La guerra di Orem contro la Regina lo rese quasi frenetico durante il giorno, come se dovesse consumare una parte della forza che le rubava. Avvicinandosi il giorno del parto, la incalzò sempre più, così che lei passava le giornate esausta, dopo aver combattuto inutilmente tutta la notte. Orem invece passava le giornate in giochi sempre più attivi. Timias e Belfeva erano sorpresi, ma si unirono contenti a lui, anche quando indulgeva in pazzie come correre a cavallo sul terreno di parata, o fare a gara con Timias per vedere chi di loro riusciva a scagliare il giavellotto più lontano. Timias non era il tipo da lasciarlo vincere, e così Orem, che non aveva mai avuto alcun addestramento nelle arti marziali, invariabilmente perdeva. Ma insisteva con grande determinazione, e gradualmente migliorò.
Quando Bella cominciò ad avere le doglie, Orem stava arrampicandosi su un muro del palazzo, in gara con Timias. Era una gara in cui l’agilità e la perseveranza contavano più della forza e della pratica, e Orem stava vincendo. Era quasi arrivato in cima, quando sentì un dolore acuto, come la fiamma di una candela, al mignolo sinistro. Guardò e vide che l’anello di rubino era infuocato. Non poteva toglierselo senza cadere per un centinaio di piedi. Sopportò, arrivò in cima, e solo allora cercò di toglierselo. Non ci riuscì. Donnola e Belfeva erano lì. — Aiutatemi — disse Orem.
— Non puoi togliertelo — disse Donnola. — L’anello di rubino brucerà finché il figlio non sarà nato. Ma non brucia veramente. Comunque dovresti essere contento: è la prova che il figlio non solo è tuo, ma è anche un maschio.
— Il bambino sta per nascere — disse Orem. Dunque era l’ultimo giorno della sua vita, ne era certo. Andò al bordo del tetto e aiutò Timias a salire.
— Hai vinto — disse Timias sorpreso. — Non credevo che ce l’avresti fatta.
— Continuavo a guardare in basso — disse Orem. — Il pensiero della morte mi rendeva veloce.
D’improvviso Donnola gridò di dolore.
— Cosa succede? — chiesero, ma lei non volle dirlo.
— Orem — disse — devi andare da tua moglie.
— Al parto? Il padre?
— A questo parto, con quella madre, sì. — Fece una smorfia di dolore.
— Cos’è? Che ti succede?
— Aiutami a tornare nella mia stanza, Belfeva — disse Donnola. — E tu, Piccolo Re, va da tua moglie.
— Ma non mi ha mandato a chiamare — disse Orem. In verità, preferiva passare l’ultimo giorno della sua vita con chiunque ma non con Bella.
— Dimentichi quale dito porta l’anello? Ti obbedirà se le ordini di lasciarti restare.
— Nessuno comanda la Regina.
— Tu sì — disse Donnola. — Ma attento a come la comandi, poiché ti ubbidirà con crudele perfezione se parli scioccamente.
— Non voglio andare — disse Orem irato.
Donnola fece un’altra smorfia e barcollò verso Belfeva. — Non per lei. Tuo figlio. Tuo figlio ha iniziato il suo viaggio lungo il fiume, verso il mare. Lei non avrà altro aiuto che il tuo. Nessuno se non il padre può aiutare la nascita di un figlio di dodici mesi.
Orem avrebbe voluto restare, avrebbe voluto scoprire perché Donnola soffriva così. Ma sapeva che Donnola era saggia, che Donnola non mentiva; se aveva detto che doveva andare da Bella, sarebbe andato.
La Regina non era nella sua solita camera da letto. Né c’erano dei servitori a cui chiedere. Orem non sapeva dove poteva essere andata. Aveva un solo modo per scoprirlo: allargò la sua ragnatela sul palazzo e la trovò incendiata di argentea dolcezza, aspra al suo udito, silenziosa al suo tocco.
Percorse i corridoi verso il luogo dove sapeva di trovarla, ma sempre i corridoi curvavano, sempre le porte si aprivano su una stanza sbagliata. Se ne rese conto quando passò da un corridoio in una stanza, poi cambiò idea e tornò sui suoi passi… per scoprire che il corridoio aveva cambiato direzione. La parte più corta adesso era a destra. La Regina Bella era dove pensava che fosse, ma la magia del palazzo sviava tutte le strade. Lasciò allora che il suo potere si allargasse attorno a lui come un mantello, sbattendo contro i muri, rompendo gli incantesimi, rivelando le porte dove avrebbero dovuto essere. Quella non era la magia dell’illusione, attraverso cui invariabilmente vedeva. Era una vera manipolazione, e Orem temeva che trovandola le avrebbe svelato chi era in realtà.
Trovò le sue damigelle radunate davanti a una porta, preoccupate.
— È dentro? — chiese.
— E sola — rispose una. — Ci proibisce di entrare.
— Non lo proibirà a me — disse Orem, e bussò.
— Vai via — sentì una voce soffocata dall’interno.
— Entro — disse. Ed entrò.
Bella giaceva sola in mezzo a un lungo letto stretto. Era nuda, le gambe allargate, le ginocchia sollevate. Delle lenzuola erano state legate alle cinque colonne del letto. Due le tenevano i piedi, due le mani, e a questi Bella si aggrappava con forza. L’ultimo era appoggiato sul cuscino, e quando un’ondata di dolore l’assaliva, Bella si voltava e l’afferrava fra i denti, agitando la testa e scuotendo il lenzuolo, come un cane con uno straccio. Era coperta di sudore. Il lamento acuto che le usciva dalla gola non era un suono umano. Del sangue le colava dall’apertura dove si era affacciata la testa del bambino. La testa era grande, violacea e coperta di sangue, e non riusciva a passare. Bella lo guardò con occhi grandi come quelli di una cerva, pieni di dolore e paura. Gli occhi lo seguirono mentre girava attorno al letto e si fermava vicino alla sua faccia. Anche in quelle condizioni, mentre masticava il lenzuolo, era bellissima, la più femminile delle donne.
— Bella — disse Orem.
In quel momento il dolore passò, lei ebbe un brivido e lasciò andare il lenzuolo.
— Bella — ripeté Orem. — Non hai nessuna magia per fermare il dolore?
Lei rise senza allegria. — Piccolo sciocco, Piccolo Re, non esiste magia che abbia potere sul parto. Il dolore dev’essere provato, o il bambino muore.
E il dolore tornò, e Bella mugugnò e si contorse, mentre i muscoli della pancia le si contraevano. La testa del bambino non fece alcun progresso. Bella lo guardò con un’implorazione negli occhi. Cosa voleva da lui? Che ponesse fine al dolore? Ma non poteva farlo.
— Dimmi cosa fare e lo farò — disse Orem.
— Fare? — gridò lei. — Fare? Insegna tu a me cosa fare, marito!
Il bambino sarebbe morto; questo Orem poteva capirlo. Un bambino che non esca in fretta una volta spuntata la testa muore. No, figlio mio, disse in silenzio.
— Qualcuno non può sopportare il dolore per te?
Lei annuì. Sì, e sussurrò. — Non contro la volontà dell’altro.
— Allora scarica il dolore su di me — disse lui — così che il bambino vivrà.
— Un uomo! — disse lei con disprezzo. — Questo dolore?
— Guarda l’anello al tuo dito e obbediscimi. Allontana il dolore.
Non appena ebbe pronunciato quelle parole, i suoi movimenti convulsi si arrestarono. Il suo respiro pesante tornò normale, la tensione sulle lenzuola si allentò. Aspettò che il dolore gli arrivasse addosso… ma non venne. Non ebbe tempo per pensarci, perché d’improvviso la carne si aprì, incredibilmente, le ossa del bacino di Bella si separarono, e il bambino scivolò facilmente sulle lenzuola. Era impossibile che Bella potesse operare una simile trasformazione con tanta tranquillità, eppure subito le ossa tornarono ad avvicinarsi, e la donna raccolse il bambino. Non c’era placenta, non c’era cordone ombelicale.
— Slegami i piedi — sussurrò Bella. Leccò il muco dalla faccia del bambino. Il piccolo pianse e Bella lo cullò, se lo portò al seno, guidò la sua bocca al capezzolo, poi sospirò e incrociò le gambe, mettendosi comoda. Orem notò con stupore che la sua pancia non era per nulla floscia, ma perfetta, come se non avesse mai portato un bambino; in verità, Bella aveva di nuovo il corpo indicibilmente perfetto che aveva amato, e lui non poté fare a meno di desiderarla ancora, per quanto la temesse e la odiasse.
— Comandami ancora, mio Piccolo Re — disse lei. — Mi fa piacere obbedire.
— Ma il dolore non è arrivato a me — disse lui.
— Non mi hai ordinato di darlo a te. — Sorrise trionfante.
Lui ripensò alle sue parole, e non riuscì a ricordare bene. In qualche maniera l’aveva raggirato, ma non era abbastanza astuto da capire come. — Lasciami tenere il bambino.
— Anche questo è un comando?
— Solo se… se non gli farà del male.
Bella rise e gli porse il bambino. Orem lo guardò, lo prese fra le braccia. Aveva già visto dei piccoli appena nati, i suoi nipoti, e aveva aiutato ad accudire i trovatelli, nella Casa di Dio. Ma questo bambino era più pesante, e teneva il suo corpo in maniera diversa. Orem guardò la faccia del piccolo, e questi lo guardò con occhi grandi e gli sorrise.
Sorrise. Pochi minuti dopo la nascita, e il bambino sorrideva.
— Nato dopo dodici mesi — disse Bella.
Orem ricordò suo padre, Avonap, ricordò le sue braccia forti capaci di buttarlo in aria, dandogli la sensazione di volare come un uccello, e di prenderlo al volo con la sicurezza con cui i rami di un albero accolgono uno stormo. Le mie braccia sono forti abbastanza per un bambino così piccolo. E d’improvviso fu Avonap nel suo cuore, e desiderò il piccolo. Orem da piccolo aveva amato suo padre più della sua vita; è questo il genere di bambino che, diventato grande, ama suo figlio con una devozione che non può essere spezzata. Tu non puoi saperlo, Palicrovol, ma ci sono uomini così, e non sono più deboli di te; tu sei soltanto più povero di loro.
Immediatamente Orem seppe che doveva avere quel figlio, anche se solo per un po’. — Mi permetterai di vederlo ogni volta che vorrò — disse.
— È un comando?
— Sì.
Lei rise. — Allora obbedirò.
— E non farai nulla per impedirgli di conoscermi e di amarmi, e io lui.
— Osi troppo, Piccolo Re — disse lei. Questa volta non rise.
— Lo comando.
— Non sai cosa stai facendo.
— Fino a quando vivrò, ti comando di lasciare che lo conosca e lo ami, e lui ami me! — Lei non poteva rifiutargli quello: non osò chiederle di più, non osò chiederle di lasciarlo vivere un momento di più di quanto avesse già in mente.
— Piccolo Re, non sai cosa chiedi.
— Lo farai?
— Non venire a lamentarti da me, Piccolo Re. Ama il bambino se vuoi, e lascia che ti ami, non mi importa, è lo stesso per me. — Voltò la faccia verso il muro.
— Un bambino deve conoscere il padre, se dev’essere felice.
— Non ne dubito. Solo una cosa, Piccolo Re: non mangerà cibo se non quello che succhierà dal mio seno. E non avrà nome.
Questo era sbagliato; non poteva essere. Non avere nome significa non avere identità. Orem lo sapeva. — Ti comando di dargli un nome.
— Fai presto a comandare adesso, vero? Come un bambino, senza pensare al prezzo delle cose. Aspetta di vedere come hanno funzionato i tuoi primi ordini, prima di darne di nuovi.
— Dagli un nome.
— Giovane — disse lei, sorridendo divertita.
— Non è un nome.
— Neppure Bella è un nome. Ma è più di quanto potrà guadagnarsi in tutta la sua vita.
— Giovane, dunque. E io sarò libero di vederlo.
— Oh, sei un delizioso sciocco. Ho tenuto con me i tre più buffi sciocchi del mondo per tutti questi anni, ma tu sei il migliore di tutti. Le Sorelle ti hanno riservato per ultimo. Avrai tutto il tempo che vorrai con il bambino, tutto il tempo che potrai usare è tuo. Che ti porti gioia.
Il bambino allungò una manina e strinse il naso di Orem, e rise.
— Hai sentito? Già ride! — E Orem non poté fare a meno di ridere a sua volta.
— È quello che succede con i nati di dodici mesi — disse Bella.
— Ogni giorno verrò a vederlo. Imparerà a conoscere la mia faccia, e sarà felice di vedermi; ho tempo abbastanza per questo.
Orem non lo sapeva, ma io credo che ogni parola che disse fu un dolore per Bella, perché le fece capire quanto lui già amasse il piccolo, e quanto poco amasse lei. Non poteva sorprenderla, ma non per questo le faceva meno male.
— Dammelo — disse. — Deve mangiare.
— Giovane — disse Orem al bambino, che sorrise. Lo porse a Bella, e questa volta il piccolo non ebbe bisogno di essere guidato al capezzolo. Bella guardò Orem con occhi stranamente timidi, come quelli di una cerbiatta. Aveva un’aria innocente e dolce, ma Orem non si lasciò ingannare. — Bella — disse — come sei sfuggita al dolore, dal momento che non l’hai passato a me?
— Che importa?
— Dimmelo. Te lo comando.
Studiando la sua faccia lei disse: — Mi hai comandato di allontanare il dolore; non mi hai detto a chi darlo.
Era vero, si rese conto. La seconda volta, quando lei l’aveva obbedito, non le aveva detto di darlo a lui. — Ma chi altri l’avrebbe accettato di sua volontà?
— La donna che fra tutte non poté sopportare di vedere questo corpo straziato. La donna a cui appartiene in realtà questa faccia.
Orem la guardò senza capire. Di chi era la faccia, se non di Bella? Orem non aveva mai saputo che Bella indossava una forma presa in prestito. Ma avendo saputo questo, non fu difficile comprendere chi in realtà aveva posseduto quella faccia.
— Donnola — sussurrò Orem. — Hai dato a lei il dolore.
— Abbiamo sempre condiviso i miei dolori — disse Bella. — Mi è sembrato giusto. Ha avuto l’uso di questo corpo durante la sua perfetta giovinezza… siamo d’accordo che è giusto che lei soffra parte del dolore dell’età adulta. — Bella sorrise teneramente a Orem. — E del piacere, anche. Ho fatto in modo che provasse la metà del piacere della nostra notte di matrimonio, Piccolo Re. Ho voluto che ricordasse cosa si prova a essere infedeli al proprio amato marito.
— Suo marito? — Orem non sapeva che Donnola avesse un marito.
— Che sciocco — disse Bella. — Suo marito, il Re! Palicrovol voleva farla Regina al posto mio. Perché altrimenti credi che la tenga qui? Donnola è Enziquelvinisensee Evelvenin, la Principessa dei Fiori. Voleva essere al mio posto, così io ho preso il suo. Dentro il suo corpo perfetto. Bene, il suo corpo perfetto ha avuto un parto che avrebbe potuto ucciderla. Ma grazie a te, il suo perfetto corpo non ha dovuto sopportare il dolore, o guarire dalla ferita. Peccato per la carne imperfetta che ora indossa. Quella può anche morire.
Orem non aveva compreso, fino a quel momento, la perfetta malvagità di Bella. — Sei tu che meriteresti la sua faccia — sussurrò.
— Sei il mio giudice? — chiese lei freddamente. — È per questo che sei venuto da me, per dirmi cosa merito?
Orem ripensò a Dobbick nella Casa di Dio, che gli aveva insegnato che Re Palicrovol si era attirato da sé le proprie sofferenze. — Ma lei non ti ha fatto nulla — disse.
— Ha preso il mio posto — disse Bella. — Quale sia la ragione, non mi interessa; ha preso il mio posto in questo palazzo, e paga per questo.
(Questo ragionamento dovrebbe esserti familiare, Palicrovol. Lui ha preso il mio posto al palazzo, hai detto, e perciò deve pagare. Quindi ammetti che Bella aveva ragione punendo la sposa che avevi portato da Onologasenweev?)
— Adesso capisco — disse Bella. — Adesso capisco. — E la sua faccia si fece scura.
— Cosa capisci? — disse Orem, temendo che lei vedesse ciò che lui veramente era.
— Capisco che lei ha preso il mio posto di nuovo.
— Sì! Sta soffrendo il dolore della nascita di tuo figlio.
— Ancora una volta ha l’amore di mio marito.
Orem la guardò incredulo. — Per un anno mi hai disprezzato. Come puoi essere gelosa di una cosa che hai gettato via? — E poi le mentì crudelmente, credendo di dire la verità. — Non ti ho mai amata.
Lei gridò contro le sue parole: — Tu mi hai adorata!
— In nome di Dio, donna! Ti odio più di qualsiasi anima vivente, se sei viva, e se hai un’anima! Sei vecchia di trecento anni e non hai più amore in te di una mantide per il compagno, e non mi… non mi…
— Cosa? Cosa?
— Non mi avrai mai più nel tuo letto.
— Se mi volevi, ragazzo, perché non sei venuto e l’hai chiesto?
— Avresti riso di me.
— Sì — disse lei. — Rido di tutte le cose deboli del mondo. E quando mi lascerai e andrai da Donnola Bocca-di-Verità, e la conforterai, io me ne starò qui a ridere.
— Ridi pure di me quanto vuoi. — Orem si voltò per andarsene.
— Ma non riderò di te.
Lui si fermò alla porta. — E di chi?
— Di me.
Orem si voltò a guardarla. — Tu non sei una delle cose deboli del mondo.
Lei sorrise malignamente. — Non per molto. Non dopo che avrò terminato quello che ho cominciato con te.
Orem era sicuro che intendesse la sua morte.
— Cantami una canzone, Piccolo Re. Una canzone della Casa di Dio. Certamente ti avranno insegnato delle canzoni nella Casa di Dio.
Orem cantò la prima cosa che gli venne in mente. Era il pezzo favorito del diacono Dobbick, dal Secondo Canto.
“Dio vede i tuoi peccati, amore mio,
il buio del tuo cuore, amore mio.
Li pesa con le tue sofferenze.
Quale pesa di meno, amore mio?”
— Ancora — disse lei.
E quando lui l’ebbe cantata due volte, lei gliela fece ricantare ancora, e ancora, e ancora, e si dondolava, allattando il piccolo. Malgrado il suo odio, Orem non aveva mai visto una cosa che gli piacesse altrettanto: il suo bambino che succhiava dal seno di sua moglie, come il grano succhia il terreno. Amava il suo bambino istintivamente, come Avonap aveva amato i suoi figli e i suoi campi. Rimpianse ogni parola che aveva detto che potesse indurla a ucciderlo prima, privandolo di un’ora con Giovane.
Alla fine lei non mormorò: — Ancora — quando ebbe terminato la canzone.
— Perdonami — sussurrò Orem. Ma lei non lo sentì. Si era addormentata.
Così la lasciò, e andò a cercare Donnola, che aveva sopportato il dolore di Bella per suo ordine.
— Non potete entrare — dissero i servitori di guardia alla porta di Donnola.
Orem li scansò. Donnola delirava sul letto, gridando e piangendo, chiamando ora Bella, ora Palicrovol, e qualche volta anche Orem. Lui pensò che questo volesse dire che lo amava quanto Palicrovol, ma in realtà lei gridava per salvare lui, non perché lui la salvasse.
Interrogò i dottori raccolti attorno al suo letto. — Non riusciamo a trovare alcuna causa del dolore — dissero.
— Curatela — disse Orem — come se avesse dato alla luce un figlio di dodici mesi. Trattatela come se il parto le avesse spezzato i lombi e lacerato la carne.
I dottori lo guardarono stupiti. Solo Belfeva, che era vicina, comprese che il Piccolo Re forse ne sapeva più di loro. Andò vicino al letto, tirò giù le coperte, e tutti videro che Donnola giaceva in una pozza di sangue, che ancora sgorgava da un terribile squarcio nella sua carne intima. E cosa ancora più straordinaria: lì c’era la placenta che non era uscita insieme al bambino chiamato Giovane. — In nome di Dio — disse un dottore, e si misero al lavoro.
Orem guardò, quando riusciva a sopportarlo, sedendo accanto a Donnola e tenendole la mano. Lei non si accorse della sua presenza, gridò solo nel dolore e nel delirio. Alla fine i dottori finirono di fare quello che potevano.
— Ha perso molto sangue, che possiamo fare? — disse uno.
— Come è potuto accadere? — chiese un altro.
Orem scosse solo la testa. Non poteva spiegare loro che era colpa sua.
I dottori se ne andarono, ma Orem rimase, tenendole la mano. Una volta lei chiamò: — Piccolo Re.
— Sono qui, Enziquelvinisensee — rispose. Sentire il proprio nome parve calmarla. Dormì. Orem disse tutte le preghiere che ricordava dalla Casa di Dio. Sapeva che non avevano senso, lì nella casa di Bella, ma le disse lo stesso, perché aveva paura di ciò che le aveva fatto.
Doveva essersi addormentato anche lui, perché si svegliò d’improvviso e vide che Coniglio e Urubugala aspettavano insieme a lui accanto al letto. Per abitudine, allargò la sua rete, permettendo loro di parlare senza essere sentiti dalla Regina.
— Come sta? — disse Coniglio.
— Ha sopportato il dolore della nascita — disse Orem.
Coniglio annuì.
— La Regina è stata mietuta — disse Urubugala. — Ma qual è stato il raccolto, piccolo contadino?
— Un bimbo di nome Giovane.
— Vivrà — disse Urubugala. — Ti conforta questo? Bella non lascerà morire Donnola.
— Il suo nome non è Donnola — disse Orem. — Non lo sapevate? La Regina me l’ha detto. Lei in realtà è Enziquelvinisensee Evelvenin. La Principessa dei Fiori.
Coniglio e Urubugala si guardarono, e Urubugala rise. — Credevi di sorprenderci, Piccolo Re? Noi siamo stati con Donnola fin dall’inizio.
Solo allora Orem comprese che anche loro erano personaggi mascherati dell’antica storia. — Zymas — disse Orem.
Coniglio fece un pallido sorriso. — Non sono più io, ultimamente — si scusò.
— E tu — disse Orem a Urubugala. — Sleeve.
Il nano rispose in rima: — Chi ha la magica lebbra e ci pulisce la faccia? Cambia nome, cambia cornice, ci dipinge con la viaccia.
— Voi siete i Compagni del Re — disse Orem. — In tutte le vecchie storie…
— Le storie sono molto vecchie — disse Coniglio. — Adesso siamo i Compagni della Regina. — Indicò Donnola addormentata. — Mandaci a chiamare quando si sveglia.
Gli portarono una sedia, perché lui non voleva lasciarla. Aspettò tutta la notte. E la mattina aprì gli occhi e scoprì che Donnola era sveglia, la brutta faccia nascosta dal buio, tranne per gli occhi strabici che lo guardavano.
— Sei sveglia — disse Orem.
— Anche tu — rispose lei.
— Temevo per te.
Lei lo scrutò. — Mi hai chiamata… ho sognato che mi hai chiamata con un altro nome.
— Enziquelvinisensee Evelvenin.
— Te l’ha detto lei?
— Dopo che gli ho ordinato… gli ho ordinato di allontanare il dolore.
— Ah. — Gli occhi si chiusero, poi si riaprirono. — Ti perdono, Piccolo Re. Non sapevi cosa facevi. — Lo sorprese con un sorriso. — Pensa… sono ancora vergine eppure il mio corpo ha concepito e partorito. — Rise un po’, poi emise un gemito di dolore.
— Penserò a te — disse Orem — come alla madre di mio figlio.
— No — disse lei.
— È stato il tuo corpo a portarlo.
— Io non avrei portato un bambino di dodici mesi.
— È molto bello. Bella mi ha promesso che potrò averlo tutte le volte che vorrò. Non sapevo di desiderare tanto un figlio finché non l’ho visto. Mi ha già sorriso.
— Non amarlo — disse Donnola. — Non lasciare che ti sorrida.
— È stato il tuo corpo a portarlo. Bella ha detto anche che l’hai sentito… quando è stato piantato in te.
Lei annuì, ma girò la faccia.
— Non mi vergogno — disse Orem. — Donnola, ti amo. Ancora prima che mi dicesse che questa non è la tua carne, ti ho amata. Lasciami fingere che vivrò fino a vedere mio figlio diventare uomo. Lasciami fingere che tu sia mia…
— No — disse lei. — Hai già una moglie.
— Davvero? — chiese lui rabbiosamente.
— E io ho un marito.
Orem non disse nulla allora. Solo quando lei ebbe compassione di lui gli toccò la mano, parlò ancora. — Mi sono sbagliato — disse. — Perdonami.
— Io ti perdono sempre. Ancor prima che tu chieda. Piccolo Re, non rinnegherò mio marito per te. E non amerò mai tuo figlio. Ma resterò con te e sarò tua amica fino alla fine di questa folle strada che hai scelto. È abbastanza?
— Cosa ti fa pensare che abbia scelto la mia strada? — Ma non disse altro, e la lasciò dormire.
Queste furono le parole che si dissero, e nessuno dei due sospettò che Orem aveva sbagliato immaginando il proprio futuro. Da quel momento, fino a quando tu giungesti alle porte della città, non parlarono più dell’argomento; anche se furono insieme ogni giorno, Donnola non sospettò mai che Orem pensasse che Bella progettava la sua morte. Donnola gli avrebbe detto la verità, se avesse saputo che lui non sapeva.
Ho sentito dire che ti è stato riferito che la Principessa dei Fiori ti ha tradito per Orem Fianchi-Magri, il Piccolo Re. Naturalmente tu non credi a queste bugie. Ma lo amò come se fosse suo figlio. E rammenta questo, Palicrovol: se tu fossi stato fedele alla Principessa dei Fiori, Orem Fianchi-Magri non avrebbe mai potuto essere concepito. Rammenta questo quando giudicherai quello che facemmo mentre tu eri esiliato da Speranza del Cervo.