IX PETTIROSSO

Alvin si svegliò dopo qualche ora, la luna ormai bassa a occidente, un vago chiarore a oriente. Non aveva avuto intenzione di addormentarsi. Ma in fin dei conti era stanco, e il lavoro era finito, perciò era naturale che, chiudendo gli occhi, non avrebbe potuto pretendere di restare sveglio. Aveva ancora tutto il tempo di attingere un secchio d’acqua e portarlo a casa.

Ma aveva veramente gli occhi aperti? Il cielo lo vedeva, grigio chiaro a sinistra, grigio chiaro a destra. Ma gli alberi dov’erano? Non avrebbero dovuto agitarsi lievemente sotto la brezza del mattino, proprio ai margini del suo campo visivo? In quanto a ciò, non c’era nessuna brezza; e oltre a quello che vedeva con gli occhi e toccava con. la pelle, c’erano altre cose che non riusciva a percepire. La verde musica della foresta vivente. Se n’era andata. Nessun mormorio di vita degl’insetti addormentati nell’erba, nessun battito del cuore dei cervi in giro a brucare alle prime luci dell’alba. Nessun uccello appollaiato fra gli alberi, in attesa che il calore del sole mettesse in movimento gl’insetti.

Tutto morto. Sparito. La foresta non c’era più.

Alvin aprì gli occhi.

Ma non erano già aperti?

Alvin aprì di nuovo gli occhi, e anche questa volta non riuscì a vedere; senza chiuderli, li riaprì ancora una volta, e ogni volta il cielo sembrava più scuro… No, non più scuro, semplicemente più lontano, si allontanava precipitosamente da lui come se egli stesse precipitando in un abisso così profondo che il cielo stesso vi si perdeva.

Alvin gettò un grido di paura, e aprì gli occhi già aperti, e vide…

L’aria tremolante del Distruttore che scendeva su di lui e gli s’insinuava nelle narici, fra le dita, nelle orecchie.

Non che Alvin riuscisse a sentirla, nossignore. Riusciva solo a sentire quello che non c’era più; lo strato più esterno della sua pelle, ovunque il Distruttore lo toccasse, il suo stesso corpo che si disfaceva, le minuscole particelle del suo essere che morivano, si seccavano, si squamavano.

«No!» esclamò. Ma quel grido venne inghiottito dal silenzio, mentre il Distruttore gl’irrompeva nella gola e nei polmoni, e Alvin non riusciva a stringere i denti e a serrare le labbra con forza sufficiente per impedire a quel viscido guastatore d’insinuarglisi dentro, di corroderlo dall’interno.

Alvin cercò di curarsi come aveva fatto con la gamba la volta che la macina di mulino gliel’aveva spezzata di netto. Ma stavolta era come nella fiaba di Scambiastorie. Lui ricostruiva, e il Distruttore distruggeva a velocità doppia. Per ogni punto che riusciva a guarire, c’erano mille punti guastati e perduti per sempre. Stava per morire, ormai c’era quasi, e non sarebbe stata semplicemente la morte, perdere la carne e sopravvivere con lo spirito. Il Distruttore intendeva consumare corpo e anima, carne e mente insieme.

Uno scroscio d’acqua. Alvin udì uno scroscio. Il semplice fatto di udire un rumore fu la cosa più bella che avesse mai udito in vita sua. Significava che al mondo c’era qualcosa oltre al Distruttore che lo avviluppava penetrando all’interno del suo essere.

Alvin udì quel rumore echeggiare e riverberare nella sua memoria: adesso aveva qualcosa cui aggrapparsi, un frammento di mondo reale cui appigliarsi. Alvin aprì gli occhi.

Questa volta capì di averli aperti davvero, perché vide di nuovo il cielo orlato di alberi. E in piedi davanti a lui, con un secchio fra le mani, vide Gertie Smith, la moglie di Makepeace.

«Penso che sia la prima acqua attinta da quel pozzo» disse la donna.

Alvin aprì la bocca e sentì l’aria fresca e umida irrompergli nei polmoni.

«Lo penso anch’io» sussurrò.

«Non ti avrei mai creduto capace di scavarlo e foderarlo di pietre come si deve, tutto in una notte» disse lei. «Quel ragazzo, Arthur Stuart, mi è venuto in cucina mentre infornavo i biscotti per la colazione, dicendomi che il pozzo era finito. Non ho potuto fare a meno di venire a vedere.»

«Si sveglia presto, il ragazzino» commentò Alvin.

«E tu fai parecchio tardi la sera» ribatté Gertie. «Se fossi un uomo grande e grosso come te, gliela farei vedere a mio marito, Alvin, apprendista o non apprendista.»

«Ho fatto come mi aveva detto.»

«Ne sono sicura, proprio come sono sicura che il punto in cui ti aveva detto di scavare era laggiù, accanto alla fucina, dove è venuta fuori la pietra viva, giusto?» Gertie ridacchiò allegramente. «Così impara, quel vecchio sbruffone. Beve senza fiatare tutto quel che gli racconta il rabdomante, ma il vero dono della rabdomanzia ce l’ha il suo apprendista, non quel vecchio imbroglione…»

Per la prima volta, Alvin si rese conto che la buca scavata con tanta rabbia era come un cartello che proclamava ai quattro venti che lui non aveva solo un dono per la ferratura. «Vi prego, signora» mormorò.

«Vi prego di che cosa?»

«Il mio dono non è la rabdomanzia, signora, e se voi cominciate a dirlo in giro, io non avrò più pace.»

Gertie lo fissò freddamente. «Se non hai il dono della rabdomanzia, ragazzo, spiegami come mai dal pozzo che hai scavato si attinge acqua limpida e fresca.»

Alvin aveva già calcolato la bugia. «La bacchetta del rabdomante si era piegata anche in questo punto, io me n’ero accorto, e così quando, scavando il primo pozzo, ho trovato la pietra, mi è sembrato il caso di scavare anche qui.»

Gertie era sospettosa per natura. «Sei sicuro che diresti la stessa cosa anche se Gesù fosse qui per giudicare la sorte della tua anima a seconda di quello che stai dicendo?»

«Signora, penso che se Gesù fosse qui non starei certo a pensare ai pozzi, ma chiederei perdono per i miei peccati.»

Gertie rise di nuovo, dandogli una leggera pacca sulla spalla. «La tua storia non mi dispiace. Te ne stavi lì a guardare il vecchio Hank Dowser che cercava l’acqua, e hai visto la bacchetta che si piegava. Sì, non è male davvero. Questa è la storia che racconterò a tutti, fidati di me.»

«Grazie, signora.»

«Ecco. Bevi. Ti sei meritato il primo sorso dal primo secchio d’acqua pura attinta da questo pozzo.»

Alvin sapeva che, secondo l’usanza, il primo sorso sarebbe toccato al padrone del pozzo. Ma Gertie l’aveva offerto a lui, e Alvin aveva tanta sete che non sarebbe riuscito a sputare due centesimi di saliva nemmeno se gliel’avessero pagata cinque dollari l’oncia. Così si portò il secchio alle labbra e bevve, lasciando che l’acqua gli grondasse sulla camicia.

«Scommetto che hai anche fame» ridacchiò lei.

«Più stanchezza che fame, penso» disse Alvin.

«Allora vieni a casa e fatti una dormita.»

Alvin sapeva che avrebbe fatto bene a seguire quel consiglio, ma al tempo stesso continuava a vedere il Distruttore aggirarsi nei paraggi, e aveva paura di addormentarsi di nuovo. «Vi ringrazio di cuore, signora, ma preferirei starmene un po’ da solo.»

«Fa’ come vuoi» disse lei, e rientrò in casa.

La brezza del mattino asciugava l’acqua che Alvin si era versato sulla camicia, facendolo rabbrividire. Che l’assalto del Distruttore fosse stato solo un sogno? Era quasi sicuro di no. In quei momenti era stato sveglio, ed era successo tutto veramente, e se Gertie Smith non fosse arrivata ad attingere l’acqua dal pozzo, Alvin sarebbe stato perduto. Il Distruttore non si nascondeva più. Non si aggirava furtivamente alle sue spalle o appena fuori della sua portata. Ovunque Alvin posasse lo sguardo lo vedeva tremolare nella luce grigiastra dell’alba.

Per qualche motivo, il Distruttore aveva scelto proprio quel mattino per affrontarlo a viso aperto. Ma Alvin non aveva la minima idea di come difendersi. Se scavare un pozzo e rifinirlo con tanta cura non era una creazione sufficiente a scacciare il suo nemico, allora era rimasto a corto di espedienti. Il Distruttore non era come gli uomini con cui Alvin faceva la lotta, giù in città. Il Distruttore non aveva niente su cui egli potesse far presa.

Una cosa era certa. Alvin non avrebbe più chiuso occhio finché non fosse riuscito in qualche modo a mettere a terra il Distruttore e a rotolarsi con lui nella polvere.

Sono nato per essere il tuo padrone, disse Alvin rivolgendosi al Distruttore. Perciò dimmi, Distruttore, come posso distruggerti se sei solo Distruzione? Chi m’insegnerà a vincere questa battaglia, se puoi sorprendermi nel sonno in qualsiasi momento, e io non ho la minima idea di come affrontarti?

Mentre, dentro di sé, pronunciava queste parole, Alvin era giunto al limite della foresta. Il Distruttore continuava a indietreggiare, mantenendosi sempre fuori portata. Senza bisogno di guardare, Alvin sapeva di averlo anche alle spalle, e di esserne quindi circondato.

Ora mi trovo nel folto della foresta vergine, dove dovrei sentirmi più sicuro, ma il canto verde non si sente più. Tutt’intorno a me c’è il mio nemico di sempre, e io non so assolutamente che cosa fare.

Il Distruttore invece sapeva bene che cosa fare. Non aveva bisogno di arrovellarsi in cerca di un piano, e Alvin dovette accorgersene anche troppo in fretta.

Infatti, mentre se ne stava in piedi nella brezza fresca di quel mattino estivo, l’aria all’improvviso si fece gelida, e che mi prenda un colpo se non cominciò a nevicare. I fiocchi di neve cadevano fitti sulle foglie degli alberi e sullo spesso tappeto d’erba. E non erano i fiocchi bagnati e pesanti della neve primaverile, bensì i minuscoli cristalli ghiacciati di una bufera invernale che in un batter d’occhio ricoprì tutto di una gelida coltre. Alvin cominciò a battere i denti.

«Non puoi farmi questo» disse.

Ma ora aveva gli occhi bene aperti, di questo era sicuro. Non era un sogno del dormiveglia. Quella era neve vera, che ormai formava uno strato così spesso e pesante che i rami degli alberi ricoperti dal fogliame estivo cominciavano a spezzarsi e le foglie si staccavano, cadendo a terra con un tintinnio di ghiaccio spezzato. E se non avesse trovato una via d’uscita lo stesso Alvin sarebbe ben presto morto assiderato.

Cercò di tornare sui suoi passi, ma la neve cadeva così fitta che Alvin non riusciva a vedere più in là di due o tre passi, e nemmeno poteva orientarsi col suo sesto senso perché il Distruttore aveva annientato il verde canto della foresta vivente. Allora si mise a correre. Solo che non correva con passo sicuro come gli aveva insegnato Ta-Kumsaw; correva goffamente e rumorosamente come uno stupido Bianco e, proprio come sarebbe accaduto alla maggior parte dei Bianchi, scivolò su una pietra coperta di ghiaccio e rovinò a faccia in avanti in un cumulo di neve.

La neve gli entrò in bocca, nel naso e nelle orecchie, gli s’insinuò fra le dita, proprio come la fanghiglia della notte prima, proprio come il Distruttore nel sogno, e Alvin si sentì soffocare e sputò e gridò…

«So che è una bugia!»

La sua voce restò soffocata dalla parete di neve.

«È estate!» urlò.

La mascella gli doleva dal freddo e Alvin capì che parlare ancora sarebbe stata una sofferenza troppo grande, eppure con le labbra intorpidite gridò ancora: «Ti costringerò a smettere!»

E in quel momento si rese conto che dal Distruttore non avrebbe mai ottenuto nulla; non avrebbe mai potuto costringerlo a fare o a essere qualsiasi cosa, perché il Distruttore era solo la negazione dell’essere e del fare. Non era al Distruttore che doveva rivolgersi, ma a tutte le cose viventi che lo circondavano, agli alberi, all’erba, alla terra, all’aria stessa. Doveva ricreare il canto verde della foresta.

Si aggrappò a quell’idea con tutte le forze e la usò, parlò di nuovo, con la voce ormai ridotta a un sussurro, ma levò la sua invocazione, e stavolta senza rabbia.

«Estate» sussurrò.

«Aria tiepida!» disse.

«Foglie verdi!» gridò. «Vento caldo del sudovest! Nubi temporalesche del pomeriggio, foschia mattutina, raggi solari che la riscaldate, bruciando la nebbia!»

Possibile fosse cambiato qualcosa, anche di pochissimo? Che la neve adesso cadesse un po’ meno fitta? Che i cumuli di neve avessero cominciato a sciogliersi, e lo strato di ghiaccio sui rami degli alberi avesse cominciato ad allentare la sua presa?

«È un caldo mattino d’estate e tutto è asciutto!» esclamò. «Può darsi che più tardi cada la pioggia, come un dono portato dai Re Magi, venuti da lontano, ma per ora i raggi del sole cadono sulle foglie, destandovi, e voi mettete altre foglie. È così! È così!»

La sua voce adesso era piena di gioia perché la nevicata si era ridotta a una pioggerella, la neve sul terreno si era sciolta quasi completamente, lasciando solo qualche chiazza qua e là, e sui rami le foglie tornavano a germogliare come un reparto della milizia a passo di parata.

E nel silenzio che seguì al suo ultimo grido, udì un canto d’uccello.

Un canto che Alvin non aveva mai udito prima d’allora. Mai gli era successo di ascoltare quella dolce melodia che cambiava a ogni fischio e non si ripeteva mai. Era un canto che s’intrecciava su se stesso, nel quale non si poteva scorgere alcun disegno preciso e che quindi nessuno avrebbe potuto ripetere; ma non lo si sarebbe nemmeno potuto torcere, filare e scomporre nelle sue diverse parti. Era un tutt’uno, un’unica Creazione, e Alvin capì che se solo fosse riuscito a trovare l’uccello con quel canto nell’ugola sarebbe stato salvo. La sua vittoria sarebbe stata completa.

Si mise a correre, e ora il verde canto della foresta era in lui, e i suoi piedi trovavano il punto giusto in cui posarsi senza bisogno di guardare. Seguì il canto finché non giunse alla radura da cui esso proveniva.

Posato su un vecchio tronco all’ombra del quale ancora resisteva una chiazza di neve c’era un pettirosso che cantava a gola spiegata. E seduto davanti al tronco, col naso che quasi sfiorava il becco dell’uccello… Arthur Stuart.

Alvin avanzò con estrema cautela, descrivendo un ampio arco prima di avvicinarsi al bambino e all’uccello. Arthur Stuart non parve fare il minimo caso alla sua presenza, perché non distolse lo sguardo dal pettirosso nemmeno per un istante. Il sole abbagliava entrambi, ma nessuno dei due batteva ciglio. Anche Alvin rimase in silenzio. Proprio come Arthur Stuart, era completamente affascinato dal canto del pettirosso.

Non aveva niente di diverso da tutti gli altri pettirossi, dai mille uccelli canori dalla pettorina scarlatta che Alvin aveva visto fin da quando era piccolo. Però dalla sua gola proveniva una melodia che nessun altro uccello aveva mai cantato. Quello non era un pettirosso. Né era il pettirosso. Nessun uccello al mondo possedeva un dono del quale tutti i suoi simili fossero privi. Era semplicemente Pettirosso, l’uccello scelto perché in quel momento parlasse con la voce di tutti gli uccelli, perché cantasse il canto di tutti gli uccelli, in modo che quel ragazzo lo potesse udire.

Alvin s’inginocchiò sull’erba verde e tenera a non più di un passo di distanza da Pettirosso, e ascoltò il suo canto. Da ciò che una volta gli aveva narrato Lolla-Wossiky, sapeva che il canto di Pettirosso è intessuto di tutte le storie dell’uomo rosso, di tutto ciò che di memorabile l’uomo rosso aveva fatto. Alvin in qualche modo sperò di poter comprendere quell’antica leggenda, o per lo meno di udire Pettirosso narrare qualche fatto cui anch’egli aveva preso parte. Il Profeta Lolla-Wossiky che camminava sulle acque; il fiume Tippy-Canoe intorbidito dal sangue dei Rossi; Ta-Kumsaw ancora in piedi con una dozzina di palle di moschetto in corpo, che continuava a gridare ai suoi uomini di resistere, di battersi, di cacciare i ladri bianchi dalla terra dei Rossi.

Ma per quanto si sforzasse di ascoltare, il senso di quella canzone continuava a sfuggirgli. Alvin poteva correre come un Rosso e udire la verde musica della foresta, ma il canto di Pettirosso non era destinato a lui. Come dice il proverbio: «Non c’è ragazza che sia corteggiata da tutti, non c’è ragazzo che possieda tutti i doni». Alvin poteva già fare molto, e molto gli restava da imparare, ma molto di più sarebbe sempre restato oltre la sua portata, e il canto di Pettirosso faceva parte di queste cose inattingibili.

Eppure Alvin era assolutamente sicuro che Pettirosso non si trovava lì per caso. Se era saltato fuori proprio al termine del suo primo confronto diretto col Distruttore, doveva avere uno scopo preciso. E quel canto gli avrebbe dato una risposta.

Alvin stava per parlare, era sul punto di formulare la domanda che gli bruciava dentro fin da quando era venuto a conoscenza del suo destino. Ma non fu la sua voce a interrompere il canto di Pettirosso, bensì quella di Arthur Stuart.

«Non conosco i giorni che verranno» disse il piccolo mulatto. La sua voce era simile a una musica, e la sua pronuncia era chiara come mai era stata prima. «Conosco soltanto i giorni passati.»

Un istante dopo Alvin capì. Le parole di Arthur erano una risposta alla sua domanda. Diventerò mai un Creatore, come ha predetto la piccola fiaccola? Questo era ciò che Alvin avrebbe voluto sapere, e Arthur Stuart gli aveva risposto.

Ma quella risposta non veniva da lui, era evidente. Il bambino non era in grado di capire ciò che stava dicendo più di quanto non potesse capire il litigio della sera prima tra Makepeace e Gertie, da lui imitato con tanta fedeltà. Arthur gli stava dando la risposta di Pettirosso. Stava traducendo il canto dell’uccello in parole comprensibili alle orecchie di Alvin.

Allora Alvin capì di aver fatto la domanda sbagliata. Per sapere se era destinato a diventare un Creatore non aveva bisogno di Pettirosso… Lo sapeva già da anni, e continuava a esserne consapevole nonostante tutti i suoi dubbi. La vera domanda non era se doveva diventare un Creatore, ma come diventarlo.

Dimmi come.

Il canto di Pettirosso si mutò in una cantilena semplice e melodiosa, più vicina a un normale canto d’uccello e ispirata a qualcosa che non era più la storia millenaria dell’uomo rosso. Pur continuando a non coglierne il senso preciso, Alvin capì subito di che cosa si trattava. Era il canto della Creazione. La stessa melodia si ripeté più e più volte: erano solo poche note, ma di una tale abbacinante verità che Alvin lo vide davanti a sé, lo percepì dalle labbra al ventre, ne avvertì il gusto e l’odore. Quello era il canto della Creazione, ed era il suo canto: lo capì dal gusto dolce che gli restava sulla lingua.

E quando il canto giunse al suo culmine, Arthur Stuart parlò di nuovo con una voce così limpida e musicale da non potersi più dire umana. «Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea» disse il piccolo mulatto.

Alvin ripose quelle parole nel suo cuore, sebbene in quel momento non riuscisse a comprenderle. Sapeva però che un giorno le avrebbe capite, e quel giorno avrebbe acquistato i poteri degli antichi Creatori che avevano costruito la Città di Cristallo. Avrebbe capito, avrebbe usato i suoi poteri, avrebbe trovato la Città di Cristallo e l’avrebbe ricostruita.

Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea.

Pettirosso tacque. Restò immobile, con la testa inclinata; e poi non fu più Pettirosso, ma un qualsiasi uccellino dalla pettorina scarlatta. Infine volò via.

Arthur Stuart lo seguì con lo sguardo finché non scomparve. Poi gridò con la sua vera voce infantile: «Vola! Vola uccello!» Alvin s’inginocchiò accanto al bambino, stremato dalle fatiche della notte, dal terrore provato durante l’alba grigiastra, dal canto d’uccello levatosi in quella luminosa giornata.

«Ho volato» disse Arthur Stuart. Per la prima volta sembrò rendersi conto della presenza di Alvin e infatti si voltò nella sua direzione.

«Davvero?» mormorò Alvin, riluttante a distruggere il sogno del piccolo con la spiegazione che gli esseri umani non volano.

«Mi ha portato il grande uccello nero» disse Arthur. «Ho volato tanto.» Poi Arthur tese le braccia e strinse tra le manine le guance di Alvin. «Creatore!» esclamò. Poi rise di gioia.

Dunque Arthur non era solo capace di ripetere. Aveva veramente compreso il canto di Pettirosso, almeno in parte… Comunque a sufficienza per dare un nome al destino di Alvin.

«Non devi dirlo a nessuno» gli sussurrò Alvin. «Io non dirò a nessuno che sai parlare con gli uccelli, e tu non racconterai a nessuno che sono un Creatore. Promettimelo.»

Arthur assunse un’espressione seria. «Non parlo con gli uccelli, io» affermò. «Sono loro che parlano con me.» E poi: «Ho volato, davvero».

«Ti credo» disse Alvin.

«E io credo a te» ribatté Arthur. Poi rise di nuovo.

Alvin si tirò in piedi, subito imitato da Arthur. Poi prese il piccolo per mano. «Torniamo a casa» disse.

Portò Arthur alla locanda, dove la vecchia Peg Guester diede una bella lavata di capo al piccolo mulatto per essere sparito a quell’ora del mattino solo per disturbare la gente. Ma il suo fu un rimprovero pieno d’amore, e Arthur sorrise estaticamente al suono della voce di quella donna che lui chiamava mamma. Quando la porta si richiuse alle spalle di Arthur Stuart, Alvin si disse: un giorno racconterò a quel ragazzo ciò che ha fatto per me. Un giorno gli spiegherò che cosa voleva dire tutto questo.

Per tornare a casa, Alvin prese il sentiero che portava al deposito sulla sorgente, e di qui si diresse verso la fucina, dove Makepeace sarebbe stato sicuramente fuori di sé dalla stizza perché il suo apprendista non si era presentato alla solita ora, anche se per scavare il pozzo certamente aveva trascorso la notte in bianco.

Il pozzo. Alvin si ritrovò in piedi davanti alla buca che aveva scavato come un monumento a Hank Dowser, con la pietra bianca che scintillava al sole, abbagliante e crudele come una risata di disprezzo.

E in quell’istante comprese come mai il Distruttore fosse andato da lui proprio quella notte. Non per via del pozzo che aveva scavato, quello vero. Non perché avesse usato il suo dono per trattenere l’acqua e avesse ammorbidito la pietra per modellarla a suo piacimento. Il Distruttore era giunto per l’unico motivo che aveva spinto Alvin a scavare quella buca fino allo strato di roccia: perché Hank Dowser ci facesse la figura dell’idiota.

L’aveva fatto per punire il rabdomante? Sissignore, per farne lo zimbello di chiunque vedesse il pozzo dal fondo di pietra scavato nel punto da lui indicato. Quel pozzo avrebbe segnato la sua fine, avrebbe rovinato la sua reputazione di rabdomante, e per di più ingiustamente, perché Hank era un bravo rabdomante, e si era soltanto fatto ingannare dalla conformazione del terreno. Hank aveva commesso un errore in buona fede, e Alvin si era messo in mente di punirlo come se fosse stato un imbroglione, cosa che sicuramente non era.

Stanco com’era, stremato dal lavoro e dallo scontro con il Distruttore, Alvin non perse un istante. Andò a prendere la vanga dove l’aveva lasciata, cioè accanto al pozzo funzionante, poi si sfilò la camicia e si rimise al lavoro. Quando aveva scavato quel finto pozzo l’aveva fatto per un fine malvagio: voleva distruggere un uomo onesto soltanto per vendicare il proprio orgoglio ferito. Riempirlo, invece, era un lavoro da Creatore. E poiché era giorno pieno, Alvin non poteva nemmeno servirsi del suo dono… Dovette quindi darci dentro senza aiuto, finché non si sentì sul punto di morire di stanchezza.

Era mezzogiorno, e lui non aveva cenato né fatto colazione, ma il pozzo era stato riempito e ogni zolla rimessa al suo posto in modo che l’erba potesse crescere come prima. Insomma, se non si andava a guardare proprio da vicino, si faceva fatica a credere che in quel punto era stata scavata una buca. Be’, in effetti qui Alvin aveva un po’ fatto ricorso al suo dono, per intrecciare le radici dell’erba fra loro e farle affondare nel terreno, in modo che non restassero chiazze rivelatrici.

Mentre lavorava, tuttavia, ciò che gli bruciava più del sole sulla schiena o della fame alla bocca dello stomaco era la vergogna. La sera prima era stato così accecato dalla rabbia e dalla voglia di far sfigurare Hank Dowser, che non gli era nemmeno balenata l’idea di fare l’unica cosa giusta, cioè usare il suo dono per forare lo strato di roccia nel punto esatto che gli era stato indicato da Hank. Tranne Alvin, nessuno avrebbe mai saputo che in quel punto c’era qualcosa che non andava. Così avrebbe fatto un vero cristiano, una persona capace di autentica carità. Quando qualcuno ti schiaffeggia, tu porgigli l’altra guancia, questo aveva detto Gesù, e Alvin non gli aveva prestato il minimo ascolto. Tutto per colpa del suo maledetto orgoglio.

Ecco che cos’è stato a richiamare il Distruttore, pensò Alvin. Avrei potuto usare il mio dono per costruire, e invece l’ho usato per demolire. Be’, non accadrà più, mai più, mai più. Lo giurò a se stesso tre volte, e anche se si trattava di una promessa silenziosa e nessuno ne sarebbe mai venuto a conoscenza, l’avrebbe mantenuta con fermezza ancora maggiore che se quel giuramento l’avesse pronunciato di fronte a un giudice o addirittura a un pastore.

Ma ormai era troppo tardi. Se ci avesse pensato prima che Gertie vedesse il falso pozzo o attingesse l’acqua a quello vero, avrebbe potuto riempire il secondo pozzo e terminare il primo. Ma ora che lei aveva visto la pietra, se lui l’avesse forata il suo segreto sarebbe diventato di pubblico dominio. E una volta che si è bevuta l’acqua di un pozzo appena scavato, non si può interrarlo, a meno che non si secchi da solo. Riempire un pozzo ancora vivo significa essere perseguitati per tutta la vita dalla siccità e dal colera.

Alvin aveva rimediato il rimediabile. Puoi pentirti ed essere perdonato, ma non puoi richiamare tutti i futuri cancellati dalle tue cattive decisioni. Per capirlo non c’era bisogno di essere filosofi.

Dalla fucina non si udivano colpi di martello, e dal comignolo non usciva fumo. Makepeace doveva essere stato trattenuto da qualche faccenda. Alvin rimise a posto la vanga e s’incamminò verso casa.

A metà strada Alvin si trovò davanti al nuovo pozzo, e a Makepeace Smith seduto sul basso muricciolo di pietre che Alvin aveva costruito come futura base del parapetto in muratura.

«Buongiorno, Alvin» lo salutò il suo padrone.

«Buongiorno, signore» rispose Alvin.

«Ho appena calato sino in fondo il secchio di rame. Devi aver scavato come un demonio per arrivare fin laggiù.»

«Non volevo correre il rischio che si seccasse.»

«E l’hai già foderato di pietre» continuò il fabbro. «Uno splendido lavoro, direi.»

«Ho lavorato duro e in fretta.»

«Hai anche scavato nel punto giusto, vedo.»

Alvin trasse un profondo respiro. «Per come la vedo io, signore, ho scavato esattamente nel punto in cui il rabdomante aveva detto di scavare.»

«Ho visto un’altra buca, un po’ più in alto» disse Makepeace Smith. «Il fondo era un lastrone di pietra spesso e duro come gli zoccoli del diavolo. Forse non vuoi far sapere in giro che la prima buca l’avevi scavata lassù?»

«Quella buca l’ho riempita» spiegò Alvin. «E vorrei non averla mai scavata. Non voglio che nessuno cominci a raccontare storie su Hank Dowser. In quel punto l’acqua c’era, e nessun rabdomante al mondo avrebbe potuto immaginare che sopra c’era la roccia.»

«Tranne te» osservò Makepeace.

«Io non sono un rabdomante, signore» disse Alvin. E poi fece nuovamente ricorso alla menzogna. «Solo, ho visto che la bacchetta si era piegata anche in questo punto.»

Makepeace scosse la testa, mentre un sorriso gli scopriva lentamente i denti. «Questa storia l’ho già sentita da mia moglie, e sono quasi morto dal ridere. Ieri ho dovuto schiaffeggiarti perché sostenevi che Hank si sbagliava. Adesso vieni a dirmi che secondo te è lui che deve prendersene il merito?»

«Hank Dowser è un vero rabdomante» ribadì Alvin. «Io no. Perciò penso che, siccome il rabdomante è lui, è giusto che se ne prenda il merito.»

Makepeace Smith sollevò il secchio di rame, se lo portò alle labbra e ne bevve qualche sorsata. Poi gettò indietro la testa versandosi sul viso l’acqua rimanente, e rise forte. «Giuro che è l’acqua più buona che abbia mai bevuto in vita mia.»

Non era la stessa cosa che promettere di non contraddirlo, lasciando quindi che Hank Dowser pensasse che quel pozzo era il suo, ma Alvin sapeva che dal suo padrone non avrebbe potuto cavare molto di più. «Se voi siete d’accordo» disse «avrei un certo appetito.»

«Sì, va’ a mangiare, te lo sei guadagnato.»

Alvin s’incamminò passandogli davanti. L’odore dell’acqua giunse alle sue narici.

Makepeace parlò di nuovo alle sue spalle. «Gertie mi ha detto che il primo sorso d’acqua l’hai bevuto tu.»

Alvin si voltò, temendo il peggio. «Sì, signore, ma non prima che fosse lei a offrirmela.»

Makepeace ci pensò su qualche istante, quasi stesse giudicando se si trattasse di un motivo sufficiente per una punizione. «Be’» disse infine «certo, da lei c’è da aspettarsi questo e altro, ma non importa. Nel secchio di legno c’è ancora acqua sufficiente perché io possa metterne da parte qualche sorsata per Hank Dowser. Gli ho promesso di fargli bere l’acqua del primo secchio, e quando ripasserà di qui manterrò la mia parola.»

«Quando ripasserà, signore…» mormorò Alvin. «Be’, spero che non vi rincresca, tuttavia penso che sarebbe molto meglio se non mi trovassi a casa… Meglio per me, ma anche per lui, se capite quello che voglio dire. Non penso di andargli molto a genio.»

Il fabbro lo guardò socchiudendo gli occhi. «Se questa è solo una scusa per scansare qualche ora di lavoro quando quel rabdomante tornerà da queste parti, ebbene…» e all’improvviso sorrise «ebbene, penso che tu te lo sia proprio guadagnato con il lavoro di stanotte.»

«Grazie, signore» disse Alvin.

«Stavi tornando a casa?»

«Sissignore.»

«Bene, gli attrezzi li rimetto a posto io… Tu porta questo secchio alla signora. Lo sta aspettando. Per attingere l’acqua, qui è molto più comodo della sorgente. Devo ricordarmi di ringraziare Hank Dowser per aver scelto proprio questo punto.» Quando Alvin entrò in casa, il fabbro stava ancora ridacchiando per la propria battuta.

Gertie Smith prese il secchio, fece sedere Alvin, e lo riempì quasi fino all’orlo di pancetta fritta e ottime focacce al lardo, tanto che alla fine il ragazzo dovette pregarla di smettere. «Un maiale l’abbiamo già finito» le disse. «Non c’è bisogno di ammazzarne un altro solo perché io possa fare colazione.»

«I maiali sono solo granturco su zoccoli» replicò Gertie Smith. «E la notte scorsa hai lavorato abbastanza da meritartene due, di porci.»

Pieno da scoppiare, Alvin salì ruttando la scala a pioli che portava al soppalco sopra la cucina, si spogliò e si ficcò sotto le lenzuola.

Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea.

Più e più volte ripeté a se stesso quelle parole prima di addormentarsi. Stavolta non ebbe né incubi né altre sgradevoli esperienze e dormì come un sasso fino all’ora di cena, e poi per tutta la notte fino a poco prima dell’alba.

Quando si svegliò, il mattino dopo, dalle finestre filtrava una debole luce grigiastra, che a malapena si poteva distinguere dal chiaro di luna. Quella luce era così fioca che non riusciva nemmeno ad arrivare al soppalco. Invece di saltare giù dal letto pieno di energie, come faceva il più delle volte, Alvin si sentiva intorpidito dal sonno e con i muscoli indolenziti dalla fatica. Perciò se ne rimase tranquillo sotto le lenzuola, mentre in un remoto cantuccio della sua mente si levava una specie di lontano canto d’uccello. Non pensò tuttavia alla frase che Arthur Stuart gli aveva rivolto mentre ascoltava il canto di Pettirosso. S’interrogò invece su ciò che era accaduto il giorno prima. Possibile che l’inverno si fosse mutato in estate solo perché lui si era messo a gridare?

«Estate» sussurrò. «Aria tiepida, verdi foglie.» Che cos’aveva Alvin per cui, quando aveva detto estate, l’estate era arrivata? Sicuramente le cose non andavano sempre in quel modo, nemmeno quando lavorava il ferro o entrava nella pietra per tagliarla o sagomarla. In quelle circostanze doveva concentrarsi sulla forma dell’oggetto, capire come tutte le sue parti fossero disposte, trovare le fessure e le spaccature naturali, i filamenti del metallo o la grana della pietra. Se poi curava qualcuno, era una gran fatica perché doveva concentrare ogni suo pensiero sul modo in cui il corpo del paziente avrebbe dovuto essere, e poi aggiustarlo. Tutto era così piccolo, così difficile da vedere… Insomma, non proprio vedere, ma qualcosa del genere. Qualche volta, per capire come funzionavano le cose là dentro, Alvin doveva sudare sette camicie.

Là dentro, laggiù in fondo, tutto era così piccolo e sottile, e i segreti più riposti del funzionamento del corpo sfrecciavano da tutte le parti come scarafaggi quando si entra nella stanza con una lampada in mano, facendosi sempre più piccoli, componendosi e ricomponendosi in forme sempre nuove e bizzarre. Esisteva forse una particella che fosse più piccola di tutte le altre? Un qualche luogo nel cuore stesso delle cose dove ciò che vedeva fosse reale, invece di essere costituito d’innumerevoli pezzi sempre più piccoli, a loro volta fatti di pezzi ancora più piccoli?

Tuttora non capiva in che modo il Distruttore potesse improvvisamente far giungere l’inverno. Com’era possibile, dunque, che le sue grida disperate avessero richiamato l’estate?

Come posso essere un Creatore se non riesco nemmeno a capire come faccio quello che già so fare?

La luce proveniente dall’esterno adesso era più chiara, e scintillava attraverso il vetro irregolare delle finestre. Per un istante, ad Alvin sembrò di vedere la luce sotto forma di minuscole sfere che volavano a velocità straordinaria, come se fossero state colpite da un bastone o sparate da un fucile, solo più veloci ancora: rimbalzavano di qua e di là, e la maggior parte di esse andava a incagliarsi nelle minuscole fessure delle pareti di legno, del pavimento o del soffitto, così che solo pochissime riuscivano ad arrivare al soppalco dove venivano catturate dagli occhi di Alvin.

Quel momento passò, e la luce era soltanto fuoco, puro fuoco, che si allargava nella stanza in cerchi concentrici come le piccole onde che lambivano delicatamente le rive del lago Mizogan. Ovunque giungessero quelle onde, riscaldavano tutto ciò che toccavano — il legno delle pareti, il pesante tavolo di cucina, il ferro della stufa — così che tutto vibrava e danzava di vita. Solo Alvin poteva vederlo, solo Alvin capiva come l’intera stanza si destasse al sorgere del giorno.

Il fuoco del sole, ecco ciò che il Distruttore odia sopra ogni cosa. La vita che esso genera. Spegnere quel fuoco, ecco ciò che il Distruttore dice a se stesso. Spegnere ogni fuoco, trasformare l’acqua in ghiaccio, ricoprire il mondo di una liscia superficie di ghiaccio, far sì che il cielo sia nero e freddo come la notte. E, a contrastare i voleri del Distruttore, un misero Creatore che non riesce a fare le cose come si deve neanche scavando un misero pozzo.

Il Creatore è colui che è parte di ciò che… Parte di che cosa? Che cosa creo, io? Come posso esserne parte? Quando lavoro il ferro, sono forse parte del ferro? Quando taglio la pietra, sono forse parte della pietra? Tutto questo non ha alcun senso, eppure debbo capirci qualcosa, o perderò la mia battaglia con il Distruttore. Potrei battermi con lui ogni giorno, in tutti i modi che conosco; ma, quando morirò, il mondo si troverà molto più avanti sulla china rovinosa su cui l’ho trovato alla mia nascita. Dev’esserci qualche segreto, una chiave, un modo per ricostruire tutto insieme. Devo trovare la chiave, ecco tutto, scoprire il segreto, e poi mi basterà pronunciare una parola e il Distruttore indietreggerà, atterrito, andrà a nascondersi, si dichiarerà vinto e sparirà, forse addirittura morirà, in modo che la vita e la luce possano esistere per sempre senza mai affievolirsi.

Alvin udì Gertie muoversi in camera da letto, e uno dei bambini emise un gemito, l’ultimo suono prima di svegliarsi. Si voltò, stiracchiandosi per quanto era lungo e sentendo il dolce, delizioso dolore dei muscoli indolenziti che si svegliavano, preparandosi a una giornata di lavoro nella fucina, a una giornata davanti al fuoco.

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