VI MASCHERATA

Peggy non era la ragazza più ammirata al Ballo del Governatore, ma a lei stava bene così. Già da tempo Modesty le aveva insegnato che per una donna era un errore entrare in competizione con le sue pari. «Non esiste bene così prezioso che una donna possa tenerlo per sé sottraendolo a tutte le altre.»

Nessun’altra tuttavia sembrava capirlo. Le signore presenti al ballo si lanciavano sguardi carichi d’invidia, calcolando il probabile costo di una gonna, valutando la cifra spesa per un amuleto di bellezza, tenendo il conto degli uomini con cui ciascuna ballava, o che ciascuna riusciva a farsi presentare.

Poche di loro rivolsero sguardi invidiosi a Peggy… Almeno quando lei fece il suo ingresso nella sala, a metà pomeriggio. Peggy percepì subito l’impressione che faceva sulle altre. I suoi capelli non erano elegantemente acconciati, ma ben spazzolati e lucenti, raccolti in modo da dare un’impressione di ordine eppure con qualche ricciolo ribelle. Il suo abito era semplice, quasi povero, ma per scelta consapevole. «Hai un corpo giovane e flessuoso, e l’abito non deve distrarre gli sguardi dalla grazia naturale della giovinezza» aveva detto Modesty. Quell’abito inoltre era insolitamente pudico, e mostrava meno pelle nuda di quelli indossati dalle altre partecipanti al ballo; tuttavia, più degli altri, rivelava la libertà di movimenti del corpo che esso celava.

Peggy riusciva quasi a udire la voce di Modesty che le diceva: «Tante ragazze questo non lo capiscono. Il busto non può essere fine a se stesso. Il suo scopo è quello di permettere a un corpo vecchio e cadente d’imitare quello naturalmente posseduto da una donna giovali ne e sana. Nel tuo caso il busto non deve essere stretto; le stecche devono sostenere senza costringere. Il tuo corpo così potrà muoversi liberamente, e tu potrai respirare. Le altre si stupiranno che tu abbia il coraggio di mostrarti in pubblico con il tuo punto vita naturale. Ma gli uomini non misurano il taglio degli abiti femminili: apprezzano la naturalezza di una donna libera, sicura di sé, che si gode la vita, oggi, in questo luogo, in loro compagnia».

La cosa più importante, tuttavia, era che Peggy non portava gioielli. Le altre dovevano far conto sui mascheramenti ogni volta che si mostravano in pubblico. A meno che una ragazza non avesse un dono per i mascheramenti, era costretta ad acquistare — o a far acquistare dai genitori o dal marito — un talismano inciso su un anello o un ciondolo. Di solito i preferiti erano i ciondoli, perché si potevano portare vicino al viso, e di conseguenza era possibile cavarsela con un talismano molto meno potente e quindi non troppo costoso. Da lontano i mascheramenti non sortivano alcun effetto, ma più ci si avvicinava a una donna con un mascheramento di bellezza, più si aveva l’impressione che il suo viso acquistasse un fascino straordinario. Non che ne risultassero trasformati i suoi lineamenti; si continuava a vedere quello che c’era. Era il giudizio a cambiare. La signora Modesty ne rideva. «A che serve imbrogliare qualcuno, quando questi sa di essere imbrogliato?» Perciò Peggy non portava alcun talismano.

Tutte le altre donne che partecipavano al ballo erano travestite. Sebbene nessuna si coprisse il viso, in realtà quel ballo era in maschera. Solo Peggy e Modesty non erano in costume, non cercavano di avvicinarsi a un ideale artificioso.

Peggy poteva quasi leggere nel pensiero delle altre ragazze quando queste la videro fare il suo ingresso nella sala. «Poveretta…»

«Quant’è insignificante!»

«Non può certo pensare di mettersi in competizione con noi…»

Bisogna dire che tutte queste loro valutazioni corrispondevano alla realtà, almeno sulle prime. All’inizio infatti nessuno fece particolarmente caso a Peggy.

Ma Modesty scelse con cura alcuni degli uomini che si avvicinarono a lei. «Vorrei presentarvi la mia giovane amica Margaret» diceva, e poi Peggy sorrideva in quella sua maniera fresca e aperta in cui non c’era niente di artefatto… un sorriso naturale, un sorriso che rivelava la sua sincera contentezza di conoscere un amico della signora Modesty. L’altro le toccava la mano e s’inchinava, e l’aggraziata riverenza con cui lei rispondeva era spontanea e priva di artificio, un gesto sincero; la mano di lei stringeva quella dell’uomo in un riflesso amichevole, nel modo in cui si saluta un possibile amico. «L’arte della bellezza è l’arte della verità» diceva sempre Modesty. «Le altre donne fingono di essere diverse da quelle che sono; tu devi essere solo te stessa, con la stessa grazia naturale ed esuberante di un cervo che corre a lunghi balzi o di un falco che descrive ampi cerchi nel cielo.» L’uomo conduceva allora Peggy sulla pista e lei si faceva guidare, senza preoccuparsi di fare i passi giusti, di tenere il tempo o di esibire il proprio vestito, ma semplicemente godendosi il ballo, i movimenti simmetrici, il modo in cui la musica fluiva nei loro corpi uniti.

L’uomo che le veniva presentato e che ballava con lei, poi se ne ricordava. Dopo di lei le altre sembravano rigide, impacciate, impedite, artificiali. Molti uomini, non meno artificiali della maggior parte delle signore, non conoscevano se stessi abbastanza a fondo da capire che in realtà apprezzavano la compagnia di Peggy molto di più di quella delle altre. Modesty però si guardava bene dal presentare Peggy a uomini del genere. No, le permetteva di ballare solo con quelli capaci di rispondere alla sua presenza; e Modesty sapeva esattamente chi fossero, perché erano proprio quelli che nutrivano un sincero affetto per lei.

Perciò le ore trascorrevano e il ballo continuava, mentre il nebbioso pomeriggio cedeva il passo a una luminosa serata, e un numero sempre maggiore di cavalieri circondava Peggy, affollando di nomi il suo carnet, conversando animatamente con lei durante le pause, portandole rinfreschi — che lei accettava se aveva fame o sete, rifiutava gentilmente in caso contrario — finché le altre ragazze cominciarono a far caso alla sua presenza. Molti uomini non si curavano affatto di Peggy, si capisce; nessun’altra ragazza fu trascurata per causa sua. Le altre tuttavia non la pensavano così. Vedevano soltanto che Peggy era sempre circondata dagli uomini, e Peggy poteva immaginare le frasi che si scambiavano sottovoce.

«Che razza d’incantesimo avrà?»

«Porta un amuleto sotto il corpetto… Ne ho visto la forma premere contro quel tessuto dozzinale.»

«Come mai non si accorgeranno di quella vita così grossa?»

«E guardale i capelli, tutti scomposti! Sembra appena uscita da un fienile.»

«Sicuramente farà loro un sacco di complimenti.»

«Non so se te ne sei accorta, ma attira solo un certo tipo di uomini.»

Poverette, poverette. Peggy non disponeva di alcun potere che tutte quelle ragazze non possedessero dalla nascita, e non usava alcun artificio che si potesse acquistare col denaro.

La cosa più importante per lei era che, in simili circostanze, non ricorreva nemmeno al suo dono. Nel corso degli anni aveva imparato con facilità la maggior parte di ciò che Modesty le andava insegnando, poiché in fondo non si trattava che di un’estensione della sua naturale onestà. L’unico vero ostacolo era stato il dono di Peggy. Per abitudine, non appena conosceva qualcuno scrutava immancabilmente nella sua fiamma vitale per capire chi fosse; e arrivando a conoscerlo meglio di quanto non conoscesse se stessa, era costretta a nascondergli la propria consapevolezza dei suoi segreti più riposti. Era stato questo a renderla così riservata, così apparentemente altezzosa.

Modesty e Peggy si erano trovate perfettamente d’accordo: Peggy non poteva rivelare agli altri quanto a fondo riuscisse a conoscerli. Tuttavia Modesty le aveva assicurato che, finché avesse dovuto nascondere una dote tanto importante, mai avrebbe potuto esprimere tutta la bellezza che celava dentro di sé, né sarebbe mai diventata la donna che Alvin avrebbe potuto amare per quella che era.

La via d’uscita era semplicissima. Dato che Peggy non poteva né rivelare né nascondere ciò che sapeva, l’unica soluzione consisteva nel non sapere. Era stata questa la vera lotta che Peggy aveva dovuto ingaggiare con se stessa negli ultimi tre anni: imparare a non guardare nella fiamma vitale di chiunque incontrasse. Eppure col duro lavoro, dopo tante lacrime di frustrazione e mille tentativi di aggirare le sue stesse difese, c’era riuscita. Adesso poteva entrare in una sala da ballo affollata e restare del tutto indifferente alle fiamme vitali che la circondavano. Sì, certo, le vedeva — non poteva certo accecarsi — ma non prestava loro alcuna attenzione. Non avvertiva più la tendenza irresistibile ad avvicinarsi per esplorarle. Negli ultimi tempi anzi aveva raggiunto una tale padronanza di sé che non doveva nemmeno cercare di non guardare nella fiamma vitale dell’altro. Poteva stare a tu per tu con qualcuno, conversare, prestare attenzione alle sue parole, e non penetrare nei suoi pensieri più di quanto non lo potesse fare chiunque altro.

Certo, i suoi anni da fiaccola le avevano insegnato molto riguardo alla natura umana, al genere di pensieri che si celano dietro certe parole, espressioni, gesti o toni di voce, tanto che non le era difficile immaginare ciò che gli altri pensavano veramente. Ma le persone di buon cuore non se la prendevano quando Peggy sembrava indovinare i loro pensieri. Era una conoscenza che lei non doveva nascondere. Quelli che non poteva conoscere erano i loro segreti più riposti… e quelli adesso le restavano invisibili, a meno che lei stessa non decidesse di vedere.

Ma ora Peggy non decideva più di vedere. In quel suo nuovo distacco, infatti, scopriva una libertà che in vita sua non aveva mai avuto occasione di assaporare. Adesso poteva prendere gli altri alla lettera. Poteva rallegrarsi in loro compagnia, senza sapere e di conseguenza senza sentirsi responsabile per i loro appetiti nascosti o, cosa ancor più terribile, per i loro pericolosi futuri. Ciò conferiva al suo modo di ballare, di ridere, di conversare, una sorta di trascinante sfrenatezza; al ballo nessun altro si sentiva così libero come la giovane amica di Modesty, Margaret, perché nessun altro aveva mai conosciuto una prigionia soffocante come quella da lei sopportata fino a poco tempo prima.

La serata di Peggy al Ballo del Governatore fu dunque un successo. Non un trionfo, attenzione, perché non sconfisse nessuno… Ciascuno degli uomini che conquistarono la sua amicizia non fu sconfitto, bensì liberato, addirittura vittorioso. Ciò che ella provava era pura gioia, e coloro che si trovavano con lei non potevano che rallegrarsi. Emozioni così gradevoli non potevano essere contenute. Persino le signore e le signorine che malignavano di lei al riparo dei ventagli non poterono fare a meno di percepire l’atmosfera gioiosa della festa; molte di loro dissero alla moglie del governatore che era stato il più bel ballo che si fosse mai visto a Dekane, o forse in tutto lo Stato del Suskwahenny.

Alcune giunsero addirittura a rendersi conto di chi fosse stato a dare alla serata quell’atmosfera gioiosa. Tra queste c’erano Modesty e la moglie del governatore. A un certo punto, Peggy le vide conversare, mentre lei piroettava con grazia sulla pista tornando dal suo cavaliere con un sorriso che indusse l’uomo a ridere di gioia per la fortuna di ballare con lei. La moglie del governatore sorrideva e annuiva, indicando col ventaglio la pista da ballo, e per un istante il suo sguardo incontrò quello di Peggy. Peggy sorrise con calore; la moglie del governatore ricambiò il sorriso con un cenno del capo. Quel gesto non passò inosservato. Peggy sarebbe stata la benvenuta a qualsiasi festa cui volesse partecipare nella città di Dekane… due o tre per sera, se avesse voluto, ogni sera dell’anno.

Eppure Peggy non si gloriò di quel successo, perché sapeva quanto in realtà fosse insignificante. Si era conquistata un posto nella vita mondana di Dekane… Però Dekane era soltanto la capitale di uno Stato di frontiera. Se veramente ambiva alle vittorie mondane, avrebbe dovuto farsi strada fino a Camelot, per conquistarsi l’approvazione dei reali, e di lì in Europa, per farsi ricevere a Vienna, Parigi, Varsavia o Madrid. E comunque anche allora, anche se fosse riuscita a ballare con ogni testa coronata d’Europa, questo non avrebbe significato nulla. Un giorno sarebbe morta, e anche loro, e che cosa ne avrebbe guadagnato il mondo da tutti quei balli?

La vera grandezza Peggy l’aveva vista nella fiamma vitale di un neonato, quattordici anni prima. Aveva protetto il bambino perché amava il suo futuro; aveva finito con l’amare il ragazzo per quello che era. Sopra ogni cosa, tuttavia — e questo era ancor più importante dei suoi sentimenti verso Alvin — sopra ogni cosa Peggy amava l’opera che lo attendeva. I sovrani edificavano regni o li perdevano; i mercanti accumulavano fortune o le dilapidavano; gli artisti creavano opere che il tempo faceva sbiadire o dimenticare. Solo Alvin l’Apprendista aveva in sé il seme della Creazione che avrebbe potuto resistere al tempo, all’ininterrotta azione del Distruttore. Perciò, quella sera, Peggy ballava per lui, sapendo che se avesse saputo conquistarsi l’amore di quegli estranei avrebbe potuto conquistarsi anche l’amore di Alvin, e guadagnarsi un posto accanto a lui sulla via verso la Città di Cristallo, il luogo in cui tutti gli abitanti vedono come fiaccole, edificano come Creatori, e amano con la purezza di Cristo.

Al pensiero di Alvin, Peggy rivolse la propria attenzione verso la sua lontana fiamma vitale. Sebbene si fosse addestrata a non guardare nella fiamma vitale di chi stava vicino a lei, non aveva mai rinunciato a guardare in quella di Alvin. Forse questo le rendeva più difficile controllare il proprio dono… Ma che senso avrebbe avuto qualsiasi progresso se avesse reciso il suo legame con quel ragazzo? Perciò non aveva neanche bisogno di cercarlo; sapeva sempre, in un angolo riposto della sua mente, dove ardesse la sua fiamma vitale. In quegli anni aveva imparato a non vederselo continuamente davanti, ma trovarlo era pur sempre questione di un istante. E così fece in quell’occasione.

Alvin stava scavando una buca sul retro della fucina. Tuttavia Peggy non fece caso al suo lavoro, perché non ci faceva caso neanche lui stesso. Quella che divampava più forte nella sua fiamma vitale era la rabbia. Qualcuno l’aveva trattato ingiustamente… Ma quella non era certo una novità, vero? Makepeace, uno dei padroni più giusti che si potessero desiderare, era diventato sempre più invidioso del talento di Alvin nel lavorare il ferro, e a causa di quella gelosia aveva cominciato a trattarlo ingiustamente, negando i talenti del suo apprendista con tanta maggiore veemenza quanto più se ne vedeva superato. Alvin conviveva quotidianamente con l’ingiustizia, eppure Peggy non aveva mai avvertito in lui una rabbia così divorante.

«Qualcosa non va, signorina Margaret?» L’uomo che stava ballando con lei sembrava preoccupato. Margaret si era fermata all’improvviso nel bel mezzo della pista. La musica continuava a suonare, e ogni coppia a ballare, ma vicino a lei qualcuno s’era fermato a guardarla.

«Non posso… continuare» mormorò Peggy. Lei stessa fu sorpresa nello scoprire di essere senza fiato dalla paura. Ma di cosa?

«Volete uscire dalla sala?» le chiese il suo cavaliere. Come si chiamava? Nella mente di Peggy c’era un solo nome: quello di Alvin.

«Vi prego» disse. Si appoggiò a lui e insieme uscirono da una delle porte spalancate che davano sulla veranda. La folla si divise; Peggy non se ne accorse.

Era come se la rabbia accumulata da Alvin negli anni di apprendistato sotto Makepeace Smith adesso avesse trovato modo di sfogarsi tutta insieme… e ogni colpo di vanga fosse un fendente di vendetta. Un rabdomante, un cercatore d’acqua ambulante… era stato questi a farlo arrabbiare, ed era a questi che Alvin voleva fare del male. Ma il rabdomante era l’ultima delle preoccupazioni di Peggy; né la turbava il modo in cui egli aveva provocato Alvin, per quanto subdolo fosse. No, si trattava di Alvin. Non capiva che scavare con odio era un atto di distruzione? E che quando si lavora per distruggere, si attira il Distruttore? Quando fatichi per disfare, il Distruttore può impadronirsi di te.

All’aperto l’aria era più fresca mentre le ombre della sera si infittivano, e l’ultimo scampolo di sole gettava una luce rossastra sui prati della villa del governatore. «Signorina Margaret, se vi siete sentita svenire spero non sia stato per mia colpa.»

«No, non mi sono sentita svenire. Volete perdonarmi? Ho pensato una cosa, ecco tutto. Qualcosa su cui debbo riflettere.»

L’uomo la guardò stranamente. Di solito quando una donna preferiva fare a meno della compagnia di un uomo affermava di essere sul punto di svenire. Ma non la signorina Margaret… Peggy capì che era sconcertato, incerto sul da farsi. L’etichetta dello svenimento era nota a tutti. Ma che cosa doveva fare un gentiluomo davanti a una donna che «aveva pensato una cosa»?

Peggy gli posò la mano sul braccio. «Amico mio, vi assicuro che sto bene, e che mi ha fatto molto piacere ballare con voi. Spero che vi siano altre occasioni. Ma per ora, per il momento, ho bisogno di restare sola.»

Peggy vide che le sue parole l’avevano rassicurato. Chiamandolo «amico mio» gli aveva promesso di ricordarlo; la sua speranza di ballare nuovamente con lui era così sincera che egli non poté fare a meno di crederle. Il suo cavaliere prese quelle parole alla lettera, e s’inchinò con un sorriso. Peggy non lo vide nemmeno allontanarsi.

La sua attenzione era rivolta altrove, a un luogo molto lontano nei pressi di Hatrack, dove Alvin l’Apprendista invocava il Distruttore senza rendersi conto di quello che faceva. Peggy frugò disperatamente nella sua fiamma vitale, cercando qualcosa che le permettesse di proteggerlo. Ma non trovò nulla. Ora che Alvin veniva spronato dalla rabbia, tutti i sentieri conducevano in un unico luogo, e quel luogo la terrorizzava, perché non riusciva a vedere che cosa vi fosse, non riusciva a capire che cosa sarebbe successo. E non c’erano vie d’uscita.

Che cosa stavo facendo a questo stupido ballo, mentre Alvin aveva bisogno di me? Se avessi prestato maggiore attenzione, avrei visto quello che stava per accadere, e forse avrei trovato il modo di aiutarlo. Invece ballavo con gente che per il futuro del mondo conta meno di niente. Sì, tutti sono felici di stare con me. Ma a che pro, se Alvin fallisce, se Alvin l’Apprendista viene sconfitto, se la Città di Cristallo viene distrutta ancor prima che il suo Creatore inizi a edificarla?

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