III MENZOGNE

All’età di undici anni, giunto a Hatrack, Alvin perse metà del suo nome. Nella sua cittadina natale di Vigor Church, non lontano dal punto in cui il Tippy-Canoe gettava le sue acque nel Wobbish, tutti sapevano che suo padre era Alvin, mugnaio della cittadina e della regione circostante. Alvin Miller, appunto. E questo aveva fatto sì che il suo settimo figlio, che portava il suo stesso nome, venisse chiamato da tutti Alvin Junior. Ora, tuttavia, sarebbe vissuto in un luogo in cui non c’erano più di sei persone che potessero dire di conoscere suo padre. Quindi niente più nomi come Miller e Junior. Lì era solo Alvin, Alvin e basta, ma udire quel nome da solo gli dava l’impressione di essere stato dimezzato.

Al fiume Hatrack ci arrivò a piedi, percorrendo centinaia di miglia attraverso i territori del Wobbish e dell’Hio. Partendo da casa indossava un paio di robusti scarponi, e sulle spalle portava uno zaino pieno di provviste. Così percorse le prime cinque miglia, prima di fermarsi a una povera capanna per regalare ai suoi occupanti tutte le provviste. Dopo un altro miglio o poco più incontrò una famiglia male in arnese, diretta a ovest verso le nuove terre nella regione del fiume Noisy. Regalò loro la tenda e la coperta che portava nello zaino e, siccome tra loro c’era un ragazzo di tredici anni più o meno della corporatura di Alvin, si sfilò gli scarponi nuovi e gli regalò anche quelli, calzini compresi. Si tenne solo i vestiti che aveva indosso e lo zaino vuoto.

Quei poveretti avevano gli occhi sbarrati e l’aria stravolta all’idea che il padre di Alvin potesse rifarsela con loro, ma lui li tranquillizzò dicendo che quella roba era sua e poteva farne quello che voleva.

«Sei sicuro che non mi ritroverò di fronte tuo padre armato di moschetto?» chiese il pover’uomo.

«Sono sicuro di no, signore» rispose il giovane Alvin «considerando che vengo dalla città di Vigor Church, i cui abitanti si guarderanno bene dal farsi vedere da voi, se non sarete voi stessi a costringerli.»

A quella gente ci vollero dieci secondi buoni per ricordare dove avessero già udito il nome di Vigor Church. «Sono quelli del massacro del Tippy-Canoe» dissero. «Sono quelli con le mani insanguinate.»

Alvin annuì. «Perciò potete stare tranquilli.»

«È vero che costringono chiunque passi da quelle parti ad ascoltare la terribile storia di come massacrarono tutti quei Rossi a sangue freddo?»

«Non fu a sangue freddo» disse Alvin «e poi quella storia la raccontano solo a chi entra in città. Perciò restate sulla strada maestra, lasciateli perdere, non fermatevi. Una volta attraversato il Wobbish, vi troverete di nuovo in aperta pianura, dove sarete ben felici di trovare una fattoria dove fermarvi. Da qui non saranno più di dieci miglia.»

Be’, quelli non si attardarono a discutere, nemmeno per domandargli come mai lui quella storia non dovesse raccontarla. Bastava il nome del massacro del Tippy-Canoe a tacitare chiunque, ispirandogli una sorta di atteggiamento riverente, vergognoso e rapito, come quando si entra in chiesa. Perché, sebbene la maggior parte dei Bianchi evitassero gli sventurati dalle mani insanguinate che avevano versato il sangue dei Rossi al Tippy-Canoe, tutti quanti sapevano che se si fossero trovati al loro posto avrebbero fatto la stessa cosa, e sarebbero state le loro mani a grondare sangue finché non avessero narrato ai viandanti la terribile colpa di cui si erano macchiati. Quella colpevole consapevolezza faceva sì che non fossero molti i viaggiatori cui sorridesse l’idea di fermarsi a Vigor Church, o in una qualsiasi delle fattorie del Wobbish settentrionale. Quei poveretti dunque accettarono i regali di Alvin e si affrettarono a riprendere il cammino, felici all’idea di avere un pezzo di tela sulla testa e un paio di buone scarpe di cuoio ai piedi del ragazzo più grande.

Poco dopo Alvin lasciò la strada battuta, inoltrandosi nei recessi più nascosti della foresta. Se avesse indossato un paio di scarpe, avrebbe incespicato, spezzato rami e fatto più baccano di un bisonte in amore… Più o meno come faceva la maggior parte dei Bianchi quando si muoveva nella foresta. Ma siccome adesso era scalzo, e la sua pelle toccava il suolo, Alvin era come una persona diversa. Aveva corso alle calcagna di Ta-Kumsaw attraverso le foreste di tutto il paese, a nord e a sud, e nel corso di quei viaggi aveva imparato a correre come l’uomo rosso, ascoltando il canto verde della foresta vivente, muovendosi in perfetta armonia con quella musica dolce e silenziosa. Quando Alvin correva in quel modo, senza pensare a dove posava il piede, il terreno diventava elastico e cedevole sotto i suoi piedi; a guidarlo era la foresta stessa, i ramoscelli non si spezzavano sotto i suoi piedi, i cespugli non lo frustavano e le fronde non si schiantavano al suo passaggio. Alle sue spalle non restavano né orme né rami spezzati.

Proprio come un Rosso, ecco come si muoveva. E ben presto gli abiti da Bianco gli furono d’impaccio, e lui si fermò a toglierseli, li cacciò nello zaino e poi corse nudo come una ghiandaia, sentendo le foglie dei cespugli che gli sfioravano la pelle. Poi venne catturato dal ritmo stesso della corsa, dimenticò completamente il proprio corpo e divenne parte della foresta vivente, correndo innanzi, sempre meglio e sempre più velocemente, senza mangiare, senza bere. Come un Rosso, che poteva correre nel folto della foresta senza mai fermarsi a riposare, percorrendo centinaia di miglia in un solo giorno.

Quello era il modo più naturale di viaggiare, Alvin lo sapeva bene. Non su un cigolante carro di legno che traballava sul terreno asciutto e s’impantanava nelle strade fangose. E nemmeno a cavallo, con una bestia che sudava e s’inarcava sotto di te, non padrona dei propri desideri, bensì schiava della tua fretta. Solo un uomo nella foresta, i piedi nudi che sfiorano il terreno, la faccia nuda al vento, che correndo sogna.

Corse per tutto il giorno e tutta la notte e buona parte del mattino seguente. Come faceva a sapere dove andare? Percepiva lo squarcio della strada battuta alla sua sinistra quasi fosse un prurito o un bruciore e, sebbene quella strada attraversasse molti villaggi e molte città, Alvin sapeva che l’avrebbe condotto alla cittadina di Hatrack. In fin dei conti era la stessa strada che i suoi genitori avevano percorso anni prima, costruendo un ponte su ogni ruscello, ogni torrente e ogni fiume che si erano trovati davanti, mentre lui, neonato, se ne stava al sicuro sul carro coperto. Anche se non l’aveva mai fatta in precedenza e adesso non poteva vederla, sapeva benissimo dove conduceva.

Così, la mattina del secondo giorno, si arrestò sul limitare del bosco, davanti a un campo di mais appena spuntato che ricopriva di un morbido tappeto verde il terreno ondulato. In quella regione le fattorie cominciavano a diventare così numerose che la foresta diventava troppo debole per permettergli di alimentare più a lungo il suo sogno.

Alvin si fermò e rimase immobile, quasi attonito. Impiegò qualche momento per ricordare chi era e dove stava andando. La musica della foresta era forte alle sue spalle, fioca di fronte a lui. Riusciva soltanto a capire che davanti a lui c’erano una città e un fiume, a forse cinque miglia. Ecco ciò che riusciva a sentire con certezza. Ma poiché quel fiume era sicuramente l’Hatrack, la cittadina non poteva essere che quella verso cui era diretto.

Aveva creduto di poter correre nella foresta sino ai margini dell’abitato. Ora, tuttavia, non gli restava altra scelta che percorrere le ultime miglia al passo dell’uomo bianco, oppure non percorrerle affatto. Non aveva mai pensato che al mondo esistessero luoghi civilizzati al punto che i campi di una fattoria finivano là dove cominciavano quelli della fattoria successiva, con una semplice staccionata o una fila d’alberi a fare da confine, una fattoria dopo l’altra. Era forse questo che il Profeta aveva scorto nelle sue visioni? Aveva forse visto la foresta completamente distrutta e sostituita da campi coltivati, cosicché l’uomo rosso non avrebbe più potuto correre, né il cervo cercare riparo, né l’orso trovarsi un luogo dove andare in letargo? Se così era, non c’era da stupirsi che Tenska-Tawa avesse condotto oltre il Mizzipy tutti i Rossi disposti a seguirlo. Lì dove si trovava Alvin, l’uomo rosso non poteva più vivere.

L’idea di lasciarsi alle spalle le terre viventi che aveva imparato a conoscere come il suo stesso corpo suscitò in Alvin un misto di tristezza e di paura. Ma lui non era un filosofo. Era un ragazzo di undici anni, che non vedeva l’ora di visitare una cittadina dell’Est, civilizzata e fornita di tutto. E poi lì aveva un affare da sbrigare, un affare che lo attendeva da un anno, da quando era venuto a sapere che in quel luogo viveva una fiaccola, e che quella fiaccola aveva visto in lui un Creatore.

Tirò fuori dallo zaino i vestiti e l’indossò. Quindi s’incamminò lungo il margine dei campi finché non s’imbatté in una strada: la seguì, e quando incontrò un ruscello così piccolo da essere superato d’un balzo, Alvin ebbe la prova che si trovava sulla strada giusta. Il ponte coperto costruito sul ruscello era stato infatti costruito da suo padre e dai suoi fratelli, che ne avevano poi realizzati molti altri simili, sulla strada che congiungeva Hatrack a Vigor Church. Quei ponti risalivano a undici anni prima, quando Alvin poppava ancora il latte di sua madre sul carro coperto che procedeva cigolando verso ovest.

Proseguì, nella speranza di non dover camminare a lungo. Aveva corso per centinaia di miglia nella foresta vergine senza danno alcuno per i suoi piedi, ma la strada dell’uomo bianco non aveva parte nella musica verde e non cedeva morbidamente al suo passaggio. Dopo un paio di miglia gli facevano male i piedi, aveva una gran sete e non ci vedeva più dalla fame. Alvin si augurò di non dover fare troppe miglia sulle strade dell’uomo bianco, o avrebbe finito col rimpiangere le sue scarpe.

Un cartello di fianco alla strada annunciò:


CITTÀ DI HATRACK RIVER

HIO


Era un centro abitato di notevoli dimensioni, soprattutto in confronto ai villaggi di frontiera. Certo, niente di paragonabile alla città francese di Detroit, ma là ci si trovava all’estero, mentre Hatrack era, be’, una città americana. Le case e gli altri edifici erano simili alle poche rozze strutture che aveva visto a Vigor Church e in altri villaggi sorti di recente, solo più grandi e rifinite. Quattro vie attraversavano la strada principale, con una banca, un paio di negozi, qualche chiesa, e perfino un tribunale di contea e alcuni edifici con targhe di legno su cui si potevano leggere titoli come «Avvocato», «Medico» e «Alchimista». Se c’erano perfino dei professionisti, voleva dire che si trattava di una città vera, non di una semplice promessa come era stata Vigor Church prima del massacro.

Meno di un anno prima, Alvin aveva avuto una visione della città di Hatrack. Era accaduto quando Lolla-Wossiky, il Profeta, poi conosciuto come Tenska-Tawa, l’aveva rapito nel vortice d’aria da lui evocato sul lago Mizogan. Le pareti del vortice si erano trasformate in cristallo, e in quel cristallo Alvin aveva visto molte cose. Una di queste era la città di Hatrack come appariva all’epoca della nascita di Alvin. Era evidente che in quegli undici anni i suoi abitanti non erano rimasti con le mani in mano. Percorrendo la strada principale, Alvin non riconobbe niente. Quel posto era diventato così grande che nessuno faceva caso a lui, uno straniero cui altrove tutti si sarebbero affrettati a dare il benvenuto.

Si era addentrato per un buon tratto nella parte costruita quando si rese conto che non erano le dimensioni della città a far sì che la gente non si curasse di lui. Erano la polvere incrostata sul viso, i piedi nudi, lo zaino vuoto che portava in spalla. Lo guardavano, lo giudicavano con una sola occhiata, quindi si affrettavano a distogliere lo sguardo, quasi temendo che egli si avvicinasse a chiedere un pezzo di pane o un alloggio per la notte. Era una situazione che Alvin non aveva mai dovuto affrontare, ma che gli apparve in tutta la sua evidenza. Negli ultimi undici anni, la città di Hatrack aveva imparato quale fosse la differenza tra ricchi e poveri.

Era giunto al limite della zona in cui sorgevano gli edifici. Aveva attraversato l’intera cittadina, e non aveva visto né la fucina del fabbro al quale avrebbe dovuto presentarsi, né la locanda in cui era nato e dove in realtà intendeva recarsi. Da quella parte non si scorgevano che un paio di allevamenti di maiali, puzzolenti com’era logico aspettarsi, e poi la strada piegava verso sud, scomparendo alla sua vista.

La fucina doveva esserci ancora, no? Era trascorso solo un anno e mezzo da quando Scambiastorie era partito col contratto di apprendistato che papà aveva steso per Makepeace, il fabbro di Hatrack River. E meno di un anno da quando lo stesso Scambiastorie aveva detto ad Alvin di aver recapitato la lettera, spiegandogli che Makepeace Smith si era mostrato disponibile… Questo era il termine che aveva usato, disponibile. Siccome Scambiastorie parlava con accento britannico, cioè smozzicando la metà delle parole, Alvin sulle prime non aveva capito, e il vecchio aveva dovuto ripeterglielo più volte. A ogni modo, sicuramente il fabbro si trovava ancora lì un anno prima. E la fiaccola della locanda, quella che Alvin aveva visto nella torre di cristallo di Lolla-Wossiky, doveva per forza esserci ancora. Non aveva forse scritto di suo pugno nel libro di Scambiastorie: «È nato un Creatore»? Quando Alvin aveva letto quelle parole, le lettere avevano sfolgorato di luce come se fossero state evocate per magia, simili alla scritta tracciata dalla mano di Dio in quell’episodio della Bibbia che annuncia il crollo di Babilonia. Era stata la parola della profezia a far brillare le lettere in quel modo. Perciò se quel Creatore era lo stesso Alvin, e lui ne era certo, allora la fiaccola doveva saperne di più, grazie al suo dono. Da lei Alvin avrebbe saputo che cos’era veramente un Creatore, e che cosa bisognava fare per diventarlo.

Creatore. Un nome che la gente pronunciava a bassa voce. O in tono di malinconia, dicendo che il mondo aveva chiuso coi Creatori, che non ne sarebbero nati mai più. Certo, c’era chi sosteneva che il vecchio Ben Franklin fosse un Creatore, ma lui l’aveva negato ostinatamente fino all’ultimo dei suoi giorni, proprio come aveva negato di avere a che fare con la magia. Scambiastorie, che conosceva il vecchio Ben come un figlio conosce il padre, affermava che Ben in vita sua aveva creato una cosa sola, cioè il Patto Americano, il pezzo di carta che univa le colonie olandesi e svedesi agl’insediamenti inglesi e tedeschi della Pennsylvania e del Suskwahenny, e soprattutto alla nazione rossa dell’Irrakwa. Si erano così formati gli Stati Uniti d’America, in cui Rossi e Bianchi, olandesi, svedesi e inglesi, ricchi e poveri, mercanti e artigiani, tutti potevano votare, tutti potevano prendere la parola e nessuno poteva dire: «Io sono migliore di te». Alcuni sostenevano che questo bastava a fare di Ben il più grande Creatore che fosse mai esistito: ma no, diceva Scambiastorie, questo lo rendeva un tessitore, un mediatore, ma non un Creatore.

Io sono il Creatore di cui parlava quella fiaccola, pensò adesso Alvin. Mi ha toccato mentre nascevo, e ha sentito che in me c’era la stoffa del Creatore. Devo trovare quella ragazza, che adesso ha sedici anni, e farmi dire da lei che cos’ha visto. Perché sono sicuro che i poteri che ho scoperto dentro di me, le cose che riesco a fare, debbono servire a scopi più alti che tagliare la pietra senza usare le mani, guarire i malati o correre nei boschi come qualsiasi Rosso sa fare (anche se nessun Bianco ne è mai stato capace). Ho un compito che mi attende, e non ho la benché minima idea di come prepararmi a svolgerlo.

Lì in piedi, in mezzo alla strada, con un recinto di maiali a destra e un altro a sinistra, Alvin udì distintamente il ting ting del ferro contro il ferro. Era come se il fabbro l’avesse chiamato per nome. Eccomi qui, diceva il martello, vieni a cercarmi più avanti su questa stessa strada.

Prima di salire verso la fucina, tuttavia, oltrepassò la curva e si trovò di fronte alla locanda in cui era nato, proprio come l’aveva vista nella torre di cristallo. Era stata imbiancata a calce di recente e solo la polvere dell’ultima estate le aveva tolto un po’ di candore: quindi non era proprio identica alla visione… Ma restava comunque la vista più gradita che lo stanco viandante potesse desiderare.

Anzi, doppiamente gradita, giacché là dentro, con un po’ di fortuna, la fiaccola gli avrebbe spiegato quale indirizzo dare alla sua vita.

Alvin bussò alla porta, pensando che così si dovesse fare. Non era mai stato in una locanda prima d’allora, e non sapeva nulla di locali pubblici. Perciò bussò una volta, poi un’altra, quindi cominciò a gridare, finché la porta non si aprì. Davanti a lui c’era una donna con le mani infarinate e un grembiule a quadretti, una donna che sembrava su tutte le furie… Tuttavia Alvin la riconobbe. Era la donna della visione nella torre di cristallo, la donna che l’aveva aiutato a nascere afferrandogli la testa con quelle stesse dita che adesso erano bianche di farina.

«Che diamine ti salta in mente, ragazzino, di bussare alla mia porta in quel modo e di metterti a urlare come se fosse scoppiato un incendio? Perché non puoi entrare e metterti a sedere come tutti gli altri, o sei così importante da aver bisogno di una serva che venga ad aprirti la porta?»

«Scusatemi, signora» disse Alvin, rispettosamente.

«Dunque, che cosa vuoi da noi? Se sei un mendicante, allora debbo dirti che non ci sono avanzi fino a stasera ma, se te la senti di aspettare, e se hai una coscienza, be’, potresti spaccare un po’ di legna. A parte che, guardandoti, non credo tu abbia più di quattordici anni…»

«Undici, signora.»

«Be’, allora sei grande per la tua età… Però ancora non riesco a capire che cosa ci fai da queste parti. Non ti servirei liquori nemmeno se tu avessi soldi, cosa di cui dubito. Questa è una casa cristiana, anzi, più che cristiana, perché siamo metodisti fino al midollo, e questo significa che non tocchiamo un goccio d’alcol né lo serviamo, e anche se lo facessimo non lo serviremmo certo a un ragazzino. E sarei pronta a scommettere dieci libbre di lardo che non hai in tasca neanche i soldi per una notte.»

«No, signora» disse Alvin «ma…»

«Be’, e allora eccoti qui, dopo avermi tirata fuori dalla cucina con il pane impastato a metà e un bambino che fra un istante si metterà a strillare perché vuole il latte, e immagino che tu non abbia nessuna intenzione di metterti a capotavola per spiegare ai miei dozzinanti perché la cena non è ancora pronta, tutto per via di un ragazzino che non sa aprire una porta da solo, no, sarò io quella che dovrò profondermi in scuse, e questo da parte tua se non ti dispiace mi sembra una vera scortesia, e anche se ti dispiace è esattamente la stessa cosa.»

«Signora» disse Alvin «non voglio da mangiare e nemmeno una camera.» Conosceva le buone maniere a sufficienza per non aggiungere che a casa di suo padre i viandanti erano sempre stati bene accetti, anche se non avevano un soldo in tasca, e che un uomo affamato non mangiava gli avanzi, ma sedeva a tavola con tutta la famiglia. Alvin cominciava ad afferrare l’idea che in quelle regioni civilizzate le cose funzionavano diversamente.

«Be’, noialtri non abbiamo da offrire che cibo e stanze» ribatté la locandiera.

«Sono venuto qui, signora, perché sono nato in questa casa, quasi dodici anni fa.»

Il suo atteggiamento cambiò di colpo. Ora non era più la locandiera, ma la levatrice. «Sei nato in questa casa?»

«Lo stesso giorno che il mio fratello più grande, Vigor, è morto nel fiume Hatrack. Ho pensato che magari ricordavate ancora quel giorno, e forse potevate mostrarmi il posto in cui mio fratello era sepolto.»

L’espressione della donna cambiò di nuovo. «Tu…» mormorò. «Tu appartieni a quella famiglia… Il settimo figlio di…»

«Di un settimo figlio» concluse Alvin.

«Santo Cielo come ti sei fatto grande! Ah, quel giorno fu un vero portento. Mia figlia era qui proprio mentre nascevi e ha guardato laggiù sul fiume e ha visto che tuo fratello era ancora vivo…»

«Vostra figlia» disse Alvin, con tanta precipitazione da non accorgersi di aver interrotto la donna a metà frase. «È una fiaccola, vero?»

L’espressione della locandiera si fece fredda come il ghiaccio. «Era una fiaccola» mormorò. «Ora non esercita più.»

Ma Alvin non fece caso a quel cambiamento. «Volete dire che ha perso il suo dono? Sarebbe la prima volta che sento parlare di una cosa del genere. Comunque, se è qui, mi piacerebbe parlare con lei.»

«Non è più qui» spiegò la donna. Finalmente Alvin capì che quello era un argomento di cui la locandiera preferiva non parlare. «Hatrack non ha più fiaccola. I bambini nasceranno senza che nessuno li tocchi per vedere come sono messi nel ventre della madre. È finita. E ora non ho intenzione di dire una sola parola in più a proposito di una figlia capace di andarsene così, senza motivo…» E s’interruppe, voltandogli le spalle. «Devo finire d’impastare il pane» riprese poi. «Il cimitero è su quella collina.» Si voltò di nuovo verso Alvin, e il suo viso non mostrava più la minima traccia di rabbia o dolore, o qualsiasi fosse l’emozione che aveva provato un istante prima. «Se il mio Horace fosse qui, gli chiederei di accompagnarti, ma la strada puoi benissimo trovarla da solo, c’è una specie di viottolo. È solo un cimitero di famiglia, circondato da una staccionata.» La sua espressione severa si ammorbidì. «Quando hai fatto, torna giù e ti darò qualcosa di meglio degli avanzi.» Si affrettò a tornare in cucina. Alvin la seguì.

Accanto al tavolo di cucina c’era una culla, dentro la quale dormiva un bambino, agitandosi nel sonno. Quel piccolo aveva qualcosa di strano, ma sulle prime Alvin non riuscì a capire di che cosa si trattasse.

«Siete molto gentile, signora, ma non ho intenzione di accettare elemosine. Ditemi che devo fare per guadagnarmi da mangiare.»

«Bravo, hai parlato da vero uomo… Tuo padre era come te, e il ponte che ha costruito sull’Hatrack è ancora lì, solido come il primo giorno. Ma tu adesso va’ a vedere il cimitero, e poi torna qui senza perder tempo.»

La donna si chinò sul grosso pezzo di pasta da pane che aveva lasciato sul tavolo. Alvin ebbe per un momento l’impressione che stesse piangendo: gli parve di scorgere qualche lacrima cadere sulla pasta… ma forse si sbagliava. Era comunque evidente che la locandiera voleva essere lasciata sola.

Alvin guardò di nuovo il bambino, e capì che cosa avesse di strano.

«È un negretto, vero?» chiese.

La donna smise d’impastare, ma tenne le mani affondate fino al polso nella pasta. «È un bambino» ribatté, «ed è mio. L’ho adottato ed è mio, e se lo chiami ‘negretto’ t’impasto la faccia come una pagnotta.»

«Scusate, signora, non intendevo offendervi. Forse ha la carnagione un po’ scura e per questo mi ero fatto l’idea che…»

«Certo, è mezzo Nero. Ma quella che sto tirando su è la sua metà bianca, proprio come se fosse figlio mio. Gli abbiamo dato il nome di Arthur Stuart.»

Alvin capì subito il sottinteso. «Suppongo che nessuno si azzarderà a dar del ‘negretto’ al re.»

La donna sorrise. «Penso proprio di no. Adesso vattene, ragazzo. Hai un debito con tuo fratello, e sarà meglio che tu vada a saldarlo il più presto possibile.»

Trovare il cimitero non fu difficile, e Alvin fu contento di vedere che suo fratello Vigor aveva una pietra tombale, e che la sua tomba era curata come le altre. Non che ce ne fossero molte. Due tombe con lo stesso nome — PICCOLA MISSY — e date che parlavano di tenere vite spezzate. Un’altra pietra con su scritto nonno, e poi il suo vero nome, e date che parlavano di una lunga vita. E Vigor.

Alvin s’inginocchiò davanti alla tomba di suo fratello e cercò d’immaginarsi quale doveva essere il suo aspetto. Non avendolo mai visto, nella sua mente si formò il volto di suo fratello Measure, il suo preferito, quello che era stato catturato dai Rossi insieme ad Alvin. Vigor doveva essere un po’ come Measure. O forse Measure un po’ come Vigor. Entrambi disposti a morire, in caso di necessità, per il bene della famiglia. Vigor, morendo, mi aveva già salvato la vita prima che io venissi al mondo, pensò Alvin, eppure ha resistito tenacemente fino all’ultimo, cosicché quando sono nato ero ancora il settimo figlio di un settimo figlio, con tutti i fratelli maschi ancora vivi. Lo stesso genere di coraggio, forza e spirito di sacrificio che erano stati necessari a Measure — che non aveva ucciso un solo Rosso e, nel tentativo di arrestare il massacro del Tippy-Canoe, ci aveva quasi rimesso la pelle — per prendere su di sé la stessa maledizione di suo padre e dei suoi fratelli, per accettare che le mani gli grondassero sangue ogni volta che mancava di raccontare a uno straniero la vera storia dell’uccisione di tanti Rossi innocenti. Perciò, mentre se ne stava in ginocchio sulla tomba di Vigor, ad Alvin parve di essere in ginocchio sulla tomba di Measure, pur sapendo bene che Measure non era morto.

Non del tutto, almeno. Tuttavia, come gli altri abitanti di Vigor Church, non avrebbe più lasciato quel luogo. Avrebbe passato il resto dei suoi giorni là, dove non sarebbe stato costretto a incontrare troppi stranieri, così da poter dimenticare per qualche giorno il massacro dei Rossi. L’intera famiglia sarebbe rimasta laggiù insieme agli abitanti del villaggio e delle campagne circostanti: avrebbero trascorso in quei luoghi il resto dei loro giorni, finché tutti coloro che portavano la maledizione non fossero morti, partecipi della stessa vergogna e della stessa solitudine, quasi fossero un vincolo di parentela. Tutti fino all’ultimo.

Tutti tranne me. La maledizione non mi ha colpito. Me li sono lasciati tutti dietro le spalle.

Inginocchiato su quella tomba, Alvin si sentì orfano. E in realtà era come se lo fosse. Inviato laggiù come apprendista, sapeva che qualunque cosa avesse imparato o fatto, i suoi familiari non sarebbero mai andati a trovarlo. Certo, ogni tanto avrebbe potuto tornarsene in quel tetro, grigio villaggio. Ma Vigor Church somigliava a un cimitero più di quella collinetta erbosa; infatti, sebbene lì fossero sepolti dei morti, nella città vicina c’erano vita e speranza, c’era gente che poteva vivere la propria vita senza guardarsi continuamente alle spalle.

Anche Alvin doveva guardare davanti a sé. Doveva trovare la via che l’avrebbe condotto a realizzare il suo destino. Tu sei morto per me, Vigor, fratello mio sconosciuto. Ancora non ho capito perché era così importante che io restassi in vita. Quando lo scoprirò, spero che tu possa essere orgoglioso di me. Che tu possa pensare che valesse la pena di morire per me.

Esaurito ogni pensiero, sgravato il suo cuore, Alvin fece una cosa che non avrebbe mai pensato di fare. Guardò sotto terra.

Ma non scavando, attenzione. Il dono di Alvin gli permetteva di esplorare il sottosuolo senza usare gli occhi. Come quando guardava nella pietra. Ora, a qualcuno l’idea di guardare sotto terra dove giace il corpo del proprio fratello potrebbe sembrare una specie di profanazione. Ma era l’unico modo che Alvin aveva a disposizione per vedere colui che era morto nel tentativo di salvargli la vita.

Perciò chiuse gli occhi e guardò sotto terra e trovò le ossa dentro la cassa di legno ormai fradicio. La corporatura… Vigor era stato un giovanotto grande e grosso, come era logico aspettarsi da uno capace di agguantare e deviare un albero trascinato dalle acque di un fiume. Ma l’anima non c’era più e, pur sapendo bene che non l’avrebbe trovata, Alvin ne rimase in qualche modo deluso.

Il suo sguardo si portò distrattamente verso i corpicini che a malapena si distinguevano dalla terra, e poi al vecchio corpo contorto del Nonno, chiunque egli fosse, ancora ben riconoscibile, sepolto da non più di un anno.

Ma la sepoltura più recente era un’altra. Una tomba senza pietra tombale. Il corpo di una ragazza morta da non più di un giorno, con ancora addosso la carne che i vermi non avevano ancora cominciato a intaccare.

Alvin si lasciò sfuggire un’esclamazione di sorpresa. Subito dopo la sua mente fu attraversata da un pensiero che lo gettò nella costernazione. Possibile che la ragazza sepolta fosse la fiaccola? Sua madre aveva detto che era scappata, ma quando la gente scappa non è difficile che torni indietro morta. Perché mai la madre avrebbe dovuto disperarsi così, altrimenti? La figlia della locandiera, sepolta senza nemmeno una pietra tombale… Tutto ciò poteva far pensare solo a cose orribili. Che fosse fuggita macchiandosi di colpe talmente vergognose che i suoi stessi genitori non avevano voluto mettere sulla sua tomba neanche un segno di riconoscimento? Altrimenti perché lasciarla così, senza una pietra?

«Che cosa c’è che non va, ragazzo?»

Alvin si voltò di scatto trovandosi a faccia a faccia con un uomo. Un tipo robusto con un’aria che s’indovinava tranquilla, ma che in quel momento non lasciava presagire niente di buono.

«Che ci fai in questo cimitero, ragazzo?»

«Io sono venuto a trovare mio fratello, signore» disse Alvin.

L’uomo rifletté qualche istante, rasserenandosi. «Allora appartieni a quella famiglia. Ma se non ricordo male i ragazzi più giovani avevano all’incirca la tua età quando…»

«Sono quello che è nato quella notte.»

A quelle parole l’uomo allargò le braccia e strinse Alvin in un affettuoso abbraccio. «Ti hanno chiamato Alvin, non è vero?» esclamò. «Proprio come tuo padre. Da queste parti lo chiamiamo Alvin Bridger, il ‘fabbricante di ponti’. È diventato una specie di leggenda. Lasciati guardare: sei proprio diventato grande! Il settimo figlio di un settimo figlio, venuto a visitare il suo luogo natale e la tomba di suo fratello. Naturalmente verrai a stare alla locanda. Sono Horace Guester, come avrai già capito. Sono felice di conoscerti. Ma non sei un tantinello grande per avere solo… dieci o undici anni?»

«Quasi dodici. Tutti dicono che sono alto per la mia età.»

«Spero che tu sia contento della pietra che abbiamo messo sulla tomba di tuo fratello. Da queste parti era molto ammirato, anche se tutti noi l’abbiamo conosciuto solo da morto.»

«Mi piace» disse Alvin. «È una bella pietra.» E poi, spinto da un impulso più forte di lui, anche se forse era un’imprudenza, fece la domanda che gli bruciava dentro. «Mi chiedo, signore, perché ieri qui è stata sepolta una ragazza, senza pietra né cartello con il suo nome.»

Horace Guester impallidì. «C’era da aspettarselo» sussurrò. «Un rabdomante o qualcosa del genere. Il settimo figlio. Che Dio ci aiuti.»

«Ha forse fatto qualcosa di brutto per essere sepolta così?» chiese Alvin.

«No» rispose Horace. «Dio mi è testimone, ragazzo, che questa ragazza fu nobile in vita e morì virtuosamente. La sua tomba non reca alcun nome perché questa casa possa restare un rifugio per altri come lei. Ma tu, ragazzo, promettimi che non dirai mai a nessuno quello che hai scoperto. Causeresti grandi sofferenze a decine e centinaia di anime smarrite sulla strada che dalla schiavitù conduce alla libertà. Potrai credermi, fidarti di me ed essere mio amico? Sarebbe un dolore troppo grande, perdere mia figlia e diffondere questo segreto, tutto in un solo giorno. Poiché non ho potuto serbare il segreto con te, tu dovrai serbarlo insieme a me, Alvin, ragazzo mio. Promettimi che lo farai.»

«Se si tratta di un segreto onorevole lo manterrò, signore» ribatté Alvin. «Ma quale segreto onorevole può indurre un uomo a seppellire sua figlia senza una pietra?»

Horace spalancò gli occhi, poi rise sino a farsi venire le lacrime agli occhi. Quando riprese il controllo di se stesso, diede ad Alvin una pacca sulla spalla. «Quella sepolta lì non è mia figlia, ragazzo! Che cosa te l’ha fatto pensare? È una ragazza nera, una schiava fuggiasca diretta al Nord, morta la notte scorsa.»

Alvin allora si rese conto per la prima volta che il corpo era troppo piccolo per essere quello di una ragazza di sedici anni. Si sarebbe detto quello di una bambina.

«E il bambino che avete in cucina è suo fratello?»

«Suo figlio» spiegò Horace.

«Ma è così piccola» disse Alvin.

«Questo non ha impedito al suo padrone bianco di metterla incinta, ragazzo. Non so quale sia la tua opinione sulla schiavitù, o se tu ci abbia mai pensato, ma se non l’hai fatto ti prego di farlo adesso. La schiavitù è qualcosa per cui un uomo bianco può rubare la virtù di una fanciulla e continuare ad andare in chiesa la domenica, mentre lei piange per la vergogna e porta in seno il suo bastardo.»

«Siete un Emancipazionista, vero?» chiese Alvin.

«Credo di sì» rispose il locandiere. «Ma credo pure che tutti i bravi cristiani in cuor loro siano Emancipazionisti.»

«Lo penso anch’io» disse Alvin.

«Perciò spero che lo sia anche tu, perché se si sparge la voce che ho aiutato una schiava fuggiasca diretta in Canada, arriveranno a frotte i Cacciatori dagli Appalachi e dalle Colonie della Corona che si metteranno a farmi la posta in modo che io non possa aiutare più nessuno.»

Alvin gettò un’occhiata alla tomba alle sue spalle e pensò al bambino nella culla. «Al bambino glielo direte, dov’è la tomba di sua madre?»

«Quando sarà abbastanza grande da poterlo sapere senza raccontarlo a nessuno» disse l’uomo.

«Allora manterrò il vostro segreto, a patto che voi manteniate il mio.»

L’uomo alzò le sopracciglia, studiando Alvin. «E che segreto potrai mai avere, Alvin, alla tua età?»

«Non desidero affatto far sapere in giro che sono un settimo figlio. Sono qui per andare apprendista da Makepeace Smith, che immagino sia l’uomo che sento martellare nella fucina da quella parte.»

«E non vuoi che si sappia che sei capace di vedere un corpo sepolto in una tomba senza nome.»

«Avete afferrato l’idea» disse Alvin. «Io manterrò il vostro segreto, e voi manterrete il mio.»

«Hai la mia parola» esclamò l’uomo. Quindi tese la mano.

Alvin afferrò quella mano e la strinse, con gioia. Alla maggior parte degli adulti non sarebbe mai venuto in mente di stipulare un simile patto con un ragazzino. Ma quell’uomo gli aveva offerto la mano come a un adulto. «Vedrete che so mantenere la mia parola, signore» ribadì Alvin.

«E chiunque qui intorno potrà dirti che anche Horace Guester è capace di mantenere una promessa.» Poi il locandiere gli raccontò la storia che lui e sua moglie stavano mettendo in giro riguardo al bambino, cioè che era l’ultimo nato dei Berry, e che questi, non potendolo mantenere, l’avevano affidato alla vecchia Peg Guester, la quale aveva sempre desiderato un figlio maschio. «Quest’ultima parte è senz’altro vera» disse Horace Guester. «Ancor più adesso che Peggy se n’è andata.»

«Vostra figlia» mormorò Alvin.

A un tratto gli occhi di Horace Guester si riempirono di lacrime, e lui rabbrividì e prese a singhiozzare come Alvin non aveva mai visto fare a un uomo adulto. «Se n’è andata stamattina» gemette l’uomo.

«Forse è andata a trovare qualcuno in città, o qualcosa del genere» disse Alvin.

Horace scosse la testa. «Scusami se mi sono messo a piangere così, ti chiedo scusa,… Per dirti la verità sono stanco morto, la notte scorsa non ho chiuso occhio, e poi stamattina scoprire che non c’era più… Ci ha lasciato un biglietto. Se n’è proprio andata.»

«Non avete l’idea di chi sia l’uomo con cui è scappata?» chiese Alvin. «Forse si sposeranno… Una volta è successo anche a una ragazza svedese laggiù dalle parti del fiume Noisy…»

Il viso di Horace s’imporporò dalla rabbia. «Penso che tu sia solo un ragazzo, e che sia solo per questo che ti è venuta in mente una cosa del genere. Perciò sappi che non è scappata con un uomo. Nessuno si è mai azzardato a mettere in dubbio la sua virtù. No, è scappata da sola, ragazzo.»

Alvin pensò che in vita sua aveva visto le cose più strane… Una tromba d’aria trasformata in una torre di cristallo, una pezza di stoffa nella quale erano intessute le anime di una moltitudine di uomini e di donne, uccisioni e torture, storie mirabolanti e prodigi, Alvin della vita sapeva molto di più della maggior parte dei suoi coetanei. Ma la cosa più strana di tutte era pensare a una ragazza di sedici anni che prendeva e se ne andava dalla casa di suo padre, senza marito né nulla. Alvin non aveva mai visto in vita sua una donna andare da nessuna parte oltre i confini di casa, se non accompagnata da un uomo.

«Non correrà… non correrà nessun pericolo?»

Horace rise amaramente. «Pericoli? Certo che no. È una fiaccola, Alvin, la più grande che io conosca. Può vedere una persona a miglia di distanza, può leggerle nel cuore, e non c’è uomo che possa avvicinarsi a lei con cattive intenzioni senza che lei capisca esattamente che cos’ha in mente e che cosa fare per sfuggirgli. No, non sono preoccupato per lei. È in grado di prendersi cura di se stessa meglio di qualsiasi uomo. È solo che…»

«Sentite la sua mancanza» disse Alvin.

«Immagino che per capirlo non ci voglia una fiaccola, vero, ragazzo? Sì, sento la sua mancanza. E in qualche modo mi sento ferito, perché se n’è andata così, senza una parola. Avrei potuto darle la mia benedizione. Sua madre avrebbe potuto confezionarle qualche talismano — non che la piccola Peggy ne abbia bisogno, naturalmente — o comunque prepararle qualcosa da mettere sotto i denti durante il viaggio. Ma niente, se n’è andata senza un arrivederci o un addio. È come se fosse scappata a gambe levate davanti a un orribile mostro, senza avere il tempo di fare altro che cacciare un cambio d’abito in una borsa di tela e infilare la porta.»

Scappata davanti a un mostro… Quelle parole penetrarono diritto nel cuore di Alvin. Se i suoi poteri di fiaccola erano come suo padre li descriveva, poteva benissimo darsi che avesse visto arrivare Alvin. Era scappata in fretta e furia proprio la mattina del suo arrivo. Se non fosse stata una fiaccola, avrebbe anche potuto trattarsi di un puro caso. Ma Peggy era una fiaccola. L’aveva visto arrivare. Sapeva che Alvin aveva fatto tutta quella strada nella speranza d’incontrarla e di farsi aiutare a trovare il modo per diventare ciò per cui era nato. L’aveva visto, ed era scappata.

«Mi dispiace davvero che se ne sia andata» mormorò Alvin.

«Ti ringrazio per la comprensione, amico, sei molto gentile. Spero soltanto che non sia per troppo tempo… che sbrighi in fretta quello che è andata a fare e la si riveda qui nel giro di qualche giorno, o magari di un paio di settimane.» Rise di nuovo, o forse singhiozzò, difficile capirlo. «Non posso nemmeno chiedere alla fiaccola di Hatrack di leggere nel suo futuro, perché la fiaccola di Hatrack se n’è andata.»

Horace scoppiò di nuovo in lacrime, e continuò a piangere per un minuto buono. Poi afferrò Alvin per le spalle e lo guardò diritto negli occhi, senza cercare di nascondere le lacrime che gli rigavano le guance. «Alvin, tu mi hai visto piangere come non si addice a un uomo, ma ricorda che questo è ciò che provano i padri quando i figli se ne vanno. Anche tuo padre in questo momento prova le stesse cose, sapendoti così lontano.»

«Lo so» ammise Alvin.

«Adesso, se non ti dispiace» disse Horace Guester «vorrei restare un po’ solo.»

Alvin gli toccò delicatamente il braccio, quindi se ne andò. Ma non scese alla locanda per consumare il pasto di mezzogiorno offertogli dalla vecchia Peg Guester. Si sentiva troppo sconvolto per mettersi a tavola con lei e Horace. Come spiegare che il suo cuore era spezzato come il loro? No, avrebbe dovuto starsene zitto. Le risposte che sperava di trovare a Hatrack avevano preso il volo assieme a una ragazza di sedici anni che non aveva voluto incontrarlo.

Forse ha visto il mio futuro e mi odia. Forse sono veramente un mostro talmente orrendo da non augurarne la vista neppure al peggior nemico.

Alvin seguì i colpi di martello del fabbro. Giunse così su un sentiero appena visibile; questo conduceva a una baracca costruita su una sorgente che scaturiva proprio in quel punto dal fianco della collina. Costeggiando il ruscello attraversò un prato in discesa finché non si trovò sul retro della fucina. Il comignolo eruttava fumo e scintille. Alvin fece il giro della costruzione, e vide il fabbro oltre la grande porta scorrevole, intento a martellare sul corno dell’incudine una barra di ferro rovente, in modo da darle una forma ricurva.

Alvin lo osservò lavorare. Dall’esterno avvertiva il calore della fucina; là dentro doveva essere un inferno. I muscoli del fabbro erano simili a un fascio di cavi che gli trattenessero il braccio sotto la pelle. Si contorcevano, guizzando uno sull’altro quando il martello s’innalzava nell’aria, poi tutti insieme si contraevano quando il martello scendeva. A quella distanza, Alvin riusciva a malapena a sopportare l’assordante scampanio del ferro sul ferro, riverberato dall’incudine che dopo ogni colpo continuava a vibrare come un diapason. Il corpo del fabbro grondava sudore; era nudo fino alla cintola, la pelle bianca arrossata dal calore, striata della fuliggine della forgia e del sudore che gli grondava da tutti i pori. Mi hanno mandato qui a fare l’apprendista del diavolo, pensò Alvin.

Ma non appena l’ebbe pensato, capì che era una stupidaggine. Il fabbro era un uomo che lavorava sodo, tutto qui, un uomo che si guadagnava da vivere con un mestiere di cui qualsiasi città aveva bisogno, se voleva prosperare. A giudicare dalle dimensioni dei recinti per i cavalli da ferrare, e dalle cataste di barre di ferro che attendevano di essere trasformate in vomeri e falci, scuri e mannaie, gli affari gli andavano piuttosto bene. Se imparo questo mestiere, non patirò mai la fame, pensò Alvin, e la gente sarà sempre felice di avermi intorno.

Ma c’era dell’altro: qualcosa che riguardava il fuoco e il ferro rovente. Ciò che accadeva in quel luogo era in relazione con l’atto del creare. Alvin lo capì ripensando a quando lavorava con la pietra nella cava di granito, al modo in cui aveva tagliato la macina per il mulino di suo padre. Comprese che col suo dono forse avrebbe potuto entrare nel ferro e fare in modo che prendesse la forma da lui voluta. Ma aveva qualcosa da imparare anche dalla fucina e dal martello, dal mantice, dal fuoco e dall’acqua della tinozza per la tempra, qualcosa che l’avrebbe aiutato a diventare ciò per cui era nato.

Perciò adesso nel fabbro non vedeva più un poderoso estraneo, ma ciò che lui stesso sarebbe diventato. Anche lui avrebbe avuto nelle spalle e nel dorso muscoli così, che si gonfiavano a ogni movimento. Alvin era un ragazzo robusto, come c’era da aspettarsi da uno che fin da piccolo aveva spaccato legna, segato tavole, alzato pesi e trasportato ogni genere di carichi nelle fattorie dei vicini in cambio di qualche spicciolo. In quel genere di lavori, però, ogni movimento veniva compiuto con tutto il corpo. Uno sollevava la scure, e quando l’abbassava era come se il corpo fosse tutt’uno con il manico, e al colpo contribuissero insieme le gambe, le anche e il dorso. Il fabbro invece reggeva con le tenaglie la barra di ferro, la reggeva con tanta destrezza e precisione che, quando il braccio destro scendeva col martello, il resto del suo corpo non faceva il minimo movimento, e il braccio sinistro restava immobile come una roccia. Quel movimento dava al corpo del fabbro una forma diversa, costringeva le braccia ad acquistare molta più forza, e i muscoli si radicavano nel collo e nello sterno assumendo un rilievo che non avrebbero mai raggiunto nel corpo di un contadino.

Alvin si concentrò sul modo in cui i suoi stessi muscoli si sviluppavano, e capì immediatamente dove sarebbero avvenuti i cambiamenti. Grazie al suo dono, riusciva a farsi strada nella carne viva con la stessa facilità con cui riusciva a determinare la forma interna della pietra. Perciò anche in quel momento esplorava dall’interno il proprio corpo, insegnandogli a cambiare in modo da preparare la strada al lavoro che lo attendeva.

«Ragazzo?» lo interpellò il fabbro.

«Signore» rispose Alvin.

«Hai per caso qualche commissione per me? Noi due non ci conosciamo, vero?»

Alvin fece un passo avanti, porgendo al fabbro la lettera di suo padre.

«Leggila tu, ragazzo. I miei occhi non sono più quelli di una volta.»

Alvin spiegò il foglio. «Da parte di Alvin Miller di Vigor Church. A Makepeace, fabbro di Hatrack. Questo è mio figlio Alvin, che avete accettato come apprendista fino all’età di diciassette anni. Lavorerà sodo e farà tutto quello che gli direte; voi in cambio gl’insegnerete tutto ciò che un uomo ha bisogno di sapere per diventare un bravo fabbro, come sta scritto negli articoli da me firmati. È un bravo ragazzo.»

Il fabbro prese il foglio e se lo avvicinò agli occhi. Mosse le labbra nel ripetere qualche frase. Poi sbatté il foglio sull’incudine. «Proprio una bella uscita» esclamò. «Ti rendi conto di essere in ritardo di quasi un anno, ragazzo? Avresti dovuto arrivare l’estate scorsa. Ho rifiutato tre apprendisti perché tuo padre mi aveva dato la sua parola che saresti venuto, e siccome non l’ha mantenuta sono rimasto per un anno intero senza aiuto. Ora dovrei accettarti perdendo un anno di contratto, e per giunta senza una parola di scusa.»

«Mi spiace, signore» disse Alvin. «Ma l’anno passato da noi c’è stata la guerra. Ero partito per venire qui, ma sono stato catturato dai Choc-Taw.»

«Catturato dai… Ehi, ragazzo, non raccontarmi fandonie. Se fossi stato davvero catturato dai Choc-Taw, adesso non avresti quella bella capigliatura! E probabilmente ti mancherebbe anche qualche dito.»

«Sono stato salvato da Ta-Kumsaw» spiegò Alvin.

«Ah, certo, e sicuramente hai conosciuto il Profeta in persona e hai camminato sulle acque insieme a lui!»

In effetti le cose erano andate proprio così. Dal tono di voce del fabbro, però, Alvin capì che non sarebbe stato il caso di dirglielo. Perciò tacque.

«Dove hai messo il cavallo?» chiese il fabbro.

«Non ho cavallo» disse Alvin.

«La data che tuo padre ha scritto su questa lettera è quella di due giorni fa! Se non sei venuto a cavallo, come hai fatto?»

«Sono venuto di corsa.» Non appena l’ebbe detto, Alvin capì di aver commesso un errore.

«Di corsa?» sbottò il fabbro. «A piedi nudi? Dal Wobbish a qui devono esserci quattrocento miglia o giù di lì. Dovresti avere i piedi a brandelli, consumati fino alle ginocchia! Non raccontarmi frottole, ragazzo! In questa fucina non c’è posto per i bugiardi!»

Alvin aveva una possibile via di uscita, e lo sapeva. Avrebbe potuto spiegare che era capace di correre come un Rosso. Makepeace Smith non gli avrebbe creduto, e allora Alvin avrebbe dovuto dimostrarglielo. Sarebbe stato facile. Poteva piegare una barra di ferro semplicemente carezzandola. Poteva schiacciare insieme due pietre formandone una sola. Ma Alvin aveva già deciso che non era il caso di far mostra dei suoi poteri. Come avrebbe potuto compiere il suo apprendistato se la gente avesse cominciato a venire a frotte per farsi tagliare pietre da focolare, aggiustare ruote o fare quei lavori di riparazione per i quali Alvin era così portato? E poi in vita sua non si era mai sognato di far mostra del suo dono solo per dimostrare di che cosa era capace. A casa aveva usato il suo dono solo quando ce n’era stato bisogno.

Perciò si attenne alla sua decisione di non lasciar trapelare in alcun modo i suoi poteri. Di non rivelare a nessuno ciò che era capace di fare. Limitarsi a imparare, come un ragazzo qualsiasi, lavorare il ferro come faceva il fabbro, lasciando che i muscoli gli modellassero lentamente le braccia e le spalle, il torace e il dorso.

«Scherzavo» disse Alvin. «Un tale mi ha lasciato montare il suo cavallo di ricambio.»

«Non è il genere di scherzi che io apprezzo» ribatté il fabbro. «Non mi piace che tu venga a raccontarmi bugie con questa disinvoltura.»

Che cosa poteva rispondergli? Non poteva nemmeno affermare di non avere mentito, perché in realtà aveva mentito… raccontando che un tale l’aveva fatto montare sul suo cavallo. Perciò era un bugiardo, proprio come sosteneva il fabbro… sia pure per la ragione sbagliata.

«Mi dispiace» disse Alvin.

«Non ti prendo, ragazzo. Tanto più che non sono nemmeno tenuto a farlo, visto che arrivi con un anno di ritardo. E, una volta qui, per prima cosa mi racconti una frottola. Non mi sta bene.»

«Mi dispiace, signore» ripeté Alvin. «Non succederà più. Dalle mie parti non ho fama di bugiardo e, se me ne date l’occasione, vedrete che anche qui sarò conosciuto per uno che riga diritto. La prima volta che mi scoprite a raccontare una bugia o a non compiere il mio dovere, potete cacciarmi e io non dirò una sola parola. Datemi solo la possibilità di dimostrarlo.»

«Non sono nemmeno convinto che tu abbia veramente undici anni, ragazzo.»

«Eppure è così, signore. Lo sapete anche voi. Siete stato voi stesso, con le vostre braccia, a tirar fuori mio fratello Vigor dalle acque del fiume la notte che sono nato… Almeno così mi ha raccontato mio padre.»

Il fabbro assunse un’espressione assente, come se fosse perso nel ricordo. «Sì, ti ha raccontato la verità, sono stato io a tirarlo fuori. Anche da morto era rimasto aggrappato alle radici di quell’albero, tanto che ho temuto di dover usare la scure per liberarlo. Vieni qui, ragazzo.»

Alvin gli si avvicinò. Il fabbro gli tastò e gli pizzicò i muscoli delle braccia.

«Be’, vedo che almeno non sei pigro. I ragazzi pigri si ammorbidiscono, ma tu sei forte come un contadino che lavora sodo. Su questo non potresti imbrogliarmi, credo. Eppure ancora non sai che cosa significhi lavorare sul serio.»

«Sono qui per imparare.»

«Ah, ne sono sicuro. Sai quanti ragazzi verrebbero di corsa a imparare da me? Gli altri mestieri vanno e vengono, ma di fabbri ci sarà sempre bisogno. Be’, in quanto al corpo mi sembri abbastanza forte. Vediamo il cervello. Guarda questa incudine. Questo, sulla punta, è il corno. Ripeti.»

«Corno.»

«E questa invece è la gola. E questa è la tavola. Non è ricoperta di acciaio duro, così che quando ci si batte sopra con uno scalpello a freddo, questo non perde il filo. Questo invece è il piano di acciaio sul quale si lavora il metallo caldo. E questo è il foro dove si appoggiano la presella, il martello per spianare e la chiodaia. E questo è il foro per punzonare, per quando faccio dei fori nella banda di ferro… Il punzone arroventato entra esattamente in questo spazio. Hai capito tutto?»

«Credo di sì, signore.»

«Allora ripeti una per una quali sono le parti dell’incudine.»

Alvin le ripeté meglio che poteva. Non si ricordava bene a che cosa servisse ciascuna, non tutte, almeno, ma se la cavò abbastanza bene, perché alla fine il fabbro annuì sorridendo. «Mi pare che tu non sia proprio idiota. Imparerai presto. Ed è un bene che tu sia grande per la tua età. Non dovrò tenerti per i primi quattro anni alla scopa e al mantice, come faccio con i ragazzi più piccoli. Ma l’età è un problema. Gli apprendisti di solito si tengono per sette anni, tuttavia il contratto firmato da tuo padre dice che resterai solo fino al compimento dei diciassette anni.»

«Ormai ne ho quasi dodici, signore.»

«Quello che devi capire è che voglio che tu resti per sette anni, se io lo ritenessi necessario. Non voglio vederti piagnucolare che vuoi andartene proprio quando hai imparato abbastanza da cominciare a renderti utile.»

«Sette anni, signore. Quando arriverà la primavera in cui starò per compiere diciannove anni, allora il mio tempo sarà scaduto.»

«Sette anni sono lunghi, ragazzo, e ho intenzione di farti mantenere la tua promessa. La maggior parte dei ragazzi cominciano a nove o dieci anni, qualcuno addirittura a sette, in modo da potersi guadagnare il pane già a sedici o diciassette anni e cominciare a guardarsi intorno in cerca di una moglie. Da te non tollererò niente del genere. Dovrai vivere da bravo cristiano, e levarti dalla testa di poter correre dietro alle ragazze dei dintorni, hai capito?»

«Sissignore.»

«Molto bene. I miei apprendisti dormono nel soppalco sopra la cucina. Mangerai a tavola con me, mia moglie e i miei figli. Ti sarò grato se in casa non aprirai bocca a meno che non ti venga richiesto… Non voglio che i miei apprendisti pensino di avere gli stessi diritti dei miei figli, perché non è così.»

«Sissignore.»

«E adesso devo scaldare di nuovo questa barra. Perciò puoi cominciare a darti da fare col mantice.»

Alvin si avvicinò all’impugnatura del mantice. Aveva la forma di una T, per essere azionato a due mani. Ma Alvin ne ruotò l’estremità in modo che assumesse la stessa angolazione del manico del martello quando il fabbro lo sollevava in aria. Poi cominciò ad azionare il mantice con un braccio solo.

«Che fai, ragazzo?» esclamò il nuovo padrone di Alvin. «Non durerai dieci minuti se azioni il mantice con un braccio solo.»

«Allora tra dieci minuti passerò al braccio sinistro» rispose Alvin. «Se devo chinarmi ogni volta che abbasso l’impugnatura, non diventerò mai abbastanza forte da maneggiare il martello.»

Il fabbro gli gettò un’occhiata di fuoco. Poi rise. «Hai la lingua svelta, ragazzo, ma anche cervello. Fa’ come vuoi, finché ce la fai, ma bada di non rallentare perché ho bisogno di un fuoco bello caldo, e questo per adesso è più importante che rinforzare le tue braccia.»

Alvin cominciò a pompare. Ben presto avvertì il dolore del movimento cui non era abituato rodergli il collo, il petto e il dorso. Eppure continuò a lavorare, senza mai interrompere il ritmo del mantice, costringendo il suo corpo a soffrire. Avrebbe potuto far sì che i muscoli gli si sviluppassero immediatamente, insegnando loro la via con i suoi poteri segreti. Ma non era quello lo scopo per cui Alvin si trovava lì, di questo era sicuro. Perciò lasciò che il dolore facesse come meglio credeva; lasciò che il suo corpo si sviluppasse naturalmente, e ogni nuovo muscolo fosse conquistato grazie a un faticoso esercizio.

Alvin resisté quindici minuti con la mano destra, dieci con la sinistra. I muscoli gli dolevano, e quella sensazione gli piacque. Makepeace Smith sembrava soddisfatto di lui. Alvin capì che in quel luogo sarebbe cambiato, che quel lavoro avrebbe potuto fare di lui un uomo forte e abile.

Un uomo, non un Creatore. Non era lì che si sarebbe compiuto il suo destino. Ma poiché il mondo non vedeva un Creatore da un migliaio di anni o giù di lì, presso chi avrebbe dovuto svolgere il suo apprendistato al fine d’imparare quel mestiere?

Загрузка...