Il giorno in cui la maestra arrivò, Alvin si trovava alla Foce. Makepeace lo aveva mandato col carro a ritirare un carico di ferro giunto per via fluviale. Un tempo, la Foce era formata da un unico molo, un punto di sosta per i battelli che venivano a scaricare merce per la città di Hatrack. Ma ora che il traffico fluviale si faceva più intenso e, giacché i nuovi insediamenti su entrambe le rive dell’Hio diventavano sempre più numerosi, erano nate anche locande e botteghe dove gli agricoltori potevano vendere provviste alle imbarcazioni di passaggio e i viaggiatori fermarsi per la notte. La Foce e la città di Hatrack stavano diventando sempre più importanti, anche perché quello era l’ultimo punto in cui l’Hio scorreva in prossimità della famosa pista del Wobbish, la stessa pista che il padre e i fratelli di Alvin avevano aperto in mezzo ai boschi fino a Vigor Church. Così i nuovi coloni scendevano il fiume sino alla Foce, dove scaricavano carri e cavalli per procedere verso ovest per via di terra.
Alla Foce c’erano anche attrazioni di genere particolare che a Hatrack non sarebbero state tollerate: case da gioco, dove si giocava a poker e ad altri giochi d’azzardo e il denaro cambiava velocemente di mano, dato che la legge non si mostrava particolarmente desiderosa d’investigare nelle tane dei ratti di fiume e consimile marmaglia. E al piano superiore di quelle case si vociferava che abitassero donne che praticavano un mestiere di cui la gente per bene non parlava nemmeno sottovoce, e del quale i ragazzi dell’età di Alvin parlavano a bassa voce, tra scoppi di risatine nervose.
Il motivo per cui Alvin aspettava con ansia quei viaggi alla Foce, però, non era tanto l’idea delle gonne sollevate e delle cosce nude. Di quelle case Alvin a malapena si accorgeva, sapendo che ciò che vi avveniva non lo riguardava. Era il molo ad attirarlo, la capitaneria e il fiume stesso, percorso in continuazione da battelli e da chiatte, dieci che andavano verso valle contro una che procedeva nella direzione opposta. I suoi preferiti erano i battelli a vapore, che navigavano tra fischi e sbuffi a velocità innaturale. Mossi dai pesanti motori costruiti nell’Irrakwa, quei battelli fluviali erano lunghi e larghi, eppure risalivano la corrente più in fretta di quanto una chiatta potesse discenderla. Sull’Hio adesso ce n’erano otto, che facevano la spola tra Dekane e Sphinx. Ma non si spingevano oltre, perché da Sphinx in poi il Mizzipy era immerso nelle nebbie e quasi nessuno osava inoltrarsi in quelle acque.
Un giorno, pensò Alvin, qualcuno potrebbe salire su un battello come l’Orgoglio dell’Hio, e partire alla ventura. All’Ovest, verso territori ancora selvaggi, e magari gettare da lontano lo sguardo sui luoghi dove vivono Ta-Kumsaw e Tenska-Tawa. Oppure risalire il fiume fino a Dekane, e di qui prendere il nuovo treno a vapore che correva sulle rotaie fino all’Irrakwa e al canale. A quel punto tutto il mondo gli si spalancherebbe davanti. O forse potrebbe restare su quella riva e un giorno scoprire che tutto il mondo gli è passato davanti.
Ma Alvin non era tipo da abbandonarsi a oziose riflessioni. Anche se gli sarebbe piaciuto farlo, non si attardò sulla riva del fiume. Poco dopo entrò negli uffici della capitaneria e consegnò al direttore il biglietto di Makepeace Smith che lo autorizzava a ritirare il ferro contenuto nelle nove casse in fila sul molo.
«Preferirei non vederti usare i miei carrelli a mano per trasportare quella roba» disse il direttore. Alvin annuì. Sempre la stessa storia. Tutti avevano bisogno di quel ferro, direttore compreso, e ben presto quest’ultimo avrebbe fatto capolino alla fucina per ordinare questo o quello. Ma, nel frattempo, Alvin avrebbe dovuto sollevare di peso tutte le casse, per non sciupare i carrelli con un carico così gravoso. Makepeace, dal canto suo, non dava mai ad Alvin il denaro per ingaggiare qualche ratto di fiume che gli desse una mano a caricare. Però Alvin in fondo ne era contento. Quei tipi che trascorrevano la vita sul fiume non gli andavano a genio. Anche se il traffico fluviale era diventato troppo intenso perché pirati e briganti potessero agire indisturbati, ciò non significava che fossero venuti meno i furti e i loschi traffici. Quella gente Alvin la disprezzava profondamente. A suo modo di vedere, una persona del genere contava sulla fiducia delle persone oneste per poi tradirla; e quale risultato si sarebbe ottenuto, se non la scomparsa della fiducia reciproca? Preferisco affrontare un violento e restituirgli colpo su colpo, piuttosto che trovarmi davanti un bugiardo matricolato.
Così avvenne che, inaspettatamente, Alvin conobbe la nuova maestra e dovette misurarsi con un ratto di fiume, tutto nel breve volgere di un’ora.
Il ratto di fiume con cui si scontrò faceva parte di una combriccola che oziava sotto il portico della capitaneria, forse in attesa che aprisse una casa da gioco. Ogni volta che Alvin usciva chino sotto il peso di una cassa, quelli cominciavano a schernirlo. All’inizio era una specie di bonaria presa in giro, del tipo: «Ehi, ragazzo, com’è che fai tanti viaggi? Perché non prendi due casse alla volta?» E Alvin si limitava a sorridere, perché sapeva bene che quegli uomini si rendevano conto di quanto fossero pesanti le casse. Quando le avevano scaricate dal battello, il giorno prima, sicuramente c’erano voluti due uomini per ognuna. Perciò, in un certo senso, gridargli che era debole o pigro era una sorta di complimento, uno scherzo evidente, giacché il ferro era pesante e Alvin era davvero molto forte.
Poi Alvin si recò all’emporio a comprare le spezie richieste da Gertie, e certi attrezzi da cucina, prodotti nell’Irrakwa e nella Nuova Inghilterra, il cui uso egli poteva intuire solo molto vagamente.
Quando uscì dalla bottega con entrambe le braccia occupate, trovò i ratti di fiume che continuavano a oziare all’ombra del portico, solo che stavolta bersaglio dei loro lazzi era cambiato, e la faccenda sembrava decisamente meno gradevole. Per quanto Alvin potesse giudicare, si trattava di una donna di mezza età, più o meno sulla quarantina. Aveva i capelli severamente legati in una crocchia, e il vestito nero aveva le maniche lunghe e il collo completamente abbottonato come se lei temesse che la luce del sole danneggiasse la pelle. Mentre i ratti di fiume le rivolgevano le loro attenzioni, teneva lo sguardo fisso dinanzi a sé, come impietrita.
«Ehi, ragazzi, secondo voi quel vestito se lo sarà cucito addosso?»
Gli altri la ritennero un’ipotesi plausibile.
«Per me non se l’è mai tolto per nessuno.»
«No, ragazzi, è che sotto quella gonna non c’è nulla, solo imbottitura, con la testa e le mani cucite sopra.»
«Una donna vera non è di sicuro.»
«Guardate che io una donna vera la vedo subito. Non appena mi posano gli occhi addosso, le donne vere si tirano su le sottane e allargano le gambe.»
«Forse se le dai una mano potresti aiutarla a trasformarsi in una donna.»
«Quella lì? Ma quella è fatta di legno. A remare in certe acque si rischia di spaccare i remi.»
Be’, Alvin non riuscì a sopportare oltre. Già era abbastanza brutto che un uomo pensasse cose del genere di una donna che se le andava a cercare… Le ragazze delle case da gioco, per esempio, che se ne andavano in giro per la strada con quegli scolli che lasciavano scoperto mezzo petto e ancheggiando in modo tale da scoprire le gambe fino alle ginocchia. Ma quella donna era evidentemente una signora, e avrebbe avuto ogni diritto di non udire le sporche allusioni di quella marmaglia. Alvin immaginò che la donna attendesse qualcuno, perché la diligenza per Hatrack non sarebbe partita che un paio d’ore più tardi. Non pareva impaurita… probabilmente sapeva che quei tali erano più portati alle vanterie che all’azione, per cui la sua virtù poteva considerarsi al sicuro. Dalla sua espressione fredda e distaccata, Alvin non riusciva neanche a capire se li stava ascoltando. Tuttavia le parole dei ratti di fiume suscitarono in lui un tale imbarazzo che non fu in grado di sopportarlo. Non gli sembrava giusto andarsene col suo carro lasciandola in loro balia. Perciò, deposti nel carro pacchi e pacchetti, si avvicinò ai ratti di fiume rivolgendosi a quello che aveva parlato più forte e in maniera più volgare.
«Forse dovresti parlarle più educatamente» disse. «O forse non dovresti parlarle affatto.»
Alvin non restò sorpreso scorgendo il bagliore che si era acceso negli occhi di quei bravi ragazzi non appena lui aveva aperto bocca. Punzecchiare una donna sola era già abbastanza divertente, ma Alvin capì che adesso lo stavano soppesando per capire con quanta facilità avrebbero potuto sopraffarlo. Dare una bella lezione a un ragazzo di città era per loro il massimo del divertimento, anche se quel ragazzo era grande e grosso come Alvin.
«Forse sei tu che non dovresti parlare affatto» ribatté il più loquace del gruppo. «Anzi, forse hai già detto abbastanza.»
Uno dei suoi amici non capì, e pensò che il gioco consistesse ancora nel rivolgere volgarità alla signora in nero. «È solo geloso. In quel fiume, la pertica vuole infilarcela soltanto lui.»
«No, non ho detto abbastanza» rispose Alvin «almeno finché voi non mostrate di aver capito come ci si rivolge a una signora.»
Solo a quel punto la donna aprì bocca. «Non ho bisogno di protezione, giovanotto» disse. «Andatevene pure per la vostra strada.» Aveva un accento strano. Un accento coltivato come quello del reverendo Thrower, che pronunciava ogni sillaba ben staccata dalle altre. Come una persona che avesse frequentato le scuole dell’Est.
La donna avrebbe fatto molto meglio a non dir nulla, perché quell’accento parve mandare in sollucchero i ratti di fiume.
«Ah, ma allora tra questi due c’è del tenero!»
«Non vedi come lo invita?»
«E lui non vede l’ora di farsi una remata!»
«Facciamole vedere chi è il vero uomo!»
«Se a quella là piace tanto il pennone del fabbro, perché non glielo tagliamo? Sicuramente lei lo apprezzerebbe!»
Balenò un coltello, poi ne apparve un altro. Perché non aveva avuto il buon senso di starsene zitta? Se quelli là avessero avuto a che fare con Alvin da solo, lo avrebbero affrontato uno alla volta. Se invece volevano esibirsi di fronte a lei, non avrebbero esitato a saltargli addosso tutti insieme e conciarlo per le feste, forse ammazzarlo, sicuramente mozzargli il naso o un orecchio, o addirittura, come avevano minacciato, ridurlo a un cappone.
Alvin lanciò alla donna uno sguardo di fuoco, ingiungendole silenziosamente di tenere la bocca chiusa. Forse lei colse il suo sguardo, o capì la situazione da sola oppure semplicemente ebbe troppa paura per dire una sola parola in più: fatto sta che non tentò di proseguire la conversazione, e Alvin sì dispose a manovrare le cose in una direzione che egli potesse controllare.
«Coltelli» sibilò Alvin, mettendo nel proprio tono di voce tutto il disprezzo di cui era capace. «Dunque avete paura di affrontare un fabbro a mani nude?»
Quelli gli risero in faccia, ma i coltelli scomparvero.
«I muscoli di un fabbro non sono nulla in confronto a quelli che ci facciamo sul fiume a forza di pertica.»
«Ormai sul fiume non ci andate più, ragazzi, lo sanno tutti» li rimbeccò Alvin. «A spingere il battello ci pensa la ruota a pale, mentre voi ve ne state a ciondolare sulla sponda.»
Il ratto linguacciuto si alzò e uscì dall’ombra del portico, sfilandosi la camicia lurida. Sì, era senz’altro muscoloso, con il torace e le braccia segnati di rosso e di bianco da un buon numero di cicatrici. In più, gli mancava anche un orecchio.
«Da quello che vedo» commentò Alvin «te le sei date con un bel po’ di gente.»
«Proprio così» disse il ratto di fiume.
«E, sempre da quello che vedo, direi che la maggior parte era più in gamba di te.»
Sotto l’abbronzatura, l’uomo avvampò di rabbia dalla fronte al torace.
«Non potreste offrirmi qualcuno con cui valga la pena di fare a botte? Qualcuno che sappia anche vincere?»
«Chi te l’ha detto che non posso vincere?» urlò l’uomo, cominciando a perdere il controllo di sé, proprio com’era stato nelle intenzioni di Alvin. Ma gli altri lo trattennero.
«Il ragazzo del fabbro ha ragione, a fare a botte non sei poi granché.»
«Dategli quello che chiede.»
«Mike, pensaci tu.»
«È tuo, Mike.»
Dal fondo del portico, nel punto più in ombra, dove fino a quel momento era rimasto seduto sull’unica sedia provvista di schienale, un uomo si alzò facendosi avanti.
«Ci penso io» disse.
Subito il ratto linguacciuto indietreggiò togliendosi di mezzo. Le cose avevano preso una piega imprevista. L’uomo che i ratti di fiume avevano chiamato Mike era più grosso e robusto di tutti gli altri, e quando si tolse la camicia Alvin vide che aveva solo un paio di cicatrici, e per di più aveva ancora entrambe le orecchie, segno sicuro che, se aveva mai avuto la peggio in una rissa, ne era sempre uscito con onore.
E aveva la muscolatura di un bisonte.
«Mi chiamo Mike Fink!» ruggì. «E sono il più cattivo, il più sanguinario figlio di puttana che abbia mai camminato su queste acque! Ho strangolato alligatori a mani nude! Ho scaraventato bisonti vivi su un carro sfondando loro il cranio a forza di cazzotti! Se non mi piace la curva di un fiume, l’acchiappo da una parte e lo scrollo finché non si raddrizza! Se mi sbatto una donna, quella si rialza con tre gemelli in corpo, o non si rialza più! Quando avrò finito con te, ragazzo, i capelli ti scenderanno diritti da tutte e due le parti, perché non avrai più orecchie. Per pisciare dovrai metterti seduto, e non avrai più bisogno di farti la barba!»
Mentre Mike Fink continuava a vantarsi, Alvin si tolse la camicia, la cintura e il coltello, deponendoli sul sedile del carro. Poi tracciò un grande cerchio nella polvere, cercando di mostrarsi calmo e rilassato come se Mike Fink fosse stato un bambinetto di sette anni un po’ vivace, e non un uomo con una luce omicida nello sguardo.
Così quando Fink ebbe finito la sua sparata, il cerchio era tracciato. L’energumeno si avvicinò alla linea e cominciò a cancellarla col piede, sollevando la polvere. Poi fece tutto il giro del cerchio, continuando a cancellarlo. «Non so chi ti ha insegnato a fare a botte, ragazzo» sibilò. «Ma quando fai a botte con me, non c’è riga e non c’è regole.»
La donna aprì bocca per la seconda volta. «Evidentemente non avete regole nemmeno quando parlate, perché altrimenti sapreste che dire: ‘Non c’è regole’ è segno innegabile d’ignoranza e di stupidità.»
Fink si voltò verso la donna e fece per dire qualcosa. Ma era come sapesse di non aver niente da dire, o forse pensò che qualunque cosa avesse detto l’avrebbe fatto sembrare ancora più ignorante. Il disprezzo nella voce di lei l’aveva fatto infuriare, ma allo stesso tempo l’aveva reso dubbioso. Sulle prime, Alvin pensò che la signora, intromettendosi per la seconda volta, avesse reso la situazione ancor più pericolosa. Poi si rese conto che la donna aveva agito con Fink proprio come Alvin aveva cercato di fare con il ratto linguacciuto: provocarlo in modo da fargli commettere qualche stupidaggine. Il guaio, però, rifletté Alvin soppesando l’avversario, era che probabilmente quando s’infuriava Fink non commetteva stupidaggini, ma diventava solo più cattivo. Si batteva per uccidere. Metteva in pratica le sue minacce a proposito di strappare all’altro parti del corpo. Quello non sarebbe stato uno scontro amichevole come quelli cui Alvin era abituato, nei quali era più che sufficiente gettare a terra l’avversario o, se ci si batteva sull’erba, immobilizzarlo.
«Non sei poi così in gamba» ghignò Alvin «e lo sai, o non avresti un coltello nascosto nello stivale.»
Fink parve sconcertato, poi sorrise. Si arrotolò un calzone, estrasse un lungo coltello dallo stivale e lo gettò agli uomini alle sue spalle. «Per battere te il coltello non mi serve» gridò.
«E allora perché non ti levi il coltello che tieni nell’altro stivale?» chiese Alvin.
Fink aggrottò la fronte tirandosi su l’altro calzone. «Qui non ci sono coltelli» disse.
Alvin sapeva che era una bugia, si capisce, e fu compiaciuto nel vedere che Fink era così preoccupato da non voler rinunciare alla sua arma più segreta. Era inoltre probabile che nessun altro, a parte Alvin con la sua capacità di vedere ciò che restava celato agli altri, fosse al corrente dell’esistenza di quel coltello. Fink non voleva far sapere a nessuno che teneva un coltello anche lì, perché la notizia si sarebbe sparsa rapidamente e lui non avrebbe più potuto sfruttare quel vantaggio.
Alvin tuttavia non poteva permettersi che Fink si battesse con un coltello addosso. «Allora togliti gli stivali e combattiamo a piedi nudi» lo sfidò. Era comunque una buona idea. Alvin sapeva che, quando i ratti di fiume si battevano, avevano l’abitudine di scalciare come muli. Scalzo, Mike Fink sarebbe stato un po’ meno aggressivo.
Ma se Fink perse un po’ di aggressività, non lo diede certamente a vedere. Si mise a sedere nella polvere della strada e si sfilò gli stivali. Alvin fece lo stesso, togliendosi anche i calzini… Fink invece non ne portava. Perciò adesso entrambi indossavano solo i calzoni e, tra il sole e la polvere, i loro corpi apparivano già impastati d’argilla e striati di sudore.
Non tanto impastati, tuttavia, da impedire ad Alvin di percepire l’incantesimo protettivo che avvolgeva il corpo di Mike Fink. Com’era possibile? Aveva forse in tasca un talismano o un amuleto? La rete protettiva era più fitta sulla schiena ma, quando Alvin inviò la sua pulce a frugare nella tasca, non avvertì altro che la grossa tela di cotone dei pantaloni. In quella tasca non c’era neanche una monetina.
Intorno ai due s’era ormai raccolta una folla di spettatori. Tra di loro non c’erano solo i ratti di fiume che Alvin aveva visto all’ombra del portico, ma una quantità di gente della stessa risma, ed era evidente che tutti si aspettavano una vittoria di Mike Fink. Alvin si rese conto che, sul fiume, quel Fink doveva essere una specie di leggenda, e non c’era da stupirsene, protetto com’era da quel misterioso talismano. Poteva immaginare qualcuno che indirizzava una coltellata a Fink solo per vedersela deviare all’ultimo momento, o perdere la presa sull’impugnatura, o comunque fallire il colpo. Era molto più facile vincere ogni scontro se i denti dell’avversario non potevano affondarti nella carne, e il suo coltello non ti lasciava mai più di un graffio.
Naturalmente all’inizio Fink tentò tutte le mosse più prevedibili, anche perché erano quelle più spettacolari: ruggì, si precipitò addosso ad Alvin come un bisonte, cercò di agguantarlo in un abbraccio mortale, tentò di afferrarlo per un braccio o una gamba per poi farlo roteare come un sasso legato a uno spago. Ma Alvin non glielo permise. Per sfuggirgli non dovette nemmeno far ricorso ai suoi poteri segreti. Era più giovane e svelto, e si sottraeva alle sue mosse con tanta agilità che il ratto di fiume non riusciva neanche a toccarlo. All’inizio gli spettatori fischiarono e si misero a gridare: «Vigliacco!» all’indirizzo di Alvin. Dopo un po’, invece, cominciarono a ridere alle spalle di Fink, il quale, per quanto ruggisse e si avventasse, non aveva messo a segno neanche un colpo.
Nel frattempo Alvin andava in cerca del talismano di Fink. Se non fosse riuscito a eliminare quella rete protettiva, non avrebbe avuto nessuna speranza di vincere il combattimento. Alla fine lo trovò: era un esagono colorato profondamente impresso nella pelle della natica. Col trascorrere degli anni, la pelle aveva un po’ ceduto e non era più un esagono perfetto, ma era un bel disegno, dotato di legami e congiunzioni di tutto rispetto. Un disegno abbastanza potente da circondare tutto il corpo con una robusta rete protettiva.
Se non si fosse trovato nel vivo dello scontro con Fink, Alvin avrebbe potuto agire in maniera più sottile, magari limitandosi a indebolire il talismano senza privare completamente l’avversario dell’incantesimo che l’aveva protetto per tanti anni. Una volta privo del talismano, Fink avrebbe anche potuto morire, specialmente se avesse abbassato la guardia facendo affidamento sulla protezione dell’esagono.
Alvin però non aveva alternative. Fece dunque in modo che la tintura nella pelle di Fink cominciasse a sciogliersi, defluendo nella circolazione sanguigna. Era qualcosa che Alvin poteva fare senza nemmeno concentrarsi, semplicemente avviando il processo e poi lasciando che procedesse senza intoppi, mentre badava a scansare gli assalti di Fink.
Ben presto Alvin avvertì che il potere del talismano s’indeboliva, vacillava, e infine spariva completamente. L’altro non lo sapeva ancora, ma Alvin sì… Ecco, adesso, Fink era diventato vulnerabile come qualsiasi altro essere umano.
A quel punto, tuttavia, Fink aveva smesso di avventarsi su di lui con cieca stupidità. Ora gli girava intorno e fintava, cercando un’occasione per allacciare le braccia a quelle di Alvin e poi sfruttare il proprio peso per scaraventare a terra l’avversario. Ma Alvin aveva un allungo maggiore e braccia più forti, per cui, ogni volta che Fink tendeva le braccia per agguantarlo, Alvin si liberava facilmente di lui allargando di scatto le proprie.
Tuttavia, ora che Fink non era più protetto dal talismano, Alvin non cercò più di sottrarsi alla sua presa. Allungò invece le braccia all’interno di quelle dell’avversario, cosicché quando questi lo afferrò all’altezza dei bicipiti, si trovò nella posizione giusta per allacciare le mani dietro la nuca di Fink.
Alvin spinse con forza verso il basso, costringendo l’altro a chinarsi fino ad avere la testa all’altezza del suo torace. Era troppo facile… L’energumeno stava assecondando il suo movimento, e Alvin ne intuì il motivo. Un istante dopo, infatti, Fink tirò l’avversario verso di sé e contemporaneamente sollevò di scatto la testa, con l’intenzione di colpire Alvin al mento con la nuca. Era così forte che, se ci fosse riuscito, avrebbe potuto rompergli il collo… Solo che il mento di Alvin non si trovava più dove Fink se lo aspettava. Il ragazzo, infatti, aveva a sua volta gettato indietro la testa, e quando Fink, trascinato dall’impeto stesso del suo movimento, si trovò per un istante con la guardia scoperta, Alvin abbassò di scatto la fronte contro la faccia dell’avversario. Sentì il naso di Fink fracassarsi sotto la violenza del colpo, e il sangue zampillò improvviso sui volti dei lottatori.
Non era affatto raro che in una zuffa del genere qualcuno si rompesse il naso. Faceva un male cane, si capisce, e un incidente simile sarebbe bastato a interrompere un incontro amichevole (anche se, a dire il vero, in un incontro amichevole le testate sarebbero state escluse). Qualsiasi altro ratto di fiume avrebbe scrollato la testa, e, dopo aver lanciato un paio di ruggiti, si sarebbe nuovamente scagliato a testa bassa contro l’avversario.
Fink invece indietreggiò barcollando, coprendosi il naso con le mani e assumendo un’espressione assolutamente sconcertata. Poi lanciò un guaito come quello di un cane frustato.
Tra gli spettatori scese un improvviso silenzio. Era una cosa davvero buffa, sentire un ratto di fiume come Mike Fink che strillava per un banale naso rotto. No, non buffa: strana. Non era così che un ratto di fiume avrebbe dovuto comportarsi.
«Forza, Mike» mormorò qualcuno.
«Puoi farcela, Mike.»
Come incoraggiamenti, però, non erano granché convinti. Prima di allora nessuno aveva mai visto Mike Fink comportarsi in modo da tradire la paura o il dolore. E neanche sembrava molto bravo a fingere. Solo Alvin conosceva il motivo di quel cambiamento, perché sapeva che Mike Fink non aveva mai sentito tanto dolore in vita sua, e non aveva mai versato una goccia del proprio sangue in tutte le zuffe cui aveva preso parte. Chissà quante volte aveva rotto il naso a qualcuno e poi aveva riso… Ridere era facile, se uno non sapeva cosa si provava. Ora lo sapeva. Il guaio era che stava imparando adesso ciò che gli altri avevano imparato a sei anni, e di conseguenza si comportava come un bambino di sei anni. Più che piangere, uggiolava.
Per qualche istante Alvin pensò che lo scontro potesse dirsi concluso. Ma la paura e il dolore di Fink non tardarono a trasformarsi in rabbia, e l’uomo riprese ad avanzare pesantemente verso di lui. Forse aveva imparato ad affrontare il dolore, ma la cautela continuava a non figurare tra le sue virtù.
Perciò ci vollero altre prese, altri strattoni, altre giravolte, prima che Alvin riuscisse ad atterrare l’avversario. Impaurito e sorpreso com’era, Fink era pur sempre l’uomo più forte con cui Alvin avesse mai lottato. Fino a quello scontro, Alvin in realtà non aveva mai avuto occasione di mettere in gioco tutta la sua forza; non era mai stato spinto fino al limite estremo. Ora invece c’era arrivato e, mentre rotolava nella polvere, non riusciva quasi a respirare, col fiato caldo e ansante di Fink prima sopra di lui, poi sotto, le ginocchia che sferravano colpi violenti, le braccia che stringevano e percuotevano, i piedi che raspavano freneticamente nella polvere in cerca di un punto d’appoggio su cui fare leva.
Alla fine l’esito fu deciso dall’inesperienza di Fink riguardo alla propria vulnerabilità. Poiché nessuno era mai riuscito a rompergli qualche osso, il ratto di fiume non aveva mai imparato a raccogliere le gambe, cioè a non esporle in modo che l’altro non potesse pestarle. Quando Alvin sfuggì alla sua presa, balzando in piedi, Fink rotolò di scatto su se stesso e per un istante, disteso a terra com’era, stese le gambe l’una sull’altra come non avrebbe fatto neanche un pivellino. Alvin non perse tempo: saltò in aria piombando con entrambi i piedi sulle gambe schiacciandole con tutto il suo peso, così che le ossa della gamba di sopra si piegarono ad arco contro quelle della gamba di sotto. Il colpo fu così improvviso e violento che le ossa di tutt’e due le gambe si frantumarono. Fink strillò come un bambino caduto nel focolare.
Solo allora Alvin si rese conto di ciò che aveva fatto. Ah, sì, indubbiamente aveva messo fine al combattimento… Nessuno al mondo avrebbe potuto continuare a lottare con entrambe le gambe spezzate. Ma Alvin capì immediatamente, e senza bisogno di guardare — o almeno di guardare con gli occhi - che quelle non erano fratture pulite, fratture che potessero guarire facilmente. Oltre a ciò Fink non era più giovane, e di certo non era un ragazzino. Ammesso che si fossero rinsaldate, Fink sarebbe rimasto zoppo o, nel peggiore dei casi, storpio. Non avrebbe più avuto modo di guadagnarsi da vivere. In più, nel corso degli anni, quell’uomo doveva essersi fatto una quantità di nemici. Che cosa avrebbero fatto, adesso che egli aveva le gambe rotte e non poteva più muoversi? Quanto avrebbe continuato a vivere?
Perciò Alvin s’inginocchiò a terra accanto al punto in cui Mike Fink si torceva convulsamente — o meglio torceva convulsamente la parte superiore del corpo, cercando di non muovere nient’altro — e gli toccò le gambe. Con le mani in contatto col corpo dell’uomo, anche attraverso la stoffa dei calzoni, Alvin riusciva a trovare meglio la strada, a lavorare più in fretta, e nel giro di qualche istante le ossa rotte erano tornate a saldarsi. Non cercò di fare niente di più: i lividi, i muscoli strappati, le ferite, tutto ciò dovette restare com’era, o Fink si sarebbe rialzato per aggredirlo di nuovo.
Alvin staccò le mani dalle gambe di Fink e fece un passo indietro. Subito i ratti di fiume si affollarono intorno al loro eroe sconfitto.
«Ha le gambe rotte?» chiese il ratto linguacciuto.
«No» rispose Alvin.
«Sono andate in pezzi!» ululò Fink.
Nel frattempo, un altro ratto di fiume aveva tagliato la stoffa dei calzoni e aveva cominciato a tastargli la gamba pesta e sanguinante. Fink allontanò di scatto la mano dell’uomo. «Non toccarla!»
«A me non sembra rotta» mormorò l’altro.
«Guarda come le muove. Non sono rotte.»
Ed era vero… Fink non dimenava più solo la parte superiore del corpo, adesso agitava convulsamente anche le gambe.
Qualcuno aiutò Fink a rialzarsi. Fink barcollò, fu sul punto di cadere, si riprese appoggiandosi al ratto linguacciuto, sporcandogli la camicia col sangue che continuava a sgorgargli dal naso. Gli altri indietreggiarono.
«È solo un bambinone» brontolò uno.
«Mettersi a uggiolare come un cucciolo.»
«Che pappamolla.»
«Mike Fink, lo smidollato…» E giù una risatina di scherno.
In piedi accanto al carro, Alvin si rimise la camicia, poi montò a cassetta per rimettersi i calzini e gli stivali. Quando alzò lo sguardo, vide che la signora in nero lo stava osservando. La donna era in piedi a non più di due passi da lui, dato che il carro del fabbro era fermo proprio accanto alla piattaforma di carico. Sul suo volto era dipinta un’espressione di profonda ripugnanza. Alvin si rese conto che probabilmente era disgustata nel vederlo così sporco. Forse non avrebbe dovuto rimettersi subito la camicia, ma d’altra parte sarebbe stato ancor più sconveniente restare a torso nudo davanti a una signora. Anzi, a dire il vero, in città un uomo, specialmente se medico o avvocato, si sarebbe vergognato di mostrarsi in pubblico senza giacca, panciotto e cravatta. I più poveri di solito non possedevano simili indumenti, e un apprendista abbigliato in quel modo avrebbe fatto la figura del manichino rivestito. Ma la camicia… Be’, quella doveva indossarla, anche se sotto era tutto impolverato.
«Vi chiedo scusa, signora» disse Alvin. «Mi laverò quando sarò a casa.»
«Vi laverete?» ribatté lei. «E, quando vi sarete lavato, non penserete di esservi liberato anche della vostra brutalità?»
«Francamente non lo so, visto che questa parola non l’ho mai sentita.»
«Non stento a crederlo» disse la donna. «Brutalità deriva dal latino brutus, che tra l’altro significa ‘stupido’. Un animale, insomma.»
Alvin si sentì avvampare dalla rabbia. «Può darsi. Forse avrei dovuto lasciare che continuassero a parlarvi in quel modo per tutto il tempo che volevano.»
«Io non me ne curavo affatto. Non mi davano nessun fastidio. E voi non avevate nessun bisogno di proteggermi, specialmente non in quel modo. Spogliandovi nudo e rotolandovi nella polvere. Siete completamente imbrattato di sangue.»
Alvin non sapeva bene che cosa rispondere a una persona così altezzosa e ostinata. «Non ero affatto nudo» disse infine. Poi sorrise. «E poi il sangue era suo.»
«E ne siete orgoglioso?»
Sì, che ne era orgoglioso. Ma sapeva che se l’avesse detto, lei lo avrebbe disprezzato ancora di più. E allora? Che cosa le importava della sua opinione? Tuttavia non disse nulla.
Nel silenzio che scese tra di loro, Alvin poteva udire i ratti di fiume alle sue spalle prendersi beffe di Fink. Questi non guaiva più, ma nemmeno diceva gran che. C’erano però alcuni uomini che confabulavano tra loro.
«Il ragazzino pensa di essere un duro.»
«Forse dovremmo mostrargli che cos’è una vera rissa.»
«Così vedremo se anche la sua amica ha veramente tutta quella puzza sotto il naso.»
Alvin non era in grado di prevedere il futuro, ma non ci voleva una fiaccola per intuire che cosa stava per accadere. Gli stivali se li era infilati, il cavallo aveva tutti i finimenti attaccati: era il momento di andarsene. Eppure, per quanto altezzosa fosse, quella signora non poteva rimanere lì. Alvin sapeva che adesso i ratti di fiume se la sarebbero presa con lei e, sebbene la donna pensasse di non aver bisogno di protezione, Alvin si rendeva conto che quegli uomini avevano appena visto il loro campione sconfitto e ridicolizzato, e tutto per causa della signora in nero. Era quindi più che probabile che quest’ultima si sarebbe ritrovata distesa nella polvere, con tutti i bagagli in fondo al fiume.
«Sarà meglio che veniate anche voi» disse Alvin.
«Mi chiedo che cosa vi faccia pensare di potermi dare istruzioni come a una qualsiasi… Ma che fate?»
Alvin stava frettolosamente caricando il baule e il resto dei bagagli nel retro del carro. Quel suo gesto gli sembrava così eloquente che non perse tempo a risponderle.
«Mi sembra che mi stiate derubando, signore!»
«Certo, se non salite anche voi» ribatté Alvin.
A quel punto i ratti di fiume si stavano raccogliendo vicino al carro, e uno di loro aveva già afferrato le briglie del cavallo. La donna si guardò intorno, e la sua espressione adirata mutò, seppure di poco. La piattaforma era allo stesso livello del carro. Alvin prese la signora per mano, aiutandola ad accomodarsi sul sedile. Intanto il ratto linguacciuto era in piedi accanto a lui, appoggiato alla sponda del carro, e sorrideva beffardamente.
«Hai battuto uno di noi, fabbro, ma riusciresti a batterci tutti?»
Alvin si limitò a fissarlo. Si stava concentrando sull’uomo che reggeva il cavallo, facendo sì che la sua mano venisse trafitta da un dolore improvviso, come se nel palmo gli venissero conficcati cento spilloni. L’uomo gettò un grido lasciando andare il cavallo. Allora il ratto linguacciuto distolse lo sguardo da Alvin, e lui ne approfittò per assestargli un calcio in un orecchio. Come calcio non era molto forte, ma neanche l’orecchio di quel tale era granché, e l’uomo si ritrovò a sedere nella polvere, reggendosi la testa.
«Via!» urlò Alvin.
Il cavallo obbedì gettandosi in avanti… e il carro si mosse di circa un pollice. Poi di un altro pollice. Con un carico di ferro non era facile muoversi in fretta, almeno non subito. Alvin si concentrò sui mozzi delle ruote perché girassero senza il minimo intoppo, ma non poté fare assolutamente nulla riguardo al peso del carro o alla forza del cavallo. Quando finalmente si mise in movimento, il carro era un bel po’ più pesante, carico com’era di ratti di fiume che vi si erano aggrappati, chi puntando i piedi, chi arrampicandosi sulle sponde.
Alvin si voltò, facendo schioccare la frusta nella loro direzione, più per spaventarli che per altro; in effetti non colpì nessuno. Eppure tutti quanti caddero o lasciarono andare la sponda del carro come se fossero stati veramente colpiti: in realtà era accaduto che a un tratto il legno del carro si era fatto scivoloso come se fosse stato spalmato di grasso. Reggersi era diventato impossibile. Così il carro finalmente poté avviarsi, mentre quei bravi ragazzi rovinavano nella polvere della strada.
Ma non era ancora finita. Per tornare a Hatrack, Alvin doveva fare dietrofront, ripassando davanti a loro. Stava disperatamente cercando di escogitare un piano quando udì un colpo di moschetto, assordante come una cannonata, che continuò a echeggiare a lungo nell’aria pesante di quella giornata estiva. Una volta che il carro si trovò nella direzione giusta, Alvin scorse il direttore del porto in piedi sulla piattaforma, con la moglie alle sue spalle. Tra le mani aveva un moschetto; la donna stava ricaricando quello con cui aveva appena sparato.
«Mi sembra che per la maggior parte del tempo andiamo abbastanza d’accordo, ragazzi miei» disse il direttore. «Ma oggi mi sembra che non riusciate a capire che siete stati sonoramente battuti. Perciò direi che è il momento di rimettervi tranquilli all’ombra, perché, se fate un altro passo verso quel carro, quelli che non andranno all’altro mondo per una bella scarica di pallettoni si ritroveranno sotto processo a Hatrack, e se pensate che assalire un ragazzo del luogo e la nuova maestra non possa costarvi caro, ebbene, siete proprio stupidi come sembrate.»
Fu un discorsetto non male, e funzionò meglio della maggior parte dei discorsi che Alvin avesse mai udito. I ratti di fiume tornarono a sistemarsi all’ombra del portico, bevendo a lunghe sorsate da una fiasca di metallo e guardando Alvin e la donna con aria decisamente ostile. Il direttore rientrò nel suo ufficio prima ancora che il carro svoltasse sulla strada maestra.
«Pensate che il direttore possa correre qualche rischio per il fatto di averci aiutati?» chiese la donna. Alvin fu contento di non sentire più nella sua voce quel tono arrogante, anche se la pronuncia continuava a essere nitida e metallica come il suono del martello sul ferro.
«No» rispose Alvin. «Sanno benissimo che, se succedesse qualcosa al direttore del porto, nessuno di loro potrebbe più trovare lavoro sul fiume… o, se lo trovasse, una volta a terra non arriverebbe a vedere l’alba del giorno dopo.»
«E voi?»
«Ah, io garanzie del genere non ne ho. Perciò penso che non mi farò vedere alla Foce per un paio di settimane. A quel punto quei simpaticoni avranno trovato lavoro, e si troveranno un centinaio di miglia a monte o a valle.» Poi gli tornò in mente quello che il direttore del porto aveva detto: «Siete la nuova maestra».
La donna non rispose. O almeno, non direttamente. «Immagino che anche all’Est esistano tipi come quelli, ma laggiù uno non l’incontra in un luogo pubblico come è successo qui.»
«Be’, molto meglio incontrarli in pubblico che in privato!» commentò Alvin con una risata.
La donna non rise.
«Stavo aspettando il dottor Whitley Physicker. Mi aspettava nel tardo pomeriggio, ma può darsi che sia già per strada.»
«Di strada c’è solo questa, signora» disse Alvin.
«Signorina» precisò lei. «Non ‘signora’. Questo titolo è riservato alle donne sposate.»
«Come vi dicevo, signorina, di strada c’è solo questa. Perciò, se sta venendo da questa parte, non potremo fare a meno d’incontrarlo, a meno che non metta le ali.»
Stavolta Alvin non rise alla sua stessa battuta. Tuttavia, spiando la sua passeggera con la coda dell’occhio, gli sembrò di scorgere l’ombra di un sorriso. Dunque forse non era schizzinosa come sembrava a prima vista. Forse era quasi umana. Magari avrebbe addirittura acconsentito a dare lezioni private a un certo ragazzino dalla pelle scura. Forse era davvero valsa la pena di fare quella faticata al deposito sulla sorgente.
Siccome stava conducendo il carro ed era ovviamente rivolto in avanti, non sarebbe stato normale, né tanto meno educato, voltarsi a fissarla come avrebbe voluto. Perciò inviò la sua pulce, la sua scintilla, quella parte di sé che vedeva ciò che nessuno, uomo o donna, poteva individuare con gli occhi. Per Alvin, esplorare gli altri sotto la pelle (se così si poteva definire ciò che faceva) era ormai diventata una seconda natura. Bisogna tuttavia fare una precisazione: certo, Alvin poteva vedere che cosa si nascondeva sotto i vestiti, ma questo non significava che vedesse la gente nuda. Piuttosto percepiva a distanza ravvicinata la superficie della pelle, quasi potesse entrare in ogni poro. Perciò non la considerava una forma d’indiscrezione o cose del genere. Era semplicemente un altro modo di guardare gli altri e di capirli; non era in grado di vedere la forma o il colore del corpo, ma poteva capire se l’altro sudava, aveva caldo o era teso. Avvertiva la presenza di lividi e ferite ormai cicatrizzate. Capiva se l’altro nascondeva denaro o qualche documento segreto; ma se, per esempio, voleva leggere quelle carte, doveva avvertire la presenza dell’inchiostro sulla carta, quindi rintracciarne i contorni finché non era in grado di ricostruire un’immagine mentale delle lettere. Per far questo gli ci voleva molto tempo. Non era proprio come vedere, niente affatto.
Comunque fosse, Alvin inviò la sua pulce a guardare quella signora così raffinata alla quale non poteva rivolgere direttamente lo sguardo. E quello che trovò lo colse di sorpresa. Perché, in quanto a talismani, la donna non aveva niente da invidiare a Mike Fink.
Anzi. I talismani l’avvolgevano a strati, dagli amuleti appesi al collo a quelli cuciti nei vestiti; aveva perfino un talismano di filo di ferro nascosto nella crocchia. Solo uno di essi serviva a proteggerla, ed era molto più debole di quello di Mike Fink. Gli altri invece servivano a… che cosa? Alvin non aveva mai visto niente del genere, e dovette riflettere ed esplorare non poco prima di farsi un’idea dello scopo di quella ragnatela di talismani. Il massimo cui poté arrivare era che in qualche modo tutti quei talismani costituivano un potente mascheramento, facendo sì che la donna non apparisse quella che era veramente.
Il primo pensiero che gli venne, e mi sembra ovvio, fu quello di scoprire che cosa ci fosse veramente sotto quel travestimento. Gli abiti che indossava erano senz’altro veri: l’incantesimo mutava solo il timbro della voce, il colore e la consistenza della pelle. Ma Alvin aveva poca pratica di mascheramenti, e nessuna di mascheramenti ottenuti grazie a talismani. La maggior parte delle persone creava un beseeming con una parola e un gesto della mano, insieme a un disegno del modo in cui voleva apparire. L’effetto risiedeva tutto nella mente dello spettatore: una volta che quest’ultimo riusciva a vedere attraverso l’illusione, essa non poteva più ingannarlo. E, siccome Alvin riusciva sempre a vedere attraverso l’illusione, simili mascheramenti non avevano alcun potere su di lui.
Quello però era diverso. L’incantesimo cambiava il modo in cui la luce colpiva la donna e rimbalzava, così che non si era indotti a scorgere qualcosa che non c’era. No, si vedeva davvero qualcosa di diverso, perché la luce arrivava agli occhi in quel modo. Dato che non si trattava di un’illusione generata dalla mente di Alvin, conoscere il trucco non lo aiutava a vedere la verità. E anche ricorrendo alla sua pulce non poteva dir molto riguardo a ciò che si celava dietro i talismani, tranne il fatto che la donna non era poi così ossuta e rugosa, il che gli fece pensare che potesse essere più giovane di quanto apparisse.
Fu solo quando smise di chiedersi che cosa si celasse sotto quel travestimento che Alvin si pose la domanda più importante: se quella donna aveva la possibilità di travestirsi assumendo qualsiasi aspetto desiderasse, perché aveva scelto di diventare proprio così? Fredda, severa, di mezza età, ossuta, seria, altezzosa, irritabile, distaccata… In breve, aveva deciso di diventare tutto ciò che a rigore una donna avrebbe dovuto sperare di non essere!
Forse era una fuggiasca travestita. Però, sotto tutti quei talismani, era sicuramente una donna, e Alvin non aveva mai sentito parlare di donne fuorilegge. Dunque non poteva essere così. Forse era soltanto giovane, e si era convinta che l’apparire più vecchia avrebbe indotto la gente a fidarsi di lei. A questo proposito, Alvin stesso avrebbe avuto molte cose da dire. O forse era troppo graziosa, e gli uomini le facevano in continuazione proposte inaccettabili… Alvin cercò d’immaginarsi che cosa sarebbe successo con quei ratti di fiume se la maestra fosse stata veramente bella. Ma, a dire il vero, in un caso simile quei tipi si sarebbero comportati in tutt’altro modo. Era solo alle donne brutte che davano fastidio, probabilmente perché in loro vedevano qualcosa delle loro madri. Perciò il suo aspetto così ordinario non costituiva affatto una protezione. E nemmeno era inteso a nascondere qualche difetto, perché Alvin poté constatare che la sua pelle non recava macchie, cicatrici o segni di alcun genere.
In verità, Alvin non aveva la minima idea di chi potesse celarsi sotto tanti strati di menzogne. Avrebbe potuto essere chiunque o qualunque cosa. E non poteva nemmeno chiederglielo direttamente, perché rivelarle che si era accorto del suo travestimento avrebbe reso evidente il suo dono. Confidarle un segreto del genere, quando non sapeva nemmeno chi fosse e perché avesse deciso di vivere nella menzogna, sarebbe stata una vera imprudenza.
Si chiese se non era il caso di dirlo a qualcuno. Il comitato scolastico, per esempio, non avrebbe dovuto sapere che la nuova maestra non era esattamente quella che sembrava, prima di affidare i bambini alle sue cure? Però, anche in questo caso, Alvin si sarebbe tradito; senza contare che, forse, quel segreto riguardava solo lei, e non aveva lo scopo di danneggiare nessuno. Dunque, se Alvin avesse detto la verità, né lui né la donna ne avrebbero ricavato alcun vantaggio. No, era meglio tenerla assiduamente d’occhio e capire chi era nell’unico modo in cui si possono davvero conoscere gli altri, e cioè osservando quello che fanno. Questo fu il miglior piano che Alvin fosse in grado di concepire e, del resto, ora che era a conoscenza del suo segreto, come avrebbe potuto evitare di prestarle un’attenzione particolare? Usare la sua pulce per esplorare chi gli stava vicino era diventata in lui un’abitudine così radicata che, per non sorvegliare la nuova maestra Alvin avrebbe dovuto forzare se stesso, soprattutto se lei fosse andata ad abitare nel vecchio deposito. Quasi si augurò che ciò non accadesse, così da non essere troppo infastidito da quel mistero; ma, allo stesso tempo, Alvin sperava che ci andasse, per sorvegliarla e accertarsi che fosse una persona a posto.
Ancor meglio potrei sorvegliarla se prendessi lezioni da lei, pensò. Potrei guardarla con i suoi stessi occhi, farle domande, ascoltare le sue risposte e giudicare che tipo di persona è. Forse, se studiassi con lei abbastanza a lungo, arriverebbe a fidarsi di me, e io di lei, e allora le racconterei che devo diventare un Creatore, e lei mi racconterebbe qualche grandissimo segreto, e allora potremmo aiutarci, potremmo essere veri amici come non mi è più successo da quando ho lasciato mio fratello Measure laggiù a Vigor Church.
Con quel carico — oltre alle casse di ferro, il carro doveva trasportare il baule, le borse e due passeggeri — Alvin non forzava troppo il cavallo, cosicché nell’arco di tempo occupato prima dalla loro breve conversazione e poi dal lungo silenzio riflessivo di Alvin, i due si erano allontanati dalla Foce per non più di mezzo miglio. Fu allora che scorsero l’elegante carrozza del dottor Physicker venir loro incontro. Alvin la riconobbe immediatamente e diede una voce a Po Doggly che si trovava a cassetta. Per trasbordare la maestra e tutti i suoi bagagli dal carro alla carrozza non ci volle più di qualche minuto. I pesi toccarono tutti a Po e ad Alvin; il dottor Physicker spese tutte le sue energie nell’aiutare la maestra a salire sulla carrozza. Alvin non lo aveva mai visto comportarsi in maniera tanto cerimoniosa.
«Sono terribilmente dispiaciuto che abbiate dovuto sopportare la scomodità di arrivare fin qui su un carro da trasporto» le disse. «Non mi pareva di essere così in ritardo.»
«Anzi, siete in anticipo» ribatté la signorina. E poi, rivolgendosi graziosamente ad Alvin, aggiunse: «E il viaggio sul carro è stato sorprendentemente gradevole».
Non avendo aperto bocca per la maggior parte del tragitto, Alvin non sapeva se interpretare quelle parole come un complimento per la sua capacità di tener compagnia a una donna, o come un’espressione di gratitudine per non averla infastidita. A ogni modo, si sentì le guance in fiamme, e non certo a causa della rabbia.
Mentre il dottor Physicker saliva a sua volta in carrozza, la maestra gli chiese: «Come si chiama questo giovanotto?» Poiché si era rivolta al dottore, Alvin ritenne opportuno tacere.
«Alvin» disse il dottore, sistemandosi sul sedile. «È nato qui. È l’apprendista del fabbro.»
«Alvin» ripeté la donna, ora rivolgendosi direttamente a lui dal finestrino della carrozza. «Ti ringrazio per la cavalleria che hai voluto dimostrarmi, e spero che tu voglia perdonarmi la scortesia della mia prima reazione. Avevo sottovalutato la natura malvagia dei nostri sgraditi compagni.»
La maestra si esprimeva in maniera così elegante che agli orecchi di Alvin le sue parole furono una sorta di musica, seppure dal significato un po’ oscuro. L’espressione di lei comunque era tanto gentile quanto poteva consentirlo la severità di quei lineamenti. Alvin si chiese quale fosse il viso che in realtà si celava là sotto.
«Dovere, signora» disse. «Voglio dire signorina.»
Dal sedile del cocchiere, Po Doggly fece schioccare la frusta sulla groppa delle due giumente, e la carrozza si mise in movimento, naturalmente nella direzione della Foce. Per Po non fu facile trovare un punto della strada adatto a fare manovra, per cui Alvin aveva già percorso un bel tratto prima che la carrozza tornasse a sorpassarlo. Po fece rallentare le giumente, e il dottor Physicker si sporse dal finestrino per gettare ad Alvin una moneta da un dollaro. Alvin l’afferrò, più per istinto che per riflessione.
«Per l’aiuto che hai dato alla signorina Larner» gridò l’uomo. Quindi Po fece schioccare nuovamente la frusta e la carrozza sobbalzò in avanti, lasciando Alvin in una nuvola di polvere.
Il giovane avvertì in mano il peso della moneta, e per un istante ebbe voglia di scagliarla dietro la carrozza. Ma non sarebbe servito a niente. No, l’avrebbe restituita a Physicker a tempo debito, in modo che nessuno avesse a offendersene. Tuttavia gli faceva male, lo feriva profondamente essere stato pagato per aver prestato aiuto a una donna, come se fosse stato un servo o un bambino o qualcosa del genere. E ciò che gli faceva più male era l’idea che fosse stata proprio la maestra a volerlo ricompensare. Come se, battendosi per l’onore di lei, egli si fosse meritato un quarto della paga di una giornata. Se, invece di quella lurida camicia, Alvin avesse indossato giacca e cravatta, la donna avrebbe certamente pensato che aveva compiuto il suo dovere verso una signora, da buon gentiluomo cristiano, e avrebbe saputo che gli doveva solo gratitudine, e non un pagamento in denaro.
Un pagamento. La moneta gli bruciava il palmo della mano. E pensare che, per qualche istante, Alvin si era quasi convinto di piacerle. Aveva quasi sperato che un giorno avrebbe acconsentito a dargli lezioni, ad aiutarlo a capire come funzionava il mondo e come diventare uri vero Creatore, capace di domare la terribile forza del Distruttore. Ma ora sapeva che lei lo disprezzava; come avrebbe potuto chiederle una cosa del genere? Come avrebbe potuto fingere di essere degno del suo insegnamento, sapendo che la nuova maestra vedeva in lui solo sporcizia, sangue, ignoranza e povertà? Sì, sapeva che le intenzioni di Alvin erano buone, ma ai suoi occhi era sempre un bruto, come aveva detto nell’incontrarlo. E quella parola era rimasta impressa nel suo cuore. Per lei Alvin era una specie di animale.
Signorina Larner. Così l’aveva chiamata il dottore. Alvin assaporò quel nome nel pronunciarlo. Aveva la bocca impastata di polvere. Un animale non potrà mai andare a scuola.