XX IL GESTO DI CAVIL

Cavil Planter aveva qualche affaruccio da sbrigare in città. Montò in sella di buon’ora in quella splendida mattina di primavera, lasciandosi alle spalle moglie e schiavi, casa e terre, ben sapendo che tutto era sotto controllo, che tutto era sempre e unicamente suo.

Verso mezzogiorno, dopo molte piacevoli visite e vari affari andati a buon fine, si fermò all’ufficio postale. Qui lo attendevano tre lettere. Due erano di vecchi amici. La terza era del reverendo Philadelphia Thrower, spedita da Carthage, capitale del Wobbish.

I vecchi amici potevano attendere. La lettera di Thrower invece conteneva sicuramente notizie dei Cacciatori assoldati da Cavil, sebbene quest’ultimo non riuscisse a capire perché a scrivergli fosse il pastore e non i Cacciatori stessi. Magari avevano incontrato difficoltà impreviste. Forse dopotutto Cavil avrebbe dovuto recarsi al Nord a testimoniare. Be’, se sarà proprio necessario ci andrò, pensò Cavil. Come dice Gesù nel Vangelo, non esiterò a lasciare le novantanove pecore del gregge per andare in cerca di quella smarrita.

Le notizie erano pessime. Entrambi i Cacciatori morti, e morta anche la moglie del locandiere che sosteneva di avere adottato il primogenito di Cavil. Quella donna se l’era meritato, pensò Cavil, e in quanto ai Cacciatori non provò nemmeno un istante di rammarico: erano soltanto dei prezzolati e, poiché non gli appartenevano, lui li considerava da meno dei suoi schiavi. Ma la notizia peggiore era senz’altro l’ultima, quella che gli mozzò il respiro e gli fece tremare le mani. L’uomo che aveva ucciso uno dei Cacciatori, un giovane apprendista fabbro, si era sottratto al processo con la fuga… e aveva portato con sé il figlio di Cavil.

Ha preso mio figlio. E il peggio doveva ancora venire. Thrower scriveva: «Conosco questo Alvin da quando era bambino, e già allora era un agente del male. È il più acerrimo nemico del nostro comune Amico, e ora ha con sé ciò che vi è più caro al mondo. Vorrei avere notizie migliori. Pregherò per voi, perché vostro figlio non venga trasformato in un pericoloso e implacabile avversario della santa opera del nostro Amico».

Di fronte a simili nuove, come poteva Cavil concludere il suo giro di commissioni? Senza una parola al direttore o a chiunque altro, Cavil si ficcò le lettere in tasca, uscì dall’ufficio postale, montò a cavallo e lo spronò verso casa. Per tutto il tragitto il suo cuore fu lacerato fra la rabbia e la paura. Com’era possibile che quella feccia emancipazionista del Nord si fosse lasciata rapire il suo schiavo, il suo primogenito, dal peggiore nemico del Sorvegliante? Andrò al Nord, gliela farò pagare, ritroverò il ragazzo, io… E poi a un tratto i suoi pensieri si rivolsero a ciò che il Sorvegliante avrebbe detto se mai fosse ricomparso. E se Egli ora mi disprezzasse al punto di non tornare mai più? O, peggio ancora, se tornasse per punirmi come si fa con un servitore svogliato? O mi dichiarasse indegno della sua fiducia e mi proibisse di toccare le mie schiave? Come potrei vivere se non al Suo servizio? A che altro potrebbe servire la mia vita?

E poi di nuovo la rabbia, una rabbia terribile e blasfema che lo faceva gridare a gran voce in cuor suo: o mio Sorvegliante! Perché hai consentito che accadesse tutto questo? Perché non l’hai fermato con un solo gesto del tuo braccio, se sei veramente il mio Signore?

E poi il terrore: quale bassezza, dubitare della potenza del Sorvegliante! No, perdonami, io sono il Tuo schiavo, o Padrone! Perdonami, ho perso tutto, perdonami!

Povero Cavil. Avrebbe ben presto scoperto che cosa significava perdere veramente tutto.

Giunto a casa, diresse il cavallo sul lungo viale che conduceva alla villa. Il sole picchiava forte, quindi Cavil si mantenne all’ombra delle querce che crescevano sul bordo del viale. Se fosse rimasto al centro, forse sarebbe stato visto qualche minuto prima. Forse non avrebbe udito un grido di donna all’interno della villa proprio nel momento in cui usciva dall’ombra degli alberi.

«Dolores!» chiamò. «C’è qualcosa che non va?»

Nessuna risposta.

Allora Cavil si spaventò. Quel silenzio gli fece accorrere alla mente immagini di ladri, razziatori e simile gentaglia che gli entravano in casa a forza approfittando della sua assenza. Forse avevano già ucciso Lashman, e in quel momento stavano sgozzando sua moglie. Spronò il cavallo, e fece al galoppo il giro della casa fino a giungere sul retro.

Appena in tempo per scorgere un Nero corpulento che scappava a gambe levate dalla porta posteriore verso gli alloggi degli schiavi. Non riuscì a vedere il suo viso per via dei pantaloni, che in quel momento l’uomo non indossava, come non indossava nessun altro capo d’abbigliamento… No, i pantaloni li teneva davanti a sé come una bandiera che gli sventolava in faccia mentre correva verso le baracche.

Un Nero senza pantaloni che scappa da casa mia, dove un istante fa una donna ha lanciato un grido. Per un istante, Cavil fu combattuto fra il desiderio d’inseguire il Nero per ucciderlo a mani nude, e il bisogno di salire in camera di Dolores per accertarsi che non le fosse accaduto niente. Sperò con tutto se stesso di essere giunto in tempo per salvarla da qualsiasi contaminazione.

Cavil salì i gradini a quattro per volta irrompendo in camera di sua moglie. Dolores era a letto con le lenzuola tirate fino al mento, e lo guardava con gli occhi sgranati dalla paura.

«Che cos’è successo?» esclamò Cavil. «Stai bene?»

«Certo che sto bene!» rispose lei bruscamente. «Che ci fai a casa?»

Non era la risposta che ci si poteva aspettare da una donna che aveva appena gettato un grido di paura. «Ho sentito il tuo grido» disse Cavil. «Non mi hai sentito rispondere?»

«Da quassù sento tutto» ribatté Dolores. «Da mattina a sera non ho altro da fare che starmene qui distesa ad ascoltare. Sento tutto quello che si dice e tutto quello che si fa in questa casa. Sì, ti ho sentito. Ma non ti avevo chiamato.»

Cavil era sbalordito. Dolores sembrava infuriata. Era la prima volta che la sentiva parlare così. Negli ultimi tempi, anzi, lei non gli aveva quasi rivolto la parola… Quando lui faceva colazione lei dormiva ancora, e le loro cene venivano consumate nel più assoluto silenzio. E adesso quella rabbia… Perché? Perché proprio in quel momento?

«Ho visto un Nero scappare da questa casa» mormorò. «Ho pensato che forse…»

«Forse che cosa?» Dolores aveva pronunciato quelle parole come una sfida, una provocazione.

«Forse ti aveva fatto del male.»

«No, non mi ha fatto del male.»

Nella mente di Cavil cominciò a insinuarsi un’idea, un’idea così spaventosa che egli non riusciva nemmeno a considerarla. «E che cosa ti ha fatto, allora?»

«La stessa santa opera che tu hai compiuto per tutti questi anni, Cavil.»

Cavil ammutolì. Dolores sapeva. Sapeva tutto.

«L’estate scorsa, quando è venuto il tuo amico, il reverendo Thrower, io ero qui distesa ad ascoltare mentre voi due discorrevate al piano di sotto.»

«Stavi dormendo. Avevi la porta…»

«Ho sentito tutto. Ogni parola, ogni sussurro. Vi ho sentiti uscire. Vi ho sentiti parlare a colazione. Lo sai? Avrei voluto ammazzarti. Per anni avevo creduto che tu fossi un marito amorevole, una specie di santo, e invece te la spassavi con tutte le Nere su cui riuscivi a mettere le mani. E poi vendevi i tuoi figli come schiavi. Ho pensato che tu fossi un mostro. Un essere così malvagio che lasciarti vivere un secondo di più sarebbe stato un abominio. Ma le mie mani non potevano stringere un coltello o premere il grilletto di una pistola. Perciò me ne sono rimasta qui distesa, a pensare. E sai che cos’ho pensato?»

Cavil non sapeva che rispondere. Da come lo raccontava lei, sembrava tutto così sporco e peccaminoso. «Non era così, era un’opera santa!» esclamò.

«Era adulterio!»

«Avevo avuto una visione!»

«Ah, già, la tua visione. Be’, signor Cavil Planter, a quanto pare la tua visione ti ha convinto che generare bambini mezzi Bianchi fosse una buona cosa. Benissimo. Ma ora ho una grande notizia per te. Anch’io posso partorire bambini mezzi Bianchi!»

Ora tutto era chiaro. «Ti ha violentata!»

«Non mi ha affatto violentata, Cavil. Sono stata io a invitarlo qui. Gli ho detto che cosa doveva fare. L’ho convinto a dirmi che ero la sua donna e a recitare preghiere prima e dopo, in modo che la cosa non fosse meno santa di quella che facevi tu. Abbiamo rivolto le nostre preghiere anche al tuo dannato Sorvegliante, ma chissà perché non si è mai fatto vivo.»

«Non è possibile. Non è mai accaduto.»

«Molto spesso, invece. Ogni volta che lasciavi la piantagione, tutto l’inverno, tutta la primavera.»

«Non ci credo. Stai mentendo per ferirmi. L’ha detto il dottore che non potevi farlo… che ti faceva troppo male.»

«Cavil, prima che io scoprissi ciò che facevi con quelle Nere, pensavo di sapere che cosa fosse il dolore, ma tutta quella sofferenza non era niente, capisci? Potrei sopportarla ogni giorno fino al giorno del Giudizio, e considerarla una festa. Sono incinta, Cavil.»

«Ti ha violentata. Questo è quello che diremo a tutti, e per dare l’esempio impiccheremo quel lurido stupratore, e…»

«Impiccarlo? In questa piantagione c’è un solo stupratore, Cavil, e non pensare per un solo istante che non andrei a raccontarlo. Se osi mettere le mani addosso al padre di mio figlio, racconterò all’intera contea quello che hai fatto. Una domenica andrò in chiesa e lo racconterò dal pulpito.»

«L’ho fatto al servizio del…»

«E pensi davvero che ti crederanno? Non più di me. La parola giusta per ciò che hai fatto non è santità. È concupiscenza. Adulterio. Passione carnale. E quando mio figlio nascerà Nero e lo si saprà in giro, tutti quanti ti si rivolteranno contro. Ti cacceranno.»

Cavil capì che aveva ragione. Nessuno gli avrebbe creduto. Era rovinato. A meno di non fare una cosa semplicissima.

Uscì dalla stanza di Dolores. Distesa nel suo letto, lei continuava a ridere, a provocarlo. Cavil andò in camera sua, prese il fucile dalla parete, versò la polvere, infilò uno stoppaccio, quindi mise una doppia carica di pallettoni e la calcò ben bene con un secondo stoppaccio.

Quando rientrò in camera di Dolores, questa non rideva più. Aveva il viso rivolto alla parete e piangeva. Troppo tardi per le lacrime, pensò Cavil. Lei non si voltò neanche mentre Cavil avanzava verso il letto e le strappava di dosso le coperte. Sotto, era nuda come un pollo spennato.

«Coprimi!» piagnucolò lei. «È scappato così di fretta che non mi ha rivestita. Ho freddo! Coprimi, Cavil…»

Poi vide il fucile.

Gettò in aria le mani deformate dalla malattia. Il suo corpo si rattrappì sul letto. Il tentativo di muoversi troppo in fretta le strappò un grido di dolore. Poi Cavil premette il grilletto e il corpo di Dolores ricadde di colpo, mentre un ultimo sospiro le gorgogliava dalla sommità del collo.

Cavil tornò in camera sua e ricaricò il fucile.

Trovò Volpe Grassa vestito di tutto punto, intento a lucidare la carrozza. Quell’incorreggibile bugiardo pensava di poter imbrogliare Cavil Planter. Ma Cavil non si curò nemmeno di ascoltare le sue menzogne. «La tua donna vuole vederti di sopra» disse.

Volpe Grassa continuò a protestare la sua innocenza finché non entrò nella stanza e non vide il corpo sul letto. Allora cambiò musica. «Mi ha costretto! Che cosa potevo fare, padrone? Come voi con le nostre donne, padrone! Che cos’altro può fare uno schiavo nero? Deve obbedire, non è vero? Come le donne con voi!»

Cavil sapeva riconoscere di primo acchito un ragionamento diabolico, e non gli prestò il minimo ascolto. «Spogliati e fallo di nuovo» disse. Volpe Grassa gridò e pianse, ma quando Cavil gli piantò fra le costole la canna del fucile fu costretto a ubbidire. Chiuse gli occhi per non vedere ciò che il fucile di Cavil aveva fatto a Dolores, e fece ciò che gli era stato ordinato. Poi Cavil premette nuovamente il grilletto.

Pochi minuti dopo, Lashman giunse di corsa dal campo più lontano, tutto affannato per lo sforzo e per la paura suscitata in lui dagli spari. Cavil gli andò incontro in fondo alle scale. «Rinchiudi gli schiavi, Lashman, e poi corri a chiamare lo sceriffo.»

All’arrivo dello sceriffo, Cavil lo condusse al piano di sopra e gli mostrò quel che era successo. Lo sceriffo impallidì. «Buon Dio» mormorò.

«È omicidio, sceriffo? Sono stato io. Avete intenzione di portarmi in prigione?»

«Nossignore» disse lo sceriffo. «Da queste parti nessuno lo definirebbe omicidio.» Poi guardò Cavil con un’espressione sgradevole. «Che razza d’uomo siete, Cavil?»

Per un istante Cavil non capì.

«Mostrarmi vostra moglie in quello stato. Per quanto mi riguarda, preferirei morire prima di lasciare che qualcun altro vedesse mia moglie ridotta in quel modo.»

Lo sceriffo se ne andò. Lashman ordinò agli schiavi di ripulire la stanza. Nessuno dei due ebbe un funerale. Entrambi vennero seppelliti nello stesso luogo in cui riposava Salamandy. Cavil non dubitò che sulla tomba fosse stato sgozzato più di un pollo, però a quel punto non gliene importava un fico secco. Era alla decima bottiglia di bourbon, e alla decimillesima preghiera borbottata a fior di labbra. Ma il Sorvegliante si guardava bene dal farsi vedere.

Circa una settimana dopo, o forse qualche giorno di più, lo sceriffo tornò a fargli visita, stavolta accompagnato dal prete cattolico e dal pastore battista. I tre destarono Cavil dal suo sonno da ubriaco, sventolandogli davanti agli occhi un assegno da venticinquemila dollari. «I vostri vicini hanno fatto una colletta» spiegò il prete.

«Non ho bisogno di soldi» borbottò Cavil.

«Non avete capito. Comprano la piantagione.»

«Non è in vendita.»

Lo sceriffo scosse la testa. «Non ci siamo capiti, Cavil. Certo, è stata una brutta faccenda. Ma lasciare che la gente vedesse vostra moglie in quello stato…»

«L’ho fatta vedere solo a voi.»

«Non siete un gentiluomo, Cavil.»

«E poi c’è la questione dei bambini» intervenne il pastore battista. «Per essere figli di schiavi hanno una carnagione singolarmente chiara, considerando che i vostri soggetti da riproduzione sono tutti neri come la pece.»

«È un miracolo del Signore» biascicò Cavil. «Dio vuole schiarire la razza nera.»

Lo sceriffo gli porse un pezzo di carta. «È un atto di cessione di tutte le vostre proprietà — schiavi, edifici e terreni — a una società per azioni costituita dai vostri vicini.»

Cavil lesse il documento. «Qui si tratta degli schiavi che si trovano attualmente nella proprietà» disse. «Ma io vanto diritti anche su uno schiavo fuggiasco, un ragazzo che in questo momento si trova al Nord.»

«Non c’interessa. Se riuscite a trovarlo, potete tenervelo. Spero abbiate notato che questo atto comprende anche una clausola per cui non farete mai ritorno in questa contea o in nessuna delle contee confinanti per il resto dei vostri giorni.»

«L’ho letta» disse Cavil.

«Posso assicurarvi che, se non rispetterete i termini dell’accordo, i vostri giorni giungeranno a una fine prematura. Nemmeno uno sceriffo coscienzioso e lavoratore come me potrebbe proteggervi da ciò che vi accadrebbe.»

«Avevate assicurato che non ci sarebbero state minacce» mormorò il prete.

«Cavil deve essere al corrente delle possibili conseguenze» precisò lo sceriffo.

«Non tornerò» disse Cavil.

«Pregate il Signore perché vi conceda il Suo perdono» mormorò il pastore.

«Statene certo» disse Cavil. Poi firmò il documento.

Quella sera stessa se ne andò con in tasca un assegno da venticinquemila dollari: aveva con sé un cavallo da soma, un cambio d’abiti e una settimana di provviste. Nessuno era venuto ad augurargli il buon viaggio. Gli schiavi innalzavano canti di giubilo nelle loro baracche. Il cavallo depositò una montagnola di letame in fondo al viale d’ingresso. Intanto la mente di Cavil era occupata da un solo pensiero. Il Sorvegliante mi odia, o tutto questo non sarebbe mai accaduto. Ho solo un modo per riconquistare il Suo amore. Trovare Alvin Smith, ammazzarlo, e riprendere mio figlio, l’ultimo schiavo che ancora mi appartiene.

Se ci riuscirò, mio Sorvegliante, vorrai concedermi il Tuo perdono e sanare le terribili piaghe che la Tua sferza ha aperto nella mia anima?

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