XXI IL VIAGGIATORE

Alvin restò tutta l’estate a Vigor Church dai suoi genitori, imparando daccapo a conoscere i suoi familiari. Ciascuno di loro era cambiato, e non di poco: Cally era ormai un uomo, Measure aveva una moglie e dei bambini, i gemelli Wastenot e Wantnot si erano sposati con due sorelle francesi di Detroit, papà e mamma avevano entrambi un sacco di capelli grigi e si muovevano più lentamente di quanto ad Alvin sarebbe piaciuto vedere. Ma certe cose non erano cambiate… In tutti loro era ancora presente l’antico spirito giocoso, e l’atmosfera di cupa tristezza che era piombata su Vigor Church dopo il massacro del Tippy-Canoe era… be’, non scomparsa, si era piuttosto trasformata in una specie di ombra che aleggiava su tutto, cosicché i momenti felici sembravano per contrasto ancor più luminosi.

Tutti si affezionarono immediatamente ad Arthur Stuart. Piccolo com’era, non gli pesò udire da tutti gli abitanti del villaggio la storia del Tippy-Canoe, e il modo migliore per contraccambiare fu, secondo lui, quello di raccontar loro la propria storia, che in realtà era un guazzabuglio tra la vicenda della sua vera mamma, quella di Alvin, e quella dei Cacciatori e di come la sua mamma bianca ne avesse ammazzato uno prima di morire.

Alvin di solito lo lasciava fare. Se ad Arthur Stuart piace tanto raccontare le cose in quel modo, non c’è motivo di farlo passare per bugiardo, pensava. D’altro canto, era dispiaciuto perché si rendeva conto che Arthur Stuart non parlava più con una voce diversa dalla propria. La gente di Vigor Church non avrebbe mai saputo quanto fosse divertente udire un bambinetto che ti rispondeva con la tua stessa voce. Anche così, comunque, era un vero piacere sentirlo parlare, perché Arthur Stuart continuava a ricordare alla perfezione tutto ciò che gli altri dicevano, senza dimenticarsi neanche una sillaba. Perché Alvin avrebbe dovuto sminuire ciò che restava del suo dono?

A parere di Alvin, inoltre, era un bene che di certe cose non si parlasse mai. C’era per esempio un certo fagotto di tela di sacco che nessuno aveva mai visto aprire. Non era proprio il caso di spargere la voce che un certo oggetto d’oro era stato visto a Vigor Church: il villaggio, che in pratica non aveva più conosciuto visitatori dal terribile giorno del massacro, ne avrebbe ben presto avuti molti più del necessario, e tutti del genere sbagliato, gente che andava in cerca d’oro e non si curava se qualcuno ne ricavava un danno. Quindi non fece mai parola del vomere d’oro. L’unica persona cui permise di sapere che egli aveva un segreto fu quella tomba di sua sorella Eleanor.

Alvin andò a farle visita all’emporio che lei e suo marito Corazza-di-Dio possedevano proprio sulla piazza cittadina, fin dai tempi in cui in quel posto non esisteva nemmeno una piazza. Una volta l’emporio era un punto d’incontro dove Bianchi e Rossi provenienti da tutta la regione si recavano per procurarsi mappe e notizie, all’epoca in cui i territori dal Mizzipy a Dekane erano ancora quasi completamente ricoperti dai boschi. Adesso era ancora piuttosto frequentato, ma soprattutto da gente del luogo, venuta a far spese o ad ascoltare le ultime novità provenienti dal mondo esterno. Poiché Corazza-di-Dio era l’unico maschio adulto di Vigor Church che non fosse stato colpito dalla maledizione di Tenska-Tawa, era anche l’unico che poteva recarsi senza difficoltà ad acquistare rifornimenti e a raccogliere le ultime notizie, riportando il tutto ai contadini e ai mercanti di Vigor Church. Il caso volle che quel giorno Corazza-di-Dio fosse in viaggio verso la cittadina di Mishy-Waka per ritirare una spedizione di oggetti di vetro e porcellana. Così all’emporio Alvin trovò solo Eleanor e il suo primogenito, Hector.

Le cose erano cambiate parecchio dai vecchi tempi. Eleanor, che nella fabbricazione dei talismani era quasi all’altezza di Alvin, non doveva più nascondere i suoi disegni esagonali in composizioni di fiori e piante aromatiche. Ora alcuni talismani erano chiaramente visibili, e questo significava che erano molto più precisi e potenti. Corazza-di-Dio doveva essersi un po’ ammorbidito riguardo alla magia e ai poteri segreti. Meglio così… Ai vecchi tempi Alvin aveva trovato quasi intollerabile che la povera Eleanor dovesse fingere di non essere ciò che era, o di non sapere ciò che sapeva.

«Ho portato una cosa» esordì Alvin.

«Lo vedo» disse Eleanor. «Avvolta in un sacco di tela, immobile come una pietra. Eppure ho l’impressione che lì dentro ci sia qualcosa di vivo.»

«Questo non deve interessarti» spiegò Alvin. «Ciò che si trova qui dentro non può essere visto che da me.»

Eleanor non gli fece altre domande. Dalle parole del fratello aveva capito immediatamente perché egli si fosse portato dietro quel misterioso fagotto. Dopo aver detto a Hector di occuparsi di eventuali clienti, condusse il fratello nel nuovo magazzino, dove lei e suo marito tenevano dieci tipi diversi di fagioli conservati in grandi barili, carne salata nei fusti di legno, zucchero in coni, sale in piccoli orci di terracotta ermeticamente sigillati, e spezie in vasi di tutte le forme e dimensioni. Eleanor si diresse senza esitare verso uno dei barili, pieno quasi fino all’orlo di una qualità di fagioli verdastri che Alvin non aveva mai visto prima.

«Non piacciono a nessuno» disse. «Sono convinta che al fondo di questo barile non ci arriveremo mai.»

Alvin depose sopra i fagioli il vomere avvolto nella tela di sacco. Poi fece sì che i fagioli cedessero come melassa sotto il peso dell’involto, finché esso non arrivò in fondo al barile. A Eleanor non aveva neanche chiesto di distogliere lo sguardo, perché sua sorella sapeva bene che Alvin fin da ragazzo aveva il potere di fare cose del genere.

«Qualunque cosa si trovi là dentro, se è viva, non correrà il rischio di morire, sepolta in fondo al barile?» chiese Eleanor.

«Non invecchierà e non morirà» rispose Alvin. «Almeno non come succede alle persone.»

Alla fine, però, Eleanor cedette alla curiosità. «Vorrei solo che tu mi promettessi che se mai qualcuno verrà a sapere che cosa si trova là dentro, allora lo farai sapere anche a me» mormorò.

Alvin annuì. Era una promessa che poteva mantenere. All’epoca non sapeva se e quando avrebbe mai fatto vedere a qualcuno il vomere d’oro, ma se c’era una persona capace di mantenere il segreto, quella era certamente la taciturna Eleanor.

Alvin trascorse così molte settimane a Vigor Church, dormendo nella sua vecchia camera a casa dei genitori, e per tutto quel tempo tenne per sé la maggior parte di quanto era accaduto nei sette anni del suo apprendistato. Anzi, a dire il vero non diceva molto di più dello stretto necessario. Se ne andava in giro con suo padre e sua madre a far visita a questo o quel vicino e, senza farsi troppo pregare, curava mal di denti, ossa rotte, piaghe purulente: insomma tutti i mali da cui la gente poteva essere afflitta. Dava una mano al mulino; andava a lavorare a giornata nei campi e nei fienili dei vicini; si era costruito una piccola forgia e qui eseguiva le riparazioni alla portata di un fabbro che non disponesse di una vera fucina. Parlava solo quando gli altri lo interpellavano, e diceva poco più di ciò che gli serviva sul lavoro o per farsi passare il cibo a tavola.

Non era triste: rideva alle battute degli altri, e a volte ne diceva anche lui. Non si mostrava nemmeno scontroso, tant’è vero che trascorse diversi pomeriggi sulla piazza del paese, dimostrando ai più nerboruti contadini di Vigor Church che in un incontro di lotta nessuno poteva competere con le braccia e le spalle di un fabbro ferraio. Semplicemente, non si mostrava disponibile a scambiare pettegolezzi o chiacchiere di poco conto, e soprattutto non raccontava mai nulla di sé. E se non era l’altro a tenere in vita la conversazione, Alvin era ben contento di restare in silenzio, concentrandosi sul lavoro o fissando lo sguardo in lontananza, come se neanche si ricordasse di avere compagnia.

Alcuni notarono la scarsa loquacità di Alvin, ma era stato via per tanto tempo, e da un giovane di diciannove anni non ci si attende certo il comportamento di un bambino di nove. Pensarono semplicemente che, nel crescere, si fosse fatto taciturno.

Altri però videro più a fondo. I genitori di Alvin ne discussero più di una volta. «A quel ragazzo deve essere successo qualcosa di brutto» diceva sua madre. Suo padre invece era di tutt’altra idea. «Come a tutti, gli saranno successe cose belle e brutte, mescolate insieme, e dopo sette anni ancora non sa bene come prenderci. Quand’è partito di qui era un ragazzo, e adesso è un uomo. Quando si sarà abituato, sono sicuro che ci stordirà di chiacchiere.»

Anche Eleanor si era accorta che Alvin parlava poco, ma poiché era l’unica a sapere che egli aveva nascosto uno straordinario oggetto vivente nel barile dei fagioli, non pensò neanche per un istante che suo fratello avesse qualcosa che non andava. Così disse a suo marito, Corazza-di-Dio, quando quest’ultimo ebbe occasione di osservare che ad Alvin sembrava che si fosse seccata la lingua: «Pensa a cose profonde. È alle prese con problemi che nessuno di noi saprebbe risolvere. Quando li avrà risolti… vedrai che parlerà fin troppo».

E infine c’era Measure, il fratello di Alvin che era stato catturato dai Rossi insieme a lui; il fratello che aveva conosciuto Ta-Kumsaw e Tenska-Tawa ed era diventato loro amico al pari di Alvin. Com’era naturale, Measure si accorse di quanto poco Alvin parlasse degli anni dell’apprendistato. Alvin avrebbe sicuramente potuto aprirsi con lui, a tempo debito: e questo era naturale, considerando per quanto tempo Alvin aveva riposto la sua fiducia in Measure e tutto quello che avevano passato insieme. Sulle prime, però, Alvin si sentiva in imbarazzo anche di fronte a Measure, visto che nella sua vita adesso c’era Delphi, sua moglie, e qualsiasi idiota si sarebbe accorto che quei due non riuscivano ad allontanarsi più di tre passi uno dall’altra; e Measure con lei era così attento e premuroso, sempre a cercarla, rivolgendosi a lei se era vicina, aspettando ansiosamente il suo ritorno se si trovava altrove. Come poteva sapere Alvin se nel cuore di Measure c’era ancora posto per lui? No, nemmeno a Measure poteva raccontare la sua storia, almeno per il momento.

Un giorno di luglio Alvin si trovava nei campi a costruire una staccionata insieme a Cally, il suo fratello più piccolo, che ormai si era fatto uomo, alto come Alvin anche se non aveva spalle e dorso altrettanto muscolosi. Entrambi erano stati assunti per una settimana da Martin Hill. Alvin preparava le assi, e lo faceva praticamente senza ricorrere al suo dono, anche se a dire il vero avrebbe potuto spaccare quei tronchi semplicemente chiedendo loro di aprirsi. No, infilava il cuneo nel tronco e poi lo affondava a colpi di mazza, e il suo dono lo usava solo per impedire che i tronchi si fendessero secondo un’inclinazione sbagliata che non avrebbe prodotto assi sufficientemente lunghe.

Avevano costruito forse un quarto di miglio di staccionata quando Alvin si accorse improvvisamente di un fatto curioso. Cally non restava mai indietro. Mentre Alvin spaccava i tronchi, Cally piantava i paletti inchiodandovi sopra le assi, e la cosa strana era che non pareva mai avere bisogno di aiuto per conficcare il paletto, per quanto il terreno fosse duro, cedevole, sassoso o fangoso.

Perciò Alvin tenne d’occhio il ragazzo, o meglio, impiegò il proprio dono per osservare il suo modo di lavorare. Sì, Cally aveva qualcosa che per certi versi ricordava il dono di Alvin, ma quello di molto tempo prima, quando ancora non aveva la minima idea di ciò che stava facendo. Cally cercava il punto esatto in cui piantare il paletto, poi ammorbidiva il terreno finché non aveva bisogno che si consolidasse. Alvin immaginò che Cally non lo facesse di proposito. Probabilmente pensava di trovare il punto più adatto a piantare il paletto.

Ecco, pensò Alvin. Ecco quello che so di dover fare: insegnare a qualcun altro l’arte della Creazione. E se al mondo esiste qualcuno cui dovrei insegnarla, questi è proprio Cally, visto che in qualche modo anche lui possiede lo stesso dono. In fin dei conti anche lui è il settimo figlio di un settimo figlio, proprio come me: infatti, quando sono nato io, Vigor era ancora vivo, ma al momento della nascita di Cally, Vigor era morto da un pezzo.

Perciò Alvin cominciò a parlare, mentre entrambi proseguivano il lavoro, spiegando a Cally tutto ciò che sapeva a proposito degli atomi e di come si potesse insegnare loro a essere in un certo modo, e gli atomi obbedissero. Era la prima volta che Alvin cercava di spiegarlo a qualcuno dall’ultima volta che aveva parlato con la signorina Larner — Margaret — e quelle parole avevano per lui un suono delizioso. Questo è il compito per cui sono nato, pensò. Spiegare a mio fratello come funziona il mondo, così che anch’egli possa capirlo e in qualche modo controllarlo.

Potrete credermi se vi dico che Alvin restò sorpreso quando Cally, a un tratto, sollevò un paletto e lo scagliò ai piedi del fratello. E lo scagliò con tanta violenza — o dopo averlo ridotto così male con i suoi poteri nascosti — che il paletto andò in pezzi non appena toccò il terreno. Alvin non riusciva assolutamente a capirne il motivo, ma Cally era fuori di sé dalla rabbia.

«Ho detto qualcosa che non andava?» chiese Alvin.

«Mi chiamo Cal» ribatté. «Nessuno mi chiama più Cally da quando avevo dieci anni.»

«Non lo sapevo» fece Alvin. «Ti chiedo scusa, e d’ora in avanti sarai Cal anche per me.»

«Per te non sono nulla» disse Cal. «Vorrei soltanto che te ne andassi!»

Solo allora Alvin si rese conto che non era stato Cal a chiedergli di aiutarlo in quel lavoro… era stato Martin Hill a dirglielo, e fino a quel momento alla staccionata aveva lavorato solo Cal.

«Non intendevo proprio portarti via il lavoro» si scusò. «Non mi era passato nemmeno lontanamente per la testa che tu non volessi il mio aiuto. Ma so che mi andava di stare con te.»

Tutto quello che Alvin diceva sembrava sortire l’unico risultato di far montare la rabbia di Cal, al punto che adesso questi aveva la faccia tutta rossa e i pugni stretti con forza sufficiente a strangolare un serpente. «Una volta qui avevo il mio posto» disse Cal. «Poi sei tornato tu. Con tutte quelle belle cose imparate sui libri, e tutti quei paroloni. E capace di guarire la gente senza neanche toccarla… Ti basta entrare in casa e fare un incantesimo, e quando te ne vai tutti sono perfettamente guariti, qualunque malattia avessero…»

Alvin non aveva idea che qualcuno potesse essersene accorto. Siccome nessuno gli aveva mai detto niente, aveva immaginato che quelle guarigioni fossero state attribuite a cause naturali. «Non capisco perché questo ti faccia arrabbiare, Cal. Fare in modo che gli altri non soffrano mi sembra un bene.»

Improvvisamente le guance di Cal furono solcate dalle lacrime. «Io invece non riesco a guarirli tutte le volte nemmeno se li tocco» disse. «Nessuno viene più a chiedermi nulla.»

Ad Alvin non era mai venuto in mente che anche Cal si fosse messo a fare il guaritore. Ma in realtà non ci sarebbe stato niente di strano. Da quando Alvin se n’era andato, Cal era in qualche modo diventato per gli abitanti di Vigor Church quello che una volta era stato Alvin. Visto che anche i loro doni erano molto simili, Cal era quasi riuscito a prendere il suo posto. Per di più Cal aveva cominciato a fare cose che Alvin da piccolo non si era mai sognato di fare, come andare in giro a curare la gente… Anche se non sempre ci riusciva. Ora che Alvin era tornato, quest’ultimo non solo aveva ripreso il suo posto a Vigor Church, ma si era messo a surclassare Cal nelle cose che il fratello fino a quel momento aveva considerato soltanto sue. E adesso Cal si sentiva umiliato e inutile.

«Mi dispiace» disse Al. «Ma posso insegnarti come fare. È quello che avevo cominciato a spiegarti.»

«Io quei pezzetti o che cosa diavolo sono non li ho mai visti» lo rimbeccò Cal. «Non ho capito una sola parola di quello che stavi dicendo. Forse il mio dono non è potente come il tuo, o forse sono soltanto troppo stupido, non capisci? Non posso diventare niente di più di quello cui non arrivo da solo. E non ho bisogno che sia tu a dimostrarmi che non potrò mai essere all’altezza. Martin Hill ha voluto che tu venissi ad aiutarmi, perché sa che a fare staccionate sei più bravo di me. E tu arrivi tutto pimpante e ti metti a spaccare i tronchi senza neanche usare il tuo dono, solo per dimostrarmi che anche senza dono sei più in gamba di me.»

«Ma non era per questo» mormorò Alvin. «È solo che non voglio usare il mio dono davanti…»

«Davanti a gente stupida come me» concluse Cal.

«Forse la mia spiegazione non era granché» si scusò Alvin «ma se me lo permetti, Cal, posso insegnarti a trasformare il ferro in…»

«In oro» disse Cal, con un tono che grondava disprezzo. «Per chi mi prendi? Non mi lascerò infinocchiare con queste storie da alchimista. Se tu sapessi fare una cosa del genere, non saresti tornato a casa povero in canna. Una volta ti consideravo l’inizio e la fine del mondo, sai? Quando Alvin tornerà a casa, pensavo, sarà come ai vecchi tempi, giocheremo e lavoreremo insieme, parleremo in continuazione e io gli starò sempre alle calcagna, faremo tutto quanto insieme. Invece salta fuori che per te sono ancora un bambino, non mi dici altro che ‘ecco un’altra asse’, o ‘passami i fagioli, per favore’. E tutti i lavori che una volta la gente faceva fare a me, adesso te li sei presi tu, perfino una cosa semplice come costruire una buona staccionata.»

«Il lavoro è tuo» disse Alvin, mettendosi in spalla la mazza. Cercare d’insegnare qualcosa a Cal era perfettamente inutile… anche se avesse potuto impararlo, non l’avrebbe certo appreso da Alvin. «Ho altre cose da fare, e non intendo trattenerti ulteriormente.»

«Trattenermi ulteriormente» ripeté Cal. «L’hai imparato su un libro, o da quella vecchia strega di maestra di cui parla sempre quel mostriciattolo dalla pelle scura?»

Udendo parlare in termini così offensivi della signorina Larner e di Arthur Stuart, Alvin si sentì avvampare di rabbia, soprattutto perché proprio dalla signorina Larner aveva imparato a usare espressioni quali «trattenerti ulteriormente.» Tuttavia non disse nulla che potesse tradire la sua rabbia. Voltò le spalle a Cal e se ne andò, costeggiando la staccionata appena costruita. Cal poteva benissimo usare il suo dono e finire il lavoro da solo; ad Alvin non interessava nemmeno essere pagato per quella mezza giornata di lavoro. Aveva altre cose cui pensare… in parte ricordi della signorina Larner, ma soprattutto era turbato dal fatto che Cal si fosse rifiutato d’imparare ciò che lui aveva da insegnargli. Di tutte le persone che c’erano al mondo, Cal aveva la fortuna di poter imparare con la stessa facilità di un neonato che si attacca alla poppa, visto che per lui quel dono era un fatto naturale; però non voleva imparare, almeno non da Alvin. Una cosa del genere — rinunciare alla possibilità d’imparare qualcosa solo perché il maestro non ti andava a genio — Alvin non l’avrebbe mai ritenuta possibile.

A ripensarci, però, anche Alvin ai suoi tempi avrebbe fatto di tutto per non andare a scuola dal reverendo Thrower, perché in qualche modo quell’individuo era sempre riuscito a farlo sentire cattivo, stupido, incapace e via dicendo. Possibile che Cal detestasse Alvin come Alvin aveva detestato il reverendo Thrower? Alvin non riusciva assolutamente a capire perché Cal se la prendesse tanto. Suo fratello avrebbe dovuto essere l’ultima persona al mondo a provare gelosia per lui, visto che fra tutti era colui che più si avvicinava a ciò che Alvin sapeva fare; eppure per quello stesso motivo Cal era talmente geloso che non sarebbe mai riuscito a imparare, a meno di non arrivarci da solo, un piccolo passo alla volta.

Se continuo così, non riuscirò mai a costruire la Città di Cristallo, pensò Alvin, perché non riuscirò mai a insegnare a nessuno l’arte della Creazione.

Doveva trascorrere qualche settimana prima che Alvin tentasse di nuovo di parlare a qualcuno, per capire se poteva veramente insegnare a creare. Avvenne di domenica, a casa di Measure, dove Alvin e Arthur Stuart erano stati invitati a pranzo. Era una giornata molto calda, per cui Delphi aveva preparato un piatto freddo — pane, formaggio, prosciutto e tacchino affumicato — e poi tutti quanti erano usciti a conversare all’ombra della veranda che Measure aveva costruito sulla facciata nord, dalla parte della cucina.

«Alvin, se vi ho invitati a pranzo oggi è per un motivo» esordì Measure. «Io e Delphi ne abbiamo già parlato, e abbiamo fatto quattro chiacchiere anche con mamma e papà.»

«Se ci sono voluti tanti discorsi, dev’essere proprio qualcosa di tremendo.»

«Forse no» disse Measure. «È solo… Ecco, Arthur Stuart è un bravissimo ragazzo, e un gran lavoratore, e per giunta anche un tipo di buona compagnia.»

Arthur Stuart sorrise. «E dormo come un sasso» aggiunse.

«Un autentico ghiro» confermò Measure. «Ma papà e mamma ormai non sono più tanto giovani. E penso che in cucina mamma sia abituata a fare le cose a modo suo.»

«Puoi ben dirlo» sospirò Delphi, con il tono di chi conosceva fin troppo bene il carattere abitudinario della signora Miller.

«E papà, be’, comincia a mostrare la corda. Quando torna a casa dal mulino ha bisogno di stendersi sul divano e non sopporta più l’eccessiva confusione.»

Alvin credette di capire dove quella conversazione sarebbe andata a parare. Forse i suoi familiari non erano all’altezza della vecchia Peg Guester e di Gertie Smith. Forse non erano in grado di accogliere in casa e nel cuore un piccolo mulatto. Pensare una cosa simile dei suoi genitori e dei suoi fratelli lo rattristava, ma ne concluse immediatamente che non si sarebbe opposto. Lui e Arthur Stuart avrebbero semplicemente fatto fagotto e avrebbero preso la strada per… nessun posto in particolare. Forse il Canada. Un posto in cui un piccolo mulatto potesse essere davvero il benvenuto.

«Bada, non è che a me abbiano detto qualcosa» riprese Measure. «In realtà, quando ci siamo visti, ho parlato quasi sempre io. Insomma, Delphi e io abbiamo una casa fin troppo grande per le nostre necessità, e con tre bambini piccoli Delphi sarebbe contentissima di avere un ragazzo dell’età di Arthur Stuart che potesse darle una mano in cucina.»

«So fare il pane da solo» intervenne Arthur Stuart. «So a memoria la ricetta della mamma. La mia mamma morta.»

«Capisci?» fece Delphi. «Se qualche volta il pane potesse davvero farlo lui, o almeno aiutarmi con l’impasto, io non arriverei alla domenica completamente distrutta come succede adesso.»

«E tra non molto Arthur Stuart sarebbe abbastanza grande per darmi una mano nei campi» concluse Measure.

«Ma non devi credere che penseremmo a lui come a una specie di servitore» disse Delphi.

«No, no!» esclamò Measure. «No, vorremmo pensare a lui cornea un altro figlio, solo più grande del. mio Jeremiah, che ha tre anni e mezzo, e perciò come essere umano non vale ancora granché, anche se per lo meno non tenta in continuazione di buttarsi nel fiume come sua sorella Shiphrah… o come te quand’eri piccolo, se non ricordo male.»

Arthur Stuart si mise a ridere. «Alvin una volta ha cercato di annegare anche me» disse. «Cacciandomi a testa sotto nell’Hio.»

Alvin era al colmo della vergogna. Per una quantità di motivi. Prima di tutto per non aver mai raccontato a Measure l’intera storia di come aveva salvato Arthur Stuart dai Cacciatori; e poi per aver pensato, sia pure per un solo istante, che Measure, papà e mamma avessero intenzione di liberarsi del piccolo mulatto, mentre invece si stavano accapigliando perché ciascuno avrebbe voluto tenerlo con sé.

«Credo che tocchi ad Arthur Stuart decidere con chi vuole abitare, visto che è stato invitato» fece Alvin. «È arrivato qui con me, ma questo non vuol dire che io possa decidere al suo posto.»

«Posso restare qui?» chiese Arthur Stuart. «Cal non mi può sopportare.»

«Cal ha problemi per conto suo» gli spiegò Measure. «Ma anche lui ti vuole bene.»

«Perché Alvin non ha portato a casa qualcosa di utile, per esempio un cavallo?» disse Arthur Stuart. «Come quantità di cibo, siamo lì, ma scommetto che non è capace di tirare nemmeno un calessino a due ruote.»

Measure e Delphi risero. Arthur Stuart aveva sicuramente ripetuto parola per parola qualcosa che gli era stato detto da Cal. Arthur Stuart lo faceva in continuazione, tanto che tutti ormai avevano imparato ad apprezzare la sua perfetta memoria. Ma Alvin nell’udirlo si rattristava, perché sapeva che solo qualche mese prima Arthur Stuart avrebbe pronunciato quelle parole con la voce di Cal, tanto che, senza guardarlo, nemmeno sua madre avrebbe potuto distinguerlo da Cal.

«Alvin, perché non vieni anche tu ad abitare con Measure?» chiese Arthur Stuart.

«Sì, ecco, in effetti ci avevamo pensato» intervenne Measure. «Perché non vieni anche tu a stare da noi, Alvin? Per qualche tempo potremmo sistemarti qui, nella stanza grande al pianterreno. E, quando avremo finito i lavori dell’estate, potremmo sistemare la nostra vecchia capanna di tronchi: è ancora in buone condizioni, visto che l’abbiamo lasciata solo due anni fa. A quel punto sarai indipendente. Penso che ormai tu sia troppo grande per vivere in casa di tuo padre e mangiare alla tavola di tua madre.»

Be’, Alvin non l’avrebbe mai immaginato, ma tutt’a un tratto si ritrovò con gli occhi pieni di lacrime. Forse era la pura e semplice gioia che qualcuno si fosse accorto che non era più lo stesso Alvin Miller Junior d’un tempo. O forse era il fatto che si trattasse proprio di Measure, che si prendeva cura di lui come ai vecchi tempi. A ogni modo, fu solo in quel momento che Alvin ebbe la sensazione di essere veramente tornato a casa.

«Certo che posso venirci, se mi volete» mormorò.

«Guarda che non c’è motivo di mettersi a frignare» scherzò Delphi. «Ho già tre impiastri che scoppiano in lacrime a ogni piè sospinto. Non ho nessuna intenzione di venire ad asciugarti gli occhi e soffiarti il naso come a Keturah.»

«Be’, almeno non dovremo cambiargli i pannolini» disse Measure, e lui e Delphi scoppiarono a ridere come se quella fosse la cosa più divertente che avessero mai udito. In realtà ridevano di gioia per la commozione di Alvin all’idea di stare da loro.

Perciò Alvin e Arthur Stuart si trasferirono a casa di Measure, e Alvin tornò pian piano ad avvicinarsi al più amato dei suoi fratelli. Tutto ciò che Alvin una volta aveva amato era ancora presente in Measure uomo; eppure in lui c’era anche qualcosa di nuovo. La tenerezza che mostrava verso i suoi figli, anche dopo averli sculacciati o rimbrottati. La cura con cui si occupava delle terre e degli edifici, prendendo mentalmente nota di tutto quello che doveva fare e poi facendolo, cosicché non c’era porta che continuasse a cigolare per due giorni di seguito, né bestia che rifiutasse di mangiare per una giornata senza che Measure cercasse di capire che cosa ci fosse che non andava.

Ma soprattutto Alvin vedeva il modo in cui Measure si comportava con Delphi. Quest’ultima non era particolarmente graziosa, né del resto particolarmente brutta; era sana e forte e la sua risata pareva il raglio d’un somaro. Eppure Measure la guardava come se fosse la creatura più affascinante della terra. Lei alzava lo sguardo e si vedeva di fronte Measure con una specie di sorriso sognante sulla faccia, e allora rideva o arrossiva oppure distoglieva lo sguardo, comunque per qualche minuto si muoveva in maniera più aggraziata, magari camminando sulla punta dei piedi come se ballasse o fosse in procinto di spiccare il volo. Alvin si chiedeva se mai avrebbe potuto rivolgere alla signorina Larner uno sguardo simile, capace d’infondere in lei una gioia tale da non riuscire quasi a restare attaccata a terra.

La notte Alvin restava a lungo sveglio nel suo letto, avvertendo ogni minimo movimento della casa, comprendendo anche senza far ricorso ai suoi poteri a che cosa fosse dovuto quel lento, ritmico cigolio; e in quei momenti ricordava il viso della donna chiamata Margaret che si era celata per tutti quei mesi sotto le fattezze della signorina Larner, e immaginava il viso di Margaret vicino al proprio, con le labbra socchiuse, mentre dalla sua gola si levavano gli stessi gemiti di piacere che egli udiva sfuggire a Delphi nel silenzio della notte. Poi rivedeva lo stesso viso come l’aveva visto l’ultima volta, stravolto dal dolore e con gli occhi arrossati dal pianto. In quei momenti si sentiva stringere il cuore, e avrebbe desiderato con tutto se stesso tornare da lei, stringerla fra le braccia, e trovare dentro di lei un qualche luogo segreto per guarirla, lenire la sua sofferenza, renderla di nuovo intera.

E siccome Alvin ora stava a casa di Measure, le sue cautele pian piano vennero meno, e il suo viso ricominciò a esprimere i suoi veri sentimenti. Una sera che Measure e Delphi si erano scambiati uno dei loro sguardi, a Measure capitò di scorgere l’espressione trasognata di Alvin. I bambini erano a letto da un pezzo, cosicché Measure si sentì autorizzato a chinarsi in avanti per toccare il ginocchio di Alvin.

«Chi è?» chiese Measure.

«Chi?» fece Alvin, sconcertato.

«La donna che ami al punto che ti basta pensare a lei per restare senza fiato.»

Alvin esitò un istante, per pura forza dell’abitudine. Poi le cateratte si aprirono, e l’intera storia si riversò fuori. Il giovane esordì parlando della signorina Larner, e del fatto che in realtà si trattava di Margaret, la piccola fiaccola di cui tante volte aveva narrato Scambiastorie, quella che proteggeva Alvin da lontano. Tuttavia, nel raccontare la storia del suo amore per lei, gli venne spontaneo parlare di tutto ciò che gli aveva insegnato, e quando ebbe finito era notte inoltrata. Delphi dormiva sulla spalla di Measure; a un certo punto di quella lunga storia si era riscossa, ma non era riuscita a restare sveglia per molto tempo, il che tutto sommato era un bene, con i suoi tre figli e Arthur Stuart che sicuramente avrebbero reclamato la colazione all’ora abituale anche se lei non avesse chiuso occhio per tutta la notte. Measure invece era ancora sveglio, e gli occhi gli scintillavano per essere stato messo a parte della storia di Pettirosso, del vomere d’oro animato di vita propria, di Alvin tra le fiamme della forgia, di Arthur Stuart nelle acque dell’Hio. Dietro quella luce, nello sguardo di Measure c’era tuttavia anche una profonda tristezza per l’uomo che Alvin aveva ucciso con le sue mani, sia pure con tutte le ragioni di questa terra, e per la morte della vecchia Peg Guester, e addirittura per la morte di una certa schiavetta fuggiasca, evento dal quale, almeno per Arthur Stuart, era trascorsa una vita intera.

«In qualche modo devo cercare altre persone cui insegnare l’arte della Creazione» concluse Alvin. «Ma non so nemmeno se una persona priva di un dono come il mio sia in grado d’imparare, o quanto sia opportuno che sappia, o addirittura se sia disposta a farlo.»

«Io penso» disse Measure «che una persona debba imparare ad amare il sogno della Città di Cristallo prima ancora di sapere che potrebbe aiutarti a costruirla. Se si spargesse la voce che da queste parti vive un Creatore capace d’insegnare l’arte della Creazione, ti troveresti alle prese con il genere di persone che vorrebbero servirsi di un potere del genere per dominare gli altri. Ma la Città di Cristallo… Ah, Alvin, pensa! Come vivere per sempre all’interno di quella tromba d’aria da cui tu e il Profeta siete stati rapiti tanti anni fa.»

«Sei disposto a provarci, Measure?» chiese Alvin.

«Farò tutto il possibile per imparare» rispose Measure. «Ma prima di tutto voglio farti una promessa solenne: che tutto quello che m’insegnerai lo userò solo per costruire la Città di Cristallo. E se poi venisse fuori che non sono all’altezza di diventare un Creatore, ti aiuterò ugualmente per quello che mi sarà possibile. Tutto quello che mi chiederai di fare, Alvin, io lo farò. Porterò la mia famiglia in capo al mondo, rinuncerò a tutto ciò che possiedo, mi farò uccidere se sarà necessario… Tutto, pur di veder realizzata la visione che Tenska-Tawa ti ha mostrato quel giorno.»

Alvin gli strinse forte entrambe le mani, e così le tenne per molto, molto tempo. Poi Measure si chinò in avanti e lo baciò, da fratello a fratello, da amico ad amico. Quel movimento destò Delphi. Non aveva udito quasi niente, ma capì che era accaduto qualcosa di solenne, e sorrise con aria assonnata prima di alzarsi, lasciando che Measure la conducesse a letto per le poche ore che mancavano allo spuntar del sole.

Questo fu l’inizio della vera opera di Alvin. Per il resto dell’estate, Measure fu per lui allievo e maestro. Come Alvin insegnava a Measure l’arte della Creazione, così Measure gl’insegnava a essere padre, marito, uomo. La differenza stava nel fatto che Alvin non si rendeva affatto conto di ciò che stava imparando, mentre Measure per conquistare ogni nuova conoscenza, ogni minuscolo frammento di quei nuovi poteri, doveva compiere sforzi terribili. Ma ogni volta riusciva a capire, un piccolissimo passo alla volta, e pian piano s’impadroniva anche dei segreti della Creazione; e dopo molti tentativi falliti, anche Alvin cominciava a capire come procedere per insegnare a un altro a vedere senza usare gli occhi, a toccare senza usare le mani.

E ora, quando restava sveglio la notte, non tornava più tanto spesso al passato, ma piuttosto cercava d’immaginare il futuro. Da qualche parte, là fuori, c’era il luogo in cui avrebbe potuto costruire la Città di Cristallo; e là fuori c’erano anche coloro ai quali avrebbe potuto insegnare ad amare quel sogno, e poi a tradurlo in realtà. Da qualche parte c’era il suolo perfetto che il suo vomere avrebbe potuto solcare. Da qualche parte c’era la donna che avrebbe potuto amare e con la quale avrebbe potuto vivere sino alla fine dei suoi giorni.


Quell’autunno, nella cittadina di Hatrack, si tennero le elezioni municipali, e il caso volle che in virtù di certe strane voci a proposito di chi fosse un eroe e chi un serpente, Pauley Wiseman perse il posto, e Po Doggly si ritrovò a cambiar mestiere. Più o meno nello stesso periodo, Makepeace Smith si presentò all’ufficio del nuovo sceriffo per sporgere denuncia verso il suo ex apprendista, che, a suo dire, la primavera precedente se l’era svignata con un certo oggetto di proprietà del suo padrone.

«Mi pare un po’ tardi per sporgere denuncia» osservò lo sceriffo Doggly.

«Mi aveva minacciato» spiegò Makepeace Smith. «Avevo paura per la mia famiglia.»

«Bene, allora dimmi che cosa ti ha rubato.»

«Un vomere» disse Makepeace Smith.

«Un vomere? Dunque dovrei andare in cerca di un comunissimo vomere? E perché diavolo avrebbe rubato una cosa del genere?»

Makepeace abbassò la voce e, con aria circospetta, sussurrò: «Quel vomere era tutto d’oro».

Ah, Po Doggly nell’udirlo quasi si ammazzò dalle risate.

«È vero, te lo assicuro» insisté Makepeace.

«Sul serio? D’accordo, amico mio, forse posso crederci. Ma se nella tua fucina c’era un vomere d’oro, scommetto dieci contro uno che apparteneva ad Alvin, e non a te.»

«Ciò che l’apprendista fabbrica, appartiene al suo padrone!»

Be’, a quel punto Po assunse un’aria severa. «Prova a raccontare una storia come questa in giro per Hatrack, Makepeace Smith, e ti assicuro che molti ripenseranno subito a quando costringevi quel ragazzo a lavorare nella tua fucina mentre ormai da molto tempo era diventato più in gamba di te. Ben presto si spargerà la voce che non ti sei comportato secondo giustizia e, se cominci ad accusare Alvin Smith di averti rubato un oggetto che solo lui può aver fabbricato, penso che tutti si faranno le più matte risate alle tue spalle.»

Forse lo fece e forse no. Sicuramente Makepeace Smith non tentò alcun espediente legale per recuperare il vomere di Alvin, ovunque quest’ultimo fosse finito. Ma quella storia la raccontò eccome, aggiungendo ogni volta qualche particolare: per esempio, che Alvin lo derubava in continuazione, che quel vomere d’oro era un’eredità di famiglia che lui aveva rifuso in forma di vomere dipingendolo di nero, e Alvin se n’era accorto grazie ai suoi poteri diabolici e poi gliel’aveva sottratto con l’inganno. Sua moglie, finché restò in vita, riuscì in qualche modo a tenerlo a bada; ma, poco dopo la partenza di Alvin, Gertie Smith morì per una vena scoppiata mentre urlava a suo marito che panzane come quelle poteva raccontarle solo un perfetto idiota. Da quel momento in poi, Makepeace raccontò la storia a modo suo, arrivando addirittura a dire che era stato Alvin a uccidere Gertie con una maledizione che le aveva fatto schiantare le vene del cervello. Era una menzogna spaventosa, ma al mondo c’è sempre gente disposta ad ascoltare storie del genere, e questa non solo si sparse da un capo all’altro dell’Hio, ma qualche tempo dopo giunse addirittura a varcarne i confini. Fu così che essa venne all’orecchio di Pauley Wiseman, così come del reverendo Thrower, di Cavil Planter e di molte altre persone.

E fu per questo motivo che, quando Alvin finalmente trovò il coraggio di lasciare Vigor Church, in giro c’era un sacco di gente con l’occhio particolarmente attento agli stranieri che viaggiavano con un fagotto più o meno delle dimensioni di un vomere d’aratro; gente che scrutava tra le pieghe della tela di sacco per cogliere un riflesso dorato; gente che squadrava da capo a piedi ogni sconosciuto nell’eventualità che potesse trattarsi di un certo apprendista fuggiasco che aveva rubato l’eredità del suo padrone. Certuni, se fossero riusciti a mettere le mani sul vomere d’oro, sarebbero forse andati a Hatrack per restituirlo a Makepeace Smith. Ma in quanto a molti altri, potete star certi che un’idea del genere non li avrebbe sfiorati neanche di lontano.

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