V IL RABDOMANTE

Di ragazzi a bottega Hank Dowser gliene aveva visti tenere tanti, ma mai nessuno impertinente come quello. Immaginate un po’ la scena: Makepeace Smith chino sullo zoccolo anteriore destro della vecchia Picklewing, pronto a piantare il chiodo, e il suo ragazzo che a questo punto salta su e lo riprende.

«Quel chiodo no» fa l’apprendista. «Non lì.»

Be’, a quel punto Hank avrebbe dato per scontato che il padrone mollasse all’apprendista un bello schiaffone e lo spedisse a casa in lacrime. Ma Makepeace Smith si era limitato ad annuire rivolgendo lo sguardo al ragazzo.

«Pensi di poter fissare questo ferro da solo, Alvin?» aveva chiesto il fabbro. «La cavalla è grossa, ma anche tu sei cresciuto di qualche pollice dall’ultima volta che ti ho guardato.»

«Sì» aveva risposto con semplicità il ragazzo.

«Ehi, un momento, fermi tutti» era intervenuto Hank Dowser. «Picklewing è l’unica bestia che ho, e non posso andare a comprarmene un’altra. Se il tuo apprendista vuole imparare a fare il maniscalco, lo faccia col cavallo di qualcun altro.» E già che aveva detto quello che pensava, Hank, come un vero idiota, non si era fermato. «E poi mi piacerebbe sapere chi è che comanda in questa bottega» aveva concluso.

Ecco, quella era precisamente l’ultima cosa che avrebbe dovuto dire. Hank se ne rese conto non appena quelle parole gli furono sfuggite di bocca. Non si chiede mai al padrone di una bottega chi è a comandare, per lo meno di fronte all’apprendista. E difatti le orecchie di Makepeace Smith si fecero di porpora, e lui si drizzò in tutta la sua altezza, con quelle braccia che sembravano cosce di bue e quelle mani che avrebbero potuto strangolare un orso, e disse: «Qui comando io, e se dico che il mio apprendista è all’altezza di un lavoro, questo significa che è all’altezza, e se non ti va puoi portare la tua bestia a ferrare da qualche altra parte».

«Ehi, amico, trattieni i cavalli!» fece Hank Dowser.

«In effetti sto proprio trattenendo il tuo cavallo» ribatté Makepeace Smith. «O per lo meno la zampa. Anzi, devo dire che il tuo cavallo in questo momento mi sta pesando abbastanza. E adesso prova ancora a chiedermi chi è che comanda nella mia fucina.»

Chiunque abbia la testa bene avvitata sulle spalle capisce che provocare il fabbro che sta ferrando il tuo cavallo non è più intelligente che infastidire le api cui vuoi prendere il miele. Hank Dowser si augurò soltanto che Makepeace fosse un po’ più conciliante delle api. «Ma certo» disse. «Mi sono spiegato male. Solo, mi ha sorpreso che ti lasciassi dire dal tuo apprendista che cosa dovevi fare.»

«Be’, il fatto è che ha un dono» replicò Makepeace Smith. «Questo ragazzo, Alvin, sa come stanno le cose dentro lo zoccolo del cavallo… Dov’è che il chiodo può tenere, dove si conficcherebbe nella carne tenera, questo genere di cose. È un maniscalco nato. E se lui mi dice di non piantare un chiodo, sta’ sicuro che quel chiodo io non lo pianto, perché altrimenti il cavallo sì azzopperebbe o impazzirebbe dal dolore.»

Hank Dowser sorrise e fece un passo indietro. Era una giornata afosa, ecco tutto, ecco perché tutti erano così suscettibili. «Rispetto i doni degli altri» concluse. «Proprio come gli altri devono rispettare il mio.»

«In questo caso, ho tenuto il tuo cavallo fin troppo a lungo» sbottò il fabbro. «Ecco, Alvin, il ferro sistemalo tu.»

Se il ragazzo avesse sorriso, avesse sogghignato o avesse detto qualcosa per vantarsi, Hank avrebbe avuto un buon motivo per infuriarsi. Invece Alvin si accoccolò con i chiodi in bocca e fissò il ferro allo zoccolo anteriore sinistro. Picklewing gli si appoggiava alla spalla, ma il ragazzo era alto e robusto, sebbene sul viso non gli si scorgesse traccia di barba, e in quanto a muscoli sotto la pelle sembrava il gemello del suo padrone. Non gli ci volle più di un minuto, sempre col cavallo appoggiato alla spalla, per inchiodare il ferro al suo posto. Nel frattempo, Picklewing non rabbrividì neanche una volta, né si mise a scalpitare come faceva di solito quando sentiva i chiodi. E ora che Hank ci pensava su un momento, gli era sempre sembrato che Picklewing favorisse un tantino quella zampa, come se qualcosa nello zoccolo le avesse fatto male. Ma succedeva da tanto tempo che Hank ormai non ci faceva più caso.

L’apprendista indietreggiò di qualche passo, sempre senza mostrare alcun segno di compiacimento. Quel ragazzo non aveva fatto assolutamente nulla che non andasse, eppure Hank continuava a provare per lui una rabbia del tutto irragionevole.

«Quanti anni ha?» chiese.

«Quattordici» disse Makepeace Smith. «È arrivato da me che ne aveva undici.»

«Un po’ grandicello per cominciare, eh?» commentò Hank.

«È arrivato con un anno di ritardo, per via della guerra con i Rossi e i francesi… Viene dalle parti del Wobbish.»

«Anni duri» borbottò Hank. «Fortuna che all’epoca mi trovavo nell’Irrakwa, a scavar pozzi per i mulini a vento lungo la ferrovia che stavano costruendo. Quattordici anni, eh? Alto com’è, ho idea che non te l’abbia raccontata giusta.»

Se al ragazzo non piaceva sentirsi dare del bugiardo, non lo diede a vedere. E questo irritò ancor di più Hank Dowser. Quel ragazzo era come un pruno sotto la sella… qualunque cosa facesse, mandava Hank su tutte le furie.

«No» disse il fabbro. «Della sua età siamo sicuri. È nato proprio a Hatrack, quattordici anni fa, mentre i suoi passavano di qui diretti a ovest. Il suo fratello più grande è sepolto là sulla collina. Comunque è grande per la sua età, eh?»

Più che di un ragazzo, sembrava che parlassero di un cavallo. Ma Alvin l’apprendista non parve darsene per inteso. Ritto in piedi, attraversava entrambi con lo sguardo quasi fossero di vetro.

«Dunque gli restano quattro anni di contratto?» chiese Hank.

«Un po’ di più. Finché non avrà quasi compiuto i diciannove anni.»

«Be’, se è così bravo, immagino che ben presto riscatterà gli anni che gli rimangono e si metterà in proprio.» Hank guardò il ragazzo, però questi non parve entusiasta dell’idea.

«Credo di no» disse Makepeace Smith. «Con i cavalli è in gamba, ma alla forgia è più sbadato. Qualsiasi fabbro è capace di fare un ferro da cavallo, ma per fare un vomere o una ruota ci vuole un vero fabbro, e in questo caso avere il dono per ferrare i cavalli non serve proprio a niente. Pensa un po’, ai miei tempi come capo d’opera ho fatto un’ancora! All’epoca però stavo nel Netticut. Non credo che da queste parti le ancore siano molto richieste.»

Picklewing sbuffava e picchiava gli zoccoli per terra, tuttavia non scalpitava come fanno i cavalli quando i ferri nuovi danno loro fastidio. Erano quattro buoni ferri, ben fissati. Questo accrebbe ulteriormente l’irritazione di Hank verso l’apprendista, anche se lui stesso non riusciva a capirne il motivo. Il ragazzo aveva sistemato l’ultimo ferro di Picklewing, su una gamba che nelle mani di un altro maniscalco avrebbe potuto azzopparsi per sempre. Il ragazzo gli aveva fatto del bene. E allora perché quella rabbia che covava sotto la superficie, facendosi più bruciante qualsiasi cosa il ragazzo facesse o dicesse?

Hank si scrollò di dosso quei pensieri. «Be’, ecco un lavoro ben fatto» disse. «Adesso tocca a me.»

«Ecco, tutti e due sappiamo che un pozzo vale più di una ferratura» esclamò il fabbro. «Perciò sappi che se hai bisogno di qualcos’altro, sarò qui per servirti.»

«Non temere, Makepeace Smith, la prossima volta che il mio ronzino avrà bisogno di ferri mi vedrai di nuovo qui.» E siccome Hank Dowser era un buon cristiano e provava vergogna per la sua antipatia verso il ragazzo, aggiunse una parola di lode per quest’ultimo. «Finché questo ragazzo resterà con te mi rivedrai sicuramente, visto il dono che si ritrova.»

Il ragazzo non diede segno di aver udito il complimento, e il fabbro si limitò a ridacchiare. «Non sei l’unico a pensarla così» concluse.

In quel momento, Hank Dowser capì una cosa che altrimenti avrebbe potuto sfuggirgli. Quel dono del ragazzo per la ferratura dei cavalli era un ottimo richiamo per la clientela, e Makepeace Smith era esattamente il tipo d’uomo capace di tenersi l’apprendista fino all’ultimo giorno del contratto, giusto per approfittare della fama che il ragazzo si era fatto come uno che metteva buoni ferri senza azzoppare un solo cavallo. In casi del genere, un padrone avido doveva soltanto affermare che alla forgia il ragazzo era un disastro o roba del genere, e in questo modo aveva il pretesto per tenerselo stretto. Nel frattempo il ragazzo avrebbe conferito alla bottega di Makepeace la fama della migliore mascalcia dell’Hio orientale. Quattrini a palate per Makepeace Smith, e al ragazzo neanche uno spicciolo, né soldi né libertà.

La legge era la legge, e il fabbro non la stava violando: aveva diritto ai servigi del ragazzo fino all’ultimo giorno. Ma era consuetudine lasciar libero l’apprendista non appena avesse imparato il mestiere e fosse abbastanza maturo da farsi strada da solo. Altrimenti, se l’apprendista non avesse avuto la speranza di anticipare il momento della libertà, che senso aveva darsi tanto da fare, sudare sette camicie per imparare il più presto possibile? Si diceva che persino i proprietari di schiavi delle Colonie della Corona permettessero ai loro schiavi migliori di guadagnare qualche soldo con lavoretti extra, in modo che, una volta diventati vecchi, potessero riscattare la propria libertà.

No, Makepeace Smith non violava alcuna legge, però violava la consuetudine del rapporto fra padroni e apprendisti, e Hank per questo lo giudicò male; era un cattivo padrone colui che teneva con sé un ragazzo al quale non poteva insegnare più nulla.

Eppure, pur sapendo che il ragazzo aveva ragione e il padrone torto, Hank guardava il ragazzo e il suo cuore grondava gelido odio. Hank rabbrividì, e subito cercò di scrollarsi di dosso quella sensazione.

«Hai detto che avevi bisogno di un pozzo» disse Hank Dowser. «Ti serve per bere, per lavarti o per la fucina?»

«Fa qualche differenza?» chiese il fabbro.

«Sì, penso di sì» ribatté Hank. «Per bere hai bisogno d’acqua pura, e per lavarti d’acqua che non porti malattie. Ma per lavorare nella fucina, penso che al ferro non importi un accidente se si raffredda in acqua limpida o fangosa… Ho ragione o no?»

«La sorgente in alto si sta seccando. Ogni anno che passa butta sempre meno» spiegò il fabbro. «Ho bisogno di un pozzo sul quale possa far conto. Profondo, con acqua limpida e pura.»

«Sai bene perché la sorgente butta sempre meno» disse Hank. «Qui intorno tutti si sono messi a scavar pozzi, e questi succhiano l’acqua prima che riesca a filtrare fino alla sorgente. Se ne scavi uno anche tu, probabilmente sarà la volta che si esaurirà del tutto.»

«Non mi sorprenderebbe» annuì il fabbro. «Ma i pozzi degli altri non posso certo farli sparire, e anch’io ho bisogno d’acqua. Se mi sono stabilito qui è stato per via del ruscello, e adesso me l’hanno fatto seccare. Forse potrei trasferirmi da qualche altra parte, ma ho una moglie e tre marmocchi, e poi questo posto mi piace, mi piace davvero. Perciò, piuttosto che andarmene, preferisco scavare un pozzo.»

Hank salì fino alla macchia di salici che crescevano lungo il ruscello, vicino al punto nel quale esso aveva origine, sotto un vecchio deposito ormai in disuso. «È vostro?» chiese.

«No, appartiene al vecchio Horace Guester, il padrone della locanda.»

Hank trovò un ramoscello di salice che si biforcava proprio come faceva al caso suo, e cominciò a inciderlo col coltello. «Pare che questo deposito non serva più a molto.»

«Il ruscello si sta seccando, come ti dicevo. Per metà estate non c’è acqua sufficiente a mantener freschi i recipienti con il latte. E se uno non può farci conto per tutta l’estate, un deposito così non serve a nulla.»

Hank praticò un’ultima intaccatura e il ramo si staccò dal salice. Con il coltello, ne appuntì la parte più grossa e lo ripulì accuratamente da protuberanze e irregolarità, levigandolo il più possibile. Certi rabdomanti non si curavano affatto di lisciare la bacchetta, limitandosi a toglierne le foglie e lasciando le estremità tutte sfrangiate, ma Hank sapeva che l’acqua non era sempre disposta a lasciarsi trovare, e in questi casi era necessaria una bacchetta di salice ben pulita e levigata. Altri usavano una bacchetta pulita, ma sempre la stessa, un anno dopo l’altro, ovunque andassero; tuttavia nemmeno così andava bene — Hank lo sapeva per esperienza — perché la bacchetta doveva essere tagliata da un salice o talvolta da un noce che fosse cresciuto con le radici nell’acqua che uno sperava di trovare. Tra i rabdomanti c’erano molti ciarlatani, anche se Hank non riteneva opportuno dirlo in giro. Il più delle volte anche loro trovavano l’acqua, per il semplice motivo che, nella maggior parte dei posti, se si scava abbastanza a fondo prima o poi l’acqua si trova. Hank però lo faceva secondo tutte le regole. Hank aveva il dono. Al momento giusto sentiva la bacchetta di salice tremargli fra le mani, avvertiva il canto dell’acqua salire fino a lui dal sottosuolo. E nemmeno si accontentava del primo segno d’acqua. Cercava acqua pura, acqua che scorresse vicino alla superficie, dove fosse facile attingerla. Per lui trovare l’acqua era una questione di orgoglio.

Ma per quell’apprendista, come si chiamava, Alvin?… Per lui non era la stessa cosa. O uno sapeva sistemare un ferro senza azzoppare il cavallo, o non lo sapeva fare. Se avesse azzoppato anche un solo cavallo, la gente ci avrebbe pensato due volte prima di tornare a farsi ferrare una bestia da lui. Nel caso del rabdomante invece non sembrava che fosse così importante trovare l’acqua ogni volta. Bastava dire di essere un rabdomante, andarsene in giro con una bacchetta, e la gente era disposta a pagarti per cercar l’acqua, senza preoccuparsi minimamente se avevi il dono oppure no.

Hank si chiese allora se non fosse proprio quello il motivo per cui provava tanta ostilità per quel ragazzo… perché il ragazzo si era già fatto un nome per la qualità del suo lavoro, mentre Hank non si era fatto alcun nome anche se probabilmente era l’unico vero rabdomante che quella gente avrebbe avuto occasione di vedere per un bel pezzo.

Hank si mise a sedere sulla sponda erbosa del ruscello e si sfilò gli stivali. Quando si chinò in avanti per appoggiare il secondo stivale su una roccia asciutta dove era meno facile che si riempisse d’insetti, scorse due occhi ammiccare dall’ombra di una fitta macchia di cespugli. A Hank venne quasi un accidente, perché prima pensò di aver visto un orso, e poi pensò di aver visto un Rosso in caccia di scalpi di rabdomanti, anche se da quelle parti erano anni che non si vedevano né orsi né Rossi. No, era solo un negretto dalla pelle chiara nascosto tra i cespugli. Quel ragazzino era un sangue misto, mezzo Bianco e mezzo Nero, Hank lo capì non appena si fu riavuto dalla sorpresa. «Che cosa stai guardando?» domandò.

Gli occhi si chiusero e il visetto scomparve. I cespugli tremarono e ondeggiarono al passaggio di qualcuno che si allontanava rapidamente a quattro zampe.

«Non preoccuparti di lui» disse Makepeace Smith. «È solo Arthur Stuart.»

Arthur Stuart! Non solo nelle Colonie della Corona, ma anche nella Nuova Inghilterra o negli Stati Uniti, non c’era una sola persona che non conoscesse quel nome. «Allora sarai felice di sapere che io sono il Lord Protettore» ridacchiò Hank Dowser. «Perché se il re avesse la pelle di quel colore, sarebbe una notizia che mi procurerebbe tre pasti gratis in qualsiasi città tra l’Hio e il Suskwahenny fino all’ultimo dei miei giorni.»

Makepeace Smith rise di cuore. «No, quel nome è una trovata di Horace Guester. Horace e la vecchia Peg Guester si sono presi il bambino in casa perché i suoi veri genitori sono troppo poveri per mantenerlo. Anche se non credo che il motivo stia tutto qui. Chiaro di pelle com’è, non c’è da stupirsi se a Mock Berry non va di vederlo seduto a tavola con gli altri suoi figli, tutti neri come il carbone.»

Hank Dowser cominciò a togliersi i calzini. «Non vorrai mica insinuare che il vecchio Horace Guester se lo sia preso perché è lui il responsabile del fatto che il bambino abbia la pelle così chiara?»

«Tappati la bocca con una zucca, Hank, prima di dire una cosa del genere» lo rimproverò Makepeace. «Horace non è quel tipo d’uomo.»

«Resteresti sorpreso nel sapere chi è risultato essere quel tipo d’uomo» replicò Hank. «Anche se certamente non oserei mai pensare una cosa del genere a proposito di Horace Guester.»

«Credi che la vecchia Peg Guester si terrebbe in casa il bastardo di suo marito?»

«E se non lo sapesse?»

«Lo saprebbe. Sua figlia Peggy una volta era la fiaccola di Hatrack. E tutti sapevano che la piccola Peggy Guester era incapace di mentire.»

«Già prima di venire da queste parti avevo sentito parlare della fiaccola di Hatrack. Perché non l’ho mai vista?»

«Se n’è andata, ecco perché» spiegò Makepeace. «Se n’è andata tre anni fa. Scappata. Se vai alla locanda dei Guester, questo argomento con loro è meglio che tu non lo sfiori nemmeno. Sono alquanto suscettibili in proposito.»

Scalzo, Hank Dowser si tirò in piedi sulla sponda del ruscello. Per caso sollevò lo sguardo, e lassù tra gli alberi scorse di nuovo il piccolo Arthur Stuart che lo guardava. Be’, che male poteva fargli un ragazzino? Nessuno.

Hank entrò nel ruscello e lasciò che l’acqua gelida gli scorresse sui piedi. In silenzio si rivolse all’acqua. Non ho intenzione di arrestare il tuo corso, o di prosciugare le tue sorgenti. Il pozzo che voglio scavare non ti farà alcun danno. Sarà come offrirti un altro posto in cui scorrere, come donarti un’ altra faccia, altre mani, un altro occhio. Perciò non nasconderti, Acqua. Mostrami dove sali, dove premi per raggiungere il cielo, e io dirò loro di scavare in quel punto, e tu sarai libera di scorrere sulla terra. Ti giuro che sarà così. «Quest’acqua è pura?» chiese poi Hank rivolgendosi al fabbro.

«Eccome» confermò Makepeace. «Non ho mai sentito dire che qualcuno abbia preso malattie per averla bevuta.»

Hank tuffò nell’acqua a monte dei suoi piedi l’estremità appuntita della bacchetta. Assaggiala, disse alla bacchetta. Cogline il sapore, e ricorda, e trovane di dolce come questa.

La bacchetta cominciò a impennarglisi fra le mani. Era pronta. Hank la sollevò dall’acqua ed essa si acquietò, pur continuando a tremare lievemente per fargli capire che era viva, e cercava.

Non era più il momento di parlare o di pensare. Hank cominciò a camminare a occhi semichiusi, perché non voleva che la vista lo distraesse dal fremito che avvertiva tra le mani. La bacchetta non lo conduceva mai fuori strada; guardare dove stava andando avrebbe significato ammettere che la bacchetta non era capace di cercare.

Gli ci volle quasi mezz’ora. Certo, qualche punto lo trovò quasi subito, ma non andava bene, almeno non per Hank Dowser. Dall’impeto con cui la bacchetta s’impennava e si fletteva verso il terreno, Hank poteva capire se l’acqua era abbastanza vicina alla superficie perché valesse la pena di scavare. Ormai si era fatto una tale esperienza che la maggior parte delle persone non riusciva a trovare alcuna differenza tra lui e uno scandagliatore, che era praticamente il massimo cui un rabdomante potesse aspirare. E siccome gli scandagliatori erano rari, visto che per diventarlo uno doveva essere un settimo figlio maschio o un tredicesimo nato, Hank non rimpiangeva più di essere nato rabdomante anziché scandagliatore… Almeno non così di frequente.

La bacchetta si piegò verso il basso con tanta violenza da conficcarsi di un palmo nel terreno. Difficile fare meglio di così. Hank sorrise e aprì gli occhi. Si trovava a non più di una decina di passi dal retro della fucina. A occhi aperti non si sarebbe potuto trovare un punto più adatto. Nessuno scandagliatore avrebbe potuto fare di più.

Anche il fabbro era della stessa idea. «Ehi, se qualcuno mi avesse chiesto dove avrei voluto scavare un pozzo, gli avrei indicato proprio questo punto.»

Hank annuì, accettando il complimento senza un sorriso, gli occhi semichiusi, il corpo ancora formicolante per il richiamo dell’acqua. «Prima che io alzi la bacchetta» disse Hank «bisogna che scaviate una fossa intorno a questo punto, per contrassegnarlo.»

«Portami una vanga!» gridò il fabbro.

L’apprendista partì di corsa in cerca dell’attrezzo. Hank notò Arthur Stuart che gli traballava dietro a rotta di collo sulle gambette corte e malferme. Sicuramente sarebbe caduto. E infatti cadde nell’erba e, a causa della velocità, scivolò di un bel po’, e quando si alzò era completamente fradicio di rugiada. Ma l’incidente non scoraggiò il bambino, che ripartì barcollando e sparì dietro l’angolo della fucina sulle tracce di Alvin l’apprendista.

Hank si voltò verso Makepeace Smith e tirò un calcio al terreno davanti a sé. «Non essendo uno scandagliatore, non posso esserne sicuro» disse, con tutta la modestia di cui era capace «ma direi che per arrivare all’acqua non ci saranno più di tre braccia. Fresca e frizzante come se ne vede di rado.»

«Comunque sia, non intendo dannarmici» borbottò Makepeace. «Quel pozzo non sarò io a scavarlo.»

«Quel tuo apprendista sembra abbastanza forte da scavarlo da solo, se non pianta tutto lì mettendosi a dormire non appena gli volti le spalle.»

«Non è il tipo» disse Makepeace. «E tu? Stanotte dormirai alla locanda, immagino.»

«Penso di no» rifletté Hank. «A sei miglia a ovest di qui ho gente che ha bisogno di me per trovare del terreno asciutto per scavare una cantina.»

«Che cos’è, una specie di ani/rabdomanzia?»

«Proprio così, Makepeace, e ti assicuro che in una zona umida come questa è anche una vera impresa.»

«Be’, allora quando hai finito ripassa da queste parti» sorrise il fabbro «e io ti metterò da parte un sorso del primo secchio d’acqua attinto dal tuo pozzo.»

«Ne sarò felice» disse Hank. Era un onore che non gli facevano spesso, quello di offrirgli il primo sorso d’acqua attinto da un nuovo pozzo. Era acqua potente, quella, ma solo se veniva offerta spontaneamente, e Hank non poté fare a meno di sorridere a sua volta. «Sarò qui tra un paio di giorni, implacabile come il destino.»

L’apprendista tornò con la vanga e cominciò subito il suo lavoro. Doveva soltanto scavare una fossa poco profonda, tuttavia Hank notò che il ragazzo, senza aver preso le misure, stava scavando il perimetro di un quadrato perfetto, e — per quanto Hank potesse giudicare — anche orientato secondo i punti cardinali. Lì in piedi, con la bacchetta ancora piantata nel terreno, nel sentirsi il ragazzo così vicino Hank avvertì un’improvvisa ondata di nausea. Però non era il genere di nausea che ti fa venir voglia di rimettere quello che hai mangiato a colazione. Era la nausea che diventa dolore, la nausea che diventa violenza; Hank avvertì un desiderio spasmodico di strappare la vanga dalle mani del ragazzo e di calargliela di taglio sulla testa.

Poi, mentre se ne stava lì, con la bacchetta che gli tremava fra le mani, ebbe un’intuizione. Non era Hank a odiare quel ragazzo, nossignore. A volerlo morto era l’acqua, di cui Hank era il fedele servitore.

Nello stesso istante in cui quel pensiero balenò nella mente di Hank, questi cercò di ricacciarlo indietro, di respingere la nausea che gli montava dentro. Era l’idea più pazzesca che avesse mai avuto. L’acqua era acqua. Tutto ciò che desiderava era scaturire dal terreno o cadere dalle nuvole e scorrere sulla superficie della terra. In essa non vi erano né malizia né desiderio di uccidere. E poi Hank Dowser era cristiano, e per giunta battista… la religione più adatta a un rabdomante, se mai ce n’è stata una. Quando Hank cacciava qualcuno sott’acqua era per battezzarlo e condurlo a Gesù, non per affogarlo. Nel cuore di Hank non albergava alcun desiderio omicida: il suo Salvatore, che gl’insegnava ad amare i suoi nemici, gl’insegnava anche che odiare il prossimo era come ucciderlo.

Hank rivolse una preghiera silenziosa a Gesù perché liberasse il suo cuore da quella rabbia e facesse in modo che egli non desiderasse più la morte di un ragazzo innocente.

Quasi in risposta, la bacchetta si sfilò di colpo dal suolo, gli sfuggì dalle mani e volò fra i cespugli a un paio di pertiche di distanza.

A Hank non era mai accaduto niente del genere in tutti gli anni che aveva fatto il rabdomante. Una bacchetta che ti schizza via in quel modo! Ecco, era come se l’acqua avesse voluto respingerlo con la stessa decisione con cui una signora della buona società respinge un bestemmiatore.

«La fossa è pronta» annunciò il ragazzo.

Hank gli gettò un’occhiata penetrante, per capire se avesse notato qualcosa d’insolito nel modo in cui la bacchetta gli era scappata di mano. Ma il ragazzo non lo stava neanche guardando. Aveva gli occhi fissi al suolo all’interno della fossa quadrata.

«Buon lavoro» approvò Hank, cercando di non lasciar trasparire l’odio che provava.

«Scavare in questo punto non servirà a nulla» mormorò il ragazzo.

Hank non riusciva a credere alle proprie orecchie. Era già abbastanza riprovevole che il ragazzo rispondesse al suo padrone riguardo a un mestiere che conosceva. Ma che diamine ne sapeva di rabdomanzia?

«Che cos’hai detto, ragazzo?» chiese Hank.

Alvin doveva aver visto la minaccia nello sguardo di Hank, o udito la nota di furia nella sua voce, perché si affrettò a fare marcia indietro. «Niente, signore» disse. «E poi non sono affari miei.»

Hank tuttavia aveva accumulato una rabbia tale che non gli permise di cavarsela tanto facilmente. «Pensi di poter fare anche il mio lavoro, eh? Forse il tuo padrone ti lascia pensare di essere bravo come lui per via del tuo dono con i cavalli, ma lasciatelo dire, ragazzo, io sono un vero rabdomante, e la mia bacchetta mi dice che qui c’è l’acqua!»

«È giusto» ammise l’altro. Si esprimeva in tono pacato, così che Hank non aveva veramente fatto caso alla circostanza che il ragazzo lo superava in altezza di un buon palmo, e forse ancora di più nell’allungo. Alvin l’apprendista non era grande e grosso al punto da poter essere definito un gigante, ma di certo non era neanche un nano.

«È giusto? Pensi che spetti a te giudicare se quello che la bacchetta mi dice è giusto o sbagliato?»

«No, signore, lo so. Ho parlato a sproposito.»

Il fabbro intanto era di ritorno con una carriola, un piccone e due robuste leve di ferro. «Che succede?» chiese.

«Il tuo ragazzo vuole fare il furbo con me» sibilò Hank. Ma mentre pronunciava quelle parole si rese conto di essere ingiusto… L’apprendista aveva già chiesto scusa, no?

In quel momento il braccio di Makepeace si abbatté sul ragazzo, assestandogli alla tempia un manrovescio che avrebbe abbattuto un orso. Alvin barcollò, ma non cadde. «Mi dispiace, signore» disse.

«Ha detto che nel punto in cui vi ho indicato di scavare non c’è acqua.» Hank non riusciva a trattenersi. «Il suo dono io l’ho rispettato. Allo stesso modo vorrei che lui rispettasse il mio.»

«Dono o non dono» tagliò corto il fabbro «deve rispettare i miei clienti, o imparerà quanto tempo ci vuole per diventare fabbro, oh, se lo imparerà!»

Adesso Makepeace stringeva in mano una delle due pesanti leve di ferro, quasi avesse l’intenzione di servirsene per fustigare il ragazzo sulla schiena. Non sarebbe stato altro che un omicidio, e l’odio di Hank non arrivava a tanto. Allungò la mano afferrando l’altra estremità della leva. «No, Makepeace, aspetta, va bene così. Mi ha già chiesto scusa.»

«E questo ti basta?»

«Questo e sapere che darai ascolto a me e non a lui» rispose Hank. «Non sono tanto vecchio da permettere a un ragazzino con il dono per la ferratura dei cavalli di dirmi che non sono ‘più in grado di fare il rabdomante’.»

«Il pozzo verrà scavato proprio qui, puoi scommetterci l’anima. E questo ragazzo lo scaverà tutto da solo, e finché non sarà arrivato all’acqua non riceverà nulla da mangiare.»

Hank sorrise. «Bene, allora sarà contento di scoprire che conosco il mio mestiere… Anche se non dovrà scavare molto, questo è certo.»

Makepeace si portò alle spalle del ragazzo, che adesso era ritto a qualche passo dalla fossa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, il volto completamente inespressivo. «Alvin, io accompagno il signor Dowser a riprendere il cavallo ferrato. Per quanto riguarda te, non voglio rivederti finché non sarai in grado di portarmi un secchio d’acqua pura attinto a questo pozzo. Fino a quel momento non avrai né un tozzo di pane, né un sorso d’acqua che non sia stato attinto proprio da qui.»

«Non ti sembra di esagerare?» disse Hank. «Abbi cuore. Lo sai che in un pozzo appena scavato a volte ci vuole un paio di giorni prima che il terriccio si depositi.»

«Comunque sia, voglio un secchio d’acqua dal nuovo pozzo» ribadì Makepeace. «Anche se per farlo dovesse scavare tutta la notte.»

Makepeace e Hank tornarono quindi verso la fucina e il recinto dove li attendeva Picklewing. Fecero due chiacchiere, trafficarono un po’ per sellare la bestia, e poi Hank Dowser si rimise in strada, sentendo sotto di sé il cavallo trottare con passo più agevole e regolare, felice come una pasqua. Mentre si allontanava scorse il ragazzo al lavoro. Non si vedeva volare terriccio, solo un metodico sollevare e scaricare, sollevare e scaricare. A quanto pareva, l’apprendista non si fermava neanche per riposare. Non una sola interruzione nel ritmo del suo lavoro. Solo lo zac della vanga che penetrava nel terreno, poi lo zuis-tump del terriccio che veniva scaricato sul mucchio.

Hank ritrovò la calma solo quando non riuscì più a udire quel rumore, anzi a ricordare che rumore fosse. Quali che fossero i poteri di Hank come rabdomante, quel ragazzo era nemico del suo dono, Hank ne era certo. Sulle prime aveva pensato che la sua fosse una rabbia irragionevole, ma dopo che il ragazzo gli aveva risposto in quel modo, Hank aveva compreso di aver colto nel segno. Il ragazzo credeva di essere padrone dell’acqua, forse di essere addirittura uno scandagliatore, e questo lo rendeva nemico di Hank.

Gesù aveva detto di donare ai nemici il proprio mantello, di porgere l’altra guancia… Ma se il nemico voleva portarti via ogni mezzo di sostentamento? Se voleva rovinarti? Cristiano sì, ma non fino a quel punto, pensò Hank. A quel ragazzo ho dato la lezione che si meritava, e, se non impara, be’, vorrà dire che gliene darò una seconda.

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