghignava come uno spettro, ammesso che gli spettri sogghignino. Lo salutai con un cenno della mano, fingendo un’allegria che ero ben lungi dal provare, e posai il piede sulla pietra.
Per i primi tre passi non sentii assolutamente nulla. Solo dopo il terzo cominciai a sentire qualcosa: la paura. Una paura folle, mescolata al rimpianto di non trovarmi in un altro luogo qualsiasi, anziché su quelle braci rosseggianti. Lo sgabello mi sembrava all’altro capo del mondo, se non più lontano ancora. Ma continuai a muovere un passo dopo l’altro, nella speranza che la mia strana insensibilità non mi facesse cadere.
Mi sentii quasi mancare, e improvvisamente mi accorsi che trattenevo il fiato. Trassi bruscamente un respiro… e mi pentii subito di averlo fatto. Su uno strato di carboni così largo c’erano gas arroventati, fumo, anidride carbonica, ossido di carbonio e probabilmente anche l’alitosi di Satana, ma non certo l’ossigeno che mi serviva. Smisi immediatamente di respirare, con gli occhi che mi lacrimavano, e cercai di capire se ero in grado di trattenere il fiato fino all’altra estremità del letto di carboni.
Santo Cielo, non riuscivo neppure a vedere l’altra estremità! Era nascosta dal fumo, e non riuscivo a mettere a fuoco gli occhi. Perciò tirai innanzi, cercando nel contempo di ricordare la formula per la confessione sul punto di morte e così assicurarmi l’ingresso in Paradiso grazie a una formalità.
Forse la formuletta non esisteva neppure. Provai una strana sensazione ai piedi e mi sentii cedere le ginocchia…
«Si sente meglio, signor Graham?»
Ero steso sull’erba e scorgevo, china su di me, una faccia scura, sorridente.
«Penso di sì» risposi. «Che cosa è successo? Sono riuscito ad attraversare i carboni?»
«Oh, li ha attraversati, certo. In modo bellissimo. Ma, all’ultimo passo, ha perso i sensi. Noi eravamo lì ad aspettarla e l’abbiamo tenuta su. Ma mi spieghi cos’è successo? Le è entrato del fumo nei polmoni?»
«Può darsi. Mi sono bruciato?»
«No. Può darsi che le venga una vescica sul piede destro. Ma lei ha attraversato in modo perfetto, a parte lo svenimento, che dev’essere stato causato dal fumo.»
«Lo credo anch’io.» Mi rizzai a sedere, con il suo aiuto. «Mi può dare le scarpe e le calze? Dove sono finiti gli altri?»
«L’autobus è ripartito. L’alto sacerdote le ha tastato il polso e le ha controllato il respiro, ma non ha permesso a nessuno di disturbarla. Se si costringe un uomo a svegliarsi mentre il suo spirito è ancora lontano, lo spirito rischia di non trovare la strada del ritorno. Lui ne è convinto, e nessuno osa contraddirlo.»
«Ha fatto bene. Mi sento a posto. Riposato. Ma come posso ritornare alla nave?» Otto chilometri di paradiso tropicale diventano presto noiosi, una volta percorso il primo. A piedi. Soprattutto se si considera che avevo i piedi un po’ gonfi. Comprensibilmente.
«L’autobus ritornerà a prendere i parenti degli abitanti del villaggio, e lei potrebbe approfittarne per fare ritorno alla nave. Ma c’è un’altra soluzione. Mio cugino ha l’automobile. La porterà lui.»
«Bene. Quanto mi costerà?» Il prezzo delle corse in taxi in Polinesia era sempre esagerato, soprattutto quando occorreva affidarsi alla clemenza degli autisti, che non ne hanno mai avuta. Ma pensai che potevo permettermi quel latrocinio, in quanto le scommesse mi avevano lasciato in attivo. Trecento meno una corsa in taxi. Presi il cappello. «Dov’è il portafogli?»
«Sì, l’avevo infilato dentro il cappello. Dov’è finito? Non c’è niente da ridere; avevo i soldi dentro. E i documenti.»
«I soldi? Oh! Vôtre portefeuille. Mi spiace, non avevo capito la parola. L’uomo della vostra nave, la guida dell’escursione, lo ha tenuto lui.»
«Molto gentile. Ma come potrò pagare vostro cugino? Non ho neanche un franco con me.»
La cosa si chiarì subito. La guida turistica della nave, nel lasciarmi al villaggio, aveva pagato in anticipo il prezzo della corsa. Il canaco mi accompagnò alla macchina del cugino e mi presentò a lui… sforzo inutile, perché l’inglese del cugino si limitava a «Okay, capo» e io non riuscii a capire bene il suo nome.
L’auto era tenuta insieme dal fil di ferro e dalle buone speranze. Ritornammo al porto correndo a tutto gas, spaventando le galline e lasciandoci facilmente alle spalle le capre nane. Io non prestai molta attenzione al tragitto perché, prima che partissi, era successa una cosa strana. Gli abitanti del villaggio erano tutti riuniti ad aspettare il ritorno dell’autobus, e noi, per raggiungere la macchina, dovemmo passare in mezzo a loro. O meglio, cercammo di farlo. Perché mi gettarono le braccia al collo. Mi baciarono tutti. Sapevo dell’abitudine polinesiana di baciarsi in casi in cui noi giudicheremmo sufficiente una stretta di mano, ma era la prima volta che succedeva a me.
Il mio amico mi spiegò: «Avete camminato sul loro fuoco, e perciò siete un membro onorario del villaggio. Vogliono uccidere un maiale in vostro onore. Tenere un banchetto per voi.
Cercai di disimpegnarmi in modo altrettanto cortese, spiegando che dovevo ritornare a casa, al di là della grande acqua, ma che, se Dio l’avesse voluto, un giorno avrei fatto ritorno. Alla fine riuscii a partire.
Ma la cosa che mi aveva maggiormente stupito non era semplicemente quella. In base a qualsiasi giudizio non di parte, io sono un uomo ragionevolmente esperto del mondo. So che in certi paesi non vigono gli alti principi morali di noi americani e laggiù non si dà molto peso alle esibizioni invereconde. So che le donne polinesiane andavano in giro nude dalla cintola in su, prima che arrivasse la civiltà. Cribbio, leggo anch’io il National Geographic.
Ma non mi aspettavo di vederle.
Prima che attraversassi i carboni accesi, le donne erano vestite come sempre: gonnellini di paglia, ma seno coperto.
Ma quando mi diedero il bacio di addio, non lo erano più. Coperte, intendo dire. Erano come nelle antiche stampe.
Ora, io non disprezzo affatto la beltà femminile. Quelle deliziose differenze, osservate nelle circostanze debite, con le tende onestamente tirate, possono far salire il sangue alla testa. Ma, vedersene una quarantina davanti, può essere alquanto imbarazzante. Vidi più busti femminili in quella occasione che in tutta la mia vita. All’Associazione Metodista-Episcopale per la Morale e la Temperanza gli sarebbe preso un accidente.
Con il giusto preavviso, sono certo che mi sarei potuto godere l’esperienza. Invece era stata una cosa troppo nuova, troppo rapida, troppa. Per apprezzarla giustamente, dovevo ripensarci.
La nostra Rolls-Royce dei Tropici si arrestò con un cigolio grazie all’intervento del freno a mano, del freno a pedale, e del freno-motore. Io, ancora semi-euforico, sollevai la testa. L’autista annunciò: «Okay, capo!»
Gli dissi: «Non è la mia nave».
«Okay, capo?»
«Mi ha portato a un molo diverso. No, anzi; il molo sembra quello giusto, ma è la nave che non è la mia.» Ne ero certissimo: la M/N Konge Knut aveva le fiancate dipinte di bianco, vari ordini di ponti e un elegante falso fumaiolo. La nave che stava davanti a me era invece dipinta rosso-minio e aveva quattro fumaioli neri. Doveva essere una vaporiera, non una motonave a nafta. Quel tipo di naviglio era superato da decenni. «No. No!»
«Okay, capo. Vôtre vapeur! Voilà!»
«Non!»
«Okay, capo.» Scese dall’auto, fece il giro, aprì la portiera del lato passeggeri, mi afferrò per il braccio e prese a tirare.
Io sono in ottima forma, ma il suo braccio era rafforzato dalla pratica del nuoto, dall’arrampicata sulle palme da cocco, dal sollevamento di reti da pesca e dal tirare via dall’auto i turisti che non volevano uscirne. Scesi a terra.
Lui tornò dentro, mi lanciò un: «Okay, capo! Merci bien! Au ’voir!» e si dileguò.
Non potendo fare diversamente, salii sulla passerella del vascello ignoto, per sapere che cosa era successo alla Konge Knut. Quando misi piede a bordo, il sottufficiale di guardia alla passerella si portò la mano alla visiera e disse: «’Giorno, signor Graham, il signor Nielsen ha lasciato un pacchetto per lei. Un attimo…» Sollevò il ripiano del suo tavolino di guardia e prese una grossa busta gialla. «Ecco, signore.»
Sulla busta c’era scritto: “A.L. Graham, cabina C109”. La aprii e trovai un portafogli consumato dall’uso.
«Tutto in ordine, signor Graham?»
«Sì, grazie. Può dire al signor Nielsen che l’ho ricevuto? E porgergli i miei ringraziamenti?»
«Certo, signore.»
Notai che quello era il ponte “D”; salii di un piano per trovare la cabina C109.
Diversamente da quel che avevo asserito poco prima, non tutto era in ordine. Io non mi chiamo “Graham”.