17 GABBIE

Come gli altri animali tennero in vita Orem Fianchi-Magri finché non fu riconosciuto.

Il pozzo dei Giovenchi e lo zoo

I cittadini di Inwit i cui documenti non sono in ordine vanno alla Sala delle Facce per essere giudicati. I preti vengono giudicati al tempio. I concessionari di licenze sono multati e tassati nella Sala delle Corporazioni. Ma quelli senza visto vanno alle Gabbie, perché non hanno alcun diritto di essere dentro Inwit. La loro stessa esistenza è un crimine.

Portarono Orem, insieme ad altri criminali, in un carro lungo la Via della Regina, e nel grande vallo fra le mura del Castello. I cavalli facevano fatica a trascinare il pesante carro su per la ripida salita, e le mura tagliavano fuori ogni rumore, perciò tutto quello che i prigionieri potevano sentire nella loro abiezione era lo schioccare delle fruste e il tirare degli animali. Alla Porta Alta i prigionieri ascoltavano le parole di un ufficiale.

Questi enumerava i loro diritti: nessuno.

Enumerava le scelte che avevano: perdita di un orecchio alla prima infrazione, schiavitù o castrazione alla seconda, un’interessante ed esemplare morte alla terza.

E per chiarire meglio il concetto, durante il tragitto verso le Gabbie venivano fatti passare accanto al Pozzo dei Giovenchi. Le autorità facevano in modo che, quando passavano dei nuovi prigionieri, qualche povero criminale che aveva scelto la libertà da eunuco fosse appeso lì coi ferri ai polsi e alle caviglie, i fianchi stretti nella gogna, nudo e in attesa del filo e delle forbici. I giudici della Città Reale preferivano che i loro prigionieri scegliessero la schiavitù, perciò facevano apparire la castrazione quanto mai orribile. In questa maniera la macchina della giustizia si pagava da sé, mediante la vendita di schiavi ai trafficanti che portavano i loro prigionieri a occidente, oltre il mare.

Dopo avergli fatto vedere il Pozzo dei Giovenchi, misero Orem in una delle gabbie. Le gabbie non avevano né pavimenti né arredi, solo sbarre incrociate sopra, sotto e sui quattro lati. Non c’era riparo dal vento e nessuna possibilità di trovare una posizione confortevole. Le gabbie erano troppo piccole per starci in piedi, e sedere significava premere le natiche sulle fredde sbarre. Non ci si poteva inginocchiare perché le sbarre facevano male, e se uno si sdraiava non sapeva dove mettere la testa. Orem cercò ogni possibile posizione, mentre i prigionieri vicini lo osservavano in silenzio.

Alla fine si mise in un angolo, che era il punto meno scomodo, almeno per un po’.

C’erano due piani di gabbie sopra di lui, e niente sotto, ma il terreno era troppo lontano per poterlo toccare, anche se infilava un braccio in mezzo alle sbarre. Era sospeso in aria, inerme e meschino.

— Per quanto tempo ci tengono qui? — chiese Orem all’uomo nella gabbia vicina alla sua. L’uomo si limitò a guardarlo senza dire nulla. — Ho detto: per quanto tempo… — Poi colse uno scintillio negli occhi dell’uomo che lo bloccò. Non era che l’uomo non l’avesse sentito: solo che parlare non gli interessava. Si alzò e venne verso l’angolo dove si trovava Orem. Non diede segno di ciò che intendeva fare, ma Orem era sicuro che preferiva vederlo dall’angolo opposto. L’uomo, cereo e silenzioso, si spostò le mutande e cominciò a orinare verso Orem. Il gettò colpì le sbarre della gabbia e schizzò in giro. Orem si ritirò verso l’angolo più lontano, e per un momento si credette al sicuro, finché non sentì sulla schiena la sensazione calda e fredda dell’orina dell’altro suo opposto, che gli scorreva nelle mutande.

Si girò per scappare, inciampò contro le sbarre e cadde. Il piede gli scivolò nel buco, e cadendo con la gamba impigliata fra le sbarre si storse l’anca. Si era fatto male, e loro continuavano a pisciargli addosso dalle due parti, mentre l’uomo sopra di lui sputava. Nella sua rabbia Orem avrebbe voluto urlare, maledirli; ora più che mai avrebbe desiderato un potere che distruggesse i nemici, in luogo di quello passivo e inutile di un Pozzo.

Finalmente i getti cessarono. Quello sopra di lui che aveva sputato, se ne andò in un angolo e sedette. Solo il vento rimase, gelido, che gli asciugò l’orina sulla pelle e sui capelli; il vento e la puzza. Ben presto il suo disagio fu troppo grande per lasciar posto alla rabbia. L’orina era come il freddo: qualcosa da sopportare con pazienza. Non poteva farci niente, per il momento. Districò la gamba dalle sbarre e si massaggiò l’anca indolenzita. Senza appoggiare il piede della gamba slogata andò in un altro angolo e si sedette, tenendo d’occhio gli altri uomini. Loro non lo guardavano più.

Dopo pochi minuti le guardie vennero a prendere l’uomo sopra di lui. Mossero una impalcatura montata su ruote lungo le gabbie, e la fermarono davanti a quella di Orem. L’uomo non si alzò dal suo angolo. Le guardie salirono lungo una scala e si fermarono di fronte alla porta della gabbia. Non entrarono, non dissero nulla. Si limitarono ad aspettare. L’uomo dentro, le guardie fuori, e Orem non riusciva neppure a capire se si guardassero. Aspettarono a lungo. Poi il vento soffiò più forte per un momento, facendo gelare Orem. Apparentemente dovette anche sussurrare qualcosa al prigioniero di sopra, perché si alzò e andò alla porta e aspettò impassibile mentre le guardie l’aprivano. Gli legarono una catena attorno alle braccia, appena sopra i gomiti, e gliela girarono stretta attorno alla schiena. L’uomo non diede alcun segno di dolore, ma li seguì docile.

Il sole del pomeriggio portò una specie di calore, e Orem rabbrividì, assorbendolo. Sperò che qualsiasi giudizio lo attendesse, arrivasse prima della notte, prima del freddo intenso.

Il cielo si stava arrossando fra le nubi del tramonto, quando un altro uomo venne portato nella cella sopra la sua. Orem osservò impassibile mentre i suoi vicini pisciavano addosso al nuovo venuto. Una buona parte gli cadde addosso, non poté far nulla per evitarla, e con il vento della sera faceva ancora più freddo. Ma questa volta Orem non si rannicchiò. Non si mosse dal suo posto. Si limitò a chiudere gli occhi e a stringere le labbra, aspettando che finisse. L’uomo gridò, e gridò e cercò di correre da un posto all’altro. Non c’era riparo. Ma poiché gridava, continuarono ad attaccarlo. Sputi quando non avevano più orina, e l’uomo al terzo piano di gabbie fece come per defecare. Alla fine Orem non lo sopportò più. Le urla e le imprecazioni del nuovo venuto non facevano che prolungare quella pioggia schifosa, e Orem era stufo. Andò sotto all’uomo, dove questi imprecava contro i suoi tormentatori. L’uomo non lo vide: stava guardando gli uomini silenziosi e privi di espressione che sputavano non appena riuscivano a raccogliere in bocca abbastanza saliva. Orem allungò le mani attraverso le sbarre e tirò con tutte le forze le caviglie dell’uomo. Con un urlo di terrore, l’uomo cadde dritto verso il basso, fermandosi appena in tempo per non schiacciarsi i testicoli contro le sbarre. Orem tenne stretti i suoi piedi.

— Lasciami andare! — gridò quello.

Ma Orem senza una parola gli tenne fermi i piedi. Con l’uomo bloccato, che doveva adoperarsi con tutte le forze per non farsi schiacciare lo scroto contro le sbarre, gli altri trovarono un bersaglio sufficientemente comodo per soddisfarsi. Quando il nuovo venuto pianse per la frustrazione, finalmente smisero, e Orem gli lasciò andare le gambe. Con difficoltà l’uomo si tirò su e districò le gambe dalle sbarre. Poi raggiunse barcollando un angolo, piagnucolando fra sé.

Le gabbie sembravano quasi piene; pareva anzi che non portassero via un prigioniero fino a quando un altro non era pronto a prendere il suo posto, come se le gabbie richiedessero la pienezza della miseria.

Orem non riuscì a dormire; non osava dormire, con quel freddo. Le mani e i piedi gli divennero insensibili. Si alzò e camminò intorno alla propria gabbia, stringendo con le mani le sbarre per non cadere di nuovo, nel buio, usando anche la gamba che gli faceva male per evitare che diventasse troppo fredda. Verso il mattino si alzò la luna, fornendo luce sufficiente per deridere il freddo. E poco dopo il sorgere della luna, le nuvole da ovest coprirono il cielo. Il nuovo venuto aveva smesso di piangere. Orem si chiese se dormisse o se fosse morto, o avesse semplicemente scoperto l’inutilità di piangere. Orem continuava a girare nella sua gabbia. Una volta la mano di un uomo coprì la sua, su una sbarra. Per un momento Orem temette un dolore acuto e improvviso, poi la mano si sollevò e Orem si rese conto che anche il suo vicino si stava muovendo.

Verso l’alba cominciò a nevicare. I fiocchi che gli toccavano la pelle, fitti e rapidi, sembravano punture. Si mise a camminare più in fretta, finché nella debole luce dell’alba vide che gli altri uomini stavano raccogliendo la neve dalle sbarre e la mangiavano. Naturalmente: aveva passato un giorno intero senza acqua, e chissà da quanto tempo quegli uomini erano lì senza mangiare e senza bere. Anche Orem raccolse la neve e si succhiò le dita. L’acqua era fredda sulla sua lingua, ma di un gusto così pulito, una volta sparito il primo sapore di orina, che gli trapassò la gola alla base del cranio.

Cammina, cammina, cerca di tenerti caldo più che puoi. Fra la neve, arrivarono le guardie e presero l’uomo vicino a Orem, e l’uomo dietro di lui. Sempre le guardie si fermavano vicino alla porta, finché il prigioniero non smetteva di girare e veniva da loro. La neve cominciò a cadere più fitta. L’uomo vicino a Orem si fermò e si defecò sulle mani, poi si strofinò le mani calde sulla pancia, con un brivido di sollievo.

Ben presto portarono due nuovi prigionieri al posto dei vecchi. E questa volta Orem si unì agli altri nell’orinare e nello sputare loro addosso. Entrambi erano più furbi di quello sopra di lui. Una volta superata la sorpresa, fecero come aveva fatto Orem: sopportarono. E rapidamente entrarono nella routine delle gabbie: mangiavano la neve che si accumulava in uno strato sottile sulle sbarre, giravano in cerchio per tenersi caldi, sedendo per qualche momento quando camminare diventava impossibile. Quando un uomo rimaneva seduto troppo a lungo e cominciava a sonnecchiare, gli altri gli sputavano in faccia per svegliarlo. Non una parola. Non una voce. Non abbiamo voci, qui, ma siamo ancora uomini: cerchiamo di tenerci vivi l’un l’altro.

L’uomo sopra di lui, tuttavia, rimaneva fermo, e alla fine la neve cominciò ad accumularsi sul suo corpo freddo. Quando fu chiaro che era morto, Orem allungò una mano attraverso le sbarre e raccolse un po’ di neve dal corpo dell’uomo, e se ne riempì la bocca. Gli gelò i denti, ma si sciolse in un sorso di acqua. Quando ebbe bevuto a sufficienza ne porse una manciata all’uomo vicino, che senza una parola la prese, si riempì la bocca, e riprese a camminare. A ognuno dei suoi vicini Orem diede una manciata di neve dal cadavere sovrastante, e quando loro ebbero bevuto, presero le manciate e le passarono ai prigionieri successivi. La neve si accumulò sotto le gabbie. Un piede a mezzogiorno, e a metà pomeriggio era arrivata al livello delle gabbie. Adesso non c’era più bisogno di raccogliere neve dal cadavere dell’uomo: ce n’era in abbondanza a portata di quelli del piano più basso. Orem vide che la sua pelle stava assumendo una sfumatura blu. Quanto ci voleva ancora prima che le dita si congelassero per sempre? Quanto, prima che iniziasse la cancrena? Quanto, prima che semplicemente fosse troppo stanco? Non dormiva dalla mattina del giorno precedente, e adesso era di nuovo quasi sera. Vennero a prendere il cadavere verso mezzanotte, e durante la notte le guardie presero anche l’ultimo degli uomini che avevano pisciato su Orem quando era arrivato. Gira, gira, stai caldo, stai caldo. Orem cantò fra sé, pregò perfino, per quanto futile fosse per uno che aveva rinunciato a Dio, pregò e si chiese se la visione del Cervo non fosse stata una profezia di morte.

Durante la notte la neve cessò di cadere, le nuvole scivolarono via dal cielo, e cominciò il vero freddo. Adesso morirò, pensò Orem.

Per un po’ si sedette in un angolo e tremò violentemente, mentre il vento lo schiaffeggiava con le sue mani di ghiaccio. Furono solo gli sputi che gli colpirono la faccia e le spalle a trattenerlo dal sonno incombente. Ebbe un ultimo, terribile tremito, e balzò in piedi, afferrò le sbarre del soffitto e si appese con tutte le sue forze, incurante del torpore alle mani. Vivrò, decise mentre si tirava lentamente su, e si abbassava. Che i figli delle guardie muoiano bruciati davanti ai loro occhi. Stringendo i denti, sollevò in alto i piedi e li agganciò alle sbarre del soffitto. Che le mogli delle guardie possano essere violentate da cento lebbrosi. Con piccoli mugugni di dolore si costrinse ad alzarsi, abbassarsi, alzarsi, abbassarsi.

Quando finalmente giunse l’alba. Orem stava ancora girando in tondo nella sua gabbia. Molti giacevano immobili: cumuli neri nella luce del sole, che gettavano ombre immobili sulla neve sotto le gabbie. Una ragnatela con le sue prede in attesa di essere divorate. Forse la metà si agitavano ancora nella tela.

Come se volessero deliberatamente torturarlo, le guardie presero altri due uomini prima di venire finalmente per lui. Come li odiò per essere entrati prima di lui. Ma non disse nulla, deliberatamente non mostrò alcun segno d’ira. Si limitò a girare in cerchio, ad appendersi al soffitto e a tirarsi su e giù, con mani rigide come zampe.

Eppure, quando vennero, Orem non corse alla porta, non ebbe fretta. Il semplice cambiamento nella routine della sopravvivenza era troppo difficile; dovette fare uno sforzo, dovette pensarci per smettere di muoversi secondo lo schema stabilito. Poi finalmente andò alla porta, e aspettò. La catena era di freddo acciaio, ma gli sembrò calda quando gliela strinsero. Un po’ di pelle rimase incastrata nella cerniera del lucchetto, ma Orem era troppo intorpidito per sentire dolore, mentre la pelle veniva strappata, e un po’ di sangue gli scendeva lungo il braccio e si gelava.


La casa del carbone

Il processo venne tenuto nella Casa del Carbone. Le pareti erano grigie e sporche a causa della polvere nera, e nell’aria soffocante le facce delle guardie erano rigate di grigio per il sudore. Il calore era quasi più di quanto Orem potesse sopportare, e il sollievo gli fece tremare le gambe al punto che le guardie dovettero sostenerlo. La sala era illuminata solo da piccole finestre poste in alto e da poche torce lungo le pareti. Per Orem era lo stesso: guardava solo il pavimento, che girava sotto i suoi piedi.

Le guardie lo lasciarono cadere in mezzo alla stanza. Orem rimase steso sul nudo pavimento, felice, e ascoltò la voce del magistrato che intonava: — Crimine?

— Senza visto, e nessuno che l’abbia reclamato.

— Sesso e età?

— Maschio, giovane di corno.

— Prigioniero, cos’hai da dire?

Gli ci volle un momento per capire che l’uomo si rivolgeva a lui, e un altro momento per ricordarsi come si faceva a parlare. Non tagliatemi, avrebbe voluto dire. Ho ucciso le donne del mago, e merito qualsiasi cosa mi facciate, quasi disse.

— Sono un ragazzo di campagna, vengo da nord, e ho perso il visto — disse alla fine.

Una guardia lo mise in ginocchio e gli fece girare la testa per mostrare la guancia al magistrato. — È guarita da un mese almeno — disse la guardia.

— Come hai fatto a non farti prendere dalle guardie per tutto questo tempo? — chiese un magistrato.

Orem li guardò per la prima volta, adesso che la guardia lo teneva sollevato. C’erano tre magistrati, su un’alta pedana, con una rete di ferro fra loro e Orem. Indossavano maschere, terribili maschere bianche e verdi come la putrefazione, e lo guardavano implacabili come Dio, perché le maschere non sbattono le palpebre. — Sono stato attento — disse Orem.

— L’abbiamo preso all’aperto, con la camicia strappata e quasi nudo, in mezzo alla neve — disse la guardia. — I ragazzi attenti non fanno così.

— Portatelo più vicino — disse uno dei magistrati. Dal momento che nessuna delle teste si mosse, non c’era modo di sapere quale avesse parlato. Mentre la guardia lo portava barcollante verso la pedana, la voce di un altro magistrato disse: — Il Buco, senza dubbio, e un falso visto. Chi ti ha dato il visto, ragazzo? O vuoi che i testicoli ti vengano maciullati e serviti col budino?

Non fu coraggio quello di Orem: il coraggio era qualcosa di incomprensibile per lui dopo due notti nella gabbia aperta. Non disse tutto quello che sapeva sul passaggio attraverso il Buco perché in quel momento uno dei magistrati emise un piccolo grido e disse: — Guardate la sua faccia.

Uno di loro fece un cenno alle guardie, che fecero passare Orem attraverso una porticina nella gabbia e lo portarono di fronte al tavolo dei magistrati. Lasciarono che si appoggiasse al tavolo mentre le facce mascherate lo guardavano fisse. Orem adesso era abbastanza vicino da vedere il bianco degli occhi dentro le maschere, e le labbra e i denti e le lingue dei magistrati.

— Come ti sei fatto quella cicatrice sulla gola? — chiese un magistrato.

Orem si era dimenticato del segno lasciatogli dalla visione. Come rispondere? Solo la verità gli venne in mente, solo la verità poteva andar bene. — Sono il figlio di un contadino. Me la sono tagliata da bambino sulla lama di un aratro.

I tre lo guardarono in silenzio. Poi quello in mezzo annuì, e anche gli altri annuirono. — Il sogno della Regina, senz’altro — disse uno.

— E viene dalle gabbie — disse un altro.

— Come ti chiami, ragazzo?

Orem ci pensò un momento, poi ricordò. — Orem.

— Orem cosa?

Non riusciva a ricordare. Era stato chiamato Fianchi-Magri? O Banningside? O ap Avonap? Quale dei tre?

— Non è in condizione di rispondere.

— Allora mettetecelo, nelle condizioni.

— E adesso cosa facciamo? Lei ha detto di non fargli del male, e guardate.

— Quanto si ricorderà?

— Troppo.

— Come facevamo a saperlo? È stato arrestato ancora prima che ce lo dicesse.

Quello in mezzo prese una decisione. — Non sospendete le ricerche. Portatelo da qualche parte a riposare. Solo quando sarà in condizioni migliori sospenderemo le ricerche.

— Sciocco. Lei lo sa già.

— E a che le serve, se non lo rimettiamo in sesto? Coperte, brodo, e un fuoco acceso. Sbrigatevi! E fate entrare il prossimo, presto, presto!

Orem venne riportato via, ma questa volta con maniere più gentili; quando giunsero in una piccola stanza con un fuoco acceso gli tolsero le catene, e lo fecero sdraiare su un materasso di piume in un angolo, e lo coprirono. Si era addormentato prima che uscissero dalla stanza e si svegliò a malapena per bere la tazza di brodo che gli portarono, e di nuovo per orinare nel pitale. Alla fine si svegliò da solo, strisciò fuori dalla coperta perché sudava e la stoffa di lana lo pungeva. Dove la pelle gli era stata strappata dal lucchetto, la ferita gli bruciava; aveva tutte le giunture indolenzite, era scosso da violenti brividi, e infine vomitò il brodo sui mattoni del focolare.

Allora si sentì meglio, strisciò in un angolo, appoggiò la testa al muro e osservò il fuoco attraverso gli occhi semichiusi. La scena con i magistrati era davanti ai suoi occhi come un sogno da cui non ci ci è ancora del tutto svegliati. Lei aveva mandato le guardie a cercarlo. Lei adesso poteva vederlo. Lei aveva visto la sua faccia in sogno. Lei poteva essere solo la Regina, e adesso Orem sapeva che avrebbe dovuto pagare un prezzo per averla sfidata, poche notti prima. Tuttavia, dopo quello che aveva passato, non riusciva ad avere paura. Cosa poteva fargli di più? Non era ancora tornato interamente nel suo corpo; i sensi non erano ancora del tutto suoi. Che lo torturasse pure, che lo uccidesse, per lui era lo stesso.

Arrivarono dei servi con una tinozza, lo spogliarono e lo misero nell’acqua calda. Uno portò via i suoi vestiti; altri spazzarono e pulirono il pavimento, mentre gli fregavano bene la schiena e gli insaponavano i capelli e glieli sciacquavano come lo straccio che usavano per il pavimento. L’orina secca e le croste di sputi delle gabbie si sciolsero nell’acqua; portarono via la tinozza e vennero con un’altra; lo lavarono di nuovo, poi lo asciugarono davanti al fuoco, gli tagliarono i capelli e li pettinarono, lo vestirono con una semplice camicia allacciata con una catena cesellata che brillava come oro. Come oro, pensò Orem, e non gli venne in mente che potesse essere oro. Non sarebbe stato in grado di distinguerlo da un’imitazione, in ogni caso.

I magistrati vennero a vederlo di nuovo, per essere sicuri. A Orem non importava cosa decidessero. Era sufficiente aver sentito la stoffa morbida sulla pelle lavata e dolorante, aver sentito il calore del fuoco, aver toccato i mattoni caldi con ogni dito, e aver sentito ognuno di essi formicolare di vita, aver provato i suoi piedi e averli trovati vivi e caldi, ubbidienti ai suoi ordini.

Apparentemente era l’uomo che avevano cercato. — Sì. Sì, così può andare. Abbiamo fatto del nostro meglio. — Si scusarono bruscamente con lui. — Un terribile errore, Orem, ragazzo mio. Un errore può capitare a tutti, no? Non protesterai, vero?

Protestare? Di cosa doveva protestare? — Basta che mi teniate al caldo — disse. — Tenetemi caldo e pulito e asciutto, e non avrò niente di cui lamentarmi. — Ricadde addormentato prima che i magistrati uscissero.

Загрузка...