VII I DUE POZZI

Quando il rabdomante se ne andò, Alvin non ebbe bisogno di alzare lo sguardo. In qualsiasi momento poteva percepire dove l’uomo si trovasse, poteva avvertirne la rabbia come un fragore nero che attraversava la dolce musica verde della foresta. Era la maledizione di essere l’unico Bianco, uomo, donna o bambino, che riuscisse a sentire la vita della foresta… Questo significava essere al tempo stesso l’unico Bianco a sapere che la terra stava morendo.

Non che il terreno non fosse fertile: i secoli trascorsi sotto il mantello della foresta avevano reso il suolo così ricco che si diceva che anche l’ombra di un seme potesse metter radici e fruttificare. C’era vita nei campi, come ce n’era nelle città. Ma quella vita non faceva parte del canto della terra. Era solo rumore, un fruscio continuo, mentre il verde della foresta, la vita dell’uomo rosso, dell’animale, della pianta, del suolo, che una volta convivevano in perfetta armonia, ora sembravano sopraffatti… E quel canto giungeva sommesso, intermittente, triste. Alvin lo sentiva spegnersi, e ne era rattristato.

Perché quel ridicolo ometto, quel rabdomante pieno di presunzione se l’era presa tanto? Alvin non riusciva a capirlo. Eppure non l’aveva aggredito, non si era messo a discutere, perché Hank Dowser non aveva quasi fatto in tempo ad arrivare che Alvin aveva già visto il Distruttore offuscargli i margini del campo visivo, come se il rabdomante se lo fosse portato dietro.

Alvin aveva visto il Distruttore per la prima volta nei suoi incubi di bambino, simile a un immenso nulla che gli rotolava addosso invisibilmente, cercando di schiacciarlo, di penetrargli dentro, di stritolarlo. Il vecchio Scambiastorie aveva aiutato Alvin a trovare un nome per il nemico invisibile. Il Distruttore, il cui unico scopo era distruggere l’universo, ridurlo in frantumi sempre più piccoli finché tutto non fosse diventato piatto, freddo, liscio e morto.

Non appena gli ebbe trovato un nome e si fu fatto una vaga idea dei suoi tremendi poteri, Alvin aveva incominciato a vedere il Distruttore anche da sveglio e alla luce del giorno. Non proprio direttamente, si capisce. Se uno prova a guardare il Distruttore, il più delle volte non riesce a vederlo. Il Distruttore infatti si rende invisibile dietro lo schermo della vita, della crescita e di tutto ciò che al mondo si costruisce. Ma all’estremo margine del campo visivo, come in agguato, era lì che Alvin lo scorgeva, era lì che lo attendeva quella vecchia, subdola serpe.

Ancora bambino, Alvin aveva scoperto un sistema perché il Distruttore si allontanasse da lui e almeno per un po’ lo lasciasse in pace. Non doveva far altro che usare le mani per creare qualcosa. Bastava un oggetto semplicissimo, come un cestino d’erba intrecciata, e il Distruttore si faceva indietro. Perciò quando il Distruttore era tornato a far sentire la sua presenza intorno alla fucina del fabbro, non molto tempo dopo l’arrivo di Alvin, questi non s’era impressionato granché. Nella fucina c’erano innumerevoli occasioni per costruire qualcosa. Oltre a ciò essa era il regno del fuoco… del fuoco e del ferro, la più dura delle terre. Sin dall’infanzia Alvin sapeva che il Distruttore aveva una particolare passione per l’acqua. L’acqua era la sua fedele servitrice; era l’acqua a svolgere la maggior parte della sua opera, demolendo e distruggendo. Perciò non c’era da stupirsi che, con l’arrivo di un uomo votato al servizio dell’acqua come Hank Dowser, il Distruttore si fosse ringalluzzito, tornando alla carica.

E adesso, sebbene Hank Dowser se ne fosse andato portando con sé la sua rabbia e i suoi pregiudizi, il Distruttore era sempre lì, acquattato nel campo e tra i cespugli, in agguato tra le lunghe ombre della sera.

Alvin si concentrò sul ritmo del lavoro. Affondare la vanga nel terreno, dare un colpo in avanti per staccare la zolla, sollevare la zolla fino all’imboccatura del pozzo, gettarla da una parte. Mantenere un andamento regolare, dare al mucchio di terra una forma compatta, sagomare i lati della buca. Per i primi tre piedi mantenere la forma quadrata, in modo da lasciare il posto per le fondamenta del parapetto in muratura. Poi dare alla buca una forma circolare e leggermente inclinata verso l’interno, per accogliere la camicia in pietra del pozzo finito. Anche se sai bene che da questo pozzo nessuno mai attingerà acqua, pensò Alvin, lavora con cura, scava come se fossi convinto che sarà un’opera duratura. Costruisci a regola d’arte, avvicinati per quanto puoi alla perfezione, e questo basterà per tenere a bada quel subdolo spione.

E allora perché Alvin non si sentiva affatto rassicurato?

Neanche avesse avuto in tasca un orologio, Alvin capì che si stava facendo sera quando vide arrivare Arthur Stuart che evidentemente aveva già cenato: infatti il piccolo aveva la faccia pulita e stava succhiando una caramella. Come al solito, Arthur non disse una parola. Alvin si era ormai abituato alla sua presenza. Fin da quando aveva imparato a camminare, quel bambino era diventato l’ombra in miniatura di Alvin. Ogni giorno, a meno che non piovesse, andava a trovarlo alla fucina. Non era molto loquace, e quando parlava non era facile capire quello che diceva; piccolo com’era, aveva ancora difficoltà con le «erre» e le «esse». Ma non aveva importanza. Arthur non chiedeva mai nulla e non combinava disastri, e Alvin non faceva quasi più caso alla sua presenza.

Impegnato a scavare, con le mosche della sera che gli ronzavano sul viso, Alvin poteva usare il suo cervello solo per pensare. Si trovava a Hatrack da tre anni, e in tutto quel tempo non si era avvicinato di un pollice a capire quale potesse essere il vero scopo del suo dono. Non vi ricorreva mai, a parte quando ferrava i cavalli, e in quest’ultimo caso lo faceva soltanto perché non sopportava di veder soffrire un animale, mentre per lui era così facile eseguire la ferratura a regola d’arte. Si trattava di una buona cosa, ma come creazione non era un gran che, se paragonata alla rovina della terra che lo circondava.

Alvin sapeva bene che il principale strumento del Distruttore in quella terra di foreste era l’uomo bianco. Ancor più dell’acqua, egli riusciva a demolire tutto quello che incontrava. Ogni albero che veniva abbattuto, ogni tasso, procione, cervo o castoro che veniva ucciso senza consenso, ogni creatura che perdeva la vita, contribuiva alla distruzione della terra. Una volta i Rossi mantenevano tutto in equilibrio, ma ora se n’erano andati: erano morti, o emigrati a ovest del Mizzipy, oppure, come gli Irrakwa e i Cherriky, sotto la pelle si erano trasformati in Bianchi, si erano rimboccati le maniche e ora lavoravano sodo per distruggere la terra ancora più in fretta dei Bianchi. Ormai non restava più nessuno che cercasse di conservare le cose nella loro integrità.

Qualche volta Alvin pensava di essere rimasto il solo a odiare il Distruttore e a cercare di combatterlo attraverso atti di creazione. E non sapeva come fare, non aveva la minima idea di quale doveva essere il passo successivo. L’unica persona che avrebbe potuto insegnargli a essere un vero Creatore era la fiaccola che l’aveva toccato quando egli aveva visto la luce, ma se n’era andata, era fuggita lo stesso giorno del suo arrivo. Non poteva essere un caso. Evidentemente non aveva voluto insegnargli nulla. Alvin era consapevole di avere un destino, ma nessuno voleva aiutarlo a trovare la strada.

Sono pronto, pensò Alvin. Ho i poteri necessari, purché capisca in che modo usarli, e sento in me il desiderio di seguire la voce del destino. Ma qualcuno deve pur aiutarmi.

Non sarebbe stato il fabbro, questo era sicuro. Quel vecchio zoticone approfittatore… Alvin sapeva che Makepeace Smith cercava d’insegnargli il meno possibile. Probabilmente non si rendeva nemmeno conto di tutto quello che Alvin era riuscito a imparare osservandolo senza dare nell’occhio. Il vecchio Makepeace non gli avrebbe mai permesso di andarsene, a meno di non esservi costretto. Eccomi qui, pensò amaramente Alvin: ho un destino, una vera, autentica Opera da compiere, proprio come Ettore, Ulisse o uno di quei tipi della Bibbia, e il mio unico maestro è un fabbro così tirchio che per farmi insegnare qualcosa da lui devo rubarglielo, anche se è mio di diritto.

Qualche volta Alvin si sentiva ribollire dalla rabbia e gli veniva una gran voglia di fare qualcosa di spettacolare, per far capire a Makepeace Smith che il suo apprendista non era un ragazzino stupido al punto da lasciarsi facilmente imbrogliare. Che cos’avrebbe fatto Makepeace Smith se avesse visto Alvin tagliare il ferro con le dita? Se l’avesse visto raddrizzare un chiodo piegato senza indebolirlo, o rassodare il ferro di cattiva qualità che altrimenti sarebbe andato in pezzi sotto il martello? E se l’avesse visto battere il ferro in lastre così sottili da poter essere attraversate dalla luce del sole, eppure così resistenti che nessuno sarebbe riuscito a spezzarle?

Erano solo sciocche fantasie, e Alvin lo sapeva. La prima volta Makepeace Smith sarebbe rimasto a bocca aperta, magari gli sarebbe anche preso un mezzo accidente, ma nel giro di dieci minuti avrebbe escogitato qualche espediente per ricavarne un profitto, e Alvin avrebbe avuto ancor meno possibilità di riacquistare la libertà prima del tempo stabilito. E la sua fama si sarebbe sparsa dappertutto, sissignore, per cui quando avrebbe avuto diciannove anni e Makepeace Smith sarebbe stato costretto a lasciarlo andare, il nome di Alvin sarebbe stato fin troppo conosciuto. La gente l’avrebbe assillato in continuazione chiedendogli di curare malattie, trovare l’acqua, riparare attrezzi o tagliare pietre, tutte cose che avevano ben poco a che fare con ciò che lo attendeva. Se avessero cominciato a portargli scrofolosi e zoppi da curare, dove avrebbe scovato il tempo di essere qualcosa di diverso da un semplice medico? Avrebbe avuto tutto il tempo di fare il guaritore al termine della via che lo avrebbe portato a diventare un Creatore.

Solo una settimana prima del massacro del Tippy-Canoe, Lolla-Wossiky, il Profeta, gli aveva mostrato una visione della Città di Cristallo. Alvin sapeva che un giorno sarebbe toccato a lui costruire quelle torri di ghiaccio e di luce. Tale era il suo destino, non quello di un campagnolo dai cento mestieri. Finché gli toccava restare al servizio di Makepeace Smith, doveva tenere segreto il suo vero dono.

Ecco perché non era ancora scappato, anche se ormai, grande com’era, nessuno l’avrebbe mai sospettato di essere un apprendista fuggitivo. A che gli sarebbe servita la libertà? Prima di tutto doveva diventare un Creatore. Altrimenti andarsene o restare non avrebbe fatto nessuna differenza.

Perciò non parlava mai di ciò che sapeva fare, e raramente faceva ricorso ai suoi poteri se non per ferrare i cavalli o avvertire l’agonia della terra intorno a sé. Ma, nel frattempo, nel fondo della sua mente, ricordava a se stesso chi era veramente. Un Creatore. Qualunque cosa ciò possa significare, io sono un Creatore, ed è per questo motivo che il Distruttore ha cercato di uccidermi prima ancora che io nascessi, e poi in cento incidenti e quasi-omicidi durante la mia infanzia a Vigor Church. È per questo che si aggira furtivamente qui intorno, e mi spia, in attesa di un’occasione per uccidermi, forse in attesa proprio di un momento come questo, mentre me ne sto tutto solo al buio, solamente io e la vanga e la rabbia di essere costretto a fare un lavoro che non servirà proprio a nulla.

Alvin ripensò a Hank Dowser. Che razza d’uomo può essere colui che non vuole ascoltare i consigli degli altri? La bacchetta si è piegata di scatto, è vero… In quel punto l’acqua potrebbe schizzar fuori dalla terra al primo colpo di vanga, aveva sostenuto il rabdomante. Ma il motivo per cui non è schizzata fuori è che proprio lì sotto, a non più di due braccia sotto terra, c’è uno strato di roccia viva. Per quale altro motivo qui crescerebbe un prato naturale? Gli alberi non possono affondare le radici perché l’acqua piovana scorre lungo la superficie della roccia, e le radici stesse non riescono ad attraversarla per giungere fino alla vena sottostante. Hank Dowser ha certamente trovato l’acqua, ma altrettanto certamente non è riuscito a trovare ciò che si trovava tra l’acqua e la superficie. Non è stata colpa di Hank se non l’ha vista, ma sicuramente è stata colpa sua non voler pensare che là sotto potesse esserci anche dell’altro.

Perciò Alvin continuò a scavare con tutta la cura di cui era capace e, in effetti, non appena ebbe tracciato con la vanga la parete circolare ecco che cling, clang, clung, la vanga urtò contro la roccia.

Udendo quel suono, Arthur Stuart si avvicinò di corsa al bordo della buca e guardò dentro. «Dong dong» esclamò. Poi batté le mani.

«Hai proprio ragione» disse Alvin. «Qui si può fare dong dong per l’intera ampiezza della buca. E per ora neanche lo dirò a Makepeace Smith, puoi scommetterci. Mi ha detto che non potevo mangiare né bere finché non gli avessi trovato l’acqua, perciò non ho la minima intenzione di andare là prima che faccia buio per implorare una scodella di minestra solo perché ho incontrato il sasso, nossignore.»

«Dong» fece il bambino.

«Ora ripulirò il fondo della buca fino all’ultimo granello di terra, in modo da mettere a nudo la roccia.»

Alvin tolse dalla buca tutta la terra che poté, raschiando col fianco della vanga la superficie gibbosa della roccia. Questa però era ancora marrone e terrosa, e Alvin non ne fu soddisfatto. Voleva che quel sasso diventasse di un bianco abbagliante. Nessuno avrebbe potuto vederlo tranne Arthur Stuart, che era soltanto un marmocchio. Così Alvin usò il suo dono come non aveva più fatto da quando aveva lasciato Vigor Church. Fece in modo che il terriccio scivolasse sulla superficie della roccia, scorresse via fino all’ultimo granello andando ad aderire contro le pareti di terra compatta.

In men che non si dica la pietra era così bianca e lucente che si sarebbe detta una pozza d’acqua che rifletteva gli ultimi raggi di sole. Tra gli alberi cantavano gli uccelli della sera. Alvin sudava così copiosamente che le gocce di sudore cadevano sulla roccia lasciando piccole chiazze nere.

Arthur era in piedi sul bordo della buca. «Acqua» disse.

«Sta’ indietro, Arthur Stuart. Anche se la buca non è molto profonda, tu devi sempre girare alla larga. Se ci caschi dentro puoi anche ammazzarti.»

Un uccello passò a volo radente, agitando rumorosamente le ali. In un punto imprecisato della foresta, un altro uccello lanciò un grido disperato.

«Neve» fece Arthur Stuart.

«Non è neve, è pietra» lo corresse Alvin. Issatosi fuori dalla buca si tirò in piedi, ridendo fra sé. «Ecco il tuo pozzo, Hank Dowser» disse. «Perché non torni a vedere dov’è che la tua bacchetta s’era conficcata nel terreno?»

Hank Dowser si sarebbe pentito di aver fatto punire Alvin dal suo padrone. Lo sganassone di un fabbro non era uno scherzo, specialmente trattandosi di Makepeace che non aveva la mano leggera neanche con i ragazzini, figuriamoci con un apprendista grande e grosso come Alvin.

Adesso avrebbe potuto tornare a casa e dire a Makepeace Smith che il pozzo era finito. Poi avrebbe condotto il suo padrone sul posto e gli avrebbe mostrato la buca, con la pietra che lo guardava dal fondo, solida come il cuore del mondo. Già si sentiva dire al suo padrone: «Spiegatemi come posso berla, e io la berrò». Udire le imprecazioni di Makepeace sarebbe stato un autentico godimento.

Adesso avrebbe potuto far vedere a quei due quanto fossero stati ingiusti a trattarlo così… Però, in quel momento, Alvin comprese che impartir loro una lezione non sarebbe servito a niente. La cosa importante era che Makepeace Smith aveva veramente bisogno di quel pozzo. Ne aveva un bisogno tale da essere disposto a ricompensare il rabdomante lavorando gratis per lui. Era del tutto indifferente che il pozzo venisse scavato nel punto indicato da Hank Dowser oppure altrove… Alvin capì che doveva essere lui a scavarlo.

A ripensarci, questa soluzione solleticava ancor di più il suo amor proprio. Sarebbe arrivato a casa con un secchio d’acqua, proprio come gli era stato ordinato da Makepeace… ma quell’acqua sarebbe stata attinta dal suo pozzo.

Si guardò intorno nella luce rossastra del tramonto, chiedendosi dove iniziare le ricerche. Udì Arthur Stuart che si faceva strada in mezzo all’erba del campo; il coro degli uccelli era diventato così assordante da far pensare che si esercitassero in un canto di chiesa.

O forse erano soltanto spaventati. Perché, mentre si guardava intorno, Alvin comprese che il Distruttore era in piena attività. A rigore, scavare quella prima buca avrebbe dovuto farlo scappare a gambe levate, tenendolo alla larga per giorni. Invece il Distruttore seguiva Alvin passo passo mentre questi cercava il punto in cui scavare il pozzo vero, mantenendosi appena fuori dal suo campo visivo. Quell’inseguimento assomigliava sempre più a uno di quegli incubi in cui Alvin non riusciva a scacciare il Distruttore, qualsiasi cosa facesse. Tanto bastò a suscitare in lui un fremito di paura, a farlo rabbrividire in quella calda serata estiva.

Alvin scacciò la paura con un’alzata di spalle. Sapeva che il Distruttore non l’avrebbe toccato. In tutti quegli anni aveva cercato più volte di ucciderlo provocando qualche incidente, per esempio facendo gelare l’acqua dove lui stava per mettere il piede, o rendendo friabile il terreno della riva di un fiume perché lui cadesse nell’acqua e venisse inghiottito dai gorghi. Ogni tanto aveva perfino fatto sì che qualcuno provasse a ucciderlo, come il reverendo Thrower o quei Rossi della tribù dei Choc-Taw. Tuttavia, da quando Alvin era nato, il Distruttore non era mai intervenuto direttamente su di lui tranne che in sogno.

E non lo farà neanche adesso, si disse Alvin. Devo continuare la mia ricerca, in modo da poter scavare il vero pozzo. Quello falso non è bastato a scacciare il vecchio imbroglione, ma quello vero non potrà fallire, e poi per almeno tre mesi non sarà più lì a tremolare dove lo posso vedere solo con la coda dell’occhio.

Con questo pensiero, Alvin si accovacciò a terra indirizzando la sua mente alla ricerca di qualche frattura nello strato di roccia nascosto sotto la superficie del terreno.

Il modo in cui Alvin esplorava il sottosuolo non si poteva propriamente definire vedere. Era un po’ come se avesse avuto un’altra mano che sfrecciava tra terra e sassi alla velocità di una goccia d’acqua su una piastra rovente. Chi sapeva di queste cose la chiamava «pulce». Sebbene non avesse mai conosciuto uno scandagliatore, Alvin era convinto che una persona con quel dono non potesse comportarsi diversamente da lui, inviando la sua pulce in esplorazione sotto la superficie del suolo, tastando e saggiando tutto ciò che incontrava. E se scandagliare era veramente così, allora gli veniva da chiedersi se per caso non avessero ragione quelli che sostenevano che fosse l’anima dello scandagliatore a insinuarsi nel sottosuolo, e a questo proposito narravano storie agghiaccianti, nelle quali l’anima si perdeva e l’uomo era costretto ad aspettare la morte rimanendo immobile e muto. Ma Alvin non si lasciava spaventare da quei racconti. Se qualcuno aveva bisogno di una pietra, lui andava in cerca delle incrinature naturali così da staccarla dalla parete rocciosa senza vibrare un solo colpo di martello. Se qualcuno aveva bisogno d’acqua, avrebbe trovato il modo di scavare fino a farla affiorare.

Alla fine trovò un punto in cui lo strato di roccia era sottile e friabile. Lo strato di terreno era più alto, la vena d’acqua più profonda, ma ciò che contava era poter attraversare lo strato di roccia.

Il nuovo pozzo si sarebbe trovato a mezza strada tra la casa e la fucina, meno a portata di mano per Makepeace, ma più comodo per sua moglie Gertie, che avrebbe dovuto usare la stessa acqua. Alvin si mise al lavoro di buona lena, perché si stava facendo buio, ed era fermamente deciso a non smettere finché il lavoro non fosse terminato. Senza pensarci un istante, stabilì di usare i suoi poteri come aveva fatto nelle terre di suo padre. La vanga ora non urtava mai contro un sasso; era come se la terra si trasformasse in farina e saltasse fuori della buca da sola, senza che lui dovesse sollevarla. Se qualche adulto avesse potuto vederlo scavare a quella velocità, avrebbe pensato che Alvin fosse ubriaco o avesse un attacco di convulsioni. Ma a guardarlo non c’era nessuno, tranne Arthur Stuart. Senza contare che si stava facendo notte e Alvin non aveva lanterna, per cui nessuno avrebbe potuto far caso alla sua presenza; al buio poteva quindi usare il suo dono senza paura di essere scoperto.

Dalla casa si udì gridare, ma da così lontano Alvin non riuscì a capire che cosa stessero dicendo.

«Arrabbiata» disse Arthur Stuart. Guardava fisso la casa, immobile come un cane da punta.

«Riesci a sentire quello che dicono?» chiese Alvin. «La vecchia Peg Guester sostiene che hai due orecchie come quelle di un cane, sempre dritte ad ascoltare.»

Arthur Stuart chiuse gli occhi. «Non hai nessun diritto di far morire di fame quel ragazzo» scandì.

Ad Alvin quasi scappò da ridere. Arthur aveva imitato perfettamente la voce di Gertie Smith.

«È troppo grosso per suonargliele, e in qualche modo deve imparare la lezione» disse Arthur Stuart.

Stavolta aveva parlato nell’esatto tono di voce del padrone di Alvin. «Che mi prenda…» mormorò Alvin.

Il piccolo Arthur continuò. «Se Alvin non viene a mangiare questo piatto di minestra, Makepeace Smith, te lo ritroverai in testa come un cappello… Provati a farlo, vecchia strega, e ti spezzo tutte e due le braccia.»

Alvin stavolta non poté fare a meno di ridere. «Che mi venga un colpo se non sei un perfetto pappagallo, Arthur Stuart.»

Il bambino alzò gli occhi verso Alvin e sulla faccia gli comparve l’ombra di un sorriso. Dalla casa si udì un rumore di piatti che andavano in frantumi. Arthur Stuart scoppiò a ridere e si mise a correre in tondo. «Ha rotto un piatto, ha rotto un piatto, ha rotto un piatto!» esclamò.

«Sei proprio un fenomeno!» disse Alvin. «Adesso dimmi, Arthur, le cose che hai appena detto in realtà non le capisci, vero? Voglio dire, stavi solo ripetendo quello che udivi, eh?»

«Gli ha rotto un piatto in testa?» Arthur adesso rideva a crepapelle, tanto da cadere all’indietro nell’erba. Alvin rise con lui, ma non riusciva a staccare gli occhi dal bambino. In lui c’è più di quel che appare a prima vista, pensò. Oppure è matto da legare.

Dalla direzione opposta si levò un’altra voce di donna, un richiamo a piena gola che si librò sull’aria umida del crepuscolo. «Arthur! Arthur Stuart

Arthur si tirò a sedere di colpo. «Mamma» disse.

«Proprio così, è la vecchia Peg Guester che ti chiama» annuì Alvin.

«A letto» fece Arthur.

«Fa’ solo attenzione che prima non ci scappi un bagno. Ti vedo un po’ sporco di terra.»

Arthur balzò in piedi e corse attraverso il prato, verso il sentiero che dal vecchio deposito conduceva alla locanda. Alvin seguì il bambino con lo sguardo mentre correva agitando le braccia come se volasse. Un uccello notturno, probabilmente un gufo, seguì il bambino attraverso il prato, volando rasente al suolo come per tenergli compagnia. Quando Arthur fu scomparso alla sua vista dietro l’angolo del deposito, Alvin tornò finalmente al suo lavoro.

Nel giro di pochi minuti il buio fu completo, seguito poco dopo dal profondo silenzio della notte. Perfino i cani giù in città tacevano. La luna non sarebbe spuntata prima di qualche ora. Alvin continuò a lavorare. Non aveva bisogno di vedere; poteva sentire come procedeva il lavoro, come si comportava la terra sotto i suoi piedi. Non era il modo di vedere dell’uomo rosso, la sua capacità di udire il verde canto della foresta. No, quello che Alvin usava era il suo dono, il dono che lo aiutava a scendere sempre più a fondo nella terra.

Sapeva che avrebbe incontrato la roccia a una profondità doppia. Ma quando la vanga cominciò a incontrare grossi pezzi di roccia, non si trattava di una superficie liscia come nel punto scelto da Hank Dowser. Le pietre erano friabili e si sgretolavano facilmente: ricorrendo al suo dono, Alvin non aveva che da far leva col manico della vanga perché le pietre si staccassero senza difficoltà e lui potesse gettarle fuori dalla buca come zolle di terra.

Una volta superato lo strato di roccia, tuttavia, il terreno cominciò a diventare fangoso. Se Alvin non fosse stato quello che era, avrebbe interrotto il lavoro e sarebbe tornato il mattino dopo con qualcun altro che l’aiutasse a svuotare la buca. Ma per Alvin era un gioco da ragazzi. Rese più compatto il terreno intorno alla parete della buca in modo che l’acqua filtrasse più lentamente. Adesso non lavorava più di vanga: cominciò a raccogliere con un secchio il terriccio fangoso, e non aveva neanche bisogno di un compagno che tirasse fuori il secchio con una corda, perché gli bastava dargli lo slancio e i suoi poteri facevano sì che ogni secchiata di fanghiglia restasse bella compatta atterrando giusto fuori della buca. Anziché secchi di fango, da quella buca sembravano volar fuori dei conigli.

In questo genere di cose Alvin era maestro, e in quella buca fece davvero miracoli. Sei venuto a dirmi che non potevo mangiare né bere finché il pozzo non era finito, convinto che prima o poi sarei venuto a mendicare un bicchier d’acqua, a implorare di lasciarmi andare a letto, pensò. Be’, non vedrai niente del genere. Avrai il tuo pozzo, con pareti così solide che la gente verrà ad attingerci l’acqua molto tempo dopo che la tua casa e la fucina saranno ridotte in polvere.

Però, mentre assaporava il dolce gusto della vittoria, Alvin vedeva che il Distruttore gli era più vicino di quanto non fosse avvenuto da anni. Ora guizzava e danzava, e non solo ai margini del suo campo visivo. Anche al buio lo vedeva davanti a sé, lo scorgeva ancor più chiaramente che alla luce del giorno, perché nel grigiore indistinto non c’era nulla che potesse indurlo a ritrarsi.

All’improvviso Alvin venne attanagliato dal terrore, proprio come negli incubi della sua infanzia, e per qualche tempo restò immobile in fondo alla buca, paralizzato dalla paura, mentre l’acqua filtrava lentamente dal basso, trasformando il terreno in viscida fanghiglia. Uno strato di fanghiglia profondo cento piedi, e Alvin vi stava affondando dentro, e anche le pareti del pozzo si stavano ammorbidendo, alla fine avrebbero ceduto e gli sarebbero crollate addosso seppellendolo, e lui sarebbe affogato cercando di respirare fango, lo sapeva, poteva sentirselo freddo e bagnato all’altezza delle cosce, dell’inguine; strinse i pugni e sentì il fango sgusciargli fra le dita, proprio come il nulla dei suoi incubi…

E poi tornò in sé, riprendendo il controllo delle proprie azioni. Certo, era immerso nel fango fino alla cintola, e qualsiasi altro ragazzo nella sua stessa situazione avrebbe cominciato a dibattersi, sprofondando sempre più nel tentativo di liberarsi fino a morire soffocato. Ma quello era Alvin, non un ragazzo qualunque: posto che non si lasciasse istupidire dalla paura come un bambino sorpreso da un brutto sogno, era dunque perfettamente in grado di cavarsela. Così fece indurire il fango sotto di sé di quel tanto che bastava a sostenere il suo peso, poi fece venire a galla la piattaforma di fango indurito finché non si ritrovò nuovamente con i piedi all’asciutto su una superficie di fango e ciottoli.

Facile come rompere il collo a un topo. Se questo era tutto ciò che il Distruttore riusciva a inventare, poteva anche tornarsene a casa. Alvin era in grado di batterlo, proprio com’era in grado di battere Makepeace Smith e Hank Dowser messi insieme. Continuò a scavare, a riempire secchi di fango, a sollevarli, a gettarli fuori, poi di nuovo a riempirli.

Ormai era quasi alla profondità giusta, sei piedi buoni sotto lo strato di roccia. Se in precedenza non avesse consolidato le pareti di terra del pozzo, si sarebbe già trovato sott’acqua. Alvin agguantò la corda provvista di nodi che aveva lasciato pendere nel pozzo e risalì la parete, tirandosi su a forza di braccia.

La luna era spuntata, ma la buca era così profonda che per molte ore ancora i suoi raggi non ne avrebbero illuminato l’interno. Non aveva importanza. Alvin scaricò nel pozzo una carriola piena di quei sassi che ne aveva estratto solo un’ora prima. Poi si calò giù per la seconda volta.

Fin da piccolo aveva usato il suo dono per lavorare la pietra, e quella sera superò se stesso. Modellò a mani nude la roccia come se fosse stata argilla, facendone piccoli blocchi quadrati che dispose lungo la parete del pozzo partendo dal fondo, incastrandoli uno contro l’altro in modo che la pressione della terra e dell’acqua non li facesse crollare. L’acqua sarebbe penetrata facilmente nelle fessure tra una pietra e l’altra, che invece avrebbero trattenuto il terreno. L’acqua del pozzo sarebbe stata pulita fin quasi dall’inizio.

Le pietre dello scavo naturalmente non furono sufficienti; Alvin fece tre viaggi fino al ruscello per riempire la carriola di pietre levigate dall’acqua. Anche se stava usando i suoi poteri, la notte era ormai avanzata e la stanchezza si faceva sentire. Ma egli si rifiutò di prestarle attenzione. Non aveva forse imparato dai Rossi a correre anche quando la stanchezza avrebbe dovuto farlo crollare già da un pezzo? Un ragazzo che aveva seguito Ta-Kumsaw nella sua corsa da Detroit alla Collina Ottagonale, un ragazzo che era stato capace di una simile impresa non poteva darsi per vinto dopo una sera trascorsa a scavare, non poteva cedere alla sete o al dolore che provava alla schiena, alle cosce e alle spalle, al fuoco che gli bruciava i gomiti e le ginocchia.

Finalmente concluse il suo lavoro. La luna aveva oltrepassato lo zenit; il sapore che Alvin si sentiva in bocca gli ricordava quello di una vecchia coperta da cavallo, ma l’opera era compiuta. Si arrampicò fuori della buca, puntellandosi contro la parete di pietra che aveva appena finito di costruire. Via via che saliva, lasciò la presa sulla terra che abbracciava il pozzo, dissuggellandola, e l’acqua, ormai domata, cominciò a gocciolare rumorosamente nel profondo bacino di pietra che Alvin aveva costruito per contenerla.

Alvin tuttavia non si diresse verso la casa, né andò al ruscello a bere un sorso d’acqua. La prima acqua che avrebbe bevuto sarebbe stata quella del pozzo, proprio come aveva detto Makepeace Smith. Sarebbe rimasto ad aspettare che l’acqua avesse raggiunto il suo livello naturale e, dopo che il fango si fosse depositato, avrebbe attinto un secchio d’acqua. Quindi si sarebbe diretto a casa, e avrebbe tracannato una tazza di quell’acqua e di fronte al suo padrone. Successivamente avrebbe portato Makepeace Smith a vedere il pozzo scavato nel punto indicato da Hank Dowser, là dove il fabbro lo aveva colpito, e infine avrebbe mostrato l’altro pozzo, quello in cui si poteva gettare un secchio e udire un tonfo, non un rumore di ferraglia.

In piedi sul bordo del pozzo, Alvin immaginò le bestemmie e le imprecazioni di Makepeace Smith. Si mise a sedere, tanto per dare un po’ di sollievo ai piedi doloranti, pregustando la faccia di Hank Dowser quando sarebbe tornato a vedere il suo pozzo. Poi si distese per riposare la schiena indolenzita, e chiuse gli occhi per un istante soltanto, per non dover prestare attenzione alle ombre svolazzanti della distruzione che continuavano a infastidirlo ai margini del campo visivo.

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