Chi potrebbe biasimare Orem Fianchi-Magri se si svegliò pieno di meraviglia e di gioia? Per la prima volta nella sua vita la verità era meglio del sogno, e più improbabile. Durante quella prima ora pensò di aver trovato un nome, un posto e una poesia, tutto assieme, e che tutti fossero felici. La luce del sole danzava riflessa da mille specchi. E c’è dell’altro…
Io credo che se Bella fosse stata buona con lui, lui l’avrebbe amata, e così noi e gli dèi saremmo stati rovinati.
Tuttavia, se Bella fosse stata capace di essere buona, non ci sarebbe stato bisogno della sua morte per liberarci dalla schiavitù.
Perciò è un circolo chiuso. E la cosa più crudele è questa, Palicrovol: credo che verso la fine della sua vita. Bella amò Orem Fianchi-Magri, a suo modo tanto quanto la Principessa dei Fiori amò il suo Re. Anche se Orem era nato quando Bella aveva già superato i tre secoli di vita e di potere, tuttavia la fanciulla Asineth aveva trovato il suo amore: un sognatore, un uomo buono, un uomo gentile a cui importava meno dei suoi progetti che della gente che vi era coinvolta. È in questo che lui era diverso da te, Palicrovol, ed è questa la ragione per cui lei lo amò.
Povera Bella. Non posso, io fra tutti, compiangerla? Lei lo amò; ma aveva appreso una sola maniera di manifestare il suo amore: attraverso la crudeltà e l’ingiuria. Dopo tutto, chi amava più di tutti al mondo? Coloro che erano stati alla sua destra e alla sua sinistra per quindici volte vent’anni: Donnola Bocca-di-Verità, Urubugala e Coniglio. Questo era quanto lei sapeva dell’amore. Non c’è da meravigliarsi se Orem non riconobbe il suo amore quando lei glielo diede. Anche ora, se sapesse che lei l’aveva amato, questo gli spezzerebbe il cuore.
Ma lui non seppe e non sa, perché questa è la maniera in cui lei lo servì a partire dal primo giorno della loro vita come marito e moglie.
Il mattino lo vestirono di broccati e velluti, abiti così pesanti che all’inizio gli fecero curvare le spalle e lo resero un po’ ridicolo. Non sapeva come indossare le vesti di un Re. È una cosa che non è innata, come sai. Lo condussero attraverso il palazzo, sussurrandogli i nomi delle sale in modo che lui potesse chiederli nuovamente, anche se non sapeva ancora cosa farsene della Camera delle Stelle, della Sala dei Cobra, del Portico delle Lamentazioni, o della Stanza dei Tori Danzanti.
Ai piedi delle scale vide un vecchio che sembrava fuori posto, poiché invece di una livrea indossava solo un vecchio perizoma sporco, ed era coperto di macchie color legno. La schiena del vecchio era contorta, come se fosse stato stritolato da grandi mani. Era chino sulle scale e versava un liquido chiaro sul legno, strofinandolo poi per farlo penetrare. Orem si fermò per non calpestare il suo lavoro. L’uomo alzò gli occhi a guardarlo. Le sue sopracciglia erano folte come baffi, ma erano gli unici peli che avesse sulla faccia. La pelle del viso era trasparente, e le vene pulsavano blu e rosse appena sotto la superficie. Occhi profondi come ambra, spessi come crema, e senza alcuna pupilla.
— Sei cieco? — chiese Orem a bassa voce. Senza dubbio non poteva vedere, senza un’apertura per la visione; e tuttavia gli occhi non si alzarono forse a guardarlo?
— Alla luce sono cieco — sussurrò il vecchio, senza staccare gli occhi dalla faccia di Orem.
Dove aveva visto occhi come quelli? — Chi sei? — chiese Orem.
— Sono Dio — disse il vecchio. Sorrise, e la sua bocca non aveva né lingua né denti, né alcuna altra cosa: solo una cavità nera dentro le labbra. Poi tornò al suo lavoro, e i servitori spinsero delicatamente Orem su per le scale.
Chi, se non il Piccolo Re, avrebbe parlato con un vecchio servo nudo che oliava le scale di legno? Questo è certo: solo uno che portava con sé un buco invisibile nella Vista della Regina avrebbe potuto sentire la risposta che Orem sentì. Non capì; ma neppure si dimenticò, malgrado tutto ciò che imparò sulla Regina Bella prima che trascorresse un’ora.
Chi, se non la Regina, avrebbe potuto essere notata nella Camera della Luna, con i suoi grandi dischi d’argento illuminati da mille candele? Lei la usava come sua corte privata. I servitori condussero Orem fino a quel grande cerchio di vetro che ora è chiamato Tavola Rotonda, e che allora era chiamato la Luna di Bella. Guardò la Regina che era seduta sul suo trono d’avorio.
Quando i servi furono usciti, la Regina si alzò e avanzò, offrendogli la mano. Orem la prese e fece per inchinarsi, ignorando il protocollo, pensando solo alla notte prima, e meravigliandosi che quella donna ora fosse sua moglie. Ma la Regina lo fermò e non gli permise di inchinarsi. Invece chinò la testa davanti a lui. Un respiro alle sue spalle lo fece accorgere che c’era qualcun altro nella sala.
— Bella ha preso moglie — intonò una voce acuta, con un pizzico di pazzia — per soddisfare le sue voglie. Se l’è portato a letto con un po’ di veleno nel petto?
La Regina sollevò la testa e guardò gli altri presenti nella stanza; anche Orem si voltò. In mezzo al tavolo sedeva un uomo nero, piccolo, quasi nudo, con delle corna di mucca in testa e un immenso fallo falso che gli pendeva dalla cintura. Non era stato lì quando Orem era entrato. Era stato lui a recitare i versi, e adesso parlò di nuovo.
“Che Re carino,
con un coso piccolino.
Ma canterà la sua canzone
l’ape senza pungiglione?”
— Zitto — disse la Regina magnanimamente. Il nano fece una capriola e atterrò ridendo ai piedi della Regina.
— Ah, battimi, battimi, Bella! — gridò l’ometto nero, e si mise a piangere pietosamente. Cominciò ad assaggiarsi le lacrime, poi si ritirò in un angolo della stanza, asciugandosi gli occhi con il fallo imbottito, che era più lungo delle sue gambe.
— Come vedete — disse la Regina — ho preso marito. È un comune criminale, viene dal quartiere più sporco della città. È altrettanto attraente ai miei occhi quanto un maiale lebbroso. Ma mi è stato dato in un sogno dalle Dolci Sorelle, e mi ha divertito seguire il loro consiglio.
Orem non riuscì a conciliare la voce dolce e musicale con le parole dure che diceva. Fece un sorriso stupido, vagamente consapevole di essere oggetto di un insulto, ma incapace di irritarsi di fronte alla musica che usciva dalle labbra della Regina.
— Come vedete, è anche abbastanza stupido. Una volta aveva un nome, ma in questa corte verrà chiamato Piccolo Re. Inoltre, malgrado il fatto che abbia la potenza sessuale di uno scarabeo stercorario, ieri notte abbiamo concepito un figlio.
Orem non fu sorpreso che la Regina Bella già lo sapesse. Altre donne avrebbero dovuto attendere che la luna sorgesse per loro, ma non lei. Con Bella simili cose non rimanevano al caso.
— Voi parlerete di mio figlio agli altri, miei Pettegoli. Spargete la voce in tutto il mondo. Il caro Palicrovol saprà cosa significa, anche se gli altri non lo sapranno, e verrà a bussare alle mie porte. Mi manca, Palicrovol. Voglio vederlo piangere ancora.
Ciascuno a turno, i Compagni della Regina vennero da lei, e lei li ricevette solennemente.
Il passo del vecchio soldato era lento e incerto; il peso dell’armatura lo piegava. La sua voce era vuota e bassa, piena di aria. Parlò per primo ad Orem.
— Piccolo Re, vedo che porti saggiamente l’anello. Guardalo spesso e segui il suo consiglio. — Poi si rivolse alla Regina e la guardò negli occhi. Orem rimase sorpreso dalla forza del suo sguardo: quando l’aveva guardato, gli occhi del vecchio erano stati gentili e miti, ma adesso erano pieni di fuoco. Odio? Quell’uomo aveva della forza, malgrado il suo corpo debole e la grande armatura che ne faceva una caricatura. — Bella, cara Bella — disse il vecchio soldato. — Ho una benedizione per tuo figlio. Che possa avere la mia forza.
Orem guardò la Regina, allarmato. Senza dubbio si sarebbe adirata che il vecchio maledisse in quel modo il suo futuro bimbo. Orem conosceva bene il potere dei desideri sui nascituri: molti storpi di corpo o di mente erano il risultato di uno scherzo non meditato. Ma la Regina si limitò ad annuire e a sorridere, come se il vecchio le avesse fatto un grande regalo.
Poi venne la donna. Camminava inclinata, cosicché un passo era lungo, l’altro corto. Le sue mani erano contorte e nodose, e quando toccò la guancia di Orem, la sua pelle gli sembrò squamosa come quella dei pesci. Sorrise, e Orem vide che il nero che aveva sul labbro erano dei baffi irregolari; aveva i capelli sottili, a ciuffi, e in alcuni punti era calva; non le era stata concessa neppure la misericordia di una parrucca. — Piccolo Re — disse con voce che sembrava il grido di una gallina in calore — rimani solo, non amare nessuno, e vivi a lungo. — Poi anche lei si rivolse alla Regina. — Anch’io offro una benedizione a tuo figlio. Che possa avere la mia bellezza.
Ancora una volta, la Regina accettò la crudele maledizione come se fosse un dono.
Il nano arrivò dondolando, e sorridendo come un idiota. Si fermò di fronte a Orem e si abbassò il perizoma, mostrando che aveva un solo testicolo nello scroto, e un pene così piccolo che si vedeva a stento. — Sono solo metà di quello che dovrei essere — disse il buffone — ma il doppio dell’uomo che sei tu. — Poi ridacchiò, si rimise a posto il perizoma e con un balzo fu vicino a Orem, gli sollevò la camicia e sbirciò sotto. Orem cercò di tirarsi indietro, ma il nano riuscì a vedere ciò che voleva vedere. — Piccolo Re! — gridò emergendo da sotto i vestiti di Orem. — Piccolo Re! — Poi di colpo fu serio. — La Regina vede tutto, solo che non vede di non vedere. Ricordartene, Piccolo Re!
Un istante prima di voltarsi il nano nero gli strizzò l’occhio, e Orem ebbe l’inesplicabile sicurezza che quel buffone conoscesse qualcosa che Orem doveva assolutamente apprendere.
— Bella, cara Bella — cantò il nano rivolto alla Regina.
“Sia benedetto il nascituro
che vivrà in un bel futuro!
Sentirà bugie per tutta la vita
ma avrà la mia saggezza infinita!”
Poi, ridendo sgangheratamente, il buffone fece un paio di capriole all’indietro e finì lungo disteso sotto il tavolo.
Orem rimase costernato per gli amari doni che avevano offerto al figlio della Regina… suo figlio, in effetti, anche se era ben lontano dal provare sentimenti paterni per una creatura che non poteva neppure immaginare, per il momento. Orem sapeva solo che la Regina aveva ricevuto un grave affronto, e cercò in qualche maniera di porvi rimedio. Non conosceva alcuna benedizione per il nascituro, eccetto quelle usate comunemente a Banningside e in campagna, le benedizioni che usava sempre il diacono Dobbick. Orem si voltò verso la Regina e disse: — Regina Bella, vorrei benedire il bimbo.
Lei gli rivolse un mezzo sorriso; lui pensò che fosse di assenso, non di derisione. Orem spiattellò la sua benedizione con parole che in se stesse avevano per lui uno scarso significato, solo che gli sembravano una benedizione appropriata: — Che il bambino viva per servire Dio.
Orem l’aveva intesa come una gentilezza; la Regina la prese come una maledizione. Lo schiaffeggiò con tale forza che cadde a terra, la guancia lacerata dall’anello di Bella. Cosa aveva detto? Dal pavimento, la osservò mentre guardava imperiosamente gli altri e diceva, con voce piena di odio: — Il dono del mio Piccolo Re è forte quanto la sua manina. — Si voltò verso il suo marito-ragazzo. — Comanda e benedici come ti pare, mio Piccolo Re; sarai obbedito solo da coloro che rideranno di te. — Poi la Regina si voltò e si diresse verso la porta. Si arrestò sulla soglia. — Urubugala — disse imperiosamente. Il buffone nero uscì in fretta e furia da sotto il tavolo, e Orem capì che quello era il suo nome.
— Vieni qui — disse la Regina. Urubugala strisciò verso di lei, piangendo il suo triste destino. Passò vicino a Orem, che istintivamente si allontanò dallo strano essere. Ma la mano nera del nano lo afferrò d’improvviso per un braccio tirandolo vicino a sé. Orem perse l’equilibrio, e mentre cercava di rimettersi in piedi, si trovò le labbra del buffone vicino all’orecchio. — Ti conosco, Orem — sentì un sussurro quasi inaudibile. — Ti aspetto da tempo.
Orem era inginocchiato, e il buffone in piedi davanti a lui (erano alti quasi allo stesso modo in quella maniera) e il buffone lo baciò con forza sulla bocca, mise la mano sulla testa e gridò: — Ti battezzo con il tuo vero nome, ragazzo! Tu sei la Speranza del Cervo!
Un brivido percorse Orem, violento come se il pavimento stesso avesse tremato. Orem ap Avonap, Fianchi-Magri, Banningside, Piccolo Re… di tutti i nomi che gli erano stati dati, solo Speranza del Cervo gli era stato dato con il Passaggio dei Nomi. Il nome sacerdotale gli sarebbe stato dato in quella maniera, se avesse preso i voti.
E forse il pavimento aveva davvero tremato, poiché il buffone si stava contorcendo a terra, urlando di dolore, stringendosi la testa fra le mani. Fa parte del suo gioco idiota, o è un dolore reale?
— Il suo nome è Piccolo Re, e non ne avrà altri — disse la Regina dalla porta.
Uscì. Urubugala immediatamente smise di gridare. Rimase un momento sul pavimento, ansimante, poi si alzò e seguì la Regina.
Anche Orem si alzò. La guancia gli faceva male, e anche il gomito con cui aveva colpito il pavimento. Era confuso; non capiva nulla. Si voltò verso gli altri, la donna brutta e il vecchio soldato. Lo guardarono con occhi compassionevoli. Non riusciva a capire bene neppure la loro pietà.
— Cosa devo fare adesso? — chiese.
I due si guardarono. — Tu sei il Piccolo Re — disse il soldato. — Puoi fare quello che preferisci.
— Re. — Orem non sapeva cosa pensare. — Ho visto Palicrovol, una volta.
— Davvero? — disse la donna. Non pareva interessata.
— Si copre gli occhi con coppe d’oro, perché la Regina non possa usare i suoi occhi per vedere.
La donna ridacchiò. — Uno sforzo inutile, mi pare. La Regina può vedere ogni cosa.
Tranne dove vado io, e rendo inutile la sua Vista, pensò Orem, ma non lo disse.
— Lei vede tutto, come un’orchestra di visioni nel fondo della sua mente. Lei osserva sempre. — La donna rise. — Lei ora ci vede. E sta ridendo, ne sono certa.
Allora Orem ebbe paura. Quanto vedeva, la Regina? Lei non aveva dato segno alcuno di conoscere la capacità di Orem di impedirle la visione. E tuttavia, se non conosceva nulla del suo potere, perché l’aveva scelto?
Non per amore, questo era chiaro adesso, e Orem non poté fare a meno di provare vergogna di fronte ai Compagni della Regina, vergogna per essere così debole, patetico, inerme. La vergogna sopraffece la paura. Se voleva scoprire il suo potere o in qualche modo limitarlo, che lo facesse subito. Lasciò che la sua rete si allargasse un po’, quel tanto sufficiente per riempire la stanza, per ripulirla dall’odore dolciastro, nauseante della vista di Bella. Quando Bella non poté vedere, parlò: — Cosa è permesso fare al verro dopo che la scrofa è stata servita?
I loro occhi si spalancarono e per un momento non dissero nulla, in attesa, immaginò Orem, che la Regina li colpisse. O aveva sentito e non le importava o, come Orem sperava, non aveva sentito. Non aveva sentito, e Orem poteva avere un piccolo, patetico potere, abbastanza per non sentirsi pieno di vergogna.
— Ho chiesto — chiese di nuovo — cosa sono libero di fare.
— Apparentemente — disse la donna — qualsiasi cosa tu desideri.
Il basso borbottio della voce del vecchio aggiunse: — Tu comandi a tutti. Sei il marito della Regina. Sei il Piccolo Re e devono obbedirti.
Era un pensiero che dava alla testa, e Orem non si fidava. — Ditemi i vostri nomi, allora.
— Ti chiediamo perdono — disse la donna orribile. — Abbiamo sbagliato. Tu comandi tutti tranne Urubugala e noi.
— E perché voi no?
— Perché noi non ridiamo di te.
L’implicazione era ovvia. — Dunque tutti gli altri rideranno.
I due si guardarono nuovamente, e la donna sussurrò. — È la volontà di Bella. E cosa può impedire a Bella di essere obbedita?
Non era una domanda oziosa, non del tutto. Gli stava chiedendo se veramente lui sapeva qualcosa che loro non sapevano. Ma Orem non osava rispondere, non osava spiegare loro cos’era, anche se l’avesse saputo con sicurezza lui stesso. Cosa può impedire a Bella di essere obbedita? Bella vede tutto… tranne quello che non vede di non vedere. Non vede me? E non vede che non vede me? Indovinelli, indovinelli. Non posso rispondere, perché non so.
— Meno comandi — disse il soldato — meno rideranno.
— Non dirglielo, Coniglio — disse la donna. — Piccolo Re, comanda tutto ciò che vuoi. La tua vita sarà più facile se tutti ridono. Falli ridere. Anche la Regina riderà.
— Se la Regina ride, allora potrò comandare anche a lei?
Ci fu nuovamente un momento di stupore per la sua impudenza; e nuovamente non accadde nulla. E questa volta la donna orribile sorrise, e il vecchio soldato soffiò. — Chi lo sa? — disse il soldato.
— Coniglio. È questo il tuo nome?
Il soldato subito si scurì in volto. — È il nome che la Regina mi ha dato.
— E tu — disse Orem alla vecchia. — Come posso chiamarti?
— Mi chiamo Donnola, Bocca-di-Verità come soprannome. È il nome che la Regina mi ha dato.
— Io avevo un nome prima che lei me ne desse uno — disse Orem. — Voi no?
— Se l’avevo — disse Donnola — non lo ricordo più.
— Ma non puoi averlo dimenticato. Il mio vero nome è…
Lei gli mise una mano squamosa sulla bocca. — Non puoi dirlo. E se potessi, ti costerebbe caro. Non cercare di ricordare.
Fu a questo punto che Orem svelò loro che non era il ragazzo dai fianchi magri che sembrava essere. Allungò la sua agile lingua interiore e li assaggiò delicatamente, dove le loro scintille brillavano più vive. In quel momentaneo contatto scoprì come erano legati, freddi e grigi, la loro luce soffocata da mille incantesimi. Non disfece tutti gli incantesimi, solo quello dell’oblio: una cosa piccola e semplice. Non l’aveva già fatto per Vetro-di-Forca?
Ma appena l’ebbe fatto se ne pentì. Perché essi lo guardarono con occhi spalancati, occhi che non lo vedevano: erano rivolti all’interno, per guardare ciò che era stato dimenticato per tanto tempo e ora era tornato. E piansero. Il vecchio soldato Coniglio, con le sue fredde e grigie lacrime che gli rigavano le guance, ricordando la sua forza; la brutta Donnola Bocca-di-Verità con la faccia più contorta che mai, orribile, ricordando suo marito.
Poi si contorsero di dolore e guardarono verso la porta, dove era apparsa la Regina.
La regina Bella, adesso non più altezzosa e imperiosa, ma infuriata, con gli occhi che mandavano fiamme. Erano fiamme vere, vide Orem, che le uscivano dagli occhi e si riflettevano sui dischi d’argento e sul tavolo. — Come avete fatto a ricordare quello che vi ho portato via? — La sua voce fece tremare la stanza.
Donnola e Coniglio non dissero nulla.
La Regina urlò e i dischi tintinnarono contro i muri. Donnola e Coniglio caddero a terra. Spaventato com’era, Orem si chiese se non doveva fingere di essere sensibile alla sua magia. Ma prima che potesse muoversi, Urubugala prese in mano la faccenda. Rotolò davanti alla Regina e le si stese ai piedi.
— Non puoi costringere Urubugala a dimenticare — disse. — Ciò che Urubugala fu un tempo, Urubugala è sempre.
Nella sala si fece un silenzio assoluto. La Regina guardò il nano e fece un bellissimo sorriso. Era il sorriso dell’imminente crudeltà; tutti noi lo conoscevamo bene, tranne Orem.
— Davvero? — chiese. — E cosa speravi di ottenere? Non mi hai potuto fermare una volta; credi forse che disfando qualche piccolo incantesimo potrai spaventarmi? — Lo prese per i capelli e lo sollevò come se non pesasse più di un cane. — Urubugala, mio buffone, non lo sai che sono stati i tuoi miseri contro-incantesimi a causare tutto questo? Oh, sì, Urubugala, tu provi a resistermi, ad aiutare il vecchio galletto a sfuggirmi… Mi sono resa conto allora che era quasi giunto il momento, il momento di rinnovarmi, Urubugala, e così ecco qui il Piccolo Re e l’infante nel mio grembo. Credi di potermi fermare?
— No — disse Urubugala sorridendo.
— O speravi semplicemente che ti avrei lasciato morire?
— Vostra grazia mi ha permesso a lungo di vivere nella sua infinita misericordia.
Il sorriso di Bella si allargò, e le fiamme schizzarono dai suoi occhi e incendiarono i vestiti di Urubugala. Il nano urlò. Come se il suo grido gli avesse infuso il potere di volare, si alzò nell’aria, sopra il tavolo, e lì bruciò e bruciò, urlando. Orem era nauseato, trafitto dalla colpa. Il nano aveva assunto su di sé la responsabilità di tutte le sue azioni, e adesso stava morendo per questo.
Ma non stava morendo, dopo tutto. Perché improvvisamente com’erano divampate, le fiamme si interruppero, e il nano venne fatto scendere, ansante e piagnucolante, sul tavolo. La Regina gli andò vicino, allungò una mano e lo prese per un orecchio, lo tirò su fino a guardarlo negli occhi.
— Mi hai bloccato tu al Campo del Merluzzo? Lasciami entrare, Urubugala. o ti farò bruciare per sempre.
— Entra, entra — sussurrò lui. — Come vuoi, guarda tutto. — Spalancò la bocca in un respiro ansante e si contorse sul tavolo. Sollevò la testa, con gli occhi fissi in quelli di Bella, finché le loro facce si toccarono, rovesciate, signora e schiavo, madre e bambino, la testa di Urubugala sostenuta solo dalla forza dello sguardo di Bella.
Era finita. La testa del nano ricadde con un colpo secco sul tavolo. — La verità, la verità, in nome delle Sorelle, è la verità. Ero sicura che fossi stato tu.
— Oh, bene — mormorò il nano.
— Credi che non sia capace di sconfiggerlo, qualunque cosa sia? Non mi farò minacciare da un miserabile mago che ha imparato i tuoi miserabili contro-incantesimi, Urubugala.
— Oh, bene.
— Non mettermi alla prova, Urubugala. Non ti permetterò di avere neppure una vittoria come questa. — Poi gli toccò la fronte e il nano di colpo si rilassò. Dormiva. Orem vide che la sua pelle non era stata segnata dalle fiamme. La Regina si rivolse a Coniglio e a Donnola. — Ma pensandoci, perché dovrei rifare i favori che ha rimosso? Mi piace che ricordiate nuovamente tutto, e mi odiate mentre guardate senza poter far nulla. Urubugala può ridarvi i vostri ricordi, ma credo che rimpiangerete l’antico oblio. Non chiedete a me. Chiedete a lui. — Indicò il nano addormentato. — Chiedetegli cosa può fare.
La Regina se ne andò. Coniglio e Donnola la guardarono uscire, poi si voltarono a guardare Orem. Lui aprì la bocca per parlare, ma Donnola si mise la mano alla bocca e scosse la testa. Aspettavano, guardandolo. Finalmente si rese conto che aspettavano che lui rendesse sicuro il parlare. Perciò allargò di nuovo la sua rete, timidamente, ripulendo la stanza.
Urubugala immediatamente si alzò a sedere in mezzo al tavolo. — Non farlo più — disse a Orem. — Tocca quello che ti pare, fai quello che ti pare, ma non noi. Noi tre, i Compagni della Regina, siamo i suoi ornamenti, e lei non vuole che veniamo alterati.
Evidentemente Urubugala sapeva chi era Orem, e altrettanto chiaramente era convinto che la Regina non potesse sentirli. Che altro poteva fare Orem se non fidarsi di lui? — Mi dispiace — disse.
Donnola disse piano: — Non potevi saperlo.
— Perché sono qui? — chiese Orem.
Forse Donnola glielo avrebbe detto; fece l’atto di parlare, ma Urubugala alzò la mano. — Non sta a noi indovinare ciò che stanno facendo gli dèi. Tu sei guidato da occhi più saggi dei nostri, e non ti diremo altro. Solo questo: non cercare e troverai; non chiedere e ti sarà dato; non bussare, e le porte si apriranno per te.
Poi Urubugala rotolò giù dal tavolo e atterrò ai piedi di Orem. Orem guardò in basso e incontrò i suoi occhi.
— Perfino Bella non sa perché sei qui.
E il nano nero uscì dalla stanza col suo passo dondolante, trascinandosi fra le gambe il fallo finto; ma non era più divertente, non agli occhi di Orem che l’aveva visto sopportare un dolore atroce e parlare di nuovo, come se niente fosse successo.
Il nano l’aveva salvato, e si era preso la punizione per lui. Coniglio e Donnola non avevano parlato, per amore suo. Non era amicizia, Orem non comprendeva la parola. Essi ebbero per sempre la sua lealtà. Ma in verità non la desideravano. Essi erano leali a te, Palicrovol, non a Orem, e questo lui non lo comprese mai fino alla fine, troppo tardi per lui, e appena in tempo per te.