13 LADRI

Come Orem apprese quanto valeva la vita nella città di Bella.

Il canto nella cisterna

Orem si svegliò nell’ultima branda in alto, al Badile e alla Fossa. Il soffitto distava meno di un palmo dal suo viso, ma dopo le celle strette della Casa di Dio non gli facevano paura i posti piccoli. Scivolò cautamente fino all’orlo delle assi scheggiate, e scese i sette piani di letti. C’era un forte odore di vomito. Ognuno dei suoi passi faceva piegare le assi di qualcuno; certi si lamentarono, nel sonno. Uno imprecò e lo colpì.

Mentre passava accanto al padrone della locanda, l’uomo gli buttò la nota con il conto. Orem lo guardò. — Non voglio portarmelo dietro tutto il giorno.

Il padrone alzò le spalle. — Come vuoi. Ma ti avverto che ti imbroglierò, se non stai attento.

Orem si mise il conto nella bisaccia. — Grazie. Tutti i ladri a Inwit saranno così gentili da avvisarmi?

Il padrone lo guardò con calma. — Sono un Uomo di Dio. Imbroglio solo quelli che vogliono essere imbrogliati.

Niente, nella vita di Orem, lo aveva preparato per le strade di Inwit di giorno. Il flusso della folla lo condusse al Mercato Grande, e per qualche tempo venne sballottato fra i vortici del comprare e del vendere. In tutta la sua vita non aveva mai visto tanta gente quanta in quel mercato: stracci e velluti, uniformi e livree, tutti si urtavano nella battaglia per avere molto in cambio di poco. Orem guardava a bocca aperta, e così si fece riconoscere come un facile bersaglio per i ladri.

Un ragazzo lo urtò e una mano piccola si infilò sotto la sua camicia, e più in fretta di quanto Orem potesse comprendere, le sue monete erano uscite dal perizoma. Senza pensarci, Orem allungò un pugno che colse il ragazzo al mento. Quello cadde senza un suono, e altrettanto silenziosamente si rimise in piedi. Ma Orem aveva imparato a essere veloce nella Casa di Dio. Prese il ragazzo per una caviglia prima che potesse scappare. Il ragazzo gli diede un calcio in faccia. La battaglia valeva un occhio? Le poche monete di Orem erano la sua vita e la sua speranza, e così non mollò la presa, malgrado i colpi.

Nessuno parve notare la crudele battaglia, se non per lasciare loro lo spazio sufficiente a rotolarsi nella sabbia. Alla fine, Orem riuscì a bloccare il ladro, le gambe piegate dolorosamente e la mano di Orem infilata fra di esse, pronta a infliggere un dolore irresistibile.

— Rivoglio i miei soldi, piccolo bastardo — disse Orem.

— Soldi?

— O per le Sorelle ti strappo le palle!

— In nome di Dio, non li ho i tuoi soldi! — Il lamento del ragazzo era alto e pietoso. Adesso che la lotta era finita, la gente cominciava a guardare.

Una voce fra la folla disse: — È un vigliacco che se la prende con un bambino.

Il piccolo maiale stava conquistando la simpatia della gente. Orem si chinò e gli sussurrò nell’orecchio: — Sono un contadino, ragazzo, e ho trasformato tori in manzi con le mani nude. — Fu sufficiente. Gli occhi del ragazzo si spalancarono, e sputò quattro monete nella polvere.

Orem lasciò andare il ragazzo e raccolse in fretta le monete. Con la coda dell’occhio, vide il ladro muoversi per quello che avrebbe potuto essere un attacco… un calcio? Sì. Orem lo evitò appena in tempo, poi balzò in piedi preparandosi all’attacco successivo.

Non ci fu nessun attacco. Il ragazzino lo guardò con occhi innocenti e rise.

— Non lo sai che tutti i piscioni li tengono nello stesso posto? E la metà hanno le mutande sporche. Non è simpatico metterseli in bocca.

— Se non ti piace — disse Orem, stringendo le sue monete — trovati un altro lavoro.

— Mi puoi assumere tu, appena troverai lavoro.

Orem si sentì punto nell’orgoglio per il fatto che il ragazzo desse per scontato che avrebbe fallito. — Ti assumerò — disse sdegnosamente. — Fra pochi giorni avrò un lavoro, e ti prenderò con me.

— Oh, sì, e la Regina ha le palle. — Il ragazzo si girò e si tirò su la camicia, mostrando per un momento il sedere a Orem. Poi sparì fra la folla.

Orem vagò verso nord, dove il Mercato Grande sfocia nella Strada della Regina. Guardò meravigliato i grandi palazzi, le carrozze dalle ruote esilissime, fissò le signore, nude per quanto potevano esserlo decentemente sopra la vita, e i signori nudi sotto, come richiedeva la moda. E si fermò alla base della piramide dai cento gradini che conduceva al Salone delle Facce, dove Palicrovol aveva violentato la figlia di Nasilee, aveva lacerato il suo sangue più segreto, diventando così suo marito, e Re, e quindi l’aveva scacciata. L’inizio di tutti i mali del mondo, lì davanti al Salone delle Facce.

— Accidenti a te, che le aquile possano mangiarti il fegato! — Una guardia l’aveva afferrato per la spalla, e lo scuoteva. — Non te l’hanno detto alla porta di stare lontano dalla Strada della Regina? La Strada di Pietra? Sei sordo? O hai un cervello di gallina? — Calci e pugni, mentre la guardia lo spingeva lungo un vicolo, sbattendolo da un muro all’altro, fino a quando Orem non cadde a faccia in giù sulla polvere di una strada. — E non tornare sulla Strada della Regina, o ti appendo per le orecchie finché non si staccano! — Orem rimase sdraiato nella strada, ascoltando i passi della guardia che si allontanavano. Era tutto indolenzito, ma più che arrabbiato, era contento che fosse finita. E anche che non fosse andata peggio. Fece una smorfia, e si rimise cautamente in piedi.

— Gentili, vero?

Orem si voltò dolorosamente, e vide la faccia a cui apparteneva la voce. Era il ragazzino che l’aveva derubato, con un sorriso impertinente, le mani sui fianchi, le gambe larghe, come Dio a cavallo del mondo.

— Hai un’aria molto povera, sai? — Sorrise maliziosamente. — Quando mi tenevi per le palle eri ricco e bello.

— Mi avevi preso tutto quello che avevo — disse Orem cupamente. Fece una smorfia per il dolore che gli dava respirare.

— E tu hai preso tutto quello che avevo io.

— Ma era mio.

— Non mentre l’avevo io.

Era una discussione che non avrebbe portato da nessuna parte, vide Orem. — Dove sono?

— A che ti serve saperlo?

— A niente. — Orem si guardò intorno. Tutto quello che si vedeva erano le facciate posteriori di comuni abitazioni da una parte, e dall’altra le alte mura dei giardini dei palazzi, con le loro crudeli punte metalliche. A parte il vicolo che portava alla Strada di Pietra, c’era una sola direzione da prendere, così Orem si avviò lungo la strada sterrata. Il ladro lo seguì.

— Vattene — disse Orem.

— Ti ho seguito fino qui.

— Non avrai mai i miei soldi.

— Hai detto che mi avresti assunto.

Se trovo un lavoro. — Ma d’improvviso il ragazzino non fu più così facilmente catalogabile come un astuto ladruncolo. — Mi hai creduto?

— Sembri troppo stupido per mentire.

— E allora cosa ti fa pensare che troverò un lavoro?

— Perché non mi hai lasciato andare quando ti ho preso a calci in faccia. — Il ragazzino ridacchiò. — Sei un pessimo lottatore, sai. Una ragazza potrebbe batterti.

Orem si sentì arrossire per la rabbia, ma non disse nulla. La strada si stava allargando, e adesso c’erano anche degli squallidi negozietti. In mezzo alla strada c’era un muretto rotondo, come il parapetto di un pozzo, fatto di mattoni mezzo sbriciolati. Orem fece per girarci intorno, ma sentì un suono. Come un canto, che veniva dal pozzo. Si fermò.

— È la cisterna — disse il ragazzo. — Canta sempre. Non vuol dire nulla. È vuota.

— Come mai? La siccità?

— È per gli assedi. Ma non c’è mai nessun assedio per Inwit. Poi, non si sentirebbero più le voci.

Orem si avvicinò al bordo della cisterna e si chinò per ascoltare. Insieme al canto, venne accolto da un odore così nauseante che si tirò subito indietro, tossendo e ansimando.

— Dal momento che è vuota — disse il ragazzo — tutti ci buttano l’acqua sporca. E ci scaricano direttamente i loro bisogni. — Come per darne dimostrazione, il ragazzo saltò sul parapetto e si mise pericolosamente a sedere, con il deretano che sporgeva. Senza cerimonie defecò, poi aspettò con la testa inclinata. — Sentito il tonfo? Deve essere fonda mezzo miglio.

— Ma cosa sono quelle voci?

— Probabilmente un coro di topi. Prosperano con il letame. Non sei un contadino? Non conosci le magiche proprietà del letame? — Mentre parlava, il ragazzo si pulì con una mano, ci sputò sopra e la fregò nella polvere finché non fu asciutta. — Bene — disse, indicando la bisaccia di Orem. — Un po’ d’acqua?

Orem scosse la testa.

— Oh, non dividi neanche l’acqua?

— È dalla sorgente di mio padre. Per la fontana del Piccolo Tempio.

— Cosa sei, un pellegrino? Hai la faccia da prete. Come un topo affamato.

— Ho studiato coi preti.

— Ecco. — Il ragazzo annuì. — Lo immaginavo che sapevi leggere. Anch’io so leggere un po’. Ho imparato da solo.

— Le voci della cisterna. Da quanto tempo si sentono?

Il ragazzo alzò le spalle. — Da tutta la mia vita.

Orem recitò il Settimo Avvertimento di prete Zenzil: — Non imparare i canti delle voci che vengono da cisterne vuote e da pozzi esauriti.

Il ragazzo lo guardò con aria interrogativa. — Non si possono imparare. Non hanno parole. E nessuno li capisce, comunque.

Orem si tirò giù le mutande e si issò sul bordo della cisterna per liberarsi. Le voci si sentivano più chiare: un’eco di lamenti e di canti acuti che d’improvviso lo riempirono di paura. Perché dovrei averne paura? si chiese. Poi guardò il giovane ladro e gli parve di scorgere una luce omicida nei suoi occhi. Sì: omicidio, e quale momento migliore di quello, con Orem impotente sull’orlo di un pozzo che scendeva nelle viscere della terra, dove nessuno avrebbe mai trovato il cadavere, anche se qualcuno si fosse mai dato la pena di cercare un giovane magro con un visto da povero? Bastava che il ragazzo gli corresse addosso, lo spingesse, e sarebbe morto. E infatti si stava preparando… non era così? Si era curvato in avanti!

— Stai lontano, o per Dio… — Poi il suo intestino si aprì e si vuotò, e Orem saltò giù dalla cisterna e indietreggiò dal ladro.

— Solo un’idea — disse il ragazzo sorridendo. — Non volevo fare nulla. Solo spaventarti.

Orem fece come aveva fatto il ragazzo, si pulì con una mano e la fregò nella polvere, e infine si tirò su le mutande. Tremava. Non solo perché il ladro aveva pensato di ucciderlo, ma perché le voci nella cisterna sembrava che lo avessero avvertito. Era forse un tocco di vera magia? Per la prima volta nella sua vita, era stato toccato da un incantesimo?

— Mi dispiace — disse il ragazzo, guardando la faccia di Orem. — Era uno scherzo.

Orem non disse nulla, ma si incamminò lungo la strada. Ancora pochi passi e seppe dov’era: la Strada del Piscio, con la Porta all’estremità occidentale.

— Non lasciarmi — disse il ragazzo.

Orem lo guardò irritato. — Non te ne accorgi quando non sei desiderato?

— Mi chiamo Ronzio di Pulce.

— Non voglio il tuo nome.

— Te lo dico lo stesso. È il nome che mi ha dato mia madre. Lei è di Brack, è un posto molto lontano, verso est, è stata rapita dai pirati e alla fine è arrivata qui attraverso la Porta del Piscio. Ha un visto. Qui danno nomi come Pulce, perché è stata la prima cosa che ha visto dopo che sono nato. Suo marito è morto in fondo al mare. Ha perle al posto degli occhi.

— Cosa ti fa pensare che me ne importi?

— Stai ascoltando, no? Comunque, sono tutte balle. Mio padre è vivo e vegeto. Mi chiama Puntura di Spillo, e anche peggio quando è arrabbiato. Non ha il visto, perciò deve nascondersi nella Palude quando vengono le guardie. Io non posso avere un visto se mia madre non sposa un uomo con il visto. Perciò rubo. Sono bravo. Ruberò per te, se vuoi.

— Non voglio che tu rubi per me.

— La verità è che mio padre è morto. Mia madre l’ha ammazzato quando lui l’ha assalita con un bastone. L’abbiamo sepolto in giardino. Sarà pieno di fiori, se i cani non lo tirano fuori. È successo ieri notte.

— Balle.

— Solo in parte. Lasciami venire con te.

— Perché? Cosa vuoi da me? Se pensi che ti darò un denaro per lasciarmi in pace, avrai da piangere per la storia che ti racconterò io.

— Mia madre se ne è andata, con il visto e tutto.

— E a me che importa?

— Il suo amante l’ha portata via dopo che hanno ucciso mio padre.

Amante. Era una parola strana. Che posto aveva l’amore a Inwit? Tuttavia il ragazzo aveva un’aria spaventata, i suoi occhi sembravano fiochi ed era pronto a scappare via alla prima parola. Era vero dunque? Non aveva genitori?

— Non ho nulla — disse Orem. — Poco per me, e niente per te.

— Io conosco la città. Ti sarò utile.

— Mi arrangerò da solo.

— Se le guardie mi prendono, potrò far finta di essere tuo fratello, e non mi taglieranno un orecchio per non avere il visto.

Questo Orem non l’aveva pensato. Che potessero tagliare un orecchio a un bambino.

— Non lo faranno.

— Per il nome di Dio, lo faranno.

Cosa se ne faceva di un ragazzino? Gli avrebbe dato l’aria di avere una famiglia da mantenere, di non essere libero, gli avrebbe reso più difficile trovare un lavoro. O andarsene. — E va bene, vieni.

Ronzio di Pulce sorrise, e d’improvviso tutto il dramma nei suoi occhi svanì. Erano tutte balle, dunque? Orem si diede dello sciocco. Eppure, non lo mandò via.

— Come ti chiami? — gli chiese il ragazzo.

— Mi chiamano Fianchi-Magri.

— Per Dio, un nome peggio del mio!

— Ti chiamerò Pulce. Non è un brutto nome.

— E io ti chiamerò Magro.

— Mi chiamerai Signore.

— Un accidente. Vieni, quelli che trovano un lavoro lo trovano sulla Via dei Negozi. — E si buttarono nella folla sulla Strada del Piscio.

Pulce era un compagno quale Orem non aveva mai avuto prima. Era così allegro che anche la freddezza dei negozianti era motivo di riso. Pulce si inchinava ed elogiava con profusione i negozianti che incontravano… quelli cioè che non li scacciavano immediatamente. E dopo essere stati mandati via, Pulce ne faceva la parodia. — Oh, caro, ti amo come un figlio, ma se avessi un figlio dovrei mandarlo via senza lavoro; ragazzi, dovete capire, sono tempi duri, e se andrà avanti così per altri vent’anni, mi rovinerò e morirò anch’io, sicuro che morirò!

Orem rideva spesso a causa di Pulce, e fece molta più strada perché Pulce conosceva bene Inwit, ma quando il pomeriggio stava per finire, fu chiaro che non c’era lavoro per lui sulla Strada dei Negozi. Aveva bisogno di riposare, e Pulce lo condusse nel grande cimitero. Gli alberi erano un paradiso per Orem, un ricordo di casa, anche se non c’erano cespugli, e i tronchi erano potati e curati. Un ricordo di casa, solo che non c’erano uccelli. Orem se ne accorse e lo disse.

— I morti li prendono e ci montano sopra — disse Pulce. — Vanno dappertutto in groppa agli uccelli. È per questo che non bisogna uccidere gli uccelli. Potrebbe esserci sopra uno spirito che non tornerà mai a casa, e ti perseguiterà per sempre.

— I morti sono raccolti dalle reti di Dio — disse Orem.

Pulce lo guardò. — Credevo che non fossi un prete.

— Non sono niente se non trovo un lavoro — disse Orem. — Un uomo è quello che fa per guadagnarsi da vivere. Un falegname, un contadino, un diacono o un mendicante.

— O un ladro? — chiese Pulce. C’era una nota di rabbia nella sua voce.

— Perché no? È così che vivi tu?

— Io rubo, Magro, ma questo non è quello che sono.

Cosa sei allora?

Un uomo è la cosa più grande; più audace che osa fare. Io gioco con i serpenti.

Orem alzò le spalle. — Non so cosa voglia dire.

Pulce sorrise. — Allora devi venire a vedere, vero, Magro?


Nella fossa dei serpenti

Orem indovinò che erano vicini alla Palude quando l’odore della città divenne un fetore, e le casupole cominciarono a essere sorette da pali. — Stammi vicino — disse Pulce. — Ci sono delle sabbie mobili, e il fango ti risucchia come niente se metti i piedi nel posto sbagliato.

Orem lo seguì passo passo, senza deviare dal complicato sentiero che Pulce percorreva fra gli alberi dalle grandi radici e le macchie di code-di-gatto. Dopo quello che gli parve un miglio in quell’incomprensibile labirinto, Pulce si fermò di scatto. Orem gli andò addosso.

— Stai indietro — disse il ragazzo. — Non si sa mai cosa può fare un serpente.

Pulce prese un bastone biforcuto a un’estremità, e che sembrava tagliato apposta. Lo usò per scavare, mettendo allo scoperto un’asse nascosta sotto il fango. Poi infilò il bastone sotto il bordo. Dal buco uscì un sibilo acuto e lamentoso. Orem si ritrasse involontariamente. Nessun bambino a Burland ignorava che il gemito di un Querulo significava la morte se non scappava. Vivevano solo in posti come quello, dove l’ambiente non si decideva se essere terra o acqua. Era una fra le tante buone ragioni per stare lontani dalle paludi.

Pulce rise, ma non per Orem. — Tre giorni, e non è ancora soffocato. Una fortuna!

Orem guardò affascinato, mentre Pulce sollevava a poco a poco l’asse, sempre usando il bastone. Quando un Querulo si muoveva, si muoveva come un uccello, veloce e invisibile, finché non si fermava. Ed eccolo: un lampo verde che scivolava sul terreno, verso la più vicina pozza d’acqua. Ma non riuscì a percorrere più di qualche piede: il bastone di Pulce lo bloccò per il collo.

— Posso affidarti la mia vita? — chiese Pulce.

— Oggi sì.

— Allora prendi il bastone e tienilo forte.

— No.

— Una volta che questo Querulo avrà bevuto l’acqua, ci seguirà fuori dalla palude, lo sai.

— Storie per spaventare i bambini.

— Raccontalo ai bambini morti della Palude.

Orem si avvicinò a Pulce e prese il bastone. Al cambiamento di pressione il Querulo alzò un alto lamento, ma Orem spinse con forza. Pulce rise nervosamente. — Bravo, va bene così, tienilo fermo. Dicono che sia come una donna: musica e morte quando morde. — Orem sapeva che Pulce parlava solo per sentire la propria voce. Il serpente cominciò ad agitarsi con tutto il corpo, dimenando la coda. Pulce non ci badò per niente. Allungò una mano e con due dita afferrò il Querulo appena dietro la testa, e gliela tirò indietro adagio, fino a schiacciarla contro il bastone. Il Querulo emise un suono soffocato, ma Pulce canticchiava. A questo punto osò prenderlo per la gola, strettamente. — Non ancora — sussurrò. Il serpente si lamentò. Pulce passò la sinistra lungo il corpo del serpente, finché non ebbe afferrato anche la punta della coda. — Lascia andare — disse.

Orem aspettò un altro secondo, impaurito.

— Lascialo andare, vuoi strangolarlo?

Lo lasciò andare. Immediatamente il serpente si contorse con spasmi e convulsioni terribili; Pulce tenne duro. Il serpente gridò, si lamentò, come se gli fosse morto un figlio. Pulce ridacchiò sollevato. — Bisogna stare attenti, sai. Se non tieni la coda, te la sbatte in un occhio, e tu lo lasci andare e lui ti morde. Vieni. La fossa è un po’ più avanti.

Orem aveva sperato che catturare un serpente fosse una prova sufficiente di coraggio, per un giorno. Sarebbe stato ben contento di lasciare lì Pulce, ma non avrebbe saputo trovare la strada per uscire dalla Palude da solo. La fossa dei serpenti non era profonda: non potevano esserci fosse profonde nella Palude, perché l’acqua si sarebbe infiltrata in ogni depressione. Erano lì solo da pochi momenti, quando cominciarono ad arrivare altri ragazzi, ciascuno con un Querulo per il collo.

— Pulce! — molti lo salutarono. Pulce allungò verso di loro la testa del suo Querulo, scherzosamente. Alcuni squadrarono Orem.

— Magro — disse Pulce presentandolo. — È un piscione, ma è a posto.

A uno a uno i ragazzi andarono sul bordo della fossa e gettarono i serpenti. Ogni Querulo corse immediatamente verso l’acqua e bevve. Poi cercarono di strisciare fuori, verso i ragazzi. Ogni volta che arrivavano vicino al bordo venivano spinti indietro da un bastone biforcuto. Un rumore di funerale riempì lo spiazzo, mentre i Queruli si lamentavano sibilando.

— Tu, Magro — disse un ragazzo. — Non hai bastone, occupati dei topi.

Topi? Pulce gli spiegò subito: — Alla tua sinistra, nel castello.

Il “castello” era un muretto di pietre, con un tetto di legno. Dentro, si sentiva uno squittio e uno scalpiccio di topi. Orem non era entusiasta all’idea di infilarci dentro una mano per prenderne uno. Ancora una volta Pulce lo consigliò. — Prendi la bisaccia, tienila pronta e togli una pietra dal muro. — La prima volta Orem non fu abbastanza svelto e il topo scappò; la seconda ne prese due, poi riuscì a rimettere a posto la pietra con il piede, per non fare uscire gli altri. I topi si combattevano e si agitavano nella bisaccia, tanto che era difficile tenerla.

— Ne hai presi due?

Orem annuì al ragazzo che aveva parlato, l’unico che sembrava dell’età di Orem.

— Immagino che non vorrai prenderne uno solo.

Orem alzò le spalle. Non voleva passare per fifone. — Come vuoi tu.

— Uno, allora. E buttalo proprio in mezzo. — Il ragazzo non lo guardò neppure: aveva il suo da fare a ributtare i Queruli nella pozza d’acqua in mezzo alla fossa.

Orem prese il collo della bisaccia con una mano e usò l’altra per stringere la bisaccia fra un topo e l’altro. Poi bloccò quello sul fondo tenendo la bisaccia fra le ginocchia, e strinse l’altro finché non poté più muoversi. Con attenzione, manipolò il topo girandolo con la schiena verso l’apertura. Magari mi piscerà sulla mano, ma meglio questo che i suoi denti.

Aprì adagio la bisaccia e tastò il corpo del topo, fino a trovare una delle zampe posteriori. Poi lasciò l’imboccatura della bisaccia e insieme tirò fuori il topo, e con un solo movimento lo gettò ai serpenti.

Se aveva sperato in un mormorio di ammirazione, rimase deluso. Il topo finì quasi in mezzo alla fossa, e immediatamente i ragazzi fissarono l’attenzione sui serpenti. I Queruli si erano zittiti di colpo, e il topo era sospeso fra le bocche di una dozzina di essi. Ebbe appena il tempo di squittire, tanto veleno gli entrò in corpo; il sangue gli schizzò dalla bocca, vomitato dalle sue viscere più profonde, e poi fu solo pelliccia, scabbia e carne. I serpenti tirarono, e il topo si spezzò. Alcuni dei serpenti rimasero senza niente, altri con ciuffi di pelo, e infine rimasero solo i due attaccati al topo, entrambi intenti a ingoiare furiosamente, finché non si trovarono zanna a zanna, le mascelle spalancate per il topo che stavano ingoiando.

I due ragazzi i cui serpenti erano così uniti, si scambiarono grida di gioia. Avevano vinto la prima parte della gara. Tuttavia era la fine dei rispettivi serpenti, perché adesso gli altri cominciarono a ululare e ad azzannarli. I Queruli non si fanno facilmente avvelenare dal loro stesso veleno, ma dopo una dozzina di morsi i due cominciarono a star male, e con un centinaio di morsi morirono. Gli altri serpenti cominciarono a mordere e a mangiare tutto quello che capitava a tiro. Alcuni morirono con il corpo di un altro metà ingoiato; alcuni morirono senza nulla; e alla fine, quando tutto fu immobile, i ragazzi vennero vicino per fare il conto. Quali avevano vinto e quali perso?

Orem cercò di decifrare. Quelli i cui serpenti erano rimasti da soli, senza aver mangiato né essere stati mangiati, apparentemente erano fuori gioco: se ne andarono grugnendo. Gli altri calcolarono quanto un serpente era stato mangiato prima di morire, e i ragazzi si mettevano in coppia secondo gli accoppiamenti dei serpenti, e mentre uno trionfava, l’altro faceva una faccia scura. Per la prima volta a Orem venne in mente che nessuno di quei ragazzi aveva denaro. Qual era la posta, dunque? Che prezzo dovevano pagare quelli che avevano perso?

— Il tuo è stato mangiato di più — disse il ragazzo più vecchio a uno più giovane di lui.

— Balle — disse l’altro. — Era un serpente corto.

— Ho detto che ho vinto — disse il ragazzo più grande.

— Ho detto balle. Il tuo è stato più mangiato.

Orem guardò i serpenti e pensò che il più giovane poteva anche avere ragione. Pensò anche che a meno che la posta da pagare non fosse qualcosa di terribile, non valeva la pena di litigare per una cosa simile, perché il ragazzo più grande aveva un’aria di allegria che metteva paura…

— Ho detto di no.

Il ragazzo più giovane sembrava spaventato, ma non cedette. — Non sono venuto per farmi fregare da un bastardo come te — disse ad alta voce. Gli altri ragazzi cominciarono a indietreggiare.

— Neanch’io — disse il ragazzo più vecchio. — Penso di no. Ho detto di no. Anche tu l’hai detto.

— Ho detto di no!

Un colpo al petto, un passo indietro, una spinta, un passo. Orem aveva già visto quell’espressione sulla faccia del ragazzo più grande: era quella che avevano avuto Cressam e Morram e Hob quando l’avevano buttato nel mucchio di fieno per bruciarlo vivo.

— Rana, non è niente — disse Pulce. Chi era Rana? Pulce voleva placare il ragazzo più grande o assicurare il più giovane che perdere non sarebbe poi stata una tragedia? Orem non riuscì a capirlo, perché nessuno dei due diede segno di aver sentito. La discussione non era più sui serpenti. Era su chi avrebbe fatto la volontà dell’altro.

Poi fu finita. Quello più giovane diede una spinta all’altro, che gli afferrò le mani, e con un solo movimento lo gettò verso il pozzo. Sul momento, Orem fu solo disgustato all’idea di finire sui cadaveri dei serpenti. Poi scoprì che i Queruli non erano morti. Erano solo intontiti. Quando il ragazzo finì sui serpenti che erano nell’acqua, alcuni si risvegliarono, e quando si alzò ne aveva cinque o sei appesi.

Orem non poté trattenersi: urlò insieme al terrore del ragazzo. I denti che trapassavano la pelle come aghi da cucito erano già una vista terribile, ma c’era anche un serpente che gli pendeva da un occhio, come se fosse cresciuto lì. Il ragazzo si piegò in due, e parve vomitare tutto il sangue che aveva in corpo. Poi cadde a terra e giacque immobile come aveva fatto il topo, con i serpenti che cercavano inutilmente di spalacare le bocche abbastanza per inghiottirlo. Per qualche ragione, tutto quello a cui Orem riuscì a pensare fu il Levriero che afferrava la spalla di Glasin il Droghiere fra le sue mascelle, e ne strappava la carne. E tuttavia quello non era un sacrificio così degno. Il ragazzo era ricoperto da una massa vivente di serpenti che lo avvolgevano nei loro corpi e lo leccavano con lingue dardeggianti, eppure Orem non riusciva a distogliere gli occhi.

— Hai visto abbastanza? — chiese Pulce a bassa voce.

Orem non riuscì a parlare.

— Andiamo, adesso — disse Pulce — altrimenti non usciremo dalla Palude vivi. Vieni?

— A Waterswatch Alta — disse Orem — lottavamo e ci inventavamo storie. È così che giocavamo.

— Non c’è alcun nome per un uomo in quello — disse Pulce. — Ma ricordo che sei stato svelto a prendermi per le palle, per amore dei tuoi denari.

Orem seguì Pulce fuori dalla Palude, sentendo alle sue spalle i lamenti dei Queruli per tutto il tempo. Solo quando raggiunsero le baracche, Orem si rese conto che teneva ancora la bisaccia con dentro il topo. Impulsivamente, la sbatté contro il muro di una casa.

— In nome di Dio — gridò Pulce. — Cosa fai?

— È tanto prezioso per te un topo? — chiese Orem.

— Non il topo, Magro, la casa. Se gli fai un buco nella parete, rischi di ucciderli quest’inverno, se non trovano una pezza.

La casa era sacra, ma un ragazzo poteva morire per nulla nella Palude. Orem porse a Pulce la bisaccia. Pulce la rovesciò e lasciò uscire l’animale. Il topo non era morto, ma il colpo l’aveva intontito. Si mosse ondeggiando, come un ubriaco. Pulce gli mollò un calcio e lo spedì trenta piedi lontano, che si contorceva nell’aria.

— Qual era la penalità? — chiese Orem. — Per quelli che hanno perso?

Pulce alzò le spalle. — Solo un po’ di tappo-nel-buco. Rana non doveva protestare. Aveva una sorella che poteva pagare per lui.

Tu ce l’hai una sorella? — chiese Orem.

— No — disse Pulce. — Ma io non perdo. — Sorrise. — Li so giudicare bene i Queruli, io.

— Perché lo fai? — chiese Orem. — Perché giochi così vicino alla morte?

Pulce alzò le spalle. — È quello che sono.


Il segreto della fontana

Orem disse che era capace di trovare da solo la strada per la locanda, dalla Via di Legno, e i due si lasciarono, promettendo di rivedersi il mattino dopo per proseguire la ricerca di un lavoro per Orem. Orem aveva una cosa da fare prima di tornare alla locanda. Trovò la strada fra le vie che si stavano vuotando fino al Piccolo Tempio, e il diacono gli mostrò la fontana dove si recavano sempre i forestieri.

La fontana non era granché. Nessuno gli chiese di pagare, e neppure chiese un’offerta; raggiunse la fontana e ci versò la fiasca di acqua di fonte. Non sapeva bene che preghiera venisse detta lì, così mormorò una preghiera per suo padre, poi immerse di nuovo la fiasca per prendere l’acqua sacra, che Glasin gli aveva detto era così preziosa.

Prima di andarsene guardò nella fontana per vedere da dove arrivava l’acqua. Guardò per un po’ prima di rendersi conto che non c’era alcun sistema di riempimento. Era solo una vasca, non una fontana. Versò di nuovo l’acqua, senza averla assaggiata. La fontana veniva riempita dai visitatori che si recavano a Inwit, che lasciavano lì l’acqua delle loro case e non prendevano nulla di Inwit, ma soltanto i doni mezzo evaporati di altri sciocchi.

Una truffa, naturalmente, un imbroglio. Orem quasi sputò nell’acqua, ma si fermò, pensando che il successivo visitatore non gli aveva fatto alcun male. Avrebbe potuto dividere la sua acqua con Pulce, se l’avesse saputo. Era questo che lo faceva arrabbiare di più: che non era stato generoso con la sua acqua.

Di ritorno al Badile e alla Fossa, il padrone gli chiese un altro denaro.

— Ma ho pagato ieri per due notti.

— Lo so. L’altro denaro è per domani.

— Ma è solo una notte. Dovrebbe essere mezzo denaro.

— Puoi restare un’altra. — E fu tutto. Il visto era per tre giorni, la stanza per due più due, prendere o lasciare. Almeno, gli diedero una scodella di zuppa. Anche loro avevano una coscienza.

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