Si era all’inizio di gennaio, la neve era alta e tirava un vento così gelido da portarti via il naso… Quindi Makepeace Smith sostenne che toccava a lui lavorare alla forgia tutto il giorno, mentre Alvin andava in città a far spese e a consegnare i lavori finiti. D’estate in genere accadeva il contrario.
Non importa, pensò Alvin. È lui il padrone qui. Ma se un giorno diventerò padrone di una fucina e avrò un apprendista, potete scommetterci che lo tratterò meglio di quanto lui non stia trattando me. Padrone e apprendista dovrebbero dividersi equamente il lavoro, tranne quando l’apprendista chiaramente non sa che pesci prendere, e il padrone deve mostrargli come fere. Ecco il patto: non avere a propria disposizione uno schiavo, non costringere l’apprendista a scendere in città col carro in mezzo alla bufera.
Per dire la verità, Alvin sapeva che non sarebbe stato necessario prendere il carro e che il tiro a due con slitta di Horace Guester sarebbe andato benissimo. Sapeva inoltre che Horace non aveva nessuna difficoltà a prestarglielo, purché una volta in città il giovane sbrigasse anche qualche commissione per suo conto.
Alvin si strinse nella giubba avanzando a testa bassa nel vento. Gli veniva proprio in viso, da ovest, e così sarebbe stato per tutto il tragitto fino alla locanda. Imboccò il sentiero che passava accanto alla casa della signorina Larner, fiancheggiato dagli alberi che smorzavano la forza del vento. Naturalmente la signorina Larner non era in casa. A quell’ora, si trovava a scuola con i suoi alunni, in città. Ma la scuola di Alvin era proprio il vecchio deposito sulla sorgente, e passare davanti alla porta lo indusse a ripensare ai suoi studi.
La signorina Larner gli aveva fatto imparare cose che Alvin non si sarebbe mai immaginato. Si era aspettato che lei continuasse a farlo leggere, scrivere e far di conto, e in un certo senso era andata proprio così. Ma non gli faceva leggere gli stessi sillabari dei bambini… come quello di Arthur Stuart, che ogni sera sgobbava sulle pagine a lume di candela. No, lei parlava ad Alvin di cose delle quali egli non avrebbe mai sospettato l’esistenza, e anche gli esercizi di scrittura o di calcolo vertevano su quel genere di cose.
Ieri.
«La particella più piccola si chiama atomo» aveva detto. «Secondo la teoria di Democrito, ogni oggetto si può dividere in particelle sempre più piccole, finché non si arriva all’atomo che non si può più dividere ed è la più piccola di tutte.»
«E com’è fatto?»
«Non lo so. È troppo piccolo per poterlo vedere. Tu lo sai?»
«Penso di no. Non ho mai visto niente di così piccolo da non poterlo più dividere.»
«Ma sapresti immaginare qualcosa di ancora più piccolo?»
«Sì, ma anche quello potrei dividerlo in due.»
La signorina Larner aveva sospirato. «Bene, Alvin, allora rifletti bene. Se esistesse qualcosa di così piccolo da non poter essere ulteriormente diviso, come sarebbe?»
«Davvero piccolissimo, penso.»
Ma stava solo scherzando. Era un problema, e Alvin provò ad affrontarlo nello stesso modo in cui affrontava qualsiasi altro problema pratico. Inviò la sua pulce nelle assi del pavimento. Essendo di legno, il pavimento era un ammasso di cose tutte diverse, provenienti dal cuore di alberi una volta vivi e ora fatti a pezzi. Perciò Alvin inviò subito la sua pulce nel ferro della stufa, che all’interno era fatta più o meno della stessa cosa. Poiché la stufa era calda, i pezzetti più piccoli di cui era composta e che egli riusciva a distinguere erano tutti in movimento, tanto da mutarsi in una macchia confusa; il fuoco che si trovava all’interno, invece, scagliava contro le pareti vampate di luce e di calore, ciascun elemento dei quali era così piccolo e sottile che Alvin riusciva a stento a trattenerne l’idea nella propria mente. Le particelle di fuoco in realtà non riusciva nemmeno a vederle. Capiva soltanto che erano passate.
«La luce» disse. «E il calore. Non possono essere divisi.»
«È vero. Il fuoco non è come la terra: non può essere diviso. Ma lo possiamo trasformare, non è vero? Possiamo spegnerlo. Allora smette di essere quello che era. Perciò le parti che lo compongono devono trasformarsi in qualcos’altro, e di conseguenza non erano atomi immutabili e indivisibili.»
«Be’, siccome non esiste niente di più piccolo delle particelle che compongono il fuoco, secondo me non esistono neanche gli atomi.»
«Alvin, devi smetterla di trattare le cose in modo così empirico.»
«Se saprei che cosa vuol dire, forse smetterei.»
«Se sapessi.»
«Come volete.»
«Non puoi rispondere a ogni domanda che ti faccio standotene lì a occhi spalancati e mandando la tua pulce a esplorare i sassi là fuori o roba del genere.»
Alvin sospirò. «A volte preferirei non avervelo detto.»
«Vuoi che t’insegni che cosa significa essere un Creatore oppure no?»
«Certo che lo voglio! Voi invece parlate di atomi e gravità! Non m’importa niente di quello che hanno detto Newton e tutti quei parrucconi! Io voglio sapere come si può fare a creare la… quel posto.» Alvin ricordò appena in tempo che nell’angolo c’era Arthur Stuart, che mandava a memoria ogni loro parola, completa di tono di voce. Non era proprio il caso di riempirgli la testa d’idee stravaganti quali la Città di Cristallo.
«Non capisci, Alvin? È trascorso tanto tempo — migliaia di anni — e ormai nessuno sa più che cosa sia veramente un Creatore, né che cosa faccia. Sappiamo solo che una volta sono esistiti uomini così, e che quegli uomini sapevano fare certe cose. Trasformare il piombo o il ferro in oro, per esempio, oppure l’acqua in vino e così via.»
«Direi che trasformare il ferro in oro è la cosa più facile» rifletté Alvin. «I metalli, dentro, sono più o meno fatti della stessa roba. Ma il vino… Là dentro c’è un tale guazzabuglio di cose che uno dovrebbe essere un… un…» Non riusciva a trovare la parola per indicare il massimo a cui un essere umano potesse aspirare.
«Un Creatore.»
Sì, la parola era quella. «Direi di sì.»
«E io, Alvin, ti sto dicendo che se vuoi imparare a fare ciò che facevano gli antichi Creatori, devi capire la natura delle cose. Non si può trasformare ciò che non si capisce.»
«E io capisco solo quello che vedo.»
«Sbagliato! Assolutamente falso, Alvin Smith! È ciò che puoi vedere che ti resta impossibile da capire. Il mondo che vedi intorno a te non è altro che un esempio, un caso particolare. Ma i principi sottostanti, l’ordine che tiene insieme tutto questo, resterà sempre invisibile. Lo si può scoprire solo con l’immaginazione, e questo è precisamente l’aspetto della tua mente che è stato maggiormente trascurato.»
Be’, la sera prima, udendo questi discorsi Alvin era letteralmente uscito dai gangheri; lei allora gli aveva assicurato che, comportandosi così, sarebbe rimasto uno stupido per tutta la vita; lui aveva ribattuto che a lui andava benissimo, visto che, fino a quel momento, era sopravvissuto contro ogni aspettativa proprio comportandosi da quello stupido che era senza farsi aiutare da gente come lei. Poi era uscito come una furia e si era messo a camminare, guardando i primi fiocchi di neve.
Camminava solo da qualche minuto quando si era reso conto che la signorina Larner aveva ragione, e che lui l’aveva sempre saputo. Proprio così. Alvin inviava all’esterno la sua pulce per capire com’erano fatti gli oggetti del mondo circostante, però, quando voleva operare qualche cambiamento nell’oggetto che si trovava di fronte, doveva anzitutto pensare a come voleva farlo diventare. Doveva pensare a qualcosa che ancora non esisteva, crearne l’immagine nella propria mente, e poi, affidandosi ai poteri con cui era nato e che ancora non riusciva a comprendere, diceva: «Vedi? È così che dovresti essere!» E allora, a volte in fretta, a volte lentamente, i frammenti dell’oggetto si spostavano fino a trovarsi nella posizione giusta. Era così che faceva ogni volta che voleva staccare un pezzo di roccia viva dalla parete, o unire due pezzi di legno, o fare in modo che le particelle di ferro si allineassero così, da raggiungere il massimo della forza e della resistenza, oppure diffondere in maniera uniforme il calore del fuoco alla base del crogiuolo. Perciò era vero che con l’immaginazione vedeva qualcosa che non esisteva ancora, ed era proprio questo suo atto a farlo esistere.
Per un terribile, vertiginoso momento si chiese se per caso il mondo intero non fosse solo un prodotto della sua immaginazione, e se, smettendo d’immaginarlo, esso non sarebbe scomparso. Naturalmente, una volta che ebbe ripreso il filo dei suoi pensieri, capì che se il mondo fosse stato solo frutto della sua immaginazione, non ci sarebbero state tante cose strane e incomprensibili alle quali non gli sarebbe mai venuto in mente di pensare.
Perciò forse il mondo non era altro che un sogno della mente di Dio. Ma no, neanche questo poteva essere vero, perché se Dio aveva sognato uomini come Assassino Bianco Harrison, allora Dio non era così buono come si diceva. No, il massimo cui Alvin riuscì ad arrivare fu l’idea che Dio lavorava più o meno nello stesso modo di Alvin: parlava alle rocce della terra e al fuoco del sole e via dicendo, spiegando loro in che modo avrebbero dovuto essere, e poi lasciava che diventassero in quel modo. Ma quando Dio diceva agli uomini come avrebbero dovuto essere, quelli invece ridevano e gli facevano gli sberleffi, oppure facevano finta di obbedire mentre in realtà continuavano a comportarsi come volevano. I pianeti, le stelle e gli elementi potevano anche provenire dall’immaginazione di Dio. Ma gli uomini erano troppo intrattabili perché si potesse attribuirne l’esistenza ad altri che a loro stessi.
Questo era il punto cui Alvin era arrivato la sera prima, mentre camminava in mezzo alla neve e pensava alle cose che non avrebbe mai saputo. Per esempio, che cosa sogna Dio quando dorme — ammesso che mai si addormenti — e se tutti i suoi sogni poi si avverano, cosicché ogni notte salta fuori un nuovo universo pieno di gente. Domande che non lo avrebbero portato di un capello più vicino a diventare un Creatore.
Così quel giorno, avanzando faticosamente nella neve verso la locanda, a testa bassa per difendersi dal vento, cominciò a pensare alla prima domanda: quale poteva essere l’aspetto di un atomo? Cercò d’immaginarsi qualcosa di così minuscolo che fosse impossibile dividerlo in due. Ma ogni volta che immaginava qualcosa del genere — una minuscola scatola, una minuscola biglia e via dicendo — ebbene, finiva sempre coll’immaginarselo diviso a metà.
L’unico caso in cui non poteva dividere qualcosa a metà era se questo qualcosa fosse stato così sottile che niente avrebbe potuto essere più sottile. Pensò a un qualcosa di così schiacciato da essere più sottile di un foglio di carta, così sottile che, se uno lo guardava di taglio, era esattamente come se non esistesse. Tuttavia, anche in questo caso, ammettendo di non poterlo dividere nel senso dello spessore, Alvin poteva sempre immaginare di voltarlo, tagliandolo in due come un pezzo di carta.
E se fosse stato schiacciato anche nell’altra direzione, così da essere soltanto un bordo, come il filo più sottile che si potesse immaginare? Nessuno avrebbe potuto vederlo, eppure sarebbe pur sempre esistito, perché si estendeva da qui a lì. Sicuramente non lo si sarebbe potuto dividere lungo il bordo, e non aveva una superficie piatta come la carta. Eppure, finché si estendeva come un filo invisibile da un punto all’altro, per quanto breve fosse la distanza, Alvin poteva pur sempre immaginare di tagliarlo a metà, e poi ancora a metà.
No, l’unico modo in cui una particella poteva essere così piccola da diventare un atomo era quello di non possedere dimensioni in nessuna direzione, né lunghezza né larghezza né spessore. In questo caso quella particella sarebbe stata sicuramente un atomo… Solo che non sarebbe neanche esistita, sarebbe stata semplicemente nulla. Un semplice punto senza niente dentro.
Saliti i gradini della locanda, Alvin cominciò a pestare i piedi per liberarli dalla neve, il che era senz’altro meglio che bussare per avvertire chi si trovava all’interno che era arrivato qualcuno. Udendo i rapidi passi di Arthur Stuart che veniva ad aprirgli, non riusciva a pensare ad altro che agli atomi. Infatti, sebbene avesse appena concluso che gli atomi non potevano esistere, stava incominciando a rendersi conto che sarebbe stato ancora più pazzesco pensare che gli atomi veramente non esistessero, e che ogni cosa potesse essere divisa in pezzi più piccoli, e questi pezzi potessero essere divisi a loro volta in pezzi ancora più piccoli, e così via all’infinito. E, a rifletterci bene, non c’erano alternative. O si arrivava a una particella che non poteva più essere divisa, cioè all’atomo, oppure non ci si arrivava, il che significava andare avanti all’infinito… e questo era più di quanto la testa di Alvin potesse sopportare.
Quasi senza rendersene conto, si ritrovò nella cucina della locanda, con Arthur Stuart a cavalluccio che giocava con cappello e sciarpa. Horace Guester era nel fienile a imbottire di paglia le nuove fodere dei materassi, perciò fu alla vecchia Peg che Alvin chiese in prestito la slitta. In cucina faceva un gran caldo, e Goody Guester non sembrava particolarmente di buon umore. Gli concesse l’uso della slitta, ma c’era un prezzo da pagare.
«Salva la vita di un bambino di mia conoscenza, Alvin, e porta con te Arthur Stuart» disse la vecchia Peg «o giuro che, se ne combina un’altra delle sue, stasera finisce nello spezzatino.»
In effetti Arthur Stuart sembrava in vena di marachelle… in quel momento stava tentando di strangolare Alvin con la sua stessa sciarpa e rideva come un matto.
«Facciamo un po’ di ripasso, Arthur» disse Alvin. «Come si scrive ‘mi stai strozzando’?»
«M-I S-T-A-I S-T-R-O-Z-Z-A-N-D-O» compitò diligentemente Arthur Stuart.
Arrabbiata com’era, Goody Guester non poté fare a meno di scoppiare a ridere… Non perché Arthur Stuart si fosse mangiato una doppia, ma perché aveva compitato quelle parole in una perfetta imitazione della signorina Larner. «Te lo giuro, Arthur Stuart» disse «sarà meglio che non ti faccia mai sentire dalla maestra, o con la scuola hai chiuso.»
«Benissimo! Non mi piace andare a scuola!» esclamò il ragazzino.
«Sicuramente andare a scuola ti piace di più di quanto non ti piacerebbe lavorare qui in cucina con me» ribatté Goody Guester. «Da mattina a sera, ogni giorno che Dio manda in terra, estate e inverno, perfino i giorni in cui potresti andare a nuotare.»
«Meglio schiavo negli Appalachi!» gridò Arthur Stuart.
Goody Guester cessò sull’istante tanto di scherzare quanto di essere arrabbiata, e assunse un tono solenne. «Non dire queste cose neanche per scherzo, Arthur Stuart. Un giorno qualcuno è morto solo per evitarti quel destino.»
«Lo so» disse Arthur.
«No, che non lo sai, ma sarà meglio che tu ci pensi due volte prima di…»
«Era la mia mamma» mormorò Arthur.
La vecchia Peg sembrò impaurita. Gettò un’occhiata ad Alvin e disse: «Lasciamo stare».
«La mia mamma è diventata un corvo» proseguì Arthur. «È volata in alto nel cielo, ma poi la terra se l’è presa e lei è rimasta impigliata ed è morta.»
Alvin notò che Goody Guester gli aveva lanciato un’altra occhiata, ancora più nervosa. Allora nella storia di Arthur a proposito di volare forse c’era qualcosa di vero. E se la ragazza sepolta accanto a Vigor… Magari in qualche modo era riuscita ad affidare il suo bambino a un corvo. O forse era stata solo una visione. Comunque fosse, Goody Guester aveva deciso di far finta di niente… Era troppo tardi per ingannare Alvin, si capisce, ma lei non poteva saperlo. «Be’, Arthur, è proprio una bella storia» commentò la vecchia Peg.
«Ma è vera» disse Arthur. «Mi ricordo tutto.»
Goody Guester parve ancora più turbata. Alvin però sapeva bene che non era davvero stato il caso di mettersi a discutere con Arthur riguardo a quella sua idea del corvo e del fatto che una volta aveva volato. L’unico modo per farlo smettere era distrarlo con qualcosa di più interessante. «È meglio che tu venga con me, Arthur Stuart» disse allora. «Può anche darsi che nel tuo passato ci sia una mamma trasformata in corvo, ma ho l’impressione che la tua mamma di adesso, quella che si trova in questa cucina, stia per impastarti come una pastafrolla.»
«Non dimenticarti quello che mi devi comprare» lo ammonì la vecchia Peg.
«Non preoccupatevi. Ho la lista» disse Alvin.
«Ma se non ti ho visto scrivere nulla!»
«La mia lista è Arthur Stuart. Faglielo sentire, Arthur.»
Arthur avvicinò la bocca all’orecchio di Alvin e urlò così forte che il giovane si sentì tremare fino alle caviglie: «Un barilotto di farina di grano e due coni di zucchero e una libbra di pepe e dodici fogli di carta e un paio di braccia di stoffa che possa andar bene per una camicia per Arthur Stuart».
Anche se urlava, quella era chiaramente la voce di sua madre.
La vecchia Peg non sopportava quelle imitazioni, perciò gli si avvicinò con il forchettone in una mano e una pesante mannaia nell’altra. «Tienilo fermo, così che gli possa piantare il forchettone in bocca e tagliar via le orecchie!»
«Salvami, Alvin!» gridò Arthur Stuart.
Alvin lo salvò scappando verso la porta posteriore. Allora la vecchia Peg depose i suoi strumenti per la macellazione dei bambini, e aiutò Alvin a infagottare Arthur Stuart con giacconi, pantaloni imbottiti, stivali e sciarpe finché non fu più largo che alto. Poi Alvin aprì la porta, lo buttò di peso nella neve e lo fece rotolare col piede finché non ne fu completamente ricoperto.
La vecchia Peg si affacciò alla porta della cucina. «Molto bene, Alvin Junior!» latrò. «Fallo morire di freddo davanti agli occhi di sua madre, testa vuota che non sei altro!»
Alvin e Arthur Stuart risposero con una risata. La vecchia Peg ingiunse loro di stare attenti e di tornare a casa prima che facesse buio, quindi sbatté la porta chiudendola dall’interno con il paletto.
Alvin e Arthur attaccarono i cavalli alla slitta, poi spazzarono la neve che l’aveva ricoperta nel frattempo, infine vi montarono sopra e sedettero, coprendosi le ginocchia con la coperta. Anzitutto salirono alla fucina a prendere la roba che Alvin doveva consegnare, più che altro cardini, catenacci e attrezzi per i falegnami e i sellai della città, per i quali l’inverno era la stagione dell’anno in cui avevano più lavoro. Poi si diressero verso la città.
Non avevano percorso molta strada quando raggiunsero un uomo che avanzava faticosamente nella neve: non era neanche troppo ben vestito, considerando la stagione. Quando furono alla sua altezza e poterono vederlo in viso, Alvin non fu sorpreso nel riconoscere Mock Berry.
«Salta sulla slitta, Mock Berry, così che io non debba averti sulla coscienza» lo invitò il giovane.
Sebbene fosse stato appena sorpassato dai cavalli che sbuffavano e scalpitavano nella neve, Mock guardò Alvin come se solo udendo quelle parole si fosse accorto della sua presenza. «Grazie, Alvin» rispose. Alvin si spostò sul sedile per fargli posto. Mock salì accanto a lui: si muoveva in maniera alquanto goffa, perché aveva le mani intorpidite dal freddo. Solo nell’atto di sedersi parve accorgersi di Arthur Stuart seduto dall’altra parte. Reagì nello stesso modo che se qualcuno gli avesse tirato un ceffone… Si rialzò e fece per scendere dalla slitta.
«Ehi, aspetta!» esclamò Alvin. «Non sarai stupido come i Bianchi di città, che si rifiutano di sedersi accanto a un piccolo mulatto! Vergogna!»
Mock guardò fisso Alvin per qualche secondo prima di decidersi a rispondere. «Ascoltami bene, Alvin Smith, mi conosci abbastanza bene da sapere che non è vero. So benissimo da dove saltano fuori i mulatti come lui, e non me la prendo certo con loro per quel che un Bianco può aver fatto insieme alle loro mamme. Ma in città girano voci riguardo alla vera mamma di questo bambino, e non è bene che io mi faccia vedere in giro insieme a lui.»
Alvin conosceva bene quella storia: Arthur Stuart sarebbe stato figlio di Anga, moglie di Mock e, siccome suo padre era evidentemente un Bianco, Mock si sarebbe rifiutato categoricamente di tenere il bambino; era per questo motivo che Goody Guester se l’era preso in casa. Alvin sapeva anche che una simile storia non era vera, ma in una città come quella era meglio lasciar girare una storia del genere piuttosto che far sospettare la verità. Alvin non si sarebbe sorpreso se qualche bravo cittadino di Hatrack avesse denunciato Arthur come schiavo, facendolo poi rispedire al Sud, in modo da non avere più grattacapi riguardo alla scuola e via dicendo.
«Non preoccuparti» disse Alvin. «In una giornata come questa non ti vedrà nessuno, e se anche ciò accadesse, Arthur somiglia più a un fagotto di stracci che a un bambino. E tu puoi saltar giù non appena arriviamo in città.» Così dicendo Alvin si chinò di lato afferrando Mock per il braccio e costringendolo a sedersi di nuovo. «Ora tirati la coperta sulle ginocchia e stringiti a me in modo che io non debba portarti direttamente dal becchino ridotto a un pezzo di ghiaccio.»
«Ti ringrazio di cuore, saputello di un apprendista.» Mock tirò su la coperta in modo che ricoprisse completamente Arthur Stuart. Arthur strillò e la tirò giù di nuovo in modo da poter vedere la strada. Poi lanciò a Mock Berry uno sguardo tale che, se non fosse stato tremante di freddo e bagnato fino alle ossa, avrebbe potuto incenerirlo.
Quando arrivarono in città, trovarono un sacco di slitte, ma nessuna traccia dell’allegria che di solito accoglie la prima vera nevicata. La gente continuava a occuparsi delle proprie faccende, e i cavalli fumanti se ne stavano lì a sbuffare e a scalpitare sotto la sferza del vento. I più pigri — avvocati, impiegati e tipi del genere — in una giornata come quella preferivano restarsene a casa. Ma chi doveva lavorare sul serio aveva il fuoco acceso, il laboratorio in funzione, la bottega aperta per i clienti. Alvin fece il suo giro consegnando i lavori finiti alle persone che li avevano ordinati. Tutti quanti firmarono sul quaderno delle consegne di Makepeace… Ecco un’altra ingiustizia da parte sua, pensò Alvin: non permette che i clienti mi paghino in contanti. Mi tratta alla stregua di un ragazzino di nove anni e non come un giovane che di anni ne ha il doppio.
Ogni volta che Alvin si fermava da un cliente, Arthur Stuart restava nella slitta, al riparo della coperta. Alvin infatti non rimaneva mai al chiuso abbastanza a lungo perché uno avesse il tempo di riscaldarsi dopo aver percorso il tragitto dalla slitta alla porta d’ingresso. Fu solo quando giunsero all’emporio di Pieter Vanderwoort che valse la pena di entrare a riscaldarsi. Pieter aveva una stufa bella grande, e Alvin e Arthur non erano i primi ad avere avuto l’idea di starsene un po’ lì al calduccio. Nella bottega infatti c’erano già un paio di ragazzi di città: tenevano i piedi contro la stufa, e sorseggiavano tè bollente rinforzato con un goccetto o due di liquore versato da una fiaschetta. Quei due non erano il tipo di ragazzi con cui Alvin trascorresse molto del suo tempo. Sì, li aveva fatti ruzzolare nella polvere un paio di volte, ma questo valeva per qualsiasi essere umano di sesso maschile che abitasse in città e che fosse disposto a misurarsi con lui. Alvin sapeva che quei due — uno, quello con i brufoli, si chiamava Martin, l’altro Daisy… Sì, lo so che non è un nome molto dignitoso per chiunque non sia una mucca, fatto sta che si chiamava proprio così insomma, sapeva che quei due erano il genere di ragazzi cui piace dar fuoco ai gatti e fare battute volgari alle spalle delle ragazze. Non erano persone che Alvin sarebbe andato a cercare, però nemmeno le trovava particolarmente antipatiche. Così salutò entrambi con un cenno del capo, e loro ricambiarono il saluto. Uno alzò la fiaschetta nella sua direzione per invitarlo a bere, ma Alvin rifiutò cortesemente, e la cosa finì lì.
Al bancone, Alvin si tolse qualche sciarpa, avvertendo un grande sollievo, perché sotto era tutto sudato; poi cominciò a srotolare quelle di Arthur Stuart, che si mise a girare come una trottola mentre Alvin le tirava dall’estremità. Le risate di Arthur richiamarono dal retrobottega il signor Vanderwoort, che si mise a ridere a sua volta.
«Da piccoli sono così carini, eh?» commentò.
«Oggi è la mia lista della spesa, vero, Arthur?»
Arthur Stuart snocciolò la lista senza fare un solo errore, anche stavolta con la voce di sua madre. «Un barilotto di farina di grano e due coni di zucchero e una libbra di pepe e dodici fogli di carta e un paio di braccia di stoffa che possa andar bene per una camicia per Arthur Stuart.»
Il signor Vanderwoort quasi morì dal ridere. «Quando parla come la sua mamma quel ragazzo mi fa proprio schiantare» disse.
Uno dei ragazzi accanto alla stufa sghignazzò sonoramente.
«Intendo dire la sua mamma adottiva, si capisce» precisò Vanderwoort.
«Ma no, probabilmente è proprio la sua vera mamma!» disse Daisy. «Ho sentito dire che Mock Berry fa un sacco di lavoretti su alla locanda!»
Alvin si morse le labbra per non rispondergli d’istinto. Invece riscaldò la fiaschetta che Daisy teneva in mano, così che quest’ultimo la lasciò cadere con un’esclamazione di sorpresa.
«Vieni con me nel retrobottega, Arthur Stuart» lo invitò Vanderwoort.
«Mi ha quasi bruciato la mano!» bofonchiò Daisy.
«Ora ripetimi la lista una voce alla volta, e io ti darò tutto quello che ti serve» disse Vanderwoort. Alvin sollevò Arthur sopra il bancone e Vanderwoort lo agguantò dall’altra parte deponendolo di nuovo a terra.
«Stupido come sei, l’avrai appoggiata sulla stufa» disse Martin. «Pensavi che per riscaldare lo stomaco il whisky dovesse essere a bollore?»
Vanderwoort condusse Arthur nel retrobottega. Alvin prese un paio di biscotti da un barile e avvicinò uno sgabello alla stufa.
«Ma io non l’avevo messa sulla stufa» insistette Daisy.
«Salve, Alvin» disse Martin.
«Salve, Martin. Salve, Daisy. Proprio la giornata giusta per starsene vicino alla stufa.»
«Proprio una giornata storta, invece» borbottò Daisy. «Piccoli Neri saccenti e dita bruciate.»
«Qual buon vento ti porta in città, Alvin?» chiese Martin. «E come mai ti sei tirato dietro quel carboncino? O la vecchia Peg Guester te l’ha venduto?»
Alvin si limitò a sgranocchiare il biscotto. Era stato un errore punire Daisy per quello che aveva detto, e sarebbe stato un errore ancora più grave farlo di nuovo. Non era stato proprio il tentativo di punire qualcun altro ad attirargli addosso il Distruttore? No, da quel giorno dell’estate precedente Alvin si era ripromesso di controllarsi, perciò tacque, limitandosi a mangiare il biscotto.
«Quel ragazzo non è in vendita» disse Daisy. «Lo sanno tutti. Pensa, la vecchia Peg sta perfino cercando d’istruirlo, così almeno ho sentito dire.»
«Anch’io sto istruendo il mio cane» esclamò Martin. «Secondo te quel ragazzo avrà già imparato a dare la zampa, a puntare la selvaggina o a fare qualcos’altro di utile?»
«Ma tu hai un vantaggio, Marty» disse Daisy. «Il cane ha abbastanza cervello da capire che è un cane, per cui non si mette in testa d’imparare a leggere. Ma quegli scimmiotti senza pelo che sono capaci di credersi umani, capisci che voglio dire?»
Alvin si alzò, avvicinandosi al bancone. Vanderwoort era ormai di ritorno con le braccia cariche di roba. Arthur gli trotterellava alle calcagna.
«Vieni qui dietro, Alvin» disse Vanderwoort. «La stoffa per la camicia di Arthur sarà meglio che la scelga tu.»
«Ma io di stoffa non ci capisco nulla» protestò Alvin.
«Be’, io di stoffa me ne intendo, ma non so quali siano i gusti della vecchia Peg Guester, e se quella che le riporterai a casa poi non va bene, preferisco che sia colpa tua e non mia.»
Alvin si mise a sedere sul bancone e gettò le gambe dall’altra parte. Vanderwoort lo condusse nel retrobottega e insieme trascorsero qualche minuto a scegliere una flanella scozzese che andasse bene per la camicia e allo stesso tempo fosse abbastanza resistente da poterne utilizzare i ritagli per qualche toppa da mettere sui pantaloni. Quando tornarono in negozio, Arthur Stuart era vicino alla stufa con Daisy e Martin.
«Come si scrive ‘sassofrasso’?» stava domandando Daisy.
«S-A-S-S-O-F-R-A-S-S-O» disse Arthur Stuart, come al solito in una perfetta imitazione della voce della signorina Larner.
«È giusto?» chiese Martin.
«Che mi prenda un colpo.»
«Non mi sembra il caso di usare parole del genere vicino a un bambino» disse Vanderwoort.
«Ah, non preoccupatevi» ribatté Martin. «È il nostro carboncino preferito. Non gli faremo del male.»
«Non sono un carboncino» protestò Arthur Stuart. «Sono un bambino mulatto.»
«Ehi, ma è proprio vero!» La voce di Daisy si fece così acuta da incrinarsi.
Alvin non ne poteva quasi più. Parlò a voce bassissima, in modo che solo Vanderwoort potesse udirlo. «Un’altra battuta come questa e gli riempio le orecchie di neve.»
«Non prendertela» mormorò Vanderwoort. «In fondo non fanno male a nessuno.»
«È per questo che non lo ammazzo.» Ma lo disse sorridendo, e sorrise anche Vanderwoort. Daisy e Martin stavano solo giocando, e finché Arthur Stuart si divertiva, che male c’era?
Martin prese una boccetta da uno scaffale e la portò a Vanderwoort. «Che c’è scritto qui?» chiese.
«Eucalipto» disse Vanderwoort.
«Allora dimmi, mio piccolo mulatto, come si scrive ‘eucalipido’?»
«E-U-V-A-L-I-P-T-O» disse Arthur.
«Ma sentitelo!» esclamò Daisy. «La maestra non vuole perder tempo con noi, però intanto abbiamo la sua voce che ci sillaba tutto quello che diciamo.»
«Come si scrive ‘tette’?» domandò Martin.
«Ehi, ora esagerate davvero» intervenne Vanderwoort. «È solo un bambino.»
«Volevo solo sentirglielo dire con la voce della maestra» disse Martin.
«L’avevo capito benissimo, ma questi discorsi andate a farli dietro il fienile di casa vostra, e non nel mio negozio.»
Con una folata di vento gelido, la porta si aprì, lasciando entrare Mock Berry. Sembrava stanco e mezzo congelato, e in effetti lo era.
I ragazzi non fecero il minimo caso alla sua presenza. «Dietro il fienile non ci sono stufe» protestò Daisy.
«E allora pensateci un momento su, prima di aprir bocca» tagliò corto Vanderwoort.
Alvin vide Mock Berry lanciare un’occhiata di sbieco alla stufa, senza fare il minimo tentativo di avvicinarsi. In una giornata come quella, nessun uomo con un briciolo di cervello sarebbe restato lontano dalla stufa. Ma Mock Berry sapeva che esistevano cose peggiori del freddo. Perciò si diresse senza esitare verso il bancone.
Vanderwoort non poteva non averlo notato, tuttavia per qualche tempo rimase a osservare Martin e Daisy che facevano compitare ad Arthur Stuart le parole più difficili, senza prestare la minima attenzione a Mock Berry.
«Suskwahenny» disse Daisy.
«S-U-S-K-W-A-H-E-N-N-Y» compitò Arthur.
«Scommetto che quel ragazzo potrebbe vincere qualsiasi gara di ortografia» borbottò Vanderwoort.
«È arrivato un cliente» disse Alvin.
Vanderwoort si voltò lentamente, guardando Mock Berry con volto inespressivo. Poi, sempre muovendosi con estrema lentezza, si avvicinò al banco e restò in piedi davanti a Mock senza dire una parola.
«Mi servirebbero solo due libbre di farina e dodici piedi di quella corda da mezzo pollice» disse Mock.
«Hai sentito?» ridacchiò Daisy. «Forse ha intenzione d’imbiancarsi la faccia e poi impiccarsi.»
«Come si scrive ‘suicidio’, ragazzo?» domandò Martin.
«S-U-I-C-I-D-I-O» compitò Arthur Stuart.
«Non facciamo credito» disse Vanderwoort.
Mock posò sul bancone alcune monete. Vanderwoort le considerò per qualche istante. «Sei piedi di corda.»
Mock tacque.
Vanderwoort tacque.
Alvin sapeva che quel denaro era più che sufficiente per ciò che Mock voleva acquistare. Non riusciva a credere che Vanderwoort alzasse i prezzi per un uomo povero in canna ma onesto lavoratore come pochi altri in città. Anzi, cominciava a capire come mai Mock fosse rimasto così povero. Alvin comunque sapeva di non poter fare molto per aiutarlo; ma per lo meno poteva fare ciò che Horace Guester una volta aveva fatto per lui con il suo padrone, Makepeace: costringere Vanderwoort a venire allo scoperto, rinunciando a ogni ipocrisia. Perciò Alvin posò sul banco il conto che Vanderwoort gli aveva appena consegnato. «Mi spiace di sentire che non fate più credito» disse Alvin. «Andrò a prendere i soldi da Goody Guester.»
Vanderwoort lo guardò fisso. A questo punto aveva due possibilità: mandare Alvin a prendere i soldi, o dichiarare apertamente che ai Guester avrebbe fatto credito, e a Mock Berry no.
Naturalmente Vanderwoort scelse una terza soluzione. Senza dire una parola, andò nel retrobottega e pesò la farina. Poi misurò dodici piedi di corda da mezzo pollice. Vanderwoort era noto per la sua onestà non solo nei pesi e nelle misure ma anche nei prezzi, ed era per questo motivo che Alvin c’era rimasto male nel vederlo comportarsi diversamente con Mock Berry.
Mock prese la fune e la farina, e fece per andarsene.
«Dimentichi il resto» disse Vanderwoort.
Mock si voltò, cercando di mascherare la sorpresa. Tornò indietro e guardò Vanderwoort contare sul bancone un decino e tre centesimi. Poi, dopo un attimo di esitazione, Mock raccolse le monetine dal piano di legno e se le mise in tasca.
«Grazie, signore» disse. Poi uscì nel gelo.
Vanderwoort tornò a voltarsi verso Alvin, con espressione adirata o forse solo stizzita. «Non posso fare credito a chiunque.»
Be’, Alvin avrebbe potuto dire qualcosa a proposito del fatto che per lo meno avrebbe potuto fare gli stessi prezzi a Bianchi e Neri, ma non voleva guastare i propri rapporti col signor Vanderwoort, che in fondo era una brava persona. Perciò sorrise affabilmente e disse: «Certo, lo so bene. Quei Berry sono poveri quasi come me».
Vanderwoort si rilassò, il che significava che teneva di più alla stima di Alvin che a rifarsi per la brutta figura. «Devi capire, Alvin, che per un commerciante non è bene avere gente simile in giro per il negozio. Nessuno ha niente da ridire su quel tuo mulattino — da piccoli sono così carini — ma se la gente pensasse di poter trovare qui uno di loro se ne starebbe alla larga.»
«So che Mock Berry è uno che sa mantenere la parola data» disse Alvin. «E non ho mai sentito dire che rubasse, battesse la fiacca e via dicendo.»
«No, nessuno ha mai detto di lui cose del genere.»
«Sono felice di sapere che considerate sia me sia lui tra i vostri clienti» sorrise Alvin.
«Ehi, Daisy, sta’ un po’ a sentire» disse Martin. «Penso che Alvin l’apprendista abbia cambiato mestiere e si sia messo a fare il predicatore. Come si scrive ‘reverendo’, figliolo?»
«R-E-V-E-R-E-N-D-O.»
Vanderwoort vide che le cose rischiavano di prendere una brutta piega, per cui cercò di cambiare argomento. «Come ti dicevo, Alvin, è facile che in una gara di ortografia questo ragazzo si piazzi al primo posto in tutta la contea, non credi? Perché non s’iscrive al campionato della contea, la settimana prossima? Penso proprio che con lui la città di Hatrack potrebbe vincere i campionati regionali. E se vuoi proprio sapere la mia opinione, potrebbe vincere addirittura i campionati nazionali.»
«Come si scrive ‘campionato’?» domandò Daisy.
«La signorina Larner non me l’ha spiegato» disse Arthur Stuart.
«Be’, cerca di arrivarci da solo» lo incoraggiò Alvin.
«C-A-M-P…» fece Arthur. «…E-O-N-A-T-O.»
«A me sembra che vada bene» disse Daisy.
«Da questo si capisce quanto ne sai» commentò Martin.
«Sapresti fare di meglio?» chiese Vanderwoort.
«Non devo mica partecipare alla gara di ortografia, io» ribatté Martin.
«Gara di ortografia?» chiese Arthur Stuart. «Che cos’è?»
«È ora di andare» disse Alvin. Sapeva fin troppo bene che Arthur Stuart non figurava ufficialmente fra gl’iscritti della scuola elementare di Hatrack, e perciò non aveva nessuna speranza di partecipare alla competizione. «Ah, signor Vanderwoort, devo pagarvi i biscotti.»
«Non farò certo pagare due biscotti a un amico» disse Vanderwoort.
«Sono orgoglioso di sapere che mi considerate fra i vostri amici» disse Alvin. Ed era vero: solo una brava persona poteva essere sorpresa a fare qualcosa che non andava, e poi trattare da amico colui che l’aveva colta in fallo.
Alvin riavvolse Arthur Stuart nelle sue numerose sciarpe, poi si coprì ben bene a sua volta e infine si buttò a testa in avanti nella bufera, stavolta portandosi sulle spalle il sacco di tela in cui c’erano gli acquisti. Infilò il sacco sotto il sedile della slitta in modo che la neve non lo bagnasse. Poi sollevò di peso Arthur Stuart sulla slitta e vi salì a sua volta. I cavalli parvero ben felici di rimettersi in movimento: rimanere tutto quel tempo immobili al freddo non era stato piacevole.
Sulla via del ritorno verso la locanda, raggiunsero Mock Berry che avanzava faticosamente nella neve e gli diedero un passaggio fino a casa. Nessuno disse una sola parola a proposito di ciò che era accaduto nell’emporio del signor Vanderwoort, ma Alvin sapeva che ciò non significava che l’altro non avesse apprezzato il suo gesto. Pensò che Mock Berry fosse tremendamente imbarazzato all’idea che ci fosse voluto un apprendista diciottenne per ottenere misure giuste e prezzi equi all’emporio di Vanderwoort… e solo perché quel ragazzo era bianco. Non era il genere di cose di cui un uomo si divertisse a chiacchierare.
«Salutami Goody Berry» gridò Alvin quando Mock saltò giù dalla slitta davanti al viottolo che conduceva a casa sua.
«Certo» disse Mock. «E grazie per il passaggio.» Fatti non più di sei passi scomparve in mezzo alla neve che turbinava da ogni parte. Il vento era sempre più forte.
Una volta scaricati gli acquisti alla locanda, per Alvin e Arthur era quasi giunta l’ora della lezione, per cui entrambi s’incamminarono verso la casa della signorina Larner scagliandosi palle di neve per tutto il tragitto. Alvin si fermò alla fucina per consegnare a Makepeace il registro delle consegne. Ma il fabbro doveva aver staccato in anticipo, perché alla fucina non c’era nessuno; Alvin infilò il quaderno sullo scaffale accanto alla porta, dove Makepeace avrebbe potuto trovarlo. Poi lui e Arthur ricominciarono a scambiarsi palle di neve aspettando che la signorina Larner tornasse a casa.
Il dottor Whitley Physicker le aveva dato un passaggio con la sua slitta coperta e l’accompagnò fino alla porta. Quando si accorse di Alvin e Arthur in attesa a poca distanza, parve irritato. «Ehi, voi due, non vi viene in mente che in una giornata come questa la signorina Larner possa essere stanca di fare lezione?»
La donna posò la mano sul braccio del dottore. «Grazie per avermi riaccompagnata a casa, dottor Physicker» disse.
«Preferirei che mi chiamaste Whitley.»
«Siete molto gentile, dottor Physicker, ma penso di sentirmi più a mio agio usando il vostro titolo. In quanto ai miei allievi, ho scoperto che imparano molte più cose quando fa brutto tempo, perché così non preferirebbero essere allo stagno a nuotare.»
«Io no!» esclamò Arthur Stuart. «Come si scrive ‘campionato’?»
«C-A-M-P-I-O-N-A-T-O» compitò la signorina Larner. «Dove hai sentito questa parola?»
«C-A-M-P-I-O-N-A-T-O» ripeté Arthur Stuart… con la voce della signorina Larner.
«Questo ragazzo è indubbiamente un fenomeno» disse Physicker. «Un autentico pappagallo.»
«Il pappagallo imita la voce, ma non ne capisce il senso» puntualizzò la donna. «Arthur Stuart non solo compita le parole con la mia voce, ma ne comprende il significato e può leggerle o scriverle a piacimento.»
«Io non sono un pappagallo» protestò Arthur Stuart. «Sono un campionato di ortografia.»
Il dottor Physicker e la signorina Larner si scambiarono uno sguardo nel quale evidentemente vi era molto di più di quanto Alvin potesse cogliere dall’esterno.
«Molto bene» disse il dottor Physicker. «Poiché in effetti dietro vostra insistenza l’ho iscritto come privatista, Arthur Stuart può partecipare alla gara di ortografia della contea. Ma non aspettatevi di portarlo oltre, signorina Larner!»
«Le vostre ragioni erano senz’altro eccellenti, dottor Physicker, e di conseguenza non posso che essere d’accordo. Ma le mie ragioni…»
«Le vostre ragioni erano schiaccianti, signorina Larner. E non posso che gustare in anticipo la costernazione di coloro che si sono battuti per tenerlo fuori dalla scuola quando lo vedranno ottenere risultati migliori di bambini con il doppio dei suoi anni.»
«Costernazione, Arthur Stuart» disse la signorina Larner.
«C-O-S-T-E-R-N-A-Z-I-O-N-E» ripeté Arthur.
«Buona sera, dottor Physicker. Entrate, ragazzi. È l’ora della lezione.»
Arthur Stuart vinse la gara di ortografia della contea, con la parola «celebrativo». Poi la signorina Larner lo ritirò immediatamente da qualsiasi ulteriore competizione; ai campionati nazionali il suo posto venne preso dal secondo classificato. Di conseguenza la notizia non ebbe particolare risonanza, se non tra gli abitanti del luogo. L’unico risultato fu un trafiletto sul quotidiano cittadino.
Lo sceriffo Pauley Wiseman piegò quel foglio di giornale insieme a un breve appunto di suo pugno infilando il tutto in una busta indirizzata al reverendo Philadelphia Thrower, Crociata per i Diritti di Proprietà, 44 Harrison Street, Carthage City, Wobbish. Dovevano trascorrere due settimane prima che quello stesso foglio di giornale venisse aperto sulla scrivania di Thrower assieme a un biglietto che diceva semplicemente:
Il ragazzo è comparso da queste parti nell’estate del 1811. A occhio e croce non aveva più di qualche settimana. Vive a Hatrack nella locanda di Horace Guester. Se è uno schiavo fuggiasco, mi sa che l’adozione non vale un fico secco.
Niente firma… ma Thrower c’era abituato, anche se non ne capiva il motivo. Perché la gente cercava di nascondere la propria identità quando contribuiva al trionfo della fede? Thrower scrisse a sua volta una lettera e la spedì a un certo indirizzo del Sud.
Un mese dopo, Cavil Planter leggeva la lettera di Thrower a due Cacciatori. Poi porse loro i contrassegni che conservava da tanti anni, due piccole scatole contenenti capelli e unghie di Agar e del piccolo Ismaele.
«Saremo di ritorno prima dell’estate» commentò il Cacciatore dai capelli neri. «Se è vostro, ve lo riporteremo.»
«Allora vi sarete guadagnati non solo il vostro compenso ma anche un lauto premio» disse Cavil Planter.
«Non abbiamo bisogno di premi» lo corresse il Cacciatore dai capelli bianchi. «Onorario e spese saranno già abbastanza.»
«Bene, sia come volete» disse Cavil. «Sono certo che il Signore guiderà i vostri passi.»