Quella mattina Peggy si svegliò dopo aver sognato Alvin Miller che le colmava il cuore di ogni sorta di terribili desideri. Avrebbe voluto fuggire da quel ragazzo, e al tempo stesso restare ad attenderlo; dimenticare di conoscerlo, e guardarlo in continuazione.
Restò distesa sul letto con gli occhi semichiusi, guardando la luce grigia dell’alba insinuarsi nella soffitta. Sto stringendo qualcosa, pensò. Gli spigoli dell’oggetto le premevano nella carne con tanta forza che, quando lei aprì la mano, il palmo le faceva male come se si fosse tagliata. Ma non era così. Era solo la scatola in cui teneva il cappuccio placentare con cui Alvin era nato. O forse, pensò Peggy, forse era stata davvero ferita, profondamente ferita, e solo ora cominciava ad avvertirlo.
Peggy avrebbe voluto scagliare quella scatola il più lontano possibile, seppellirla in una buca profondissima e dimenticare dove l’aveva nascosta, cacciarla sott’acqua e coprirla di pietre in modo che non potesse più tornare a galla.
Oh, ma non è questo che voglio, disse silenziosamente. Mi spiace di aver pensato una cosa del genere. Mi spiace davvero, ma adesso sta per arrivare, dopo tutti questi anni sta per arrivare a Hatrack, e non sarà il ragazzo che ho visto percorrere tutti i sentieri del suo futuro, non sarà l’uomo in cui l’ho visto trasformarsi. No, è ancora solo un ragazzo, ha soltanto undici anni. Della vita ha già visto abbastanza da poter essere diventato dentro di sé qualcosa di simile a un uomo, ha visto tanto dolore e tanta sofferenza da bastare a una persona cinque volte più vecchia di lui, eppure quando metterà piede in paese sarà pur sempre un ragazzo di undici anni.
Non voglio veder arrivare nessun Alvin di undici anni. Sicuramente mi cercherà. Sa chi sono, anche se l’ultima volta che mi ha vista aveva solo due settimane. Sa che ho visto il suo futuro in quella buia giornata di pioggia in cui è venuto al mondo, e per questo motivo verrà da me e mi dirà: «Peggy, so che sei una fiaccola, e so che hai scritto nel libro di Scambiastorie che sono destinato a diventare un Creatore. Perciò spiegami di che si tratta». Peggy sapeva esattamente che cosa lui le avrebbe detto, e tutte le maniere in cui avrebbe potuto scegliere di dirlo… Non l’aveva visto cento volte, mille volte? E lei gliel’avrebbe spiegato, e lui sarebbe diventato un grand’uomo, un vero Creatore, e…
E poi, un bel giorno, quando lui sarà un bel giovane di ventun’anni e io un’acida zitella di ventisei, si sentirà così grato nei miei confronti, così obbligato, che chiederà la mia mano quasi fosse un dovere cui è impossibile sfuggire. E io, dopo essere stata perdutamente innamorata di lui per tutti questi anni, con la testa piena di sogni a proposito di ciò che egli avrebbe fatto e di ciò che noi avremmo potuto fare insieme, gli risponderò di sì, e lo caricherò del peso di una moglie che lui preferirebbe non aver sposato, e per tutto il tempo che trascorreremo insieme il suo sguardo non farà che cercare avidamente altre donne…
Peggy avrebbe voluto — oh, con quanto ardore — non sapere con certezza che le cose sarebbero andate così. Ma Peggy era una fiaccola fino al midollo, la fiaccola più potente di cui si fosse mai udito parlare, più potente ancora di quanto gli abitanti di Hatrack River avessero mai immaginato.
Si tirò a sedere sul letto e non gettò via la scatola, non la nascose, non la frantumò e nemmeno la seppellì. Invece la aprì. All’interno c’era l’ultimo frammento del cappuccio di Alvin, risecchito e bianco come un pezzo di carta in un focolare spento. Undici anni prima, quando la mamma di Peggy aveva aiutato il piccolo Alvin a uscire dal pozzo della vita, e Alvin aveva cercato per la prima volta di respirare nell’aria umida della locanda di papà Guester mentre a poca distanza rumoreggiava il fiume Hatrack in piena, Peggy aveva staccato quella membrana sottile e sanguinolenta dal viso del piccolo in modo che questi potesse respirare. Alvin, settimo figlio maschio di un settimo figlio maschio, e ultimo nato di tredici fratelli e sorelle… Peggy capì sull’istante quali sarebbero stati i sentieri della sua vita. Alla morte, ecco a che cosa andava incontro, alla morte in cento possibili disgrazie, in un mondo che sembrava fermamente deciso a ucciderlo prima ancora che potesse veramente dirsi vivo.
All’epoca lei era soltanto la piccola Peggy, una bambina di cinque anni, ma già da due anni sapeva di essere una fiaccola, e in quei due anni non aveva mai visto un neonato con tanti sentieri che conducessero alla morte. Peggy li aveva esplorati tutti, e di tutti ne aveva trovato uno solo, seguendo il quale quel bambino sarebbe potuto diventare uomo.
Ciò sarebbe avvenuto se lei avesse conservato quel cappuccio, sorvegliando da lontano il piccolo Alvin. In tal modo, ogni volta che la morte si fosse protesa verso di lui, Peggy avrebbe potuto prendere un frammento del cappuccio e l’avrebbe sbriciolato tra le dita, sussurrando ciò che doveva accadere, immaginandolo nella propria mente. Così sarebbe successo esattamente ciò che lei desiderava. E infatti, così era avvenuto. Non gli aveva forse impedito di annegare o di scivolare giù dal tetto? Non l’aveva salvato da un bisonte infuriato? Una volta Peggy aveva persino troncato di netto una grossa trave che cadendo da quindici metri d’altezza stava per schiacciarlo sul pavimento di una chiesa in costruzione; aveva spaccato quella trave proprio nel mezzo, così che metà gli era caduta da una parte, metà dall’altra, lasciando giusto lo spazio perché lui potesse restare in piedi. E cento altre volte, quando aveva agito così accortamente che nessuno avrebbe potuto immaginare che gli aveva salvato la vita, anche allora l’aveva protetto usando il cappuccio.
Qual era il segreto? Peggy ne aveva una vaghissima idea. Sapeva soltanto che in realtà sfruttava i poteri dello stesso Alvin, lo straordinario dono con cui questi era nato. Nel corso degli anni, anche lui aveva imparato qualcosa riguardo al proprio talento per fare le cose e dar loro una forma e tenerle insieme e separarle. Finalmente, nel corso dell’ultimo anno, trascinato a forza nella guerra tra Rossi e Bianchi, aveva cominciato a proteggersi da solo, per cui a Peggy era rimasto ben poco da fare. Una bella fortuna. Di quel cappuccio infatti non era rimasto granché.
Peggy richiuse il coperchio. Non voglio vederlo, pensò. Non voglio sapere più niente di lui.
Ma le sue stesse dita tornarono ad aprire la scatola, perché lei doveva sapere. Aveva trascorso metà della sua esistenza, o almeno così le pareva, a toccare quel cappuccio e a cercare la sua fiamma vitale laggiù a nordovest, nella lontana città di Vigor Church, a sincerarsi che Alvin stesse bene, a frugare i sentieri del suo futuro in cerca dei pericoli che vi si potevano celare. E quando era sicura che stesse bene, guardava innanzi, e lo vedeva giungere un giorno nella cittadina di Hatrack, nello stesso luogo in cui era venuto al mondo, lo vedeva tornare, guardarla negli occhi e dire: «Sei stata tu a salvarmi tutte quelle volte, tu a capire che ero un Creatore molto prima che chiunque altro potesse immaginare una cosa del genere». E poi lo vedeva penetrare i segreti più profondi del suo potere, l’opera che lo attendeva, la Città di Cristallo che doveva edificare; lo vedeva generare dei figli insieme a lei, e lo vedeva carezzare i bambini che ella stringeva al seno; vedeva quelli che insieme avrebbero seppellito e quelli che avrebbero continuato a vivere; e in ultimo vedeva…
Le lacrime le rigarono il volto. Non voglio saperlo, disse. Non voglio conoscere tutte le strade del futuro. Le altre ragazze della mia età sognano soltanto l’amore e le gioie del matrimonio, sognano di partorire bambini sani e robusti; ma tutti i miei sogni contengono anche morte, e dolore, e paura, perché i miei sogni sono veri, io so più di quanto sia concesso a un essere umano che voglia nutrire in cuor suo un filo di speranza.
Eppure Peggy sperava. Sissignori potete starne certi… Restava aggrappata a una sorta di disperata speranza, perché, pur sapendo che cosa l’attendeva sui sentieri della vita, ogni tanto coglieva un rapido barlume, una radiosa visione di certi giorni, di certe ore, di certi fuggevoli momenti di gioia così travolgente che per provarla valeva anche la pena di soffrire.
Il fatto è che, nell’ampio panorama del futuro di Alvin, quei barlumi erano così rari e fuggevoli che Peggy non riusciva a trovare una strada per arrivarci. Tutti i sentieri che riusciva a trovare con facilità, quelli più evidenti, quelli che avevano più probabilità di realizzarsi, conducevano immancabilmente al giorno in cui Alvin l’avrebbe sposata senza amarla, solo per gratitudine e senso del dovere: un matrimonio infelice. Come nella storia biblica di Lea, detestata dal bellissimo marito Giacobbe anche se lei lo amava teneramente e gli partoriva più figli delle altre mogli e si sarebbe fatta ammazzare per lui se solo Giacobbe glielo avesse domandato.
Dio ha proprio reso un bel servizio a noi donne, pensò Peggy, facendoci desiderare con tutte noi stesse un marito e dei figli: il che ci condanna poi a una vita di sacrifici, patimenti e sofferenze. Possibile che Eva avesse commesso un peccato così grande da far sì che Dio gettasse su tutte le donne quella terribile maledizione? «Tu partorirai con dolore» aveva detto Dio, onnipotente e misericordioso. «Ti sentirai attratta verso tuo marito con ardore, ed egli dominerà su di te.»
Ecco che cosa le bruciava dentro… un ardore appassionato verso suo marito. Anche se questi era soltanto un ragazzino di undici anni che non andava in cerca di una moglie, bensì di un maestro. Può darsi che sia solo un ragazzo, pensò Peggy, ma io sono una donna, e ho visto l’uomo che egli diventerà, e spasimerò per lui. Si portò una mano al seno; era grande e morbido, eppure in qualche modo ancora fuori posto sul suo corpo che, fino a poco tempo prima, era tutto angoli e spigoli come una baracca di assi, e ora si stava arrotondando come il vitello messo a ingrassare in attesa del figliol prodigo.
Peggy rabbrividì, pensando a ciò che era accaduto al vitello grasso, e ancora una volta toccò il cappuccio e guardò.
Nella lontana cittadina di Vigor Church, il giovane Alvin stava facendo colazione per l’ultima volta alla tavola dei suoi genitori. Lo zaino che avrebbe dovuto portarsi dietro nel suo viaggio verso il fiume Hatrack giaceva sul pavimento accanto alla sedia. Il volto di sua madre era rigato di lacrime che ella non cercava di nasconderle. Il ragazzo amava sua madre, ma non provava il minimo dispiacere all’idea di andarsene. La sua casa e il suo paese erano diventati luoghi tristi e cupi, macchiati di troppo sangue innocente perché un ragazzo potesse desiderare di restarvi. Non vedeva l’ora di andarsene, d’incominciare una nuova vita come apprendista del fabbro di Hatrack River, e di trovare la giovane fiaccola che gli aveva salvato la vita quando era venuto al mondo. Non avrebbe potuto inghiottire un solo boccone in più. Allontanò la sedia dal tavolo, si alzò, baciò la madre…
Peggy lasciò andare il cappuccio e chiuse il coperchio della scatola con la stessa sveltezza che avrebbe impiegato nel tentativo di chiudervi dentro una mosca.
Viene a cercare me. Viene per incominciare una vita di patimenti insieme a me. Su, Faith Miller, sciogliti in lacrime, ma non perché il tuo piccolo Alvin stia per iniziare il suo viaggio verso est. Piangi per me, per la donna che vedrà la sua vita rovinata dal tuo bambino. Versa le tue lacrime per il dolore solitario di un’altra donna.
Peggy rabbrividì, si scosse di dosso la tetraggine di quell’alba grigiastra e si vestì in fretta e furia, chinando la testa per evitare le lunghe travi inclinate del tetto. Nel corso degli anni, aveva imparato vari trucchi per scacciare dalla propria mente il pensiero di Alvin Miller Junior, almeno per il tempo sufficiente a fare il suo dovere di figlia in casa dei genitori, o per svolgere i suoi servizi di fiaccola a beneficio della gente dei dintorni. Se voleva, poteva trascorrere ore intere senza pensare a quel ragazzo. E, sebbene adesso fosse più difficile, poiché sapeva che proprio quel mattino Alvin stava per intraprendere il cammino che l’avrebbe condotto sino a lei, riuscì ugualmente a mettere da parte ogni pensiero che lo riguardasse.
Peggy aprì le tende e si mise a sedere davanti alla finestra, con i gomiti appoggiati al davanzale. Spinse lo sguardo oltre la foresta che dalla locanda ancora si estendeva verso meridione fino ai fiumi Hatrack e Hio, interrotta solo da qualche rado allevamento di maiali. L’Hio non poteva vederlo, si capisce, a tante miglia di distanza, nemmeno in quella limpida, fresca aria primaverile. Ma ciò che i suoi occhi non riuscivano a vedere, la fiaccola che era in lei poteva scorgerlo con facilità. Per vedere l’Hio, non doveva far altro che andare in cerca della fiamma vitale di qualcuno che si trovasse laggiù, entrarvi a sua volta, e guardare attraverso gli occhi dell’ospite proprio come se anche lei si trovasse sul posto. E una volta laggiù, una volta impadronitasi della fiamma vitale di un altro, poteva scorgere anche altre cose, non solo ciò che quella persona vedeva con gli occhi, ma addirittura ciò che pensava, provava e desiderava. E non solo, perché, guizzanti nelle parti più luminose della fiamma, spesso coperti dal fragore dei pensieri e dei desideri, poteva individuare i sentieri che le si aprivano davanti, le decisioni che avrebbe dovuto prendere, la vita che avrebbe fatto se avesse scelto questo o quest’altro o quest’altro ancora nelle ore e nei giorni che l’attendevano.
Peggy poteva scorgere tante cose nella fiamma vitale degli altri che a malapena poteva dire di conoscere la propria.
Alle volte si vedeva come il mozzo che stava di vedetta in cima all’albero maestro di una nave. Non che in vita sua avesse mai visto una nave, a parte le chiatte che percorrevano l’Hio, e una volta un battello sul canale Irrakwa. Però aveva letto dei libri, tutti quelli che era riuscita a farsi portare dal dottor Whitley Physicker quando quest’ultimo si recava a Dekane. Era così che aveva imparato che cosa significasse starsene da soli di vedetta sull’albero maestro. Bisognava stare aggrappati alle sartie, con le braccia infilate in un viluppo di cordame per non cadere nel caso di un beccheggio improvviso o di una raffica di vento inaspettata; gelati fino al midollo d’inverno, scorticati dal sole d’estate; e nient’altro da fare tutto il giorno, nelle lunghe ore del turno di guardia, che scrutare la superficie vuota e azzurra dell’oceano. Se navigava su una nave pirata, la vedetta doveva individuare le vele di possibili prede; se si trovava su una baleniera, cercava schizzi di spuma e sbuffi di vapore. Nella maggior parte dei casi, segnalava solo l’apparire della terraferma, di scogli affioranti, di barre di sabbia nascoste oppure di pirati, o di nemici giurati della sua bandiera.
Per lo più non vedeva assolutamente nulla, solo onde e nubi vaporose e le evoluzioni degli uccelli marini.
Sono sulla coffa dell’albero maestro, pensò Peggy. Mi hanno spedita quassù sedici anni fa, il giorno in cui sono venuta al mondo, e quassù sono rimasta, non mi hanno fatta scendere nemmeno una volta, non mi hanno mai permesso di riposare in una delle anguste cuccette del ponte inferiore, o anche soltanto di chiudermi sopra la testa il portello di un boccaporto, e una porta dietro le spalle. Sempre e solo di vedetta, a scrutare vicino e lontano. E siccome non è con gli occhi che guardo, non mi è consentito di chiuderli, nemmeno nel sonno.
Non c’era modo di sfuggire. Seduta nella sua soffitta, poteva vedere senza nemmeno provarci.
Sua madre, nota agli altri con il nome di Vecchia Peg Guester, nota a se stessa con il nome di Margaret, si trovava in cucina a preparare la cena per una folla di ospiti in arrivo. Fra l’altro non è che abbia un particolare dono per la cucina, per cui quell’attività le costa fatica; non è come per Gertie Smith, che riesce a fare in modo che lo stesso maiale salato acquisti cento sapori diversi in cento diverse occasioni. Il dono di Peg Guester è per le faccende donnesche, per l’assistenza al parto e i talismani domestici, ma perché una locanda faccia buoni affari ci vuole buon cibo e, ora che il nonno se n’è andato, cucinare tocca a lei, così pensa solo alla cucina e non tollera interruzioni, soprattutto da parte di sua figlia che ciondola per casa senza quasi aprir bocca, e in generale è la persona più sgradevole e irritante che si possa immaginare anche se all’inizio era così dolce e piena di promesse, tutto nella vita per qualche motivo finisce col guastarsi…
Ah, una vera soddisfazione sapere che cosa pensa tua madre di te. Aveva poca importanza che Peggy fosse anche consapevole della selvaggia devozione che sua madre nutrisse per lei. Sapere che nel cuore di tua madre alberga una parte d’amore non cancella minimamente la pena di sapere che al tempo stesso ti detesta.
E poi c’era papà, noto agli altri come Horace Guester, padrone della locanda sul fiume Hatrack. Un vero compagnone, che in quel preciso istante si trovava in cortile a raccontare qualcuno dei suoi aneddoti a un ospite che apparentemente aveva qualche difficoltà ad allontanarsi dalla locanda. Lui e papà sembravano trovare argomenti sempre nuovi di conversazione, e ah, sì, quell’ospite, un avvocato ambulante proveniente dai dintorni di Cleveland, era convinto che Horace Guester fosse il cittadino più amabile e onesto che egli avesse mai conosciuto, se tutti avessero il cuore del vecchio Horace non ci sarebbero più delitti, giudici o avvocati in tutta la regione dell’alto Hio. Tutti la pensavano così. Tutti apprezzavano il vecchio Horace Guester.
Ma sua figlia Peggy, la fiaccola, vedeva nella sua fiamma vitale e sapeva quel che egli provava. Horace Guester guardava i sorrisi della gente e si diceva: se mi conoscessero per quello che sono, sputerebbero nella polvere ai miei piedi, se ne andrebbero e dimenticherebbero di aver mai visto la mia faccia e di aver mai conosciuto il mio nome.
Seduta nella sua soffitta, Peggy osservava le fiamme vitali di tutte quelle persone. In primo luogo, quelle dei suoi genitori, perché li conosceva meglio degli altri; poi quelle degli ospiti alloggiati alla locanda; infine quelle degli abitanti della cittadina.
Makepeace Smith e sua moglie Gertie e quei loro tre mocciosi che quando non vomitavano o non se la facevano addosso combinavano malefatte in continuazione… Peggy scorgeva il piacere provato da Makepeace nel foggiare il ferro, l’odio che nutriva verso i suoi stessi figli, la delusione per aver assistito alla trasformazione della moglie che, da una irraggiungibile, affascinante visione di bellezza, era diventata una megera dai capelli arruffati che prima strillava ai suoi figli e poi usava la stessa voce per rimbrottare Makepeace.
Pauley Wiseman, lo sceriffo, il cui massimo divertimento consisteva nel mettere paura agli altri; Whitley Physicker, infuriato con se stesso perché le sue cure funzionavano una volta sì e una no, e ogni settimana vedeva morire qualcuno senza poterci fare assolutamente nulla. Nuovi arrivati, vecchi residenti, contadini, professionisti e artigiani: Peggy vedeva con i loro occhi e nei loro cuori. Vedeva i letti coniugali che la notte restavano freddi, e gli adulteri segretamente celati in cuori colpevoli. Vedeva i furti commessi da impiegati, amici e servitori fidati, e il nobile cuore che batteva in petto a persone disprezzate e guardate dall’alto in basso.
Vedeva tutto, e non diceva nulla. Teneva la bocca chiusa. Non parlava con nessuno. Perché non aveva nessuna intenzione di mentire. Anni prima aveva promesso di non mentire mai, e l’unico sistema per mantenere la sua promessa era stato quello di tacere.
Gli altri non avevano il suo problema. Potevano parlare e dire la verità. Ma Peggy no. Li conosceva troppo bene. Era al corrente delle loro paure, dei loro desideri, delle cose che avevano fatto e per le quali non avrebbero esitato a ucciderla o a uccidersi se solo avessero sospettato che lei sapeva. Persino coloro che non avevano mai fatto nulla di male in vita loro si sarebbero vergognati a morte nell’apprendere che Peggy conosceva i loro sogni segreti o le loro private follie. Perciò con gli altri non poteva mai parlare con franchezza, o qualcosa le sarebbe sfuggito, forse nemmeno una parola, magari avrebbe potuto essere il modo in cui chinava la testa o evitava certi argomenti, e avrebbero saputo che lei sapeva, o anche solo temuto che sapesse, o semplicemente temuto. Quella sola paura senza nome avrebbe potuto distruggerli: se non tutti, certamente i più deboli.
Peggy se ne stava continuamente di vedetta, sola in cima all’albero maestro, aggrappata alle sartie, e vedeva più di quanto avrebbe mai voluto vedere, senza mai un istante per se stessa.
Quando non si trattava di un bambino che stava per venire al mondo, e in tal caso la chiamavano per scrutare nel suo futuro, allora sicuramente da qualche parte c’era qualcuno che aveva bisogno del suo aiuto. Dormire non le serviva a niente. Non riusciva mai a fare tutto un sonno. Una parte di lei stava sempre di vedetta, e a un certo punto vedeva ardere la fiamma, la vedeva lampeggiare.
Come in quel momento. In quel preciso istante, mentre guardava dalla finestra, la vide. Una fiamma vitale che ardeva in lontananza.
D’un balzo si avvicinò. Non con il corpo, si capisce; la sua carne rimase nella soffitta. Ma, essendo una fiaccola, sapeva come guardare da vicino una fiamma vitale lontana.
Era una giovane donna. No, una ragazza, ancor più giovane di lei. E strana dentro, cosicché Peggy capì immediatamente che quella bambina all’inizio aveva parlato una lingua che non era l’inglese, anche se adesso parlava e pensava in inglese. Questo rendeva i suoi pensieri bizzarri e contorti. Eppure certe cose penetrano più a fondo delle tracce lasciate dalle parole nel cervello; la piccola Peggy non ebbe bisogno di aiuto per vedere che la ragazza stringeva tra le braccia un bambino, né per comprendere, dal modo in cui se ne stava sulla sponda del fiume, che la ragazza era sicura di dover morire, né per scorgere quali orrori l’avrebbero attesa alla piantagione, né che cosa aveva fatto per fuggire.
Guarda lassù il sole, tre dita sopra gli alberi. Ecco la piccola schiava nera fuggiasca e il suo bastardino mezzo Nero e mezzo Bianco, eccoli in piedi sulla sponda dell’Hio, seminascosti tra gli alberi e i cespugli, a guardare i Bianchi che guidano le chiatte sul filo della corrente con le loro lunghe pertiche. La ragazza ha paura, sa che i cani non possono trovarla, ma ben presto ricorreranno al Cacciatore di schiavi fuggiaschi, molto più pericoloso dei cani, e come farà lei ad attraversare il fiume con il bambino?
Per un istante la piccola fuggiasca pensa una cosa terribile: lascio qui il bambino, lo nascondo in questo tronco marcio, rubo la barca e poi torno qui. In questo modo possiamo cavarcela, sicuro.
Ma poi la ragazzina nera cui nessuno ha mai insegnato a fare la mamma capisce che una brava mamma non può abbandonare un bambino che ancora deve poppare tante volte al giorno quante sono le dita di due mani. E mormora tra sé: una brava mamma non lascia il suo bambino dove la volpe, la faina o il procione possono mangiarselo un pezzetto alla volta e farlo morire. No davvero, questo no.
Così si siede, stringendo il bambino, e guarda scorrere il fiume: avrebbe anche potuto essere il mare, visto che non sarebbe mai arrivata dall’altra parte.
Forse qualche Bianco può aiutarla? Lì nel territorio degli Appalachi, quelli che aiutano gli schiavi a fuggire, i Bianchi l’impiccano. Ma la schiavetta fuggiasca, quand’era alla piantagione, ha sentito raccontare molte storie a proposito di alcuni Bianchi che dicono che nessuno dovrebbe appartenere a un’altra persona, che la ragazza nera dovrebbe avere gli stessi diritti della signora bianca, la quale dice di no a tutti gli uomini che non sono il suo vero marito. Quei Bianchi affermano che una ragazza nera ha il diritto di tenere il suo bambino, e non è giusto che Padrone Bianco voglia venderlo il giorno stesso in cui sarà svezzato, e farlo diventare così uno schiavo domestico nel Drydenshire, pronto a baciare i piedi dei Bianchi al loro minimo cenno.
«Ah, il tuo bambino è così fortunato», dicono tutti alla piccola schiava nera. «Crescerà nella bella casa di qualche signore nelle Colonie della Corona, dove hanno ancora il re… Pensa, un giorno potrebbe addirittura vederlo!»
Lei non dice nulla, ma dentro di sé ride. A lei l’idea di vedere un re non fa né caldo né freddo. Anche suo padre in Africa era un re, e loro l’hanno ammazzato a fucilate. Quei mercanti di schiavi portoghesi le hanno fatto vedere che cosa vuol dire essere un re; vuol dire morire in fretta come chiunque altro, e versare sangue rosso come chiunque altro, e gridare di dolore e di paura… Ah, proprio una bella cosa essere un re, proprio una bella cosa vedere un re. Possibile che i Bianchi credano a questa bugia?
Io non ci credo. Dico di crederci, ma non è vero. Non lascerò mai che mi portino via il mio bambino. Suo nonno era un re, e io glielo racconterò tutti i giorni finché non diventerà grande. E quando sarà un re, grande e forte, nessuno potrà picchiarlo con un bastone o lui gliele restituirà, e nessuno potrà prenderla, questa donna, allargarle le gambe come a un maiale e cacciarle dentro questo bambino mezzo Bianco senza che lui possa fare niente, solo starsene lì a piangere nella sua capanna. Nossignora, nossignore.
Così lei decide di fare una cosa brutta, malvagia, cattiva, proibita. Ruba due candele e le ammorbidisce accanto al fuoco. Le lavora come pasta da pane, dopo che il bambino ha poppato ci mette il latte delle sue mammelle, e poi ci lavora dentro anche un po’ di saliva, quindi stira quella pasta e la modella con le dita e la fa rotolare nella cenere finché non vede una bambola fatta come una piccola schiava nera. Proprio uguale a lei.
Allora nasconde la bambola a forma di schiavetta nera e va da Volpe Grassa e lo prega di darle le penne di quel grosso corvo che ha appena catturato.
«La schiavetta nera non ha bisogno di penne» dice Volpe Grassa.
«Voglio fare un feticcio per il mio bambino» gli spiega.
Volpe Grassa ride, sa che è una bugia. «Non esistono feticci con le penne nere. Non ho mai sentito parlare di una cosa del genere.»
Ma la schiavetta nera ribatte: «Il mio papà era re di Umbawana. Io conosco molti segreti».
Volpe Grassa scuote la testa, ride, ride. «E che ne sai, tu? Non sai neanche parlare inglese. Ti darò tutte le penne di corvo che vuoi, ma non appena quel bambino smette di poppare tu vieni da me, e io te ne farò avere un altro, stavolta tutto nero.»
Lei odia Volpe Grassa quasi come Padrone Bianco, ma Volpe Grassa ha le penne di corvo, e lei dice: «Sissignore».
Riempie due mani di penne. Ride dentro di sé. Piuttosto che lasciarsi mettere incinta da Volpe Grassa si farebbe ammazzare.
Copre la bambola di piume finché non è diventata un uccello a forma di ragazza. È molto potente, questa cosa che ha dentro il suo latte e la sua saliva, coperta di penne di corvo. È molto potente, così potente che alla fine la uccide, ma il mio bambino, il mio bambino non bacerà mai i piedi di Padrone Bianco. Nessun Padrone Bianco alzerà mai la frusta su di lui.
La notte è buia, la luna ancora non è spuntata. Lei esce di soppiatto dalla capanna. Il bambino è attaccato alla poppa, così non fa rumore. Lei si lega il bambino al seno in modo che non cada. Butta la bambola sul fuoco. La bambola brucia, brucia, brucia, e ne scaturisce tutto il potere delle penne. Lei sente il fuoco riversarsi in lei. Schiude le ali — oh, quanto sono grandi — le allarga, comincia a batterle come ha visto fare a quel vecchio corvo. Si solleva in aria, su nel buio della notte, si solleva e vola, vola a Nord, il più lontano possibile, e quando spunta la luna lei la tiene alla propria destra in modo che questo bambino possa atterrare dove i Bianchi dicono che la ragazza nera non è più schiava, che il bambino mezzo Bianco non sarà mai schiavo.
Giunge il mattino e si alza il sole e lei non vola più. Ah, è come morire, come morire pensa, trascinando i piedi per terra. Ora sa che quell’uccello con l’ala spezzata ha pregato perché Volpe Grassa lo trovasse. Dopo aver volato camminare è così triste, ti fa tanto male, è come essere alla catena, sentire la polvere sotto i piedi.
Però lei cammina col suo bambino tutta la mattina e adesso è arrivata a questo grande fiume. Devo arrivare fin qui, dice la schiavetta fuggiasca, volo fin qui, attraverso il fiume. Ma poi spunta il sole e io scendo a terra prima del fiume. Ora non potrò mai attraversarlo, il Cacciatore di schiavi mi troverà, mi frusterà lasciandomi mezza morta, si porterà via il mio bambino, lo venderà al Sud.
Ma io no. Io li giocherò. Morirò prima.
No, morirò seconda.
Alcuni avrebbero potuto discutere amabilmente se la schiavitù fosse un peccato mortale o solo una curiosa usanza. Altri avrebbero potuto obiettare che, quantunque la schiavitù fosse una pessima cosa, gli Emancipazionisti erano troppo pazzi perché uno potesse condividere le loro idee. Altri ancora avrebbero potuto guardare pietosamente i Neri e rammaricarsi per la loro condizione, ma al tempo stesso sentirsi sollevati all’idea che si trovassero soprattutto in Africa o nelle Colonie della Corona o in Canada o in qualche altro luogo comunque lontano di lì. Peggy non poteva permettersi il lusso di avere opinioni sull’argomento. Tutto ciò che sapeva era che nessuna fiamma vitale soffriva tanto quanto l’anima di un Nero che viveva all’ombra nera e sottile della frusta.
Peggy si sporse dalla finestra della soffitta e chiamò: «Papà!»
Suo padre uscì dal cortile davanti all’edificio e fece qualche passo sulla strada, da dove poteva vedere la finestra della figlia. «Mi hai chiamato, Peggy?»
Lei si limitò a guardarlo senza dire niente, e suo padre non ebbe bisogno di altri segnali. Si accomiatò dall’ospite con tanta premura che il poveretto si ritrovò in mezzo alla strada senza rendersi conto di quel che gli era successo. Nel frattempo, Horace Guester era rientrato in casa salendo al piano di sopra.
«Una ragazza con un bambino» gli disse Peggy. «Sull’altra sponda dell’Hio. È terrorizzata, e se la scoprono pensa di uccidersi.»
«A che punto dell’Hio?»
«Immediatamente a valle della confluenza con l’Hatrack, per quanto ne posso capire. Papà, vengo con te.»
«Neanche per idea.»
«Sì, invece. Non riusciresti mai a trovarla, neanche se ti facessi aiutare da altri dieci come te. Lei ha troppa paura dei Bianchi, e non a torto.»
Suo padre la guardò, incerto sul da farsi. Prima d’allora non le aveva mai permesso di accompagnarlo, ma di solito gli schiavi fuggiaschi erano uomini. E poi, di solito, Peggy li trovava su questa sponda dell’Hio, persi e spaventati, per cui c’erano meno pericoli. Oltrepassare il confine con gli Appalachi ed essere sorpresi ad aiutare uno schiavo fuggiasco significava la prigione. Oppure una corda gettata sul ramo di un albero. A sud dell’Hio gli Emancipazionisti non avevano vita facile, soprattutto quelli di loro che aiutavano uomini, donne e bambini neri a scappare in territorio francese, su nel Canada.
«Dall’altra parte del fiume è troppo pericoloso» ribatté.
«Una ragione in più per portarmi con te. Per trovarla, e per evitare brutti incontri.»
«Tua madre mi ammazzerebbe, se sapesse che ti porto con me.»
«Allora esco per prima, passando dal retro.»
«Dille che vai a trovare la signora Smith…»
«Non le dirò proprio nulla, papà, o sarei costretta a dirle la verità.»
«Allora io resterò quassù e pregherò il buon Dio perché mi salvi la pelle facendo in modo che tua madre non si accorga di te. Ci troviamo alla confluenza fra l’Hatrack e l’Hio subito dopo il tramonto.»
«Non potremmo…»
«No, nemmeno un istante prima» disse lui. «Non possiamo attraversare il fiume prima che faccia buio. Se la prendono, o se muore prima che noi arriviamo laggiù, vorrà dire che era destino, perché non possiamo attraversare l’Hio finché c’è luce, su questo puoi scommetterci la testa.»
Ci sono rumori nella foresta. La schiavetta nera impaurita sta molto male. Gli alberi l’afferrano, le civette gridano per avvertire gl’inseguitori, il fiume non fa altro che ridere. Lei non può muoversi, perché se cadesse nel buio farebbe del male al bambino. Ma nemmeno può restare lì, perché la troverebbero di sicuro. Volare non inganna i Cacciatori di schiavi, quelli guardano lontano e possono vederla anche a grande distanza.
Ed ecco, sente un passo. Oh, Signore Iddio Gesù, proteggimi da questo diavolo nel buio.
Un altro passo: qualcuno che respira, e muove le frasche. Ma niente lanterna! Chiunque si avvicini, ci vede anche al buio! Oh, Signore Iddio Mosè mio salvatore Abramo!
«Ragazza.»
Una voce, sento una voce, non riesco a respirare. E tu puoi sentirla, bambino mio? O è un sogno? Questa voce è di donna, è una voce gentile di donna. Il diavolo non parla con voce di donna, lo sanno tutti, non è vero?
«Ragazza, sono venuta per portarti dall’altra parte del fiume e per aiutare te e il tuo bambino ad andare al Nord dove potrete essere liberi.»
Non trovo più parole, né parole da schiavi né parole nella lingua Umbawa, pensa la schiavetta fuggiasca. Possibile che indossare quelle piume mi abbia resa incapace di parlare?
«Abbiamo una solida barca a remi e due uomini robusti per manovrarla. So che mi capisci, che hai fiducia in me e che vuoi venire con me. Perciò sta’ ferma, ragazza, dammi la mano, ecco, ecco la mia mano, non devi dire una sola parola, basta che tu mi tenga per mano. Ci sono dei Bianchi, ma sono miei amici e non ti toccheranno. Nessuno ti toccherà tranne me, puoi starne certa, ragazza, puoi starne proprio certa.»
La sua mano tocca la mia pelle, fresca e delicata come questa voce di donna. Quest’angelo di donna, questa Santa Vergine Madre di Dio.
Molti passi, passi pesanti, e poi lanterne e luci e uomini bianchi grandi e grossi, ma questa donna continua a tenermi per mano.
«È spaventata a morte.»
«Guardala, poveretta, quant’è magra.»
«Quanti giorni saranno che non mangia?»
«Ha lasciato la piantagione ieri sera» dice la Signora.
Com’è possibile che la signora bianca sappia tutte queste cose? Sa tutto, Eva madre di tutti i bambini. Non c’è tempo di parlare, non c’è tempo di pregare, muoversi in fretta, appoggiarsi a questa signora bianca, camminare e camminare e camminare fino alla barca che li attende nell’acqua proprio come un sogno, oh! Ecco la barca, bambino mio, la barca che ci porterà di là dal Giordano nella Terra Promessa. Erano a metà traversata quando la ragazzina nera cominciò a tremare, a piangere e a farfugliare parole senza senso.
«Falla star zitta» disse Horace Guester.
«Qui intorno non c’è nessuno» rispose Peggy. «Nessuno che possa sentirla.»
«Che cosa sta farneticando?» chiese Po Doggly. Po era un allevatore di maiali che viveva sull’ultimo tratto del fiume Hatrack, e per un istante Peggy pensò che volesse riferirsi a lei. Ma no, stava parlando della ragazzina nera.
«Si esprime nella sua lingua africana, credo» spiegò Peggy. «È veramente straordinario, il modo in cui è riuscita a scappare.»
«Con il neonato e tutto» convenne Po.
«Ah, il neonato» esclamò Peggy. «Devo prenderlo io.»
«E perché?» chiese suo padre.
«Perché a voi due toccherà portare lei» disse Peggy. «Almeno dalla riva al carro. Questa bambina non è in grado di fare un solo passo in più.»
Quando arrivarono a riva, fecero come Peggy aveva detto. Il vecchio carro di Po Doggly non era certo una meraviglia — per tutta imbottitura aveva una vecchia coperta da cavalli — ma loro vi fecero stendere sopra la ragazza: se stava scomoda non lo diede a vedere. Horace sollevò la lanterna per guardarla. «Hai proprio ragione, Peggy.»
«A proposito di che cosa?» chiese lei.
«A chiamarla bambina. Giuro che non avrà più di tredici anni. Lo giuro. E con un neonato. Sei certa che sia suo?»
«Ne sono certa» disse Peggy.
Po Doggly ridacchiò. «Ma sì, sapete come sono questi tizzoni, proprio come i conigli, non appena sono in età di farlo si buttano a capofitto.» Poi si ricordò che c’era anche Peggy. «Chiedo scusa, signorina. Fino a stanotte non eravamo mai stati accompagnati da una donna.»
«È a lei che dovete chiedere scusa» disse freddamente Peggy. «Questo bambino è di sangue misto. Il padrone della ragazza glielo ha fatto concepire senza neanche chiederle il permesso. Capite che cosa voglio dire, credo.»
«Non voglio sentirti parlare di queste cose» intervenne Horace Guester. Era fuori di sé. «È già abbastanza che tu sia venuta con noi, senza che ci sia bisogno d’impicciarsi delle faccende di questa povera ragazza. Non è giusto spiattellare così i suoi segreti.»
Peggy tacque, e restò in silenzio finché non giunsero a casa. Quando parlava apertamente andava a finire sempre così, ed era per questo che di solito si chiudeva in un rigoroso riserbo. Ma le sofferenze di quella ragazza le avevano fatto dimenticare tale abitudine e si era lasciata sfuggire qualche parola di troppo. Adesso suo padre stava considerando quante cose Peggy era arrivata a sapere di quella ragazzina nera nel giro di pochi minuti, e certamente si chiedeva quante cose ella conoscesse di lui.
Vuoi sapere che cosa so di te, papà? So perché fai tutto questo. Non sei come Po Doggly, che non ha una grande opinione dei Neri, ma non può sopportare che una creatura selvaggia sia ridotta in cattività. Se aiuta gli schiavi a scappare in Canada, lo fa semplicemente perché dentro di sé ha bisogno di vederli liberi. Invece tu, papà, lo fai per espiare il tuo peccato segreto. Quel grazioso peccatuccio che ti sorrideva come la seduzione in persona, e al quale tu avresti potuto dire di no. Ma non l’hai fatto: hai detto di sì, oh, sì. È successo mentre mamma stava aspettando me, e tu eri a Dekane per acquisti, ci sei rimasto una settimana e hai posseduto quella donna forse dieci volte in sei giorni; ricordo ciascuna di quelle volte con la stessa precisione con cui le ricordi tu, e la notte ti sento sognare di lei. Avvampando di vergogna, ma ancor più di desiderio: so bene quello che prova un uomo quando desidera una donna così violentemente che la pelle gli formicola e non riesce più a star fermo. Da allora, e sono trascorsi tanti anni, odi te stesso per quello che hai fatto, e ancor più ti odi perché quel ricordo ti è caro. Perciò adesso vuoi espiare. Rischi di finire in prigione o di farti impiccare al primo albero, diventando cibo per le cornacchie, e questo non perché ami il tuo prossimo Nero, ma perché speri che, facendo del bene ai figli di Dio, forse potrai liberarti dal tuo amore segreto per il male.
E questa è la cosa buffa, papà. Se tu sapessi che conosco il tuo segreto probabilmente ne moriresti, sì, può darsi che ci rimarresti secco sull’istante. Eppure se potessi dirtelo, se potessi rivelarti quel che so, allora potrei spiegarti anche qualcos’altro, potrei dire: papà, non capisci che proprio questo è il tuo dono? Sei sempre stato convinto di non possedere nessun dono, ma non è affatto così. Hai il dono di far sì che gli altri si sentano amati. Vengono alla tua locanda, e si sentono come a casa propria. Così l’hai vista, quella donna di Dekane, e anche lei aveva fame e sete d’amore, aveva bisogno di sentirsi come tu riesci a far sentire quelli che ti stanno intorno. Ed è difficile, papà, non amare una donna che ti ama con tanta forza, che ti si aggrappa come una nuvola alla luna, sapendo che te ne andrai, che non resterai mai con lei, ma desiderandolo ugualmente con tutta se stessa. Sono andata in cerca di quella donna, sono andata in cerca della sua fiamma vitale, l’ho cercata in lungo e in largo, e alla fine l’ho trovata. So dove abita. Non è più giovane come la ricordi tu. Ma è ancora bella, proprio come te la ricordi, papà. Ed è una brava donna, e tu non le hai fatto alcun male. Ti ricorda con affetto, papà. Sa che Dio l’ha perdonata, come ha perdonato anche te. Sei tu che non vuoi perdonare te stesso, papà.
Che cosa triste, pensò Peggy, mentre tornava a casa sul carro. Papà fa cose che basterebbero a renderlo un eroe agli occhi di qualsiasi figlia. Un grand’uomo. Ma, poiché sono una fiaccola, conosco la verità. Non viene quaggiù come Ettore davanti alle mura di Troia, a rischiare la vita per salvare i suoi concittadini. No, viene quaggiù strisciando come un cane bastonato, perché dentro di sé è un cane bastonato. Scappa per sfuggire a un peccato che il buon Dio gli avrebbe perdonato già da molto tempo, se lui stesso avesse acconsentito a farsi perdonare.
Poco dopo, tuttavia, Peggy pensò che quella tristezza non era soltanto di suo padre, ma anche della maggior parte delle persone che conosceva. La maggior parte delle persone tristi però continuava semplicemente a essere triste, aggrappandosi alla propria sofferenza come all’ultimo barile d’acqua in un periodo di siccità. Un po’ come faceva anche lei, che continuava ad aspettare Alvin pur sapendo benissimo che non le avrebbe recato gioia alcuna.
La bambina che riposava nel retro del carro invece era diversa. Si era trovata di fronte a una terribile sofferenza, stava per perdere suo figlio, eppure non era rimasta lì ad attendere che accadesse per poi piangere e disperarsi. Aveva detto di no. No e basta, non vi permetterò di vendere questo bambino laggiù al Sud, neanche a una famiglia ricca che lo tratti bene. Lo schiavo di un ricco è pur sempre uno schiavo, no? E laggiù al Sud sarebbe stato ancora più lontano, avrebbe avuto ancor meno speranze di scappare per rifugiarsi al Nord. Peggy percepiva questi pensieri agitarsi nella bambina, mentre questa si girava e gemeva in fondo al carro.
Ma c’era di più. Quella bambina aveva compiuto un atto ancor più eroico di quello di suo padre e di Po Doggly. L’unico modo che aveva trovato per fuggire, infatti, era stato attraverso una stregoneria così potente che Peggy non aveva mai sentito parlare di niente del genere. Non avrebbe mai creduto che i Neri possedessero simili segreti. Eppure non era una bugia, e nemmeno un sogno. Quella bambina era volata via. Aveva fabbricato una bambola di cera, l’aveva ricoperta di piume e l’aveva bruciata. Bruciata completamente. E questo le aveva permesso di volare fin laggiù, di volare finché il sole non era sorto all’orizzonte, abbastanza lontano perché Peggy potesse vederla e, insieme a suo padre e a Po Doggly, aiutarla ad attraversare l’Hio. Ma quale prezzo aveva pagato per fuggire!
Quando giunsero alla locanda, sua madre era infuriata come Peggy non l’aveva mai vista in vita sua. «Per una mascalzonata del genere dovrebbero frustarti. Portare una figlia di sedici anni a fare chissà che cosa nel cuore della notte.»
Ma papà non rispose. Non ce ne fu bisogno, una volta che ebbe portato dentro la ragazza e l’ebbe adagiata sul pavimento davanti al camino acceso.
«Ma saranno giorni che non tocca cibo! Settimane!» esclamò mamma. «E a toccarle la fronte c’è da bruciarsi la mano. Portami una catinella d’acqua per bagnarle la fronte, mentre io faccio scaldare un po’ di brodo da farle bere…»
«No, mamma» disse Peggy. «È meglio cercare un po’ di latte per il bambino.»
«Il bambino non morirà, ma questa ragazza rischia grosso. Non vorrai mica spiegarmi il mestiere, questo genere di cose almeno so come curarle…»
«Vedi, mamma» spiegò Peggy ‹‹ lei ha fatto una stregoneria con una bambola di cera. È una stregoneria dei Neri, ma lei è la figlia di un re e non solo sapeva come fare, ma aveva anche la potenza per farlo. Non ignorava, però, quale sarebbe stato il prezzo, e adesso non le resta che pagarlo.»
«Vuoi dire che questa povera ragazza morirà?» chiese mamma.
«Ha fabbricato una bambola simile a lei e l’ha messa sul fuoco. Questo le ha dato le ali per volare una notte intera. Ma il prezzo è ciò che le restava della sua vita.»
Papà sembrava disperato. «Ma, Peggy, questa è follia. A che le sarebbe servito sfuggire alla schiavitù se per farlo doveva morire? Perché non uccidersi, risparmiandosi tanta fatica?»
Peggy non ebbe bisogno di rispondere. Proprio in quel momento il bambino che stringeva tra le braccia si mise a piangere, e tanto bastò.
«Vado a cercare del latte» mormorò papà. «Sicuramente Christian Larsson ne avrà una brocca da venderci, anche a quest’ora di notte.»
Mamma tuttavia lo fermò. «Pensaci su, Horace» disse. «È quasi mezzanotte. Che cosa dirai quando ti chiederanno a che ti serve?»
Horace sospirò, poi rise della propria ingenuità. «Dirò che mi serve per il bambino di una schiavetta fuggiasca.» Subito dopo però il viso gli s’imporporò dalla rabbia. «Questa ragazza ha fatto una vera pazzia» sbottò. «È venuta fin quaggiù sapendo che sarebbe morta, e adesso che cosa pensa che ce ne facciamo del moccioso? Sicuramente non possiamo portarlo al Nord, posarlo di là dal confine canadese e metterci a ululare finché qualche francese non viene a prenderselo.»
«Immagino abbia semplicemente pensato che era meglio morire libera che vivere da schiava» commentò Peggy. «Penso sapesse che qualsiasi vita avrebbe avuto il suo bambino qui da noi sarebbe stata sicuramente migliore di quella che avrebbe trascorso laggiù.»
La ragazza distesa davanti al fuoco respirava piano, a occhi chiusi.
«Dorme, eh?» chiese mamma.
«Non è ancora morta» ribatté Peggy «ma non può più sentire quello che diciamo.»
«E allora ve lo dirò a chiare note: questo è proprio un bel pasticcio» disse mamma. «Non possiamo permettere che la gente sappia che tu aiuti gli schiavi a fuggire da questa parte. La voce si diffonderebbe con tale rapidità che ci ritroveremmo con due dozzine di Cacciatori accampati qui davanti ogni giorno che Dio manda in terra, e prima o poi rimedieresti sicuramente una schioppettata.»
«Be’, non c’è bisogno che la gente lo sappia» replicò papà.
«E che cosa racconterai? Dirai che andando in giro per il bosco sei inciampato sul suo cadavere?»
Peggy avrebbe voluto urlare: ancora non è morta, badate a quel che dite! Ma la verità era che dovevano escogitare qualcosa, e in fretta. Che sarebbe accaduto se uno degli ospiti si fosse svegliato e fosse sceso a vedere? In tal caso non ci sarebbe stato modo di tenere il segreto.
«Quanto tempo le resta?» chiese papà. «Fino al mattino?»
«Prima dell’alba se ne sarà andata, papà.»
Suo padre annuì. «Allora sarà meglio darsi da fare. Della ragazza posso occuparmene io. Voi donne potete pensare al piccolo. Almeno mi auguro che ne siate capaci.»
«Certo che lo siamo: niente di più facile» rimbeccò mamma.
«Be’, io di sicuro non posso occuparmene, per cui tocca a voi.»
«Certo, potrei anche sostenere che è figlio mio.»
Papà non si arrabbiò. Si limitò a sorridere e disse: «La gente non crederebbe a una cosa del genere nemmeno se tuffassimo quel ragazzo nella panna tre volte al giorno».
Poi uscì di casa e si fece aiutare da Po Doggly a scavare la fossa.
«In fondo però non sarebbe una cattiva idea far sapere che il bambino è nato da queste parti» sostenne mamma. «Quella famiglia di Neri che vive vicino alla palude… Ricordi due anni fa, quando un tale ha cercato di dimostrare di essere il loro legittimo proprietario? Come si chiamano, Peggy?»
Peggy li conosceva molto meglio di qualsiasi altro Bianco della regione dell’Hatrack; li sorvegliava come sorvegliava chiunque altro, conosceva loro e i loro figli, sapeva i loro nomi. «Si fanno chiamare Berry» disse. «Come una famiglia di nobili. Si tengono quel nome qualunque sia il mestiere di ciascuno di loro.»
«Perché non potremmo far finta che il bambino sia loro?»
«Sono così poveri, mamma» spiegò Peggy. «Non potrebbero permettersi un’altra bocca da sfamare.»
«Potremmo aiutarli» insistette mamma. «I mezzi non ci mancano.»
«Ma, mamma, pensa un attimo all’idea che se ne farebbe la gente. Improvvisamente i Berry si ritrovano un bambino dalla pelle stranamente chiara: basta guardarlo per capire che è mezzo Bianco. E poi Horace Guester comincia a portare regali a casa dei Berry.»
Mamma arrossì. «Che ne sai tu di queste cose?» domandò.
«Per l’amor del Cielo, mamma, sono una fiaccola. E sai che la gente comincerebbe a chiacchierare, lo sai benissimo.»
La donna guardò la ragazza nera distesa sul pavimento. «Ci hai proprio messo nei guai, bambina.»
Il piccolo cominciò a protestare.
Mamma si alzò avvicinandosi alla finestra, come se avesse potuto scrutare nella notte e scorgere una risposta scritta nel cielo. Poi, a un tratto, si avvicinò alla porta e l’aprì.
«Mamma!» esclamò Peggy.
«C’è più di una maniera per spennare un’oca» la zittì la donna.
Peggy capì subito che cos’aveva pensato sua madre. Se non potevano portare il bambino dai Berry, forse avrebbero potuto tenerlo alla locanda, dicendo che lo facevano proprio per aiutare i Berry, visto che erano così poveri. Se poi i Berry avessero sostenuto quella versione, ciò avrebbe giustificato l’improvvisa comparsa di un piccolo mulatto. Inoltre, visto che a metterselo in casa sarebbe stata la stessa Peg Guester, nessuno avrebbe pensato che il bambino fosse il bastardo di suo marito.
«Sei sicura di renderti conto di quello che vuoi chiedere ai Berry?» la fermò Peggy. «Tutti penseranno che qualcun altro si sia messo ad arare con la vacca del signor Berry.»
Mamma parve così sorpresa che Peggy quasi si mise a ridere. «Non credevo che i Neri badassero a questo genere di cose.»
Peggy scosse la testa. «Mamma, i Berry sono probabilmente i migliori cristiani che ci siano in tutta Hatrack. E non può essere altrimenti, se sono capaci di perdonare i Bianchi per il modo in cui trattano loro e i loro figli.»
Sua madre chiuse la porta appoggiandosi contro il battente. «E come li tratta la gente, i loro figli?»
Era una domanda pertinente, Peggy se ne rese conto, e mamma l’aveva sollevata appena in tempo. Una cosa era guardare quel ranocchietto nero che sgambettava e piangeva e dire: «Mi prenderò cura di questo bambino e gli salverò la vita». Tutt’altra faccenda era vederselo davanti a diciassette anni d’età, un pezzo d’uomo proprio lì in casa loro.
«Non credo proprio che tu debba preoccupartene» mormorò la piccola Peggy. «La prima cosa da decidere è come tu hai intenzione di trattare questo ragazzo. Vuoi crescerlo per farne un servitore, una creatura sottomessa? Se è così, allora sua madre sarà morta per nulla. Avrebbe anche potuto lasciare che lo vendessero in qualche posto al Sud.»
«In questa casa non ho mai voluto schiavi» sbottò sua madre. «E non venirmi a dire che non è vero.»
«E allora? Hai intenzione di trattarlo come un figlio, di proteggerlo contro chiunque possa volergli male, come faresti se avessi avuto un figlio maschio?»
Peggy osservò sua madre riflettere sulla cosa, e a un tratto vide schiudersi nel suo fuoco vitale ogni sorta di nuovi sentieri. Un figlio… Ecco cos’avrebbe potuto essere per lei quel bambino mezzo Bianco. E se qualche vicino l’avesse guardato storto perché non era completamente Bianco, avrebbe dovuto fare i conti con Margaret Guester, sicuro, avrebbe trascorso un bruttissimo quarto d’ora, non avrebbe avuto più paura dell’inferno dopo quello che lei gli avrebbe fatto passare.
In tutti gli anni dacché Peggy scrutava nel cuore di sua madre, non aveva mai visto una determinazione più salda. Era una di quelle occasioni in cui vedeva trasformarsi proprio sotto i suoi occhi, l’intero futuro di una persona. Tutti i vecchi sentieri erano stati più o meno simili; sua madre non aveva mai avuto la possibilità di compiere scelte tali da cambiarle la vita. Ma ora quella ragazza morente aveva mutato ogni cosa. Centinaia di sentieri si erano schiusi, e in ciascuno di essi c’era un bambino debole e indifeso, un bambino che avrebbe avuto bisogno di lei come a sua figlia non era mai accaduto. Malvisto dagli estranei, maltrattato dai ragazzi del villaggio, ogni volta sarebbe corso da lei in cerca di protezione, di spiegazioni, d’incoraggiamento: proprio il genere di cose che Peggy non aveva mai fatto.
È per questo che ti ho sempre delusa, eh, mamma? Perché fin da piccola sapevo tante cose. Avresti voluto che venissi da te, turbata, con le mie domande. Ma io non ti chiedevo mai nulla, mamma, perché conoscevo tutto fin dall’inizio. Dai ricordi che ti portavi dietro, sapevo già cosa significasse essere donna. Senza che tu dovessi dirmi niente, conoscevo già l’amore coniugale. Non ho mai trascorso una notte in lacrime, appoggiata alla tua spalla, piangendo perché il ragazzo che mi piaceva non mi degnava di uno sguardo; nessuno dei ragazzi di queste parti mi è mai piaciuto. Non ho fatto mai nulla di tutto ciò che avevi sognato per la tua bambina, perché ero una fiaccola, e sapevo tutto, e non avevo bisogno di niente di ciò che potevi offrirmi.
Invece questo piccolo mulatto avrà bisogno di te, qualunque dono possa avere. In tutti quei sentieri vedo che, se lo accoglierai e lo crescerai, sarà tuo figlio molto più di me, sebbene il sangue che mi scorre nelle vene sia per metà tuo.
«Figlia» disse mamma «se oltrepasso questa soglia, cosa ne sarà di lui? E di noi?»
«Mi stai chiedendo di vedere per te, mamma?»
«Sì, piccola Peggy, anche se non te l’ho mai chiesto in vita mia, almeno non per me stessa.»
«Allora te lo dirò.» Peggy non aveva certo bisogno di scrutare lontano nei sentieri della vita di sua madre per scoprire quanto piacere avrebbe ricavato da quel ragazzo. «Se lo accogli e lo tratti come un figlio, non avrai mai di che pentirtene.»
«E tuo padre? Lo tratterà bene?»
«Non conosci forse tuo marito?»
Sua madre fece un passo verso di lei stringendo i pugni, anche se non aveva mai levato la mano su Peggy in vita sua. «Non fare l’insolente» disse.
«Ti sto parlando come parlo quando vedo» spiegò Peggy. «Hai chiesto i miei servigi di fiaccola, e io ti parlo da fiaccola.»
«Allora di’ quello che hai da dire.»
«È semplice. Se non sai come tuo marito tratterà questo ragazzo, significa che non lo conosci.»
«Dunque forse non lo conosco» ribatté mamma. «Forse non lo conosco affatto. O forse lo conosco, e voglio che tu mi dica se ho ragione.»
«Hai ragione» la tranquillizzò Peggy. «Lo tratterà bene, e farà in modo che si senta amato ogni giorno che il Signore gli concederà.»
«Ma gli vorrà bene davvero?»
Era una domanda cui Peggy non si sarebbe mai sognata di rispondere. Per papà l’amore non era nemmeno una lontana prospettiva. Si sarebbe preso cura del ragazzo per senso del dovere, tuttavia il giovane non avrebbe mai avvertito la differenza, l’avrebbe sentito come amore, e in fondo sarebbe stato un vincolo molto più saldo dell’amore. Spiegare tutto questo a mamma avrebbe significato però rivelarle quante cose in realtà suo padre facesse solo perché avvertiva il peso di quel suo antico peccato, e nella vita di sua madre non sarebbe mai giunto il momento in cui lei sarebbe stata pronta ad ascoltare quella storia.
Perciò Peggy si limitò a guardare sua madre e a risponderle come rispondeva a tutti coloro che spingevano lo sguardo troppo addentro a cose che in realtà non volevano conoscere. «Questo dovrà dirlo lui» replicò. «Ti basti sapere che la scelta che hai già preso in cuor tuo è una buona scelta. Questa decisione è già sufficiente a cambiarti la vita.»
«Ma ancora non ho deciso» ribatté mamma.
Nel suo cuore non c’era più un solo sentiero, nemmeno uno, in cui la vecchia Peg non convinceva i Berry a sostenere che il bambino era loro, e a lasciare che lei lo crescesse in casa sua.
«Sì che hai deciso» disse Peggy. «E ne sei felice.»
Sua madre si voltò e se ne andò, chiudendosi piano la porta alle spalle per non svegliare il predicatore itinerante che dormiva nella camera al piano di sopra.
Peggy si sentì per un istante a disagio, senza riuscire a comprenderne il motivo. Se ci avesse pensato sopra, avrebbe capito che quel disagio era dovuto al fatto che aveva ingannato sua madre, anche se sul momento non se n’era resa conto. Quando Peggy veniva consultata da qualcun altro, si preoccupava sempre di esplorare per un bel tratto i diversi sentieri della sua esistenza, in cerca di tenebre generate da cause imprevedibili. Ma Peggy era così sicura di conoscere suo padre e sua madre che non si era curata di guardare nient’altro all’infuori di ciò che sarebbe accaduto nell’immediato futuro. È così che succede con i propri familiari. Si crede di conoscerli così bene che si finisce col non conoscerli affatto. Sarebbero trascorsi anni prima che Peggy ripensasse a quel giorno per scoprire come mai non aveva visto ciò che sarebbe accaduto. A volte s’immaginava perfino che il suo dono l’avesse tradita. Ma non era stato così. Era stata lei a tradire il suo dono. Non era la prima persona a farlo, né l’ultima, né la più colpevole. Ma pochi se ne sarebbero crucciati più di lei.
Quel momento di disagio passò, e Peggy non ci pensò più: rivolse la sua attenzione alla piccola Nera distesa sul pavimento di cucina. Era sveglia, con gli occhi aperti. Il bambino continuava a frignare. Senza che la ragazza pronunciasse una sola parola, Peggy capì che voleva che il bambino le venisse attaccato al seno, ammesso che gli fosse rimasto qualcosa da succhiare. La ragazza non aveva nemmeno la forza di aprirsi la logora camicetta di cotone. Peggy dovette sedersi accanto a lei stringendo il bambino a sé, mentre con la mano libera cercava di sbottonare la camicetta. Il torace della ragazza era così magro che le si potevano contare le costole, e le mammelle somigliavano a borse da sella gettate su una staccionata. Ma i capezzoli erano ancora abbastanza eretti perché il bambino vi si potesse attaccare, e ben presto sulle labbra del piccolo comparve una schiuma bianca, cosicché si capì che c’era ancora qualcosa, perfino in quel momento, perfino negli ultimi attimi di vita di sua madre.
La ragazza era troppo debole per parlare, ma non ce n’era bisogno. Peggy udì quel che avrebbe voluto dire, e le rispose. «Il tuo bambino lo prenderà mia madre» mormorò. «E sta’ sicura che nessuno si azzarderà a farne uno schiavo.»
Queste erano le parole che la ragazza desiderava udire più di tutte… queste, e il rumore del bambino che avidamente succhiava, deglutiva e mugolava attaccato al suo seno.
Ma Peggy voleva che, prima di morire, la Nera sapesse anche qualcos’altro. «Il tuo bambino conoscerà tutto di te» disse alla ragazza. «Saprà che hai sacrificato la tua vita per volare via e donargli la libertà. Non temere che possa mai dimenticarti, perché così non sarà.»
Poi Peggy scrutò nella fiamma vitale del bambino, la esplorò per scoprire che cosa sarebbe diventato. Ah, certo vide molta sofferenza, perché la vita di un piccolo mulatto in una cittadina di Bianchi sarebbe stata difficile, qualunque sentiero avesse deciso d’intraprendere. Eppure vide abbastanza per comprendere la natura del bambino le cui dita afferravano e stringevano il petto nudo di sua madre. «Diventerà un uomo per cui varrà la pena di aver perso la vita. Anche questo ti prometto.»
La ragazza fu felice di udire quelle parole. Esse anzi la rassicurarono al punto che riuscì ad assopirsi. Qualche tempo dopo anche il bambino, sazio, si addormentò. Peggy lo tirò su, lo avvolse in una coperta e lo depose di nuovo nell’incavo del braccio piegato della ragazza. Fino all’ultimo istante di vita di tua madre, tu sarai con lei, disse silenziosamente al bambino. Ti racconteremo anche questo, che tua madre, morendo, ti stringeva tra le braccia.
Morendo… Papà era fuori con Po Doggly, a scavarle la fossa; la mamma era dai Berry, a chieder loro di aiutarla a salvare la vita e la libertà di suo figlio; e Peggy intanto la immaginava già morta.
Ma non era morta, per il momento almeno. E all’improvviso a Peggy venne in mente, con un lampo di rabbia, che era stata troppo stupida a non pensarci prima, a non pensare che al mondo esisteva una persona capace di guarirla. Alvin non si era forse inginocchiato accanto a Ta-Kumsaw alla battaglia di Detroit, quando il grande guerriero rosso non era altro che un corpo crivellato di pallottole? Non si era forse inginocchiato accanto a lui e non l’aveva guarito? Alvin avrebbe potuto salvare la ragazza, se fosse arrivato in tempo.
Peggy gettò lo sguardo nelle tenebre, in cerca della fiamma vitale che ardeva così vividamente, la fiamma vitale che lei conosceva meglio di qualsiasi altra, persino della propria. Ed eccolo infatti, che correva nell’oscurità alla maniera dei Rossi, quasi dormisse, e la terra intorno a lui fosse la sua anima. Stava arrivando più in fretta di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi Bianco, perfino montando il cavallo più veloce e sulla migliore delle strade che univano il Wobbish all’Hatrack, ma non sarebbe giunto prima dell’indomani a mezzogiorno, e a quell’ora la schiavetta fuggiasca si sarebbe già trovata nel cimitero di famiglia. Per una questione di nemmeno mezza giornata, la Nera non avrebbe incontrato l’unico uomo di quella terra che avrebbe potuto guarirla.
Non era forse così che stavano le cose? Alvin, l’unico che avrebbe potuto salvarla, non aveva modo di sapere che c’era bisogno di lui. Mentre Peggy, che era del tutto impotente, sapeva perfettamente tutto ciò che stava accadendo, sapeva tutto ciò che sarebbe potuto accadere, sapeva l’unica cosa che sarebbe dovuta accadere se il mondo fosse stato buono. Ma il mondo non era buono. E quella cosa non sarebbe accaduta.
Che terribile dono, quello di essere una fiaccola, di conoscere tutto ciò che sarebbe accaduto, e poter fare così poco per cambiarlo. L’unica sua forza erano le parole che le uscivano dalle labbra, ma nonostante tutto quello che poteva dire a chi le stava di fronte, Peggy non aveva modo di sapere quali sarebbero state le sue decisioni. C’era sempre la possibilità che l’altro decidesse di fare qualcosa che l’avrebbe indirizzato su un sentiero ancor più pericoloso di quello da cui lei aveva cercato di distoglierlo… Tante volte, poi, per malvagità, spirito di contraddizione o semplice sfortuna, l’altro faceva proprio quella terribile scelta, e le cose per lui si mettevano molto peggio che se Peggy non avesse mosso un dito né detto una parola. Preferirei non sapere nulla. Preferirei sperare che Alvin potesse ancora arrivare in tempo. Preferirei sperare che questa ragazza potesse ancora vivere. Vorrei poterle salvare la vita io stessa.
E poi pensò a tutte le volte che anche lei aveva salvato una vita, quella di Alvin, grazie al cappuccio. E in quell’istante nel suo cuore si accese una scintilla di speranza, perché sicuramente, solo per una volta, avrebbe potuto usare un pezzetto del cappuccio di Alvin per salvare quella ragazza, per restituirla alla vita.
Peggy balzò in piedi e corse goffamente verso le scale, con le gambe così intorpidite per essere rimasta seduta sul pavimento che riusciva a malapena a sentire il legno sotto i piedi nudi. Sulle scale inciampò facendo parecchio rumore, ma nessuno degli ospiti si svegliò, almeno da quanto lei potesse capire lì per lì. Si slanciò su per le scale, poi su per la scala a pioli che conduceva in soffitta e che il nonno aveva trasformato in una scala vera e propria nemmeno tre mesi prima di morire. Peggy avanzò cautamente tra i bauli e i mobili vecchi fino a raggiungere la sua camera, appoggiata alla facciata ovest della casa. La luce lunare entrava dalla finestra rivolta a sud, disegnando sul pavimento una fila di riquadri luminosi. Peggy alzò una delle assi del pavimento e tirò fuori la scatola dal nascondiglio in cui la riponeva ogni volta che usciva di camera.
Forse i suoi passi erano stati troppo pesanti, oppure quell’ospite in particolare aveva il sonno troppo leggero… Fatto sta che, quando Peggy scese la prima rampa di scale, se lo trovò all’improvviso di fronte, con le gambe magre e bianche che gli spuntavano dalla camicia da notte, lo sguardo che passava dalle scale alla sua stanza, come se non riuscisse a decidersi se entrare o uscire, salire o scendere. Peggy scrutò nella sua fiamma vitale, per capire se fosse già stato al piano di sotto e avesse visto la ragazza e il bambino; in tal caso, tutti i loro piani e le loro precauzioni sarebbero stati vani.
Ma non c’era stato… Dunque si poteva ancora rimediare.
«Perché siete vestita come se doveste uscire?» le chiese l’uomo. «E a quest’ora del mattino, per giunta?»
Peggy gli posò gentilmente un dito sulle labbra, per farlo tacere. Almeno questa fu la sua intenzione. Ma immediatamente capì di essere la prima donna a toccare il viso di quell’uomo dopo sua madre, tanti anni prima. Vide che in quel brevissimo istante il cuore di quell’uomo si era colmato non di passione, bensì dei vaghi turbamenti di un uomo solo. Era il pastore arrivato la mattina di due giorni prima, un predicatore itinerante: proveniva dalla Scozia, così aveva detto. Lei non gli aveva quasi prestato attenzione, sconvolta com’era per l’imminente arrivo di Alvin. Ma ora l’unica cosa che contava era rispedirlo in camera sua il più presto possibile, e Peggy conosceva un modo sicuro per farlo. Gli gettò le braccia sulle spalle, afferrandolo saldamente dietro il collo, e lo attirò a sé finché non poté baciarlo sulle labbra. Un bel bacio lungo e appassionato, come lui non ne aveva mai avuti da una donna in vita sua.
Proprio come Peggy si aspettava, non appena lei lo lasciò andare l’uomo si precipitò in camera sua. Peggy avrebbe voluto riderci su, ma dalla fiamma vitale del predicatore comprese che non era stato il suo bacio a metterlo in fuga. Era la scatola che ancora stringeva in mano e che gli aveva premuto contro la nuca quando gli aveva gettato le braccia al collo. La scatola contenente il cappuccio di Alvin.
Non appena la scatola lo aveva toccato, lui aveva percepito che cosa c’era dentro. Da parte sua non era un dono, era un’altra cosa… Il puro e semplice fatto di trovarsi così vicino a qualcosa che era appartenuto ad Alvin. Improvvisamente gli era comparso davanti agli occhi il volto di Alvin, scatenando in lui una paura e un odio di cui Peggy non aveva mai visto l’uguale. Solo allora Peggy si rese conto che quello non era un predicatore qualsiasi. Era il reverendo Philadelphia Thrower, già pastore a Vigor Church. Proprio quel tale reverendo Thrower che una volta sarebbe riuscito a uccidere Alvin, se il padre di quest’ultimo non gliel’avesse impedito.
La paura suscitata in lui dal bacio di una donna non era nulla in confronto a quella che provava per Alvin Junior. Un bel guaio, perché adesso era talmente spaventato che stava pensando di andarsene dalla locanda senza perdere nemmeno un istante. In tal caso avrebbe dovuto per forza scendere al piano di sotto e avrebbe visto esattamente ciò che Peggy cercava disperatamente di non fargli vedere. Era proprio quello che le era accaduto tante altre volte… Lei cercava di evitare qualcosa di male, e regolarmente succedeva qualcosa di peggio, qualcosa di così improbabile che lei non l’aveva neppure visto. Come aveva fatto a non riconoscerlo? Non l’aveva visto tante volte in passato attraverso gli occhi di Alvin? Era vero che, nel corso di quell’ultimo anno, il reverendo Thrower era cambiato: sembrava dimagrito, invecchiato, spaurito. E poi lei certamente non si sarebbe mai aspettata di vederlo lì, e comunque era troppo tardi per rimediare al malfatto. Ora l’unica cosa che contava era farlo stare in camera sua.
Perciò aprì a sua volta la porta, entrò nella camera, lo guardò diritto negli occhi e disse: «È nato qui».
«Chi?» chiese il pastore. Era bianco in viso come se avesse visto il diavolo in persona. Ma sapeva benissimo a chi Peggy intendesse riferirsi.
«E sta per tornare. Siete al sicuro solo se stanotte resterete nella vostra camera, e ve ne andrete domattina alle prime luci dell’alba.»
«Non so… non so di che cosa stiate parlando.»
Credeva davvero di poter ingannare una fiaccola? Forse non lo sapeva… Ma no, lo sapeva, lo sapeva, solo che non credeva alle fiaccole, ai talismani, ai doni segreti e via dicendo. Era un uomo di chiesa e di scienza, lui. Un maledetto idiota. Perciò Peggy avrebbe dovuto mettergli di fronte agli occhi ciò che più temeva al mondo; avrebbe dovuto dimostrargli che lo conosceva, e conosceva i suoi segreti. «Avete cercato di uccidere Alvin Junior con un coltello da macellaio» disse.
Tanto bastò. Il pastore cadde in ginocchio. «Non ho paura di morire» sussurrò. Poi cominciò a mormorare il Padre nostro.
«Pregate tutta la notte, se così vi piace» commentò Peggy «purché restiate nella vostra camera.»
Poi uscì dalla stanza chiudendo la porta dietro di sé. A metà delle scale udì il rumore del paletto. Peggy non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi se per caso non l’avesse fatto soffrire più del necessario… In cuor suo quell’uomo non era veramente un assassino. Peggy tuttavia non pensava ad altro che a portare il cappuccio là dove avrebbe potuto servirsene per aiutare la fuggiasca, ammesso che in quel modo lei fosse davvero in grado di partecipare dei poteri di Alvin. Quanto tempo le era costato quel predicatore? Quanti preziosi respiri della piccola fuggiasca?
Respirava ancora? Sì. No. Il bambino dormiva profondamente accanto a lei, ma il petto della ragazza non si muoveva più. Peggy le posò le dita sulle labbra, e non sentì più nulla. La sua fiamma vitale però ardeva ancora! Peggy la scorgeva bene, si levava alta e luminosa, perché quella ragazza aveva un cuore davvero intrepido. Perciò Peggy aprì la scatola, prese il pezzo di cappuccio, ne staccò un frammento e strofinandoselo tra le dita fino a ridurlo in polvere mormorò: «Vivi, torna forte». Così facendo, cercava d’imitare Alvin quando guariva qualcuno, sentiva i piccoli posti rotti nel corpo della persona, aggiustava tutto quello che non funzionava. Non gliel’aveva visto fare tante volte? Ma farlo lei stessa era ben diverso. Le riusciva estraneo, non aveva la visione necessaria, e intanto sentiva la vita defluire dal corpo della ragazza, il cuore ormai fermo, i polmoni rilasciati, gli occhi aperti ma senza luce… La fiamma vitale guizzò come una stella cadente, un lampo improvviso, poi più nulla.
Troppo tardi. Se non fossi stata costretta a fermarmi nel corridoio al piano di sopra, se non avessi dovuto sistemare il predicatore…
Ma no, non poteva accusare se stessa. Quel potere non le apparteneva, era troppo tardi prima ancora di cominciare. La ragazza stava morendo con tutto il suo corpo. Nemmeno lo stesso Alvin, se fosse stato presente, ci sarebbe riuscito. Era stata soltanto una tenuissima speranza. Così tenue che lei stessa non aveva individuato un solo sentiero in cui potesse funzionare. Perciò non si sarebbe comportata come tanti altri, non avrebbe continuato a tormentarsi in eterno solo perché aveva fatto del suo meglio in un’impresa che fin dall’inizio aveva scarsissime possibilità di riuscita.
Ora che la ragazza era morta, Peggy non poteva lasciare il bambino là dove avrebbe potuto sentire che il braccio di sua madre si andava raffreddando. Lo tirò su. Il piccolo si mosse senza svegliarsi, come fanno i bambini. La tua mamma è morta, piccolo mio, ma avrai la mia mamma, e anche il mio papà. Hanno amore a sufficienza per una creatura come te; non vivrai affamato d’amore come certi bambini di mia conoscenza. E allora cerca di approfittarne, piccolino. La tua mamma è morta per portarti fin qui… Tu cerca di approfittarne e diventerai qualcuno, questo è certo.
Diventerai qualcuno, Peggy si udì mormorare. Diventerai qualcuno, e lo stesso farò anch’io.
Prese la decisione prima ancora di rendersi conto che ci fosse una decisione da prendere. Avvertì il suo futuro cambiare anche se, al momento, non riusciva a capire esattamente come.
La schiavetta aveva puntato sul futuro più probabile… Non c’è bisogno di essere una fiaccola per vedere con chiarezza certe cose. Quella che l’attendeva era una brutta vita: perdere il suo bambino, restare schiava fino al giorno in cui sarebbe crollata per non rialzarsi mai più. Eppure aveva visto un tenuissimo barlume di speranza per il suo piccolo, e una volta che l’aveva visto non aveva esitato, nossignore. Quel lontano bagliore per lei era bastato a compensare il sacrificio della vita.
E adesso guardatemi, pensò Peggy. Non faccio che esplorare i sentieri della vita di Alvin e in ciascuno di essi per me non vedo che sofferenza… niente di paragonabile a quella della schiavetta, ma certamente non una prospettiva gradevole. Ogni tanto colgo il riflesso di una luminosa occasione di felicità, intravedo una via strana e tortuosa per conquistare Alvin facendo in modo che anch’egli mi ami. E, una volta che l’ho vista, è pensabile che me ne stia lì a guardare quella luminosa speranza affievolirsi e scomparire, solo perché non so bene come arrivarci?
Se quella poverina ha potuto raggiungere quanto aveva sperato con cera, cenere, penne e un po’ di se stessa, allora anch’io posso prendere in mano la mia vita. Da qualche parte c’è un filo e, se riesco soltanto ad afferrarlo, mi porterà alla felicità. E anche se non lo trovo, sarà sempre meglio della disperazione che mi attende nell’eventualità che io rimanga qui. Anche se non farò mai parte della vita di Alvin quando diventerà uomo, ecco, questo non sarà mai un prezzo così alto come quello che la schiavetta fuggiasca ha pagato per la libertà.
Domani, quando Alvin arriverà qui, io non ci sarò più.
Questa fu la sua decisione, proprio così. Anzi, a stento riusciva a credere di non averci pensato prima. Fra tutti gli abitanti di Hatrack, lei per prima avrebbe dovuto sapere che esisteva sempre un’altra possibilità. Le persone dicevano sempre che la miseria e i patimenti in cui vivevano erano colpa delle circostanze, che non avevano mai avuto possibilità di scelta… Ma la schiavetta fuggiasca dimostrava che esisteva sempre una via d’uscita, purché uno ricordasse che a volte anche la morte poteva essere una strada liscia e diritta.
E per volare via non ho nemmeno bisogno di penne di corvo.
Peggy restò lì seduta col bambino fra le braccia, architettando una serie di piani, uno più audace dell’altro, per andarsene il mattino dopo prima dell’arrivo di Alvin. Ogni volta che si sentiva sgomenta di fronte a ciò che si era ripromessa di fare, abbassava lo sguardo sulla ragazza e quella vista la rincuorava. Un giorno potrei finire come te, schiavetta fuggiasca, che hai chiuso gli occhi per sempre in casa di estranei. Eppure preferisco affrontare l’ignoto piuttosto che consegnarmi passivamente a un futuro che già so quanto mi sarebbe difficile tollerare.
Ma lo farò davvero, domattina, quando verrà il momento e non ci sarà più modo di tornare indietro? Toccò il cappuccio di Alvin con la mano libera, semplicemente insinuando le dita nella scatola… e ciò che scorse nel futuro di Alvin le fece venir voglia di cantare. Prima d’allora la maggior parte dei sentieri vedevano lei e Alvin incontrarsi per incominciare una vita di patimenti. Ora invece solo alcuni di quei sentieri erano rimasti… Nella maggior parte dei futuri di Alvin, lo si vedeva arrivare al fiume Hatrack in cerca di una fiaccola, e scoprire che la ragazza non c’era più. Il semplice fatto di aver preso quella decisione aveva eliminato la maggior parte delle strade che portavano a tanta sofferenza.
Mamma fu di ritorno con i Berry prima che papà avesse finito di scavare la fossa. Anga Berry era una donna corpulenta: sul suo volto, le rughe del riso l’avevano vinta su quelle della preoccupazione, anche se entrambi i segni erano ugualmente evidenti. Peggy la conosceva bene e la trovava più simpatica della maggior parte dei loro vicini. Aveva un carattere impulsivo ma era anche capace di compassione, e Peggy non restò sorpresa nel vederla affrettarsi sul corpo della ragazza, prenderne la mano fredda e molle e stringersela al seno. Mormorò parole che ricordavano una ninnananna, da quanto la sua voce era bassa, dolce e carezzevole.
«È morta» disse Mock Berry. «Ma il bambino è sano e forte, vedo.»
Peggy si alzò in modo che l’uomo potesse vedere il bambino che lei stringeva tra le braccia. A differenza della moglie, Mock non era affatto simpatico a Peggy. Era il tipo capace di schiaffeggiare un bambino con tanta violenza da farlo sanguinare, solo perché non gli piaceva ciò che il piccolo aveva detto o fatto. La cosa peggiore però era che, quando si comportava così, non si mostrava affatto arrabbiato. Era come se non provasse nulla: far soffrire qualcuno o no, per lui non sembrava fare una grande differenza. Ma lavorava sodo e, sebbene fosse povero, la sua famiglia tirava avanti; e chi conosceva Mock non prestava ascolto a quella gentaglia secondo la quale non esisteva Nero che non rubasse, o Nera che non si facesse sbattere da chiunque.
«Sano e forte» ripeté Mock. Poi si rivolse a mamma. «E quando sarà un uomo, signora, continuerete a chiamarlo ‘ragazzo mio’? O lo farete dormire nella stalla con le bestie?»
Be’, sicuramente non aveva girato intorno all’argomento, si disse Peggy.
«Sta’ zitto, Mock» disse sua moglie. «E voi, datemi quel bambino, signorina. Se solo l’avessi saputo in anticipo, avrei continuato a dare la poppa al mio più piccolo per conservare il latte. Quel ragazzo l’ho svezzato due mesi fa e da allora non mi ha dato un attimo di pace. Ma tu sei di un’altra pasta, piccolino, di tutt’altra pasta.» Si rivolse al bambino con la stessa voce bassa e dolce con cui si era rivolta alla sua mamma morta, e lui non si svegliò nemmeno.
«Ve l’ho detto, lo crescerò come un figlio» disse mamma.
«Scusatemi, signora, ma non ho mai sentito parlare di una donna bianca che facesse una cosa del genere» obiettò Mock.
«Quello che dico» esclamò mamma «lo faccio.»
Mock ci pensò su un momento. Poi annuì. «Già, è vero» disse. «Penso di non avervi mai sentita tornare sulla vostra parola, nemmeno con un Nero.» Sorrise. «I Bianchi di solito hanno idea che mentire a un Nero non sia proprio mentire.»
«Faremo come ci avete chiesto» concluse Anga Berry. «Dirò a tutti quelli che ce lo chiedono che questo bambino è mio, e che l’abbiamo dato a voi perché eravamo troppo poveri.»
«Ma non vi sognate nemmeno di dimenticare che è una bugia» disse Mock. «Non vi sognate nemmeno di pensare che, se veramente fosse figlio nostro, noi saremmo capaci di abbandonarlo. E non vi sognate nemmeno di pensare che mia moglie avrebbe mai permesso a un Bianco di metterla incinta, continuando a essere mia moglie.»
Mamma studiò Mock per qualche istante, squadrandolo da capo a piedi com’era sua abitudine. «Mock Berry, spero che finché il ragazzo resterà in questa casa veniate a farmi visita tutte le volte che vorrete, e io vi farò vedere che una donna bianca sa mantenere la parola data.»
Mock rise. «Siete una vera Emancipazionista, signora Guester.»
Papà rientrò in quel momento, sporco di terra e sudore. Strinse la mano ai Berry, e in breve questi gli riferirono che cosa avevano convenuto di raccontare. Anch’egli promise di crescere quel bambino come se fosse stato suo. Pensò addirittura a qualcosa che a mamma non sarebbe mai venuto in mente… Rivolse infatti qualche parola anche a Peggy, assicurandole che non ci sarebbero state parzialità a favore del bambino. Peggy annuì. Non voleva parlare più dello stretto necessario, perché tutto ciò che avrebbe detto sarebbe stato una bugia, o avrebbe rivelato i suoi piani; sapeva di non avere la minima intenzione di restare in quella casa nemmeno per un solo giorno degli anni che quel bambino vi avrebbe trascorso.
«Noi ce ne torniamo a casa, signora Guester» disse Anga, porgendo il piccolo alla vecchia Peg. «Se uno dei miei figli si sveglia per un brutto sogno è meglio che ci sia anch’io, o li sentirete strillare fin da quassù.»
«Non c’è un pastore che possa recitare qualche preghiera sulla sua tomba?» chiese Mock.
Papà non ci aveva pensato. «In effetti al piano di sopra avremmo un predicatore» propose.
Ma Peggy non gli lasciò nessuna possibilità di accarezzare quell’idea. «No» disse seccamente.
Papà la guardò e capì che stava parlando come una fiaccola. In questi casi non c’era da discutere. Si limitò ad annuire. «Non ora, Mock» sussurrò. «Sarebbe pericoloso.»
Mamma accompagnò Anga Berry fin sulla soglia. «Non c’è qualcosa che io debba sapere?» chiese ansiosamente. «I bambini neri sono per caso diversi dai nostri?»
«Molto diversi» ribatté Anga. «Ma quel bambino mi pare mezzo Bianco, perciò basta che vi occupiate della metà bianca, e credo proprio che la metà nera saprà badare a se stessa.»
«Latte di mucca in una vescica di maiale?» insisté mamma.
«Lo sapete benissimo» fu la risposta di Anga. «Tutto quel che so, l’ho imparato da voi, signora Guester. Come tutte le donne dei dintorni. Perché adesso volete saperlo da me? Non pensate che ho anch’io bisogno di dormire?»
Quando i Berry se ne furono andati, papà prese tra le braccia il corpo della ragazza e lo portò fuori. Quel cadavere non avrebbe avuto una bara, anche se lo avrebbero coperto di pietre per evitare che i cani andassero a dissotterrarlo. «Leggera come una piuma» commentò, dopo averla sollevata. «Come la carcassa carbonizzata di un tronco.»
Una descrizione certamente appropriata, fu costretta ad ammettere Peggy. Proprio così. Si era ridotta in cenere.
Mamma prese tra le braccia il piccolo, e Peggy salì in soffitta per prendere la culla. Stavolta non si svegliò nessuno, tranne il predicatore. Dietro quella porta Thrower era sveglio, eccome, ma non sarebbe uscito dalla stanza per tutto l’oro del mondo. Mamma e Peggy prepararono il lettino in camera di papà e mamma, e vi collocarono il piccolo. «Dimmi se questo povero orfanello ha mai avuto un nome» chiese mamma.
«Lei non gliel’aveva ancora dato» spiegò Peggy. «Nella sua tribù, la donna non riceve un nome finché non si sposa, e l’uomo non lo riceve finché non uccide la sua prima preda.»
«Che cosa orribile» esclamò mamma. «Non è proprio da cristiani. Allora è morta senza battesimo.»
«No» la corresse Peggy. «È stata battezzata. Ci ha pensato la moglie del suo padrone… Tutti i Neri della loro piantagione sono battezzati.»
Il viso di mamma s’indurì. «Immagino che così ci si persuada di averli convertiti. Be’, allora te lo darò io un nome, piccolino.» Sorrise maliziosamente. «Secondo te, che farebbe tuo padre se chiamassi questo bambino Horace Guester Junior?»
«Morirebbe» disse Peggy.
«Lo penso anch’io» ammise mamma. «Non sono ancora pronta a fare la vedova. Dunque per il momento lo chiameremo… Oh, Peggy, non riesco a pensare a nulla. Che nomi hanno i Neri? Oppure dovrei dargli un nome come a un qualsiasi bambino bianco?»
«L’unico nome da Nero che conosco è Otello» disse Peggy.
«Un nome davvero strano» commentò mamma. «L’avrai tirato fuori da qualcuno di quei libri che ti porta Whitley Physicker.»
Peggy non rispose.
«Ho trovato!» esclamò mamma. «Ho trovato come chiamarlo. Cromwell. Il nome del Lord Protettore.»
«Già che ci sei potresti chiamarlo Arthur, come il re» propose Peggy.
Mamma rise fino alle lacrime. «Ecco come ti chiamerai, piccolino. Arthur Stuart! E se al re non dovesse piacere questo nome, mi mandi pure il suo esercito e non riuscirà a smuovermi d’un pollice. Si prenda lui un altro nome, se questo non gli va.»
Sebbene fosse andata a letto così tardi, la mattina dopo Peggy si svegliò di buon’ora. A svegliarla fu un rumore di zoccoli… Non ebbe bisogno di andare alla finestra per riconoscere la fiamma vitale del pastore che se ne andava. Va’ con Dio, Thrower, disse Peggy in silenzio. Stamattina non sarai l’unico a scappare, in fuga davanti a un ragazzo di undici anni.
Fu alla finestra rivolta a nord che andò ad affacciarsi. Tra gli alberi, riusciva a scorgere il cimitero sulla collina. Cercò di capire dove fosse stata scavata la tomba, ma non c’erano segni che i suoi occhi riuscissero a discernere, e in un cimitero non c’erano neanche fiamme vitali, niente che potesse aiutarla. Alvin però se ne sarebbe accorto, di questo Peggy era sicura. Il cimitero sarebbe stato il primo posto dove sarebbe andato, perché laggiù riposava il suo fratello più grande, quel Vigor che era stato travolto dalle acque del fiume Hatrack nell’atto di salvare la vita alla mamma di Alvin, un’ora prima che quest’ultima partorisse il suo settimo figlio maschio. Ma Vigor era rimasto aggrappato alla vita quel tanto che bastava a far sì che, quando Alvin aveva visto la luce, egli fosse il settimo di sette fratelli maschi viventi. La stessa Peggy aveva visto la sua fiamma vitale vacillare e spegnersi subito dopo la nascita del piccolo. Quella storia Alvin l’aveva certamente sentita narrare mille volte. Perciò per prima cosa si sarebbe diretto al cimitero, e lì sarebbe penetrato sotto la superficie della terra e avrebbe scoperto ciò che vi si nascondeva. Avrebbe scoperto quella tomba senza nome, quel corpo scarno che vi era stato appena sepolto.
Peggy prese la scatola col cappuccio di Alvin, la cacciò in una borsa di stoffa insieme al suo vestito di ricambio, a un grembiule e agli ultimi libri che le erano stati portati da Whitley Physicker. Il fatto di non voler incontrare a faccia a faccia quel ragazzo non significava certo che lei lo potesse dimenticare. Quella sera, o forse il mattino dopo, avrebbe nuovamente toccato il cappuccio, e poi sarebbe rimasta accanto a lui nel ricordo, usando i sensi di lui per cercare la tomba di quella ragazzina nera senza nome.
Preparata la borsa, scese al piano di sotto.
Mamma aveva portato la culla in cucina e ora impastava il pane e cantava, facendo dondolare la culla con un piede, anche se Arthur Stuart era profondamente addormentato. Peggy posò la borsa fuori della porta di cucina, poi entrò e toccò la spalla di sua madre. Per un istante sperò che la donna, nell’apprendere che Peggy se n’era andata, venisse colta dalla disperazione. Ma non sarebbe stato così. Certo, all’inizio se la sarebbe presa moltissimo e ne avrebbe dette di tutti i colori, ma con l’andar del tempo Peggy non le sarebbe mancata poi tanto. Il bambino avrebbe distolto i suoi pensieri dalla figlia. E poi mamma sapeva che Peggy era perfettamente in grado di badare a se stessa e che non era davvero il tipo da aggrapparsi alle gonne di qualcuno. Arthur Stuart invece aveva bisogno di lei.
Se quella fosse stata la prima volta che Peggy si rendeva conto di ciò che sua madre provava per lei, ne sarebbe rimasta profondamente ferita. Ma c’era ormai abituata, riusciva a capirne il motivo, voleva bene a sua madre perché era una delle donne più generose che conosceva, e dunque la perdonava se non riusciva ad amare sua figlia più di tanto.
«Mamma, ti voglio bene» disse Peggy.
«Anch’io ti voglio bene, cara» rispose mamma. Non alzò nemmeno lo sguardo, né poteva immaginare ciò che Peggy aveva in mente.
Papà dormiva ancora. In fin dei conti durante la notte aveva scavato una tomba e l’aveva anche riempita.
Peggy scrisse un biglietto. A volte si preoccupava di metterci tutti quei segni in più che si trovavano nei libri, ma stavolta voleva essere sicura che papà fosse in grado di leggerlo senza aiuto. Questo significava non metterci più roba dello stretto necessario a rendere l’idea quando lui l’avrebbe letto a voce alta.
Vi voglio bene papà e mamma ma devo andare so che è sbagliato lasciare Hatrack senza fiaccola ma sono sedici anni che lo faccio. Ho visto il mio futuro e non mi succederà niente di male non dovete preoccupami per me.
Uscì dalla porta anteriore, portò la borsa fino alla strada e non dovette attendere più di dieci minuti prima che il dottor Whitley Physicker arrivasse sul suo calesse, all’inizio della prima tappa di un viaggio che doveva condurlo a Filadelfia.
«Non credo che tu sia venuta ad aspettarmi in strada solo per restituirmi il Milton che ti ho prestato» disse Whitley Physicker.
Lei sorrise scuotendo la testa. «Nossignore. È per pregarvi di portarmi con voi a Dekane. Vorrei andare a trovare un amico di mio padre e, se la mia compagnia non vi pesa, preferirei risparmiare i soldi della diligenza.»
Peggy lo guardò riflettere, sapendo benissimo che Whitley Physicker avrebbe esaudito la sua richiesta senza neppure mettere in mezzo i suoi genitori. Era il tipo d’uomo secondo il quale una ragazza valeva esattamente quanto un ragazzo, e oltre a ciò provava per Peggy una particolare simpatia, la considerava una specie di nipote. E siccome sapeva che Peggy non mentiva mai, non aveva nemmeno bisogno d’interpellare i suoi genitori.
E lei non gli aveva mentito, non più di quanto facesse abitualmente quando se ne andava senza dire tutto ciò che sapeva. A Dekane viveva l’antica amante di suo padre, la donna che egli sognava e per la quale soffriva. Aveva perso il marito da qualche anno, ma il periodo del lutto era ormai finito, per cui non sarebbe stata costretta a declinare qualsiasi offerta di compagnia. Peggy la conosceva bene, dopo averla osservata da lontano per tutti quegli anni. Se busso alla sua porta, pensò Peggy, non avrò nemmeno bisogno di dirle che sono figlia di Horace Guester, perché mi accoglierà ugualmente anche come estranea, si prenderà cura di me e mi aiuterà a trovare la mia strada. O forse le dirò chi è mio padre, e come ho fatto a capire che dovevo andare da lei, e che mio padre vive ancora col dolente ricordo del suo amore per lei.
Il calesse passò rumorosamente sul ponte coperto che il padre e i fratelli maggiori di Alvin avevano costruito undici anni prima, dopo che il fiume si era preso il loro figlio più grande. Fra le travi nidificavano gli uccelli. Il loro era un canto pazzo, musicale, felice, almeno per le orecchie di Peggy. Sotto il tetto del ponte cinguettavano così forte da farle pensare che l’opera lirica doveva essere qualcosa di molto simile. A Camelot c’era un teatro dell’opera. Forse un giorno ci sarebbe andata e l’avrebbe ascoltata, e, chissà, avrebbe visto il re in persona nel suo palco.
O forse no. Perché magari un giorno avrebbe trovato il sentiero che conduceva a un sogno breve ma meraviglioso, e allora avrebbe avuto cose più importanti da fare che guardare un re o ascoltare la musica della corte austriaca suonata da orchestrali della Virginia vestiti di pizzi nel sontuoso teatro dell’opera di Camelot. Alvin era più importante di tutto questo, se solo fosse riuscito a conoscere tutti i suoi poteri e a capire in che modo utilizzarli. E lei era nata per essere parte di tutto questo. Ecco con quanta facilità cominciava a sognare di lui. E perché no? Quando lo faceva, per quanto brevemente e con difficoltà, quei sogni erano vere visioni del futuro: la più grande gioia e insieme il più grande dolore che ella potesse provare riguardavano quel ragazzo che ancora non era neppure un uomo, che non l’aveva ancora vista in viso.
Seduta sul calesse accanto al dottor Whitley Physicker, Peggy scacciò a forza quei pensieri, quelle visioni, dalla propria mente. Sarà come Dio vorrà, pensò. Se troverò quel sentiero, lo troverò, e se non lo troverò, pazienza. Per ora, se non altro, sono libera. Libera dalla mia solitaria sorveglianza della cittadina di Hatrack, e libera dalla necessità di costruire tutti i miei progetti intorno a quel ragazzo. E se mi liberassi di lui per sempre? Se mi trovassi un futuro senza di lui? Anzi, la cosa più probabile è che finisca proprio così. Col tempo, dimenticherò perfino quel barlume di sogno, e troverò la mia strada verso una fine tranquilla, invece di adattarmi a forza al suo tortuoso sentiero.
I cavalli sembravano danzare davanti a lei, trainando il calesse così in fretta che il vento le scompigliava i capelli. Peggy chiuse gli occhi e immaginò di volare: una fuggiasca che doveva apprendere tutto della libertà.
Che trovi la sua via alla grandezza senza di me. Che io possa vivere una vita felice lontana da lui. Sia qualche altra donna a stare al suo fianco nell’ora del trionfo. Sia qualche altra donna a inginocchiarsi in lacrime sulla sua tomba.