Noi tutti, al palazzo, eravamo troppo abituati alla vita dei ricchi, alle nutrici, alle governanti, ai tutori per i bambini. In tutta la Cittadella della Regina, c’era qualcuno che sapesse cosa voleva dire essere padre? La paternità per noi era un atto di passione, presto dimenticato; ma non per Orem ap Avonap. Ignorando il fatto che il biondo e felice contadino non era sangue del suo sangue, Orem aveva preso parte di quell’uomo semplice dentro di sé, tenendola in serbo per quel tempo. In qualsiasi momento, capitava di vederlo correre per il palazzo con Giovane sulle spalle o, in seguito, che gli trotterellava dietro. Le loro risate potevano essere udite quasi dappertutto. E chiunque volesse essere sicuro di vederli, non doveva fare altro che andare nei giardini, e prima o poi sarebbero apparsi, per rotolarsi nell’erba, per strappare gli steli, per giocare a nascondino.
Bella li guardò mai insieme? Io credo di sì, poiché fu allora che, inesplicabilmente, mi raccontò delle tre lezioni che aveva appreso come figlia del Re. Credo che invidiasse Giovane perché aveva l’amore di un padre. Credo che questo l’amareggiasse, e le rendesse più facile odiare il Piccolo Re suo figlio, quando ne ebbe bisogno.
Ogni poche ore Orem portava il bambino a Bella per dargli da mangiare. Bella osservava Giovane tutto il tempo; Orem ritirava il suo potere dentro di sé quando era con il bambino, perché Bella potesse sempre controllare che suo figlio non avesse altro cibo che il latte succhiato da lei. Orem le consegnava in silenzio il figlio, e Bella altrettanto in silenzio glielo restituiva quando era sazio.
Ogni volta che Orem le dava il figlio, pensava che non l’avrebbe più rivisto; ogni volta che lo riprendeva, gliene era grato, come per un atto di misericordia, perché gli veniva permesso di vivere ancora un poco. E poiché sentiva la morte così vicina, non sprecava neppure un poco del tempo che aveva con Giovane. In quei giorni, se uno desiderava stare con Orem, non aveva altra scelta che stare anche con Giovane.
Di sera, quando Giovane andava a dormire per le sue dodici ore, Orem si ritirava nella sua stanza e passava la notte a combattere contro Bella. Adesso che suo figlio era nato lei aveva più forza, ed era una lotta costante per tenerla lontana da Palicrovol. Qualche volta Orem pensava: Affretto la mia morte spaventando la Regina. Mi ucciderà e si rinnoverà prima. Dovrei smettere di combatterla, e forse mi lascerà vivere.
Ma sapeva che Bella non l’avrebbe risparmiato, e mentre guardava l’armata di Palicrovol crescere, cominciò a sperare che il Re potesse giungere a salvarlo. Questo è quello che disse a Giovane una volta: che il Re poteva salvarlo.
Giovane era un altro miracolo. Come suo padre e suo nonno, Giovane era bianco di pelle e nero di capelli; come sua madre, era bellissimo di viso. Essendo nato di dodici mesi, la sua vita fu rapida, la sua crescita improvvisa. Riusciva a stare seduto dopo una settimana, e a stare in piedi dopo un mese; prima che arrivasse l’estate fuori dal Parco del Palazzo, sapeva camminare, e correre con le sue corte gambe lungo i sentieri, si nascondeva e cercava, e chiamava Papà o Donoa. Se aveva un nome per Bella, non lo disse mai quando loro potevano sentirlo; certe volte Orem si chiedeva se Bella parlasse mai col bambino, o se gli dava da mangiare in silenzio. Gli spuntarono i denti, ma lei continuava ad allattarlo; Orem gli insegnò a riconoscere le lettere che disegnava sulla polvere, e a chiamarle in due sensi, e ancora Bella lo allattava.
Anche Orem trascorreva ore in tranquillità con Giovane, ma non in silenzio. Stavano sdraiati insieme sull’erba del parco e si raccontavano storie. A nessuno era permesso avvicinarsi, perché come se avessero una stessa volontà, entrambi smettevano di parlare all’arrivo di qualcuno. Bella poteva ascoltare, se voleva, con i suoi arcani poteri, anche se di solito dormiva durante il giorno, quando non allattava il piccolo. L’unica persona a cui era permesso ascoltare di persona era Donnola Bocca-di-Verità. Orem le aveva detto del suo gioco, nella speranza che lei avrebbe finto di essere la madre; lei non finse mai di giocare, ma la sua presenza gli permetteva di avere la sua immaginaria famiglia, se voleva. Anche Giovane l’accettava, come se conoscesse il suo cuore.
Si raccontavano storie. Orem raccontava a Giovane storie della sua vita. Come era cresciuto con suo padre, come sua madre non l’avesse mai amato, i racconti della Casa di Dio e come venne salvato dal fuoco; Glasin il Droghiere, Rainer il Falegname, Pulce e i serpenti; tutte le storie, tranne quelle che avrebbero svelato a Bella, se era in ascolto, che Orem era il Pozzo, il suo nemico. Donnola ascoltò tutte le sue storie e le ricordò.
E anche Giovane raccontava delle storie. Nella sua impossibile vocetta da infante, pronunciando le S blese e trasformando le G in GZ, raccontava le sue storie con faccia seria, e qualche volta si immedesimava talmente che piangeva, e qualche volta si divertiva tanto che rideva. C’era della saggezza nelle sue storie, e non sono state tutte dimenticate.
Una volta c’era un vitellino che aveva fame. Voleva succhiare il latte, ma sua madre gli disse: — Vai via, mi stanchi. — Così andò da suo padre, ma il toro disse: — Vai via, non ho le mammelle. — Così il vitellino bevve dalla pozza nei boschi e sulla testa gli crebbero delle corna tanto grandi e pesanti che non poté tenerla sollevata e morì.
Una volta c’era un fiore che diventò marrone. Dio prese il fiore marrone e lo mise sulla sua finestra, ma non voleva tornare vivo. Il vecchio cervo lo portò sulle corna, ma il fiore non voleva tornare a vivere.
Le due sorelle lo intrecciarono coi loro capelli, ma il fiore non voleva tornare a vivere. Ma papà baciò il fiore e lui tornò vivo e si trasformò in me.
Una volta c’era una tempesta di neve, e cadeva sempre sulla città. Sotto la tempesta di neve c’erano centinaia e centinaia di persone che non erano i servitori o i soldati o Papà o Donoa o nessun altro. La neve cadeva sempre su di loro e li copriva finché non sparivano. Il bambino disse alla tempesta di neve: vieni e cadi su di me. E la tempesta di neve venne e cadde su di lui, e il bambino sparì, proprio come la gente che non era nessuno.
Il Re è piccolo ma il Re è buono. Il Re non dà mai niente da mangiare e la gente ride di lui quando non c’è ma il Re conosce tutti i sentieri della foresta e un giorno troverà il vecchio cervo che vive nella foresta e mi farà cavalcare su di lui.
È un fiume molto grande, e va da una parte all’altra del mondo e torna indietro. I droghieri ci navigano sopra e ì contadini e un milione di fiori, ma Dio non naviga mai sul fiume. Il fiume passa accanto a una piccola casa dove vivono un piccolo uomo e una brutta donna, ma non hanno un bambino piccolo. Poi il papà piantò un seme nella terra e piantò centinaia di semi e tutti i semi crebbero d’oro tranne uno, che era marrone. — Questo seme è marrone come la terra — disse papà; ma gli piaceva lo stesso, così lo mangiò e crebbe dentro di lui e lo fece così pieno che non dovette più mangiare.
Non so quale delle storie di Giovane fosse, ma mentre stava steso ad ascoltarla, Orem pianse. Pianse in silenzio ma Donnola e Giovane videro le lacrime riempirgli gli occhi. Una lacrima indugiò sull’angolo dell’occhio, come se fosse timorosa di cadere, eppure sapesse che doveva.
Orem si accorse che Giovane aveva interrotto la storia. — Vai avanti — disse.
Ma Giovane non andò avanti… allungò invece una mano verso l’occhio di suo padre e toccò la lacrima. La guardò un momento, sul suo dito, poi si mise il dito in bocca e l’assaggiò, guardando Orem con i suoi occhi meravigliosamente svegli.
Orem sembrò preoccupato per un momento; poi si rilassò. — Bella dorme — disse. — Non vorrei che mi accusasse di dargli da mangiare. — Donnola rise. Per cose piccole come questa i regni nascono e cadono.
Era un’estate dorata nel palazzo, la prima buona estate da tre secoli. Ma poi la neve cominciò a cadere di nuovo fuori dal parco. A ovest, Re Palicrovol d’improvviso si mise in marcia con il suo esercito verso est, verso Inwit. Nel palazzo, Orem cominciò seriamente a sperare che la sua vita sarebbe stata risparmiata. Ma Urubugala si rotolò sul pavimento della Sala della Luna e disse:
“Dodici mesi
sul ramo sei sbocciato.
Dodici ancora
e sarai mangiato.”
Orem stava uscendo dalla camera della Regina, dopo averle portato Giovane per il pasto serale. Sopra il palazzo le nuvole correvano veloci, gonfie della tempesta che avrebbe sepolto Inwit, se avesse potuto. Fuori dalla porta di Bella, Belfeva lo fermò, con aria di urgenza.
— Timias ha trovato qualcuno nella tua stanza, oggi — disse. — Un ragazzo. Dice che ti conosce, ma stava rubando lo stesso. Timias l’ha preso.
Andarono all’appartamento di Orem. Timias era appoggiato a una parete, stringendo i capelli di un adolescente che sedeva furibondo su uno sgabello. Due anni e la pubertà possono cambiare un ragazzino; Orem per un momento non lo riconobbe. E la mutilazione delle orecchie era la cosa che sul momento colpiva… con i capelli tirati su, le cicatrici erano terribili.
Solo quando parlò Orem lo riconobbe.
— Orem, di’ a questo fottuto di togliermi le mani di dosso, in nome di Dio!
— Pulce!
— Lo conosci? — chiese Timias.
— Sì, lo conosco. Gli devo la vita, un paio di volte.
— E non dimenticarti dei tre denari — disse Pulce acido.
— Pulce! Come stai?
— Sto diventando calvo. Se fossi sei pollici più alto, insegnerei a questo figlio di troia a tenere le mani a posto.
— Come hai fatto a entrare? — chiese Orem. — Non deve essere stato facile.
— Ho preso la via bassa.
Timias non gli credette. — La porta posteriore ha più guardie dei pidocchi su una puttana da due soldi.
— Non sono informato circa le puttane da due soldi — disse Pulce. — Ho detto la via bassa, non quella dietro. Sotto il palazzo.
Timias aggrottò la fronte. — Non esiste una simile via.
— Allora ho scavato la roccia.
— Perché credi che le condotte dell’acqua passino sopra le mura? Hanno costruito questo posto in modo che non ci fossero passaggi sotto terra.
Pulce voltò di proposito le spalle a Timias. — Certa gente ha così ragione che non impara mai niente. Sono venuto a prenderti.
— Per portarmi dove?
— Dove c’è bisogno di te. Dicono che c’è poco tempo. Devi venire.
— Dove?
— Non conosco il nome del posto — disse Pulce. — E non credo che riuscirei a trovare facilmente la strada da solo. Ho una guida.
Pulce guardò verso la veranda. In piedi vicino alla balaustra c’era un’ombra che Orem riconobbe. — Dio — disse Orem.
— È matto come un maiale ubriaco, vero? — disse Pulce. — Deve dirlo a tutti chi è. Matto o no, comunque, sa la strada attraverso le catacombe.
Orem uscì e toccò il servo mezzo nudo sulla spalla. — Cosa vuoi da me?
Il vecchio si voltò, e i suoi occhi erano scuri; nella luce che veniva dalla stanza, Orem poté vedere che non c’era nessun bianco… solo l’iride che guardava attraverso il suo viso per vedere cosa ci fosse dietro.
— Tempo — disse il vecchio. — Aspetti troppo.
— Aspetto cosa? Perché sei venuto?
— L’hai accecata, ma ancora non agisci.
Orem avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma Pulce lo tirò per un braccio. — Lui è solo la guida — disse. — Gli altri ti vogliono… mi hanno trovato e mi hanno fatto scendere, e mi hanno mandato qui perché hanno pensato che saresti venuto se te l’avessi chiesto io. Puoi fidarti di me, Orem… non è un trucco o una trappola. Dicono che è troppo importante per aspettare.
— Allora verrò.
— Aspetta! — Timias lo fermò. — Non vorrai seguire questo ladruncolo in Dio sa quale pozzo… non gli crederai, vero?
— Prima che voi foste miei amici, lui lo era — disse Orem. — E con meno ragioni.
Quando vide che Orem intendeva andare. Timias insistette che si passasse dalla sua stanza a prendere una spada. Il vecchio parve deriderlo per questo, ma che importava? A Orem non dispiaceva sapere che Timias era con lui, e armato.
Il vecchio li guidò lungo un tortuoso cammino, tutto all’interno del palazzo, qualche volta in salita, qualche volta in discesa, in posti che Orem non aveva mai vista, e infine in posti che sembravano abbandonati da anni, con uno spesso strato di polvere sul pavimento e i mobili trasformati in nidi di ragni.
Si lasciarono alle spalle le stanze con le candele, e presero delle lampade per illuminare la via, tutti tranne il vecchio, anche se era lui a condurli nel buio. All’inizio Pulce continuava a parlare, ma dopo un po’ smise.
Superarono una porta, e c’erano delle scale di legno, così vecchie che dovevano camminare sui bordi, per timore che il legno al centro cedesse. E quando le scale terminarono, il pavimento era di pietra, le pareti di pietra, il soffitto umido e a tratti gocciolante, puntellato con travi di legno. Orem si ricordò del suo viaggio nelle catacombe con Braisy. Ma le catacombe erano fuori dalle mura della città, verso ovest, mentre qui erano a est, dentro il monte su cui sorgeva la Cittadella della Regina. E ancora scesero.
Il tunnel costruito dall’uomo si allargò e divenne una caverna; si restrinse di nuovo, trasformandosi in una fenditura naturale della roccia, attraverso cui passarono con difficoltà, costretti a strane contorsioni. E sempre il vecchio li aspettava avanti, senza troppa pazienza.
— Mi piacerebbe proprio sapere come fa a passare — sussurrò Timias.
— Dice di essere Dio — rispose Orem.
— Hai visto gli occhi?
Superarono un pendio senza sporgenze, sopra un pozzo così profondo che le pietre che facevano cadere non producevano alcun suono. Scivolarono giù lungo un camino nella roccia, graffiandosi le ginocchia e ricoprendosi a vicenda di polvere.
— Come facevi a essere così pulito nella mia stanza? — chiese Orem.
— Mi sono fatto il bagno — rispose Pulce. — Cos’altro avevo da fare mentre aspettavo? Stavo solo prendendo in prestito qualche vestito, quando è arrivato il tuo amico. Si può sapere che cosa stai guardando?
Orem stava guardando tre barili, vicino a una parete debolmente illuminata dalla lampada di Pulce. Si avvicinò; sapendo già cosa avrebbe visto. Ma i coperchi non c’erano, e i barili erano vuoti. Respirò di sollievo.
— Cosa c’è scritto sopra? — chiese Timias.
Orem abbassò la lampada. Aveva già visto le parole, naturalmente, e ricordava bene come erano scritte.
Sorella Dio Corno
Puttana Schiavo Pietra
Tu Tu Tu
Devi Devi Devi
Vedere Servire Salvare
Ricordò un altro messaggio che un tempo era stato scritto su quei barili: Lasciaci morire. Aveva obbedito a quel comando; il resto del messaggio attendeva. Adesso sapeva che doveva comprenderlo, se doveva fare ciò che doveva essere fatto.
— Conosci queste scritte? — chiese Timias. — Sai cosa vogliono dire?
— Non cosa vogliono dire. Ma sono state scritte per me. Due anni fa.
Dio schiavo tu devi servire. Orem guardò il vecchio. — Tu sei quello che dici di essere, credo.
Gli occhi lampeggiarono.
— Ti servirò se potrò — disse Orem.
— Al Risveglio dei Morti — sussurrò Dio. Poi voltò loro le spalle, si infilò in uno stretto passaggio e sparì. Lo seguirono, avvicinandosi al rumore di acqua corrente.
— Cosa ci fa Dio come schiavo nella casa di Bella? — chiese Timias sotto voce.
Orem non sapeva la risposta. Poi emersero in una grande sala, il Risveglio dei Morti, dove avrebbero avuto tutte le risposte.
Non c’era bisogno di lampade, perché sopra di loro c’erano dei buchi che lasciavano passare la luce del giorno, debole ma sufficiente per vederci, se non li guardavano direttamente, abbagliandosi.
— Le cisterne — sussurrò Pulce.
E infatti, sentirono le voci delle cisterne, che si alzavano e abbassavano, in un terribile lamento. C’era un fiume che scorreva sul fondo della caverna, tanto largo che non si vedeva dalla parte opposta, ma poco profondo. E la puzza era talmente soffocante che avvicinandosi non potevano respirare. Il suono giungeva dal bordo dell’acqua.
— Le fogne della città — mormorò Dio. — Finiscono tutte qui.
Non si avvicinarono oltre all’acqua. Il vecchio li condusse lungo il bordo sopraelevato che correva accanto al fiume.
— Stiamo seguendo la corrente? — chiese Timias.
— Sì — disse Orem.
— Ma saliamo, no?
Senza dubbio era così. Eppure l’acqua era sempre alla stessa distanza da loro. Doveva essere un’illusione. E tuttavia, più avanzavano, più il cammino si faceva in salita, e l’acqua pareva alzarsi con loro. Scorreva proprio verso l’alto.
Il vecchio superò l’ultimo e più scosceso tratto dello stretto sentiero, quasi verticale. Si trovarono così su una cornice molto più larga, del tutto orizzontale. Ma il fiume non la pensava allo stesso modo: si lanciava verso l’alto, in una impossibile cascata. Gli spruzzi li raggiungevano… cadendo verso il basso, com’era giusto. Orem si accorse che qui l’acqua non puzzava; non c’era assolutamente nessun odore. Si avvicinò alla corrente e si bagnò le mani. e assaggiò l’acqua. Era pura. Pura come…
— Le sorgenti della Casa dell’Acqua. — Timias lo guardò sgomento. Si voltò e gridò a Pulce: — Questa è la sorgente della Casa dell’Acqua!
— Venite a vedere cosa la pulisce! — gridò a sua volta Pulce. Lo raggiunsero sul bordo della cornice e guardarono verso il basso. — Con la luce alle spalle, adesso si vede — disse Pulce. All’inizio Orem non capì cosa stava guardando; poi i suoi occhi si adattarono, e si rese conto che entrambe le rive del fiume si agitavano, si contorcevano, si gonfiavano.
— Queruli — disse Pulce. — È pieno di Queruli.
Come l’avanzare e il ritrarsi delle onde, i serpenti si gettavano nell’acqua e ne uscivano. A milioni, fin dove permetteva di vedere la luce delle cisterne. — La mangiano — disse Pulce. — Che altro può essere?
— Scorre verso l’alto — disse Timias. — Cosa la fa alzare?
— Si alza — disse una voce di donna alle loro spalle — perché vuole alzarsi.
Orem si girò di scatto. Conosceva quella voce… insieme temuta e desiderata. Lei lo guardò con un solo occhio, una faccia storta, un corpo perfetto come il ramo che si innalza da un albero. — Seguimi — disse. Lui la seguì docilmente.
Sua sorella sedeva su una roccia dietro la cascata. C’era luce, anche se la luce del sole non poteva giungere fin lì. La luce non aveva sorgente e non gettava ombre, semplicemente c’era, semplicemente illuminava quell’anfratto nella roccia in maniera che tutto ciò che era in esso poteva essere visto. La donna dalla faccia di nebbia emise un lamento.
— Mia sorella ti saluta.
— E io lei — disse Orem.
— Dice che tutte le cose si uniscono alla fine.
— È questa la fine?
— Quasi.
— Perché sono qui?
— Per liberare gli dèi, Orem figlio di Palicrovol.
Orem rabbrividì. — Il nome di mio padre è Avonap.
— Credi che le Dolci Sorelle possano sbagliare in cose del genere? Noi conosciamo tutte le madri e tutti i padri, Orem. Avonap è il marito di tua madre, ma Palicrovol ti ha generato.
In un attimo, l’intero sogno della sua concezione gli passò nella mente, dall’attraversamento del fiume a quando Palicrovol aveva lasciato la caverna di foglie.
— La Regina Bella ha preso il potere proibito, che un uomo non può mai prendere e che mai prenderà un’altra donna. Ci ha legate, Orem, ci ha legate come ci vedi ora.
Orem le guardò, guardò Dio. — Come siete legate?
Il vecchio girò la testa. Orem seguì il suo sguardo. Sul pavimento della grotta c’era lo scheletro di un grande cervo. Le ossa erano così secche che avrebbero dovuto essere cadute, invece erano ancora congiunte, come se l’animale vivesse.
Il cranio era sospeso alle grandi corna, e le cento punte erano incastrate nella parete di solida roccia della caverna.
— Vedi come i mondi sono prigionieri — disse la Sorella che poteva parlare. — Oh, Orem, siamo deboli ora, e ciò che facciamo è lento. Possiamo ancora mandare delle visioni qua e là, fare piccoli incantesimi, ma è una fatica penosa. Noi ti abbiamo creato, Orem. Shantih e io abbiamo svegliato tua madre, l’abbiamo chiamata Bocciolo, le abbiamo insegnato ad andare sulla riva del fiume; il Cervo ha portato Palicrovol; Dio ti ha dato Avonap e Dobbick per renderti come sei. Abbiamo guidato la tua vita per portarti qui, sorvegliandoti e formandoti quando potevamo. Non devi deluderci ora.
— Cosa volete che faccia?
Ma Orem sapeva già la risposta. Dio schiavo devi servire. Sorella puttana devi vedere. Corno di pietra devi salvare. Ma come?
— Non ho poteri. Come faccio a liberare ciò che non posso vedere?
— Hai guardato?
Così Orem guardò, gettò le sue reti. Ma non c’era alcuna scintilla per il Cervo e per le Sorelle e per Dio. Esplorò, ma l’unica magia che riuscì a trovare fu il semplice incantesimo che Timias aveva sulla spada.
— Cosa devo vedere? — chiese.
— Non possiamo dirtelo — disse la Sorella con la bocca. — Siamo legate.
Shantih emise un gemito.
— Mia sorella dice che devi riportarci a come eravamo prima che la nera Asineth disfacesse tutto.
Ma io non so come eravate prima. … sono nato solo diciotto anni fa, e tutte queste cose sono state fatte prima che fossi concepito, prima che mia madre o sua madre, o la madre di sua madre fossero nate. — Non posso!
— Vuota la mente — sussurrò Dio. — Pensa solo a ciò che sai di noi; aspetteremo ancora un poco, dopo tutto questo tempo.
Orem si sedette sul pavimento di roccia, allungò una mano e toccò le ossa fredde del Cervo. Sentì Pulce trattenere un grido alle sue spalle; un Querulo sibilò e si districò dalla cassa toracica del Cervo. Scivolò via da un’altra parte: non cercava la morte di Orem quel giorno.
Cominciò da Dio, perché l’aveva studiato per anni a Banningside. Cos’era Dio? Buono; il Padre di tutto, Perfettore dei Sette Cerchi, che sollevava chiunque lo desiderasse nel cerchio più interno, per unirsi a lui nella sua missione incorporea di raccogliere tutta l’intelligenza disorganizzata e insegnarle una forma, e…
Incorporeo.
Guardò il vecchio, che gli restituì placidamente lo sguardo con occhi di ambra, da pupilla a pupilla.
— Cosa fai con un corpo? — chiese Orem.
Dio sorrise.
Orem si alzò, e prese la spada di Timias. — Cosa vuoi farne? — chiese Timias. — Lascia fare a me. Tu non sei bravo con la spada.
— Non devo combattere — rispose Orem. Timias con riluttanza gli cedette la spada. Era troppo pesante per la mano di Orem, e lui aveva orrore di quello che stava per fare, ma la cacciò con tutta la sua forza nel cuore di Dio. Il sangue sgorgò, ma Orem guardò solo gli occhi, che da ambra diventavano gialli, poi bianchi, e brillavano come due soli. D’improvviso la luce balzò fuori, riempì per un momento la caverna, e svanì.
Orem si chinò sul cadavere e si coprì le mani con il sangue caldo del vecchio. Poi andò dalle Sorelle. Quella con la bocca gli sorrise. Cosparse di sangue il viso di quella senza faccia, e il lato senza occhio di quella con mezza faccia. Il sangue fumò e sfrigolò sulla loro pelle. Poi le prese per i capelli dietro la nuca e premette le loro facce l’una contro l’altra, come erano state alla nascita: una che guardava solo dentro la sorella, l’altra con un solo occhio all’esterno. Le teste tremarono sotto le sue mani, poi vi rimasero immobili. Le lasciò andare e le donne si alzarono. I vestiti erano spariti; le braccia e le gambe si avvinghiavano talmente che non erano necessari vestiti per la loro modestia. La capigliatura era una sola, la carne liscia e uniforme sulla testa. — Ah — cantò la mezza bocca. — Nnn — cantò l’altra nella guancia della sorella, così che entrambi i suoni formarono un solo canto che giungeva dalla stessa bocca. Insieme si levarono da terra.
— Non andatevene! — gridò Orem.
— Libera il Cervo — mormorò la bocca — poi ferma Bella. Non sta facendo nulla che non abbia già fatto prima. Vendica la tua sorella senza nome e il tuo figlio senza nome.
E si sollevarono nell’aria, roteando avvinte, unite nuovamente nella faccia. Girarono all’impazzata per la caverna, come un tappo di bottiglia, poi sparirono.
— Ho visto le Sorelle coi miei occhi e sono vivo — disse Timias.
Orem aveva tre sorelle, e tutte avevano un nome, e nulla era mai stato fatto loro che richiedesse una vendetta. E suo figlio senza nome… cosa gli era successo che dovesse essere vendicato?
Orem non capiva, così si volse verso il Cervo.
Sapeva come doveva essere il Cervo: vivo e vestito di carne e di pelliccia. Ma come poteva fare quello, dal momento che non aveva alcun potere dentro di sé, alcuna magia da applicare?
— Il sangue del vecchio funzionerà col Cervo? — chiese Pulce.
— Non lo so — disse Orem. Adesso il sangue era freddo, e capì mentre ungeva le corna e la testa del Cervo che quel sangue non aveva alcun significato.
Tuttavia la vista del sangue sulle corna gli ricordò la visione che aveva avuto sulla punta del corno, nella casa di Vetro-di-Forca. Gli ricordò il contadino che aveva appoggiato la gola sulla lama dell’aratro e aveva versato il proprio sangue per amore del Cervo. Si toccò con la mano la cicatrice, e seppe cosa doveva fare.
Timias non aveva avuto la visione, ma conosceva la cicatrice sulla gola di Orem. Indovinò cosa pensava il Piccolo Re quando si toccò la cicatrice. — No! — gridò, e si lanciò verso la spada. Orem era veloce, ma Timias raggiunse per primo la spada e gliela portò via.
— In nome di Dio, Timias, devo farlo — disse Orem.
— Sei impazzito?
Pulce non capì niente, ma sapeva che Orem voleva la spada e quel bastardo fottuto non voleva dargliela. Fu una cosa semplice mettere fuori combattimento Timias con un calcio nelle palle. Pulce gli prese la spada, mentre Timias si contorceva a terra, e la buttò con l’impugnatura in avanti verso l’amico.
L’avrebbe ripresa altrettanto in fretta, se avesse potuto, ma prima che potesse fare altro che lanciare un grido, come aveva fatto Timias, Orem si passò il taglio della spada sulla gola con tutta la sua forza. Il sangue gli riempì la bocca e gli scorse sul petto, e il dolore era più di quanto avesse mai pensato di poter sopportare.
Boccheggiò; il sangue gli scese nei polmoni; ma non doveva essere invano. Si trascinò verso la testa del Cervo, cercò di sollevarsi per far colare il sangue sulle corna. Non aveva più la forza, ma le braccia gli vennero prese dai due lati. Timias e Pulce lo sollevarono, e le corna vennero bagnate dal suo sangue.
Sotto di sé sentì il calore del corpo del Cervo; lo sentì sollevarsi, sentì la grande schiena e le spalle con i loro muscoli guizzanti, e l’odore della pelliccia. Vide le corna staccarsi dalla roccia che le imprigionava, vide le punte brillare di stelle, come soli, come mondi ingioiellati. E si perse fra le cento corna, girando e girando.
Volò, si sollevò con l’acqua fino al soffitto della cisterna, fino al punto dove si infilava nella roccia per emergere nella Casa dell’Acqua. Era intrappolato nell’acqua e non poteva respirare. Non aveva avuto il tempo di respirare a fondo, perciò doveva sollevarsi, doveva sollevarsi e respirare…
Ma no, sopra di lui c’era il fuoco. Doveva scendere nell’acqua, e sarebbe vissuto. Così si immerse, cercando il fondo. Ma non lo trovò. Nella disperazione respirò grandi boccate d’acqua. Ma non era acqua. Era aria pura. Aprì gli occhi.
Era steso sulla schiena del Cervo, ma non si sentiva debole per il sangue perso. Afferrò le corna, e sollevò la testa dal nido di corna. Poi scivolò giù dalla schiena del Cervo.
— Orem — sussurrò Pulce.
— Mio signore Piccolo Re — disse Timias.
Orem si toccò la gola. La ferita era sparita; la cicatrice era sparita; il suo collo era intatto e nuovo, come era stato prima che avesse avuto la visione del Cervo.
— Ho portato la vera corona — disse. Poteva ancora sentire le corna circondargli la testa, anche se non erano più lì.
— Sei vivo.
I tre guardarono il Cervo battere gli zoccoli sulla roccia. La testa si abbassò; solo allora si resero conto che intendeva caricarli.
— In nome di Dio, non lo sa che gli abbiamo salvato la vita? — gridò Timias.
Non c’era tempo per rispondere. Corsero verso il sentiero che scendeva lungo il fiume, e si voltarono a guardare solo quando furono all’inizio della fenditura nella roccia. Il Cervo era chiaramente visibile, che camminava su e giù sulla piattaforma di roccia, scuotendo la testa.
— Come uscirà? — chiese Pulce.
— Conosce la strada — disse Orem, anche se non sapeva come mai ne fosse così sicuro.
Orem lasciò che Pulce li guidasse, dal momento che aveva già percorso quella strada due volte. Ma come Orem, anche gli altri pensavano più al futuro che a uscire dalla caverna sotto il palazzo. — Cosa si aspettano che facciamo, ora? — chiese Timias.
— Non noi — disse Orem. — Ma sono felice che vogliate condividere il fardello.
— Volevano davvero dire che sei il figlio di Palicrovol? — chiese Pulce.
Orem annuì. — Mi hanno mostrato… come avvenne.
— Lei non sta facendo nulla che non abbia già fatto prima — disse Timias. — Chi non sta facendo nulla?
— Bella — disse Orem. — Intende rinnovarsi. Uccidendomi e usando il mio sangue.
— Be’, almeno ora ci sei abituato — disse Pulce.
— Ma non ha mai ucciso un marito prima — disse Timias.
Fu solo in quel momento che Orem mise insieme tutto ciò che aveva saputo. Non sta facendo nulla che non abbia fatto prima. Più potente del sangue di un estraneo è il sangue di un marito. Prima era arrivato fino a quel punto, e si era fermato. Ma cosa è più potente del sangue di un marito? Per una donna, il sangue di suo figlio. E un figlio che non ha preso nutrimento se non dal seno della madre. Vendica tuo figlio senza nome. Orem aveva avuto una sorella senza nome, molti anni prima. La figlia di Palicrovol, e Bella l’aveva uccisa per il potere che era in lei. Orem indovinò tutto, e vi credette, e si maledì come uno sciocco per aver pensato fino ad allora che fosse lui la vittima destinata. Giovane! gridò silenziosamente. Giovane, figlio mio, figlio mio.
— Lasciatemi! — gridò ai suoi amici. — Andate lontano da me!
Essi esitarono solo un momento, ma l’espressione sul suo viso disse loro di obbedire. Quando se ne furono andati, Orem balzò fuori di sé e con i suoi terribili denti interiori azzannò tutta la magia che riuscì a trovare, nessuna esclusa, devastò il palazzo dove la Regina Bella era più forte e disfece il suo lavoro dovunque lo trovasse. L’accecò, sciolse i suoi lacci; non gli importava se stava liberando Coniglio o Donnola; trovò la forza e la distrusse, e non poteva, non voleva fermarsi.
E alla fine l’unica forza rimase dentro Bella medesima; tutta l’altra magia del palazzo era stata inghiottita. Ma era lì che aveva voluto arrivare: alla faccia sorridente che teneva suo figlio e voleva ucciderlo. Strato dopo strato, la spogliò; lei cercò di fuggire, ma lui la inseguì. Lei contrattaccò, fece delle finte, cercò di sparire, ma lui le era sempre alle calcagna, disfandola a ogni passo. Non si era mai sentito così grande, e lei era piccola, mentre la inseguiva nel labirinto di scintille e di odori e nei mari di gusto e di udito. Salverò mio figlio.
Poi nulla.
Nulla di nulla. Non riusciva a trovarla. Era tornato nel suo corpo e non poteva scappare. Tutto quello che poteva gustare e toccare era dentro di lui. Aprì gli occhi. Bella era sopra di lui, e lo guardava. Teneva Giovane in braccio. — Papà — disse il bambino, allungando le mani.
— Giovane — sussurrò Orem.
Bella sorrise. Orem capì. Non l’aveva forse avvertito, Vetro-di-Forca? Si era spinto troppo in là. Le aveva fatto capire chi era; era legato. Lei non poteva distruggere il suo dono, ma poteva rivolgerlo contro lui stesso, dove non poteva farle alcun male.
— Sempre tu — gli disse. — Avrei dovuto immaginarlo che le Sorelle mi avrebbero tradito. Le hai unite di nuovo? Non importa. Fra un’altra settimana le separerò. E tu, Piccolo Re, tu sarai qui a guardare il mio lavoro. Ormai sai come faccio. Solo tu potevi essere così stupido da metterci tanto a indovinare il prezzo.
— Vuoi sentire una storia, papà? — chiese il bambino.
L’avrebbe uccisa con le sue mani, ma le guardie lo tenevano, e lo portarono via dal figlio che era la sua vita, via dal sorriso di sua moglie.