20 GLI USI DEL POTERE

Come usò Orem il nome di Re mentre sedeva sul tuo trono, Palicrovol? Già una volta avevi giudicato un Re di Burliand, quando eri giovane. Come Conte di Traffing guardasti Re Nasilee e lo giudicasti debole e cattivo, meritevole solo di morte. Quali erano stati suoi crimini? Era vendicativo e crudele, rapace e tirannico. Alcuni dicono che erano le sue tasse a irritarti, la sua debolezza a tentarti, sua figlia che desideravi, anche se era una bambina. Eri ambizioso, dicono questi invidiosi. Ma hai dimostrato con le tue azioni di disprezzare la vendetta e la punizione ingiusta. Perciò giudichiamo ora il Piccolo Re non in base a voci, ma in base a ciò che fece con il potere che era suo, da usare liberamente. Usando questo metro di giudizio, credo che fosse il degno figlio di Palicrovol.

Il Piccolo Re a corte

Per una settimana la Regina Bella lo presentò come suo marito a tutte le centinaia di visitatori e alle migliaia di cortigiani del palazzo. Non parlò mai di lui senza una battuta volgare o ironica, senza qualche sarcasmo che faceva ridacchiare i cortigiani dietro le loro mani delicate. La sua magrezza, la sua gioventù, la sua supposta stupidità, la sua genuina innocenza, tutto era causa di riso.

E tuttavia Orem era saggio, e diede retta ai consigli dei Compagni della Regina: sopportò con pazienza, rise perfino, e ben presto, benché tutti lo disprezzassero, tutti si abituarono a lui e ad accettare il suo ruolo. Finalmente aveva il suo nome e il suo posto: Piccolo Re, e bersaglio di scherzi.

Dopo la prima settimana, la Regina non venne più con lui per prenderlo in giro. Altri, in un caso simile, si sarebbero nascosti, si sarebbero tenuti lontani dai balli e dalle cene. Ma Orem non lo fece. Andò, imparando ad avere un portamento ancora più regale. Questo suscitò molte risa fra i bellimbusti, che pensavano volesse rivaleggiare con loro. Non si accorsero mai che lui, in effetti, era ciò che loro fingevano di essere. Andò sostenendo in pieno il ruolo che la Regina gli aveva assegnato. Parte del suo ruolo era quello del bifolco e dello stupido. Lo imparò subito, e lo recitò bene.

Sei settimane dopo il matrimonio, Orem presiedette un piccolo banchetto per i cortigiani residenti nel palazzo. Alla sua destra sedeva Donnola Bocca-di-Verità; alla sua sinistra Coniglio; c’è un ordine in queste cose. Gli ospiti erano perfettamente intenzionati a prendersi gioco di lui, naturalmente. Non appena la prima portata fu servita, una donna gridò: — Mio signore Piccolo Re, chiedo il vostro giudizio. Mio marito, quello con la mano sulla coscia di Belfeva, mi è stato gravemente infedele. — E raccontò a tutti la storia sconvolgente (sconvolgente per Orem) dell’infedeltà del marito con gli animali da cortile. La raccontò con consumata arguzia: soltanto Orem, fra tutti i presenti, non conosceva le convenzioni che regolavano quelle piccanti spiritosaggini. Arrossì, e la sua sorpresa nell’udire un racconto del genere lasciò il posto all’ira per il comportamento del marito; il quale rideva insieme a tutti gli altri. Rideva! Quella gente non aveva alcun senso del bene e del male, apparentemente.

Allora Donnola gli sussurrò, tenendo le labbra squamose e storte vicino al suo orecchio: — Non prenderla sul serio, Piccolo Re. È una bugia, per ridere.

All’inizio questo non servì a placare l’ira di Orem. Dopo tutto, una bugia era una bugia, fosse detta per ridere o no. Ma adesso le risate assumevano un significato diverso, e Orem cominciò a prestare attenzione non tanto agli immaginari peccati del marito, quanto all’umorismo della moglie. Senza dubbio era brava. Era la sua abilità narrativa a provocare le risate, insieme alla supposta goffaggine del marito. Quando ebbe finito, lo guardò implorante e chiese: — Dunque ditemi, mio signore Piccolo Re, comandatemi… devo riprenderlo nel mio letto, o tagliarne via sei pollici buoni, la prossima volta che mi viene vicino?

— Questa sarebbe una punizione troppo dura, Signora — rispose Orem. — Come potete tagliare sei da tre, e sperare che rimanga qualcosa?

Era più di quanto i cortigiani avessero sperato. L’accento rozzo del contadino, sì; la vocetta acuta da adolescente, anche; la faccia innocente e ingenua, erano perfette. Ma che adesso riuscisse a pareggiare le sue oscenità… La serata prometteva di essere divertente. La Regina aveva scelto bene il suo villico consorte.

Il marito così maltrattato gridò: — Vi imploro, mio signore Piccolo Re! Non costringetemi ad abbandonare tutte le mie relazioni. Le galline non danno molta soddisfazione, e la produzione di uova è calata parecchio. Delle mucche posso fare a meno. Ma la scrofa è la mia vita, il mio cuore, il mio amore!

— Come posso giudicare da qui? — chiese Orem. — Devo guardarvi negli occhi. Che si sieda qualcun altro qui, all’estremità del tavolo. Niente di personale, capite — disse a Coniglio e a Donnola. Avvertì la preoccupazione di Donnola per lui: desiderava essergli vicino per guidarlo. Fra il chiasso della conversazione si chinò verso di lei e mormorò: — Adesso so che ridono per piacevoli sconcezze.

Prese il piatto e le posate d’argento, strinse il tovagliolo coi denti, e marciò fino al centro del tavolo, sloggiando un dandy particolarmente vistoso per sistemarsi fra due delle più esotiche dame della corte. Il marito e la moglie erano dall’altra parte del tavolo, ma spostati di parecchi posti, da una parte e dall’altra. Li guardò tutti e due, poi rise. — Signora, devo lodare entrambi per la vostra umiltà. Voi, per avere ammesso che la vostra rivale era una scrofa, e lui per aver ammesso che nessuna femmina più bella sarà il suo amore. Con tale umiltà, vi trovo perfettamente adatti l’una all’altro. Dovete rimanere insieme: un simile candore merita solo il suo uguale. — Gli altri ospiti risero, tanto per la sua parlata da ragazzino di campagna, quanto per la sua arguzia… ma niente di più. Avrebbe fatto la sua strada, sopportando quello che doveva sopportare.

Ma la dama di singolare bellezza, seduta proprio di fronte a lui, sorrise soltanto, e nei suoi occhi c’era una punta di rimprovero, perfino di pietà. — Non dovreste essere a capotavola? — chiese.

— Dovunque mi trovi, quello è il capo del tavolo — rispose Orem. Se tu l’avessi detto, Palicrovol, sarebbe stato un rimprovero, e gli astanti avrebbero tremato. Ma con la sua voce, e con il suo fare schietto, le parole erano ridicole; e anche se non lo fossero state, era tale la predisposizione a ridere che si sarebbero divertiti lo stesso.

C’era un uomo, tuttavia, che non era divertito, o almeno non non ne dava segno. Piuttosto giovane anche lui, e benvoluto dalle signore perché era scuro di capelli, malinconico, forte. Il tipo di uomo che la gente pensa sempre faccia la parte dello stallone, e perciò gli perdona i modi da riccio. Si chiamava Timias. Era il tipo di uomo che, come i fiori, sbocciano una volta sola, con le spine, e presto appassiscono, assumendo poi qualche ruolo di minor conto che consenta loro di frequentare come fantasmi i luoghi delle loro conquiste. E tuttavia aveva una disposizione alla verità che faceva parte del suo fascino, e qualche indizio che potesse avere una carriera più romantica, e quindi più breve, rispetto ad altri come lui. Uno poteva supporre, malignamente, che fosse invidioso del ragazzo che aveva dormito con la Regina. Ma Orem vide qualcos’altro in lui. Un altro dei doni non cantati di Orem, questo: vedere in una persona quello che nessun altro riusciva a vedere.

Timias era seduto diagonalmente di fronte al Piccolo Re. La risata si spense, e le signore vicino a lui cominciarono a pavoneggiarsi per l’attenzione che il Piccolo Re dedicava loro: dopo tutto, sciocco o no, era l’unico Re di Inwit. Orem fece alcuni commenti sciocchi circa il fatto che le signore sarebbero state molto più belle senza pitturarsi la faccia… dopo tutto, disse, le ragazze di campagna se la cavavano benissimo senza.

— E cosa fanno per essere attraenti? — chiese una.

— Si lavano — disse Orem. — E senza pittura, non sono scivolose come voi signore… quando uno le stringe, non scivolano via! — Come risero. Era un numero troppo bello per lasciarlo cadere. Orem chiese un catino d’acqua, e diede una bella lavata alla faccia di una signora… non quella vicino a lui, perché vide che era in realtà piuttosto bruttina, e la pittura aveva compiuto un miracolo di estetica. Invece lavò la faccia della dama seduta di fronte a lui, che ci guadagnò, perché aveva dei bei lineamenti. E poi l’aveva criticato, anche se velatamente, e perciò gli diede una certa soddisfazione toglierle la pittura. Chi notò il tatto e la gentilezza di Orem in un caso, e la sua piccola soddisfazione nell’altro? Risero soltanto, perché era divertente vederlo prendersi gioco di tradizioni vecchie di secoli e mode vecchie di una settimana. Che pagliaccio. Che zoticone. Che ignorante. Delizioso.

Fu allora che Timias si fece avanti… afferrò il polso del Piccolo Re prima che, spinto dalle risate degli ospiti, lavasse anche la falsa voglia sul petto della signora. — Sarete anche un asino — disse Timias freddamente — ma non occorre che lo dimostriate con tanta sicurezza.

Tutti tacquero, allora, a parte qualche mormorio di sorpresa. Timias non rideva. Timias stava rovinando il divertimento. Calma, Timias. Lascia perdere, Timias. Ma Orem lo guardò, con quel sorriso un po’ scemo che al suo paese sarebbe stato preso come una manifestazione di buona volontà.

— Come, uomo, è tua moglie? — chiese.

Oh, come risero allora. Ma Timias si fece ancora più freddo e più scuro. — Dunque ti sei scopato una regina, ragazzo? Bella fortuna, hai avuto.

Era una cosa che non bisognava dire, soprattutto in quel palazzo, poiché senza dubbio la Regina avrebbe sentito.

— Sì, non c’è male — rispose Orem quietamente. Poi si ricordò che doveva farli divertire. — Ci batteremo a duello per l’onore della signora?

Ci fu qualche risatina. Se non fosse stato per la serietà di Timias ce ne sarebbero state di più.

— L’onore della signora non ha bisogno di essere difeso — disse Timias. Era una maniera cortese per tirarsi indietro. Insultare era una cosa, ma l’idea di incontrarsi in duello con il Piccolo Re era troppo pericolosa. La Regina non l’avrebbe certo permesso. Le possibilità che Timias perdesse erano troppo scarse. Ma Orem non gli permise di lasciar cadere la faccenda con grazia. Il Piccolo Re era lì per far ridere, no? Allora che ridessero.

— Come puoi lasciare la signora senza un campione, quando io dico che il suo petto ha bisogno di essere lavato? — Si rivolse alla signora. — Come vi chiamate? Belfeva! Un nobile petto, Belfeva, ma senza amici in questa compagnia! — Aveva imparato presto la terminologia della corte: era solo un gioco con le parole, come gli indovinelli e i rompicapi che aveva creato alla Casa del Signore. Che pagliaccio, pensò la maggior parte dei presenti. Come recita bene, pensarono i pochi che l’avevano osservato con attenzione. — Accetto la tua sfida anche se non la porgi. E quanto all’arma… quale arma può andar bene, se non… Sì, prendi il tuo pane, signore! E la tua coppa! Pane inzuppato nel vino, a venti passi!

Era da ridere, naturalmente, solo a pensarci. Ma non solo: era impossibile per Timias accettarlo. È il debole di chi è troppo serio: non può sopportare il ridicolo. — Non farò una cosa del genere — disse Timias.

— Allora verrai al mio appartamento domani a mezzogiorno — disse il Piccolo Re. — Abbiamo qualcosa di cui parlare, amico mio.

— Non ho niente di cui parlare con te. — Ma la sua sicurezza si era incrinata. Unico fra i cortigiani. Timias si rendeva conto che Orem era più furbo di quanto sembrasse, ed era capace di volgere le situazioni in suo favore più facilmente di quanto chiunque, esclusa la vittima, si rendesse conto.

— Allora porta questa signora, con il suo petto ma senza la sua voglia, e potrai giudicare chi è più bella: la tua compagna o la mia.

— Nessuna è più bella della Regina.

— Ah, ma la Regina non è la mia compagna. Mi tiene come un cagnolino, sai, e non vuole che abbai troppo spesso, o troppo vicino a lei. La mia compagna domani sarà… — Guardò verso l’estremità del tavolo, — … sarà dama Donnola Bocca-di-Verità.

Tutti gli occhi si volsero verso la donna terribilmente brutta. Lei comprese qualcosa di quello che Orem stava facendo, e gettando indietro la testa si mise a ridere. Tutti poterono ridere, allora. Ancora una volta l’inetto Piccolo Re aveva fornito motivo di pettegolezzo per almeno una settimana. Ancora una volta il banchetto fu un successo.

Orem non era così stupido come sembrava ai cortigiani, e non così intelligente come sembrava a Timias. Non aveva alcun piano stabilito in mente. Sapeva solo che Timias non aveva riso di lui, e questo l’aveva incuriosito; era impaurito, solo, stanco della maschera che era perennemente obbligato a indossare. Proprio l’antipatia che Timias aveva per lui lo spingeva a provare interesse per lui.


Gli amici del Piccolo Re

Vennero come aveva comandato nell’appartamento di Orem: Timias, la dama Belfeva, e Donnola. Fu uno strano incontro, all’inizio. Quasi nulla venne detto mentre i servitori apparecchiavano un “piccolo” pasto. Orem si era già abituato all’abbondanza, ed era saggio abbastanza da non approfittarne troppo. Osservò Timias e Belfeva mangiare a disagio, ripetendo spesso la domanda: — È buono?

— Buono, buonissimo — dicevano. Era evidente che la tensione rendeva Belfeva sempre più impaurita, ma la verità in Timias lo induceva a essere arrabbiato, non impaurito, e alla fine disse: — Mio signore Piccolo Re, perché ci hai fatto venire qui? Se vuoi che ti offra le mie scuse lo farò. Ieri sera ho parlato impropriamente. In qualsiasi modo tu voglia renderti ridicolo, per me va bene.

Orem non diede segno di aver notato che era una scusa poco cortese. — Sei generoso, ma non mi importa molto di ieri sera.

— Allora perché siamo qui?

— Desidero compagnia. Per una spedizione.

— Una spedizione? — chiese Belfeva rischiarandosi. Timias lo guardò torvo.

— Sono forse prigioniero del palazzo? — chiese Orem. — Voglio uscire. Almeno fino al giardino. O devo osare di più? La Cittadella Reale è nuova per me. Voi la conoscete bene, dal momento che non avete niente di meglio da fare che esplorarla.

— Ho di meglio da fare. — Timias si alzò.

— Abbiamo un nome per uomini come te a Waterswatch Alta — disse Orem, e dalla sua voce il buon umore era scomparso. — Li chiamiamo galli mosci. Si danno un sacco di arie, ma anche se li lasci un anno da soli con le galline, non ne viene fuori un solo uovo.

Timias arrossì, ma non disse niente.

Orem gli andò vicino. — Hai due volte la mia forza, e probabilmente due volte qualsiasi altra virtù, Timias. Perché non ridi di me?

Timias distolse gli occhi. — Ho una mia idea di come dovrebbe essere un re.

— Anch’io ce l’ho — disse Orem. — Ma l’uomo che corrisponde a questa idea è lontano, con coppe d’oro sugli occhi, e non dorme mai senza preti e maghi per proteggerlo contro gli assalti della Regina. Perché dovrei fingere di essere quello che egli è? Mentre il vero Re è vivo io posso essere solo un buffone.

Ed eccola: la chiave del vero potere di Orem a Inwit. La Regina l’aveva reso oggetto di ridicolo, aspettandosi forse che lottasse per la sua dignità, diventando in tal modo sempre più ridicolo. Ma Orem possedeva uno strumento di cui lei non sospettava l’esistenza: bastava che allargasse la sua rete per catturare la magia della Regina in una stanza, e poteva dire qualsiasi cosa volesse senza essere sentito. Nessuno avrebbe osato ripetere le sue parole, e così la Regina non le avrebbe mai sentite. E nel frattempo, il messaggio rivolto agli ascoltatori era inconfondibile: il Piccolo Re poteva dire ciò che per qualsiasi altro avrebbe significato la morte, e non gli succedeva nulla. Che gli altri ridessero pure. Proprio da coloro che erano meno disposti a ridere di lui la cosa era vista diversamente. La Regina non punisce per tradimento il Piccolo Re, quindi il Piccolo Re ha un potere.

Non mostrò questo potere a molti; ma d’altra parte erano pochissimi quelli che non ridevano di lui.

— Vieni con me, Timias, e anche voi, signore.

Andarono con lui. Molte volte andarono con lui, e gli mostrarono molte cose, e lui ne mostrò loro poche, ma quello che videro fu sufficiente: lo mostrerò a te, Palicrovol, e forse comprenderai perché Timias è rimasto anche ora con Orem Fianchi-Magri, quando non è più Piccolo Re.

Fecero il giro dei giardini, infastidendo i giardinieri con le loro chiacchiere; visitarono le botteghe degli artisti dove antiche opere erano restaurate e opere nuove venivano fabbricate; chiesero ai poeti nel Parco degli Stagni di leggere i loro versi; ammirarono e cavalcarono i cavalli delle Stalle della Regina; ispezionarono anche l’armeria, perché, dopo tutto, il Piccolo Re era formalmente il comandante dell’esercito.


La giustizia disfatta

Ma sempre Orem aveva in mente un’altra visita. Sembrò un capriccio, una mattina quando si riunirono come sempre nel suo appartamento per fare i piani della giornata. — Perché non la Casa del Carbone, dove giudicano i criminali?

Neppure a Belfeva sfuggì che il Piccolo Re era stato preso da quella corte per sposare la Regina. Ma perché non andarci, dopo tutto? Se il Piccolo Re desiderava ricordare quanto era stato in basso, in maniera da apprezzare meglio la sua posizione attuale, chi erano loro per obiettare? Così lasciarono il palazzo, come al solito per l’entrata posteriore che dava sulla Via delle Cucine, e raggiunsero a piedi la Casa del Carbone, dove i giudici mascherati passavano le loro giornate decidendo quali disgraziati dovessero essere smembrati e quali semplicemente uccisi.

Donnola Bocca-di-Verità, sapendo quale scompiglio avrebbe potuto causare l’arrivo non annunciato del Piccolo Re, disse a un servitore di andare avanti e di preavvertire i giudici del loro arrivo. Naturalmente tutti finsero di essere sorpresi; naturalmente la finzione non fu molto convincente. Orem aveva già visto il posto da un punto di vista tale che una messinscena non poteva ingannarlo. Eppure non era vendicativo. Evitò di rammentare loro in quali circostanze si erano incontrati in precedenza. Rimase anzi piuttosto distaccato, mostrando scarso interesse per la corte medesima. Non era per questo che era venuto. Erano le gabbie quello che voleva vedere.

La loro guida temporeggiò. — Criminali comuni — disse. — Perché vederli?

Quasi subito, il silenzio che seguì la sua frase gli ricordò che il Piccolo Re era stato uno di questi criminali. Le guardie li condussero fuori. Cercarono di non far passare il Piccolo Re accanto al Pozzo dei Giovenchi, ma lui conosceva la strada. Arrivarono in un momento inopportuno: il chirurgo stava preparando i suoi arnesi per l’operazione. Una nuova vittima era pronta, e così l’uomo in catene dovette essere spedito via.

— Fra tutti i servizi all’interno delle mura del palazzo, penso che questo sia il più realistico — disse Orem.

— Cosa gli faranno? — chiese Belfeva. Non che le fosse stato tenuto segreto; le grandi case semplicemente non parlavano mai della crudeltà che rendeva la città un luogo sicuro per loro.

— Ne faranno un giovenco — disse Orem. Non pensò che lei forse non conosceva la differenza fra un toro e un giovenco.

Fu Donnola a spiegarglielo. Belfeva voltò la testa, inorridita.

Nel pozzo il chirurgo aspettava, chiedendosi cosa si aspettassero da lui i visitatori. Orem non poté soddisfare i suoi dubbi. Lui stesso non lo sapeva. La vittima aveva fatto la sua scelta: meglio la castrazione che la schiavitù. A meno che Orem non intendesse cambiare la legge, cosa poteva fare se non accettare la decisione dell’uomo? E cambiare la legge era al di là della sua portata.

Non poteva apportare cambiamenti durevoli: solo piccole alterazioni che non rivoluzionassero il funzionamento di Inwit, che non sarebbero state notate dalla Regina.

Alla fine Orem si voltò, senza dire nulla. Il chirurgo, a questo punto, non perse tempo. Si erano allontanati di poco dal Pozzo dei Giovenchi, quando sentirono le grida pietose dell’uomo.

Le gabbie erano le stesse di una volta, tranne che adesso era primavera. I prigionieri non gelavano, ma vivevano fra le mosche e la puzza dei loro escrementi, che si accumulavano sul terreno sottostante.

Quelli più in alto, come sempre, erano i più fortunati, perché le mosche lì non erano così fitte. Era evidente che molti dei prigionieri erano ammalati.

— Questo è appena arrivato — disse Orem a bassa voce, mentre passavano accanto alle gabbie. — E questo è qui da giorni. Morirà prima del processo. — Non gli chiesero come lo sapesse. Lo sapeva. Non mostrò alcun sentimento ai suoi compagni, ma essi sentirono ciò che c’era dietro il suo silenzio, sapevano che quel posto aveva spezzato qualcosa dentro di lui, e aveva creato qualcos’altro, qualcosa che l’aveva trasformato dal contadino che anche la Regina credeva che fosse. Donnola gli prese la mano. Lui la lasciò fare, ma non diede segno che gli importasse, e dopo poco lei lo lasciò. Lei non se la prese; era abbastanza vedere qualcosa che la Regina non vedeva. C’era della speranza in questo.

Su e giù lungo le file, su e giù, come se ciascun prigioniero non fosse identico agli altri. Alla fine Belfeva si sentì nauseata, e rimase indietro, e Timias rimproverò il Piccolo Re. — Non ne abbiamo visto abbastanza? — chiese. — Perché ci hai portato qui?

Orem non aveva alcuna risposta da dargli. Non aveva fatto la stessa domanda a Pulce dopo la morte del ragazzo alla fossa dei serpenti? Ti ho portato qui perché c’erano due ore vuote. Ti ho portato qui per capire la Città della Regina com’è veramente, non come ti sembra che sia. Ti ho portato qui perché fra la ragnatela di ombre delle gabbie, degli estranei mi hanno salvato la vita. — Mi hanno sputato addosso per svegliarmi nella neve.

In quel momento un prigioniero del secondo livello gridò, afferrandosi alle sbarre.

— Orem! Ragazzo, ricordati di me, ricordati di me! Il favore, ragazzo!

Immediatamente le guardie si frapposero fra Orem e la gabbia.

— Zitto, lassù! — gridò uno, e parecchi arcieri tesero gli archi per riportare rapidamente il silenzio.

Orem riconobbe l’uomo prima che potesse decidere se voleva riconoscerlo o no. — Braisy — disse.

Fu sufficiente per fermare gli arcieri. Il comandante delle guardie venne dal Piccolo Re a spiegare.

— È un normale imbroglione. Non solo: fa passare illegalmente la gente dentro e fuori dalla città. Siamo riusciti finalmente a prenderlo dentro le mura, senza visto. È la morte sicura per lui, mio signore Piccolo Re.

Hai mai ascoltato, Palicrovol, la supplica imbarazzante di qualcuno verso cui hai un debito? Sapendo che l’indecisione di un momento ti libererebbe dalla sua richiesta? Ma non dal debito, no, perché c’è una sola liberazione dal debito. Orem accecò la Vista della Regina. — Liberatelo — disse a bassa voce.

La guardia arrossì. — Mio signore Piccolo Re, non posso.

— Io ti confesso — disse Orem — di aver preso parte ai crimini di quest’uomo, e insisto che è tuo dovere punirmi esattamente come punite lui. Aprimi immediatamente una gabbia.

— Ma voi siete il… il Piccolo…

— Liberalo — ripeté Orem.

Timias si fece avanti e parlò al comandante delle guardie. — Hai sentito cosa ha detto. Se a lei importasse, gli sarebbe stato permesso dirlo? Se le importasse, ti sarebbe permesso farlo? Ma ti assicuro che se non lo farai, allora a qualcuno importerà.

Così Timias divenne cospiratore del Piccolo Re in mille azioni di correzione della crudele giustizia di Inwit. La ragione di Orem per lavorare contro le leggi è evidente: lui stesso era stato una vittima di quelle leggi. Timias, tuttavia, per tutta la sua vita era stato protetto da quelle leggi. Manteneva le sue ricchezze solo perché le guardie terrorizzavano i poveri di Inwit fino al punto di impedire loro di togliergliele. Perché dunque Timias aiutava a disfare ciò che lo rendeva sicuro? Perché Timias non era un sicofante, come tu l’hai chiamato. Timias era una cosa rara: un uomo che può veramente soffrire per i mali che non ha mai subito.

Questo fu l’inizio di una piccola serie di azioni, le piccole Azioni del Piccolo Re di Burland. Non è una grossa cronaca: te la racconterò qui in poche centinaia di respiri. E tuttavia alla fine non ebbe ragione, credo io, di vergognarsi.

Il comandante portò giù Braisy dalla gabbia. Una creatura molto ossequiosa, ansiosa di leccare i piedi del Piccolo Re. Ma Orem non lo respinse, anzi gli disse alcune parole gentili, e disse alle guardie di dargli un visto.

— In nome di Dio — disse il comandante. — Come faccio, se non ha neppure un lavoro?

— Nel visto indicatelo come servitore di Vetro-di-Forca, un uomo di mezzi propri, che in questo momento è senza servitori. Se abbandona Vetro-di-Forca, perde il visto.

Braisy spalancò gli occhi, ma inghiottì e annuì. — Mi va benissimo, è giusto, è un vero favore.

Le guardie obbedirono, e l’increspatura che la cosa produsse in città fu abbastanza piccola perché Bella non se ne accorgesse neppure. Ma fu lo stesso un’increspatura, e cambiò per sempre la città in cui ritornerai, Palicrovol.

Forse il gusto del potere gli diede alla testa come spirito di vino, ma credo che Orem non si ubriacò per una dose così piccola. Credo che Orem passò ad altri esercizi del potere perché gli dispiaceva aver fatto grazia a un uomo che disprezzava, mentre c’erano altri che meritavano più da lui e non erano stati aiutati. Cominciò allora a usare le guardie per i suoi piccoli propositi: trovatemi questi… erano miei amici.

Un ragazzo chiamato Pulce, di circa dieci anni, vive nella Palude. Ma non mettetegli paura, trattatelo con gentilezza, scoprite dov’è e ditemelo.

Un uomo chiamato Rainer il Falegname, vive nella Città dei Mendicanti, sperando un giorno o l’altro di trovare un lavoro con un visto da povero. Scoprite dov’è e ditemelo.

Un droghiere da Waterswatch Alta, che viene in città una volta all’anno: Glasin il Droghiere, che un tempo è stato il Prezzo di Corth. Scoprite dov’è e ditemelo.

E loro li trovarono. Orem sedette nella Casa del Carbone, dove le spie della città fanno i loro rapporti; Orem sedette con Timias, Belfeva e Donnola, e ascoltò: Pulce era stato preso, un mese prima, senza passaporto, mentre derubava un povero piscione nel Mercato Piccolo. Aveva perso entrambe le orecchie e adesso viveva facendo il ruffiano nella Città dei Mendicanti.

Non dite a nessuno chi l’ha ordinato, ma date a Pulce il suo visto, un visto perpetuo, non legato ad alcun uomo, e dategli un diritto illimitato di prelievo alla Grande Borsa, sul conto che mi ha fornito la Regina. Non mi importa se è difficile. O questo, o ridategli le sue orecchie: se non potete fare la seconda cosa, fate la prima. E così fecero, e di più: sorvegliarono il ragazzo, le guardie che erano state il suo terrore, lo osservarono di nascosto, proteggendolo dai pericoli; poiché quel ragazzo era amato dal Piccolo Re, che a sua volta aveva la benedizione della Regina.

Quanto a Rainer il Falegname, la risposta arrivò più lentamente, poiché non aveva mai perso un orecchio, e perciò non figurava sui registri perpetui delle gabbie. Alla fine, il rapporto delle spie arrivò. Conosciuto come un violento, un ubriacone, era stato ucciso un anno prima, qualche giorno dopo aver cercato di entrare in città troppo presto, con un visto da povero.

— È passato un anno? — chiese Orem.

— Molto di più — disse la spia, controllando il rapporto scritto.

— Prima ancora che lasciassi la città. — Orem guardò la parete annerita dal carbone. — Aveva famiglia?

— In un villaggio dell’ovest. Era stato costretto ad andarsene quando la siccità aveva colpito la zona; era venuto qui con la speranza di mandare loro del denaro. I suoi riescono a guadagnarsi appena da vivere come braccianti, adesso che sono tornate le piogge.

— Date loro venti capi di bestiame, e terra a sufficienza; e denaro per sicurezza, ma non tanto da suscitare l’invidia dei vicini. Dite loro che era stato guadagnato da Rainer prima che morisse cercando di salvare un ragazzo dai ladri. Non è una bugia.

Glasin il Droghiere lo trovarono per ultimo. Prosperava nel suo villaggio, a nord di Banningside, amato e rispettato da tutti coloro che non lo invidiavano o lo temevano. Orem pensò di vendicarsi, ma non era nella sua natura. Glasin l’aveva truffato, ma aveva avuto anche l’occasione di venderlo come schiavo e non l’aveva fatto.

Era colpa di Glasin se quelli che avevano fatto di più per Orem avevano sofferto di più? Le Sorelle non tessevano la giustizia nella loro tela: sarebbe stato un filo di troppo. Così Orem disse loro di concedere a Glasin un posto permanente nel Mercato Grande, nel punto migliore, dove la piazza dava sulla Strada del Mercato, nella Corte Bassa. Mai l’autorità si era interessata di un semplice droghiere fino a quel momento: fu sufficiente per rendere Glasin una celebrità fra i droghieri, una specie di leggenda; e aggiunse molte strofe alla canzone di Glasin.

Che importava se le guardie e le spie consideravano Orem un po’ strambo? Era come se pensasse che la sua vita era un oggetto fabbricato, e lui il falegname deciso a pareggiare tutte le gambe. Tagliare qui, piallare là, sistemare tutto finché il tavolo non fosse ben fermo di nuovo.

Aveva dimenticato che non era un artigiano, ma piuttosto un contadino, la cui unica abilità era conoscere il calendario e guardare il cielo, arare quando il terreno è pronto, legare il grano quando è secco, e mettere da parte un po’ del raccolto per seminare il campo l’anno successivo.


Perché mi hai scelto?

Divenne la loro vita in comune. Divenne il modo in cui passavano il tempo insieme. Belfeva e Timias facevano ciò che nessuno nelle Grandi Case aveva mai pensato di fare: osservavano le vite dei deboli e dei poveri. Non potevano porre rimedio a tutte le sofferenze della città, ma potevano scoprire i singoli atti di infamia rimediabili, e rendere la città un po’ meno ingiusta.

Timias e Belfeva riferivano ciò che avevano saputo al Piccolo Re, lui preparava i suoi piani, rendeva cieca la Regina, e metteva in opera le sue piccole opere di misericordia. La cosa non passò inosservata in città. Ben presto si sparse la voce che la gente comune aveva un amico nella Cittadella Reale? e fra i derelitti e i timorosi nacque un po’ di speranza, un po’ di coraggio.

Un giorno, mentre erano soli, Timias chiese al Piccolo Re: — Perché mi hai scelto?

— Scelto? — disse Orem.

— Per poterti aiutare nel lavoro che stiamo facendo. — All’espressione perplessa di Orem, Timias rise e spiegò: — Non ti sei accorto che stiamo facendo un lavoro?

— Ma… io lo faccio solo perché ho voi con me — rispose Orem, ed era vero.

Ma ancora più vera fu la risposta che diede a Belfeva quando lei gli rivolse la stessa domanda: — Perché io?

— Perché, io credo, qualsiasi mano mi abbia collocato qui dove sono, mi ha anche messo te vicino.

Ma più vera di tutte fu la risposta che diede a Donnola Bocca-di-Verità, quando lei gli chiese un giorno, con amarezza: — Perché tieni con te Timias e Belfeva? Non sai che li rendi ridicoli a corte, perché passano per gli adulatori di quel buffone chiamato Piccolo Re? E non dirmi che gli dèi vi hanno fatto incontrare, perché tu e io sappiamo bene che gli dèi sono legati.

Orem pensò un poco, poi disse: — Quando ero studente nella Casa di Dio, ero solito giocare con le parole e i numeri, e i miei insegnanti pensavano che io scrivessi la verità. Io ridevo di loro per il fatto che trovavano delle verità nei miei giochi. Adesso penso… che ci sia un disegno nel modo in cui procede il mondo. Dentro il disegno ci sono molti nomi che l’anima può portare. Io sono capitato su un nome che mi conduce qui, e chiunque sia chiamato Timias e Belfeva deve essere con me, perché questa è la via del mondo. È tutto un indovinello, ma è anche la verità.

Credo che tu ora ti renda conto di come Orem Fianchi-Magri accetterà la sua morte, se la morte è ciò che richiedi da lui. Siamo noi, che vi amiamo entrambi, che non possiamo sopportare l’idea che l’uomo che avrebbe più ragioni di essergli grato, è anche l’uomo che toglierà la vita al giovane Orem.

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