XIII IL DEPOSITO SULLA SORGENTE

Alvin capì che qualcosa bolliva in pentola quando sentì Horace e la vecchia Peg Guester litigare lassù al vecchio deposito sulla sorgente. Per qualche istante urlarono così forte che Alvin riuscì a udirli nonostante il rombo della forgia e i colpi di martello. Poi parvero calmarsi, ma a quel punto Alvin era talmente incuriosito che gli venne voglia di deporre il martello. Anzi, lo depose proprio, e uscì dalla fucina per ascoltare meglio.

No, intendiamoci, non che avesse intenzione di origliare. Sarebbe semplicemente andato al pozzo ad attingere l’acqua, sia per bere sia per la tinozza della forgia. E se per caso avesse udito quel che dicevano, la colpa non sarebbe certo stata sua, no?

«La gente dirà che sono un pessimo locandiere, se sistemo la maestra nel vecchio deposito invece di alloggiarla come si deve.»

«È solo una costruzione inutilizzata, Horace, e noi la utilizzeremo. E alla locanda ci resteranno le camere per gli ospiti paganti.»

«Non permetterò mai che la maestra venga a vivere quassù da sola. Non sta bene!»

«Perché, Horace? Hai intenzione di farle qualche proposta?»

Alvin credeva a malapena alle sue orecchie. Due persone sposate non potevano dirsi cose del genere. Non si sarebbe stupito di udire l’eco di uno schiaffo. Ma a quanto pareva Horace aveva incassato in silenzio. Tutti dicevano che si lasciava mettere i piedi in testa dalla moglie, e questa ne era una evidente dimostrazione: pensate un po’, lasciarsi accusare dalla propria consorte di aspirare all’adulterio e non picchiarla, o quanto meno non risponderle per le rime!

«Non importa» disse la vecchia Peg. «Può darsi che alla fine l’abbia vinta tu, e lei dica di no. Ma noi il deposito lo sistemeremo comunque, e gliel’offriremo.»

Horace borbottò qualcosa che Alvin non riuscì a capire.

«Non m’importa nulla se questo deposito l’ha costruito la piccola Peggy. Se n’è andata di sua spontanea volontà, se n’è andata senza dirmi neanche una parola, e non ho nessuna intenzione di conservare questa baracca come un monumento solo perché da piccola aveva l’abitudine di venire quassù. Mi hai sentito?»

Anche stavolta Alvin non riuscì a udire la risposta di Horace.

Ma la vecchia Peg la udì, eccome. La sua voce arrivava fino a lui come il crepitio di una saetta. «E tu vieni a parlarmi di amore? Be’, lasciatelo dire, Horace Guester, tutto il tuo amore per la piccola Peggy è forse servito a trattenerla in casa nostra? Ma il mio amore per Arthur Stuart gli procurerà un’istruzione, hai capito? E, alla resa dei conti, vedremo chi di noi due avrà saputo amare meglio i suoi figli!»

Quello che seguì non fu proprio il rumore di uno schiaffo o simili, bensì quello di una porta sbattuta con tanta violenza che fu un miracolo se non saltarono entrambi i cardini. Alvin non poté fare a meno di allungare il collo per vedere chi fosse stato. E in effetti scorse la vecchia Peg che si allontanava a lunghi passi.

Un minuto dopo, forse qualcosa di più, la porta si riaprì molto, molto lentamente. Alvin riusciva a malapena a distinguerla tra i cespugli e il fogliame cresciuti tra il pozzo e il deposito. Ne uscì con grande lentezza Horace Guester, col viso rabbuiato come Alvin non l’aveva mai visto prima d’allora. Restò lì per qualche istante, con la mano sulla maniglia. Poi richiuse la porta con la stessa delicatezza con cui avrebbe rimboccato le coperte a un neonato. Alvin si era sempre chiesto come mai non avessero abbattuto il deposito anni prima, quando Alvin aveva scavato il pozzo che aveva fatto definitivamente seccare la sorgente. O almeno perché non l’avessero adibito a qualche altro uso. Alvin sapeva vagamente che tutto ciò aveva a che fare con Peggy, la fiaccola che se n’era andata poco prima che Alvin arrivasse a Hatrack. Il modo in cui Horace sfiorò quella porta, il modo in cui la richiuse, fece capire ad Alvin quanto amore un padre potesse provare per la propria creatura. Dopo tutti quegli anni, i posti che la figlia aveva amato erano ancora sacri, per lui. Per la prima volta Alvin si chiese se anche lui avrebbe potuto provare tanto amore per un figlio. E poi si chiese chi avrebbe potuto essere la madre di quel figlio, e se l’avrebbe mai preso a male parole come la vecchia Peg aveva fatto con Horace, e se egli stesso avrebbe mai litigato con lei come Makepeace con sua moglie Gertie, lui rincorrendola con la cintura in mano, e lei bersagliandolo di piatti e scodelle.

«Alvin» disse Horace.

Sorpreso in flagrante a spiare Horace, Alvin avrebbe anche potuto morire dalla vergogna. «Scusatemi, signore» mormorò Alvin. «Non avrei dovuto ascoltare.»

Horace sorrise debolmente. «Credo che per non sentire avresti dovuto essere sordo come una campana.»

«Sì, avevate alzato un po’ la voce» borbottò Alvin «però io nemmeno mi sono sforzato di non ascoltare.»

«Be’, so che sei un bravo ragazzo, e non hai la fama del chiacchierone.»

Alle parole «bravo ragazzo» Alvin provò un certo fastidio. Aveva ormai diciotto anni, gli mancava meno di un anno a compierne diciannove, e da molto tempo sarebbe stato pronto a mettersi in proprio. Il fatto che Makepeace Smith non volesse saperne di rinunciare al suo apprendista prima del termine stabilito non autorizzava Horace Guester a chiamarlo «ragazzo». Può ben darsi che di fronte alla legge io sia ancora un semplice apprendista e non ancora un libero artigiano, ma nessuna donna può zittirmi a forza di strilli.

«Alvin» disse Horace «ti pregherei di dire al tuo padrone che abbiamo bisogno di una serratura e di un paio di cardini nuovi per la porta del deposito. A quanto pare lo risistemiamo per la nuova maestra, se lei sarà d’accordo.»

Dunque le cose stavano così. Horace aveva perso la battaglia con la vecchia Peg. Aveva ceduto. Era così che andava, dunque, tra coniugi? O il marito picchiava la moglie, come Makepeace Smith, oppure doveva rassegnarsi a fare tutto quello che lei voleva, come il povero Horace Guester. Be’, se le alternative sono queste, la cosa non m’interessa, pensò Alvin. Non che in città non guardasse le ragazze. Le vedeva pavoneggiarsi per il corso, con il seno spinto in alto dal busto, la vita così sottile che lui avrebbe potuto stringerla tutta nelle sue mani grandi e forti… Però Alvin non pensava mai ad afferrare o sollevare quelle fanciulle: lo facevano solo sentire caldo e vergognoso allo stesso tempo, e così, quando lo guardavano, lui abbassava lo sguardo, o ricominciava immediatamente a caricare, a scaricare, o comunque a fare ciò per cui era sceso in città.

Alvin sapeva bene che cosa vedevano in lui, quelle ragazze di città. Vedevano un uomo senza soprabito, in maniche di camicia, tutto sudato e impolverato. Vedevano un pover’uomo che non avrebbe mai potuto alloggiarle in una bella casetta di legno come quella dei loro paparini, che sicuramente facevano il giudice, l’avvocato o il mercante. Lo giudicavano inferiore, un semplice apprendista a diciott’anni compiuti. Se per miracolo avesse mai potuto sposare una di quelle ragazze, sapeva bene come sarebbe andata a finire: lei l’avrebbe sempre guardato dall’alto in basso, aspettandosi che egli le cedesse il passo come a una signora.

E se avesse sposato una ragazza della sua stessa condizione, sarebbe stata una come Gertie Smith o la vecchia Peg Guester, una brava cuoca o una buona lavoratrice o quel che si voleva, ma un diavolo dell’inferno se non l’avesse sempre avuta vinta. Nella vita di Alvin Smith non c’era posto per una donna, questo era sicuro. Non si sarebbe mai lasciato mettere i piedi in testa da una donna come faceva Horace Guester.

«Mi hai sentito, Alvin?»

«Sì, signor Horace, e non appena vedo Makepeace Smith glielo dico. Serratura e cardini per il deposito.»

«E che sia un lavoro ben fatto» disse Horace. «In quel deposito ci deve andare ad abitare la maestra.» Horace tuttavia non era così avvilito da non aggiungere con un ghigno: «In modo da poter dare lezioni private».

Dal tono con cui aveva detto «lezioni private» si sarebbe potuto pensare a un bordello o qualcosa del genere, ma Alvin capì immediatamente, mettendo insieme ciò che sapeva, chi sarebbe stato a usufruire di quelle lezioni private. Non lo sapevano forse tutti che la vecchia Peg aveva chiesto che Arthur Stuart potesse frequentare la scuola?

«Bene, ci vediamo» disse Horace.

Alvin lo salutò con la mano, e Horace si avviò lentamente sul sentiero che conduceva alla locanda.

Quel pomeriggio, Makepeace Smith non si fece vedere. Alvin non ne fu sorpreso. Ora che Alvin era un uomo fatto, poteva svolgere tutto il lavoro della fucina meglio e più in fretta di Makepeace. Nessuno ne aveva mai fatto parola, ma già l’anno prima Alvin si era accorto che i clienti avevano cominciato a farsi vedere quando Makepeace non si trovava alla fucina. Di solito chiedevano a Alvin di sbrigare qualche lavoretto lì per lì, mentre aspettavano. «Una cosetta da nulla» sostenevano, solo che a volte proprio da nulla non era. E ben presto Alvin si era reso conto che quelle persone non capitavano lì per caso, ma perché volevano che fosse Alvin a fare il lavoro di cui avevano bisogno.

Non che Alvin al ferro facesse niente di speciale, a parte un paio d’incantesimi quando ce n’era bisogno, e in questo non c’era niente d’insolito. Sapeva che non sarebbe stato giusto far bella figura a spese del maestro usando qualche potere segreto: sarebbe stato come ricorrere al coltello in un incontro di lotta. Se avesse usato il suo dono per conferire al ferro caratteristiche fuori del comune, tra l’altro, non gliene sarebbero venuti che guai. Perciò lavorava affidandosi all’occhio e alla forza del braccio. I muscoli che gli guizzavano nel dorso, nelle spalle e nelle braccia se li era guadagnati tutti, uno per uno. E se alla gente i suoi lavori piacevano più di quelli di Makepeace Smith, ebbene, questo avveniva perché Alvin era più bravo, e non perché il suo dono lo mettesse in posizione di vantaggio.

Comunque fosse, Makepeace doveva aver avuto sentore di ciò che stava accadendo, e alla fucina si faceva vedere sempre meno. Forse aveva capito che così gli affari andavano meglio, ed era abbastanza modesto da cedere il passo dinanzi al talento del suo apprendista… Ma Alvin non ne era affatto convinto. Più probabilmente Makepeace se ne stava alla larga perché la gente non si accorgesse di come ogni tanto egli gettava lo sguardo sopra la spalla di Alvin per capire che cosa quest’ultimo facesse meglio di lui. Oppure era geloso, e non poteva sopportare di vedere il suo apprendista al lavoro. Infine poteva darsi che Makepeace avesse semplicemente poca voglia di lavorare e, siccome il suo apprendista se la cavava benissimo anche senza di lui, perché allora non andare a prendersi una bella sbornia con i ratti di fiume, in qualche taverna della Foce?

O forse, per qualche capriccio del caso, Makepeace in realtà si vergognava di tenere Alvin con sé approfittando dei termini del contratto, anche se Alvin era sicuramente pronto a mettersi in proprio. Per un maestro artigiano era riprovevole tenere con sé un apprendista dopo che questi aveva imparato il mestiere, solo per godere dei frutti del suo lavoro senza corrispondergli un giusto salario. Grazie ad Alvin, in casa di Makepeace Smith entravano dei bei soldini, questo lo sapevano tutti, e intanto il ragazzo restava povero in canna, dormiva sul soppalco e, quando scendeva in città, non aveva mai un soldo in tasca. Certo, Gertie lo nutriva adeguatamente, ed era la miglior cuoca della città, Alvin lo sapeva bene, visto che ogni tanto andava a mangiare da qualcuno dei suoi amici. Ma il buon cibo non era la stessa cosa di una buona paga. Col cibo uno si saziava, e finiva lì. Con i soldi invece si potevano comprare o fare delle cose… Si poteva essere liberi. Il contratto che Makepeace Smith conservava nel cassettone di casa sua, il contratto firmato dal padre di Alvin, faceva di Alvin uno schiavo, né più né meno di un qualsiasi Nero nelle Colonie della Corona.

Una differenza c’era, però. Alvin poteva contare i giorni che mancavano alla libertà. Era agosto. Mancava meno di un anno. La primavera seguente sarebbe stato libero. Nel Sud non c’era schiavo che potesse dire la stessa cosa, o che potesse anche solo sperarla. Alvin se l’era ripetuto più volte nel corso degli anni, quando il peso della sua condizione gli era sembrato insopportabile; se quei Neri continuavano a vivere e a lavorare senza la minima speranza di libertà, allora anche lui avrebbe potuto resistere altri cinque anni, altri tre anni, un altro anno, sapendo che un giorno sarebbe a ogni modo finita.

Comunque quel pomeriggio Makepeace Smith si guardò bene dal farsi vedere, e quando Alvin ebbe finito il lavoro che gli era stato assegnato, invece di pulire e rimettere a posto gli attrezzi, invece di avvantaggiarsi, salì al deposito sulla sorgente a prendere le misure della porta e delle finestre. Siccome il deposito era stato costruito per tenere in fresco il latte e il burro, le finestre ovviamente non si potevano aprire; però la maestra certamente non avrebbe gradito di abitare in una casa senza un filo d’aria, perciò Alvin prese le misure anche alle finestre. Non che avesse deciso di costruire lui stesso i telai nuovi, visto che quello del falegname non era il suo mestiere, ma insomma il legno lo sapevano lavorare un po’ tutti… Intanto cominciò col prendere le misure di questo e di quello, e quando arrivò alle finestre tirò diritto.

Prese le misure di un sacco di cose. Per esempio del punto in cui ci si poteva mettere una bella stufetta di ferro, dato che, durante l’inverno, quel posto avrebbe dovuto essere riscaldato; e già che c’era, pensò anche alla base in pietra che bisognava costruire per sostenere il peso della stufa, e alla guaina per il tubo, insomma a tutto quello che ci voleva per trasformare il deposito in una casetta calda e confortevole, adatta a una signora.

Alvin non si preoccupò di annotare le misure. Non lo faceva mai. Dopo aver messo dita, mani e braccia da tutte le parti, quelle misure le sapeva a mente; e qualora se ne fosse dimenticato o una misura si fosse rivelata sbagliata, sapeva benissimo che in un batter d’occhio avrebbe potuto rimediare. Era una specie di pigrizia, e lui lo sapeva, ma in quei giorni ricavava ben pochi vantaggi dal suo dono, e se ogni tanto si concedeva qualche piccola scorciatoia non gli pareva poi così grave.

Arthur Stuart arrivò quando Alvin aveva quasi finito. Alvin non disse nulla, né Arthur sentì il bisogno di commentare; se una persona si trova sempre vicina a te non senti la necessità di salutarla, perché a malapena ti accorgi della sua presenza. Tuttavia, quando Alvin dovette prendere le misure del tetto, si limitò a dirlo, e poi gettò Arthur Stuart sul tetto con la stessa facilità con cui Peg Guester sollevava i coltroni di piume dai letti della locanda.

Arthur si arrampicò sul tetto come un gatto, senza curarsi minimamente dell’altezza. Misurò il tetto con i passi contando a voce alta, e quando ebbe finito non si curò nemmeno di accertarsi che Alvin fosse pronto ad acchiapparlo, ma si lanciò direttamente giù. Sembrava quasi che Arthur pensasse di saper volare. E se là sotto c’era Alvin, ebbene, avrebbe anche potuto essere vero, perché il ragazzo aveva braccia così lunghe che poteva acchiappare Arthur in tutta tranquillità e posarlo a terra con la stessa delicatezza di un’anatra selvatica che si posa su uno specchio d’acqua.

Quando i due ebbero finito le loro misurazioni, tornarono alla fucina. Alvin prese alcune barre di ferro dalla catasta, ravvivò il fuoco nella forgia, e si mise al lavoro. Arthur azionava il mantice e gli passava gli attrezzi: lo faceva ormai da tanto tempo che in pratica era diventato l’apprendista di Alvin, e a nessuno dei due era mai venuto da pensare che ci fosse qualcosa di male. Semplicemente lo facevano insieme, con tale facilità che a guardarli sembrava una specie di danza.

Un paio d’ore dopo, Alvin aveva finito. Avrebbe potuto metterci la metà del tempo, solo che per qualche motivo si era messo in testa di dover fabbricare una serratura per la porta, una serratura vera, come quelle che i benestanti di Hatrack si facevano venire da Filadelfia, cioè con una vera chiave, e un catenaccio a molla che scattava da solo quando uno si chiudeva la porta alle spalle, cosicché non bisognava dare un giro di chiave tutte le volte.

In più, Alvin incise all’interno della serratura alcuni talismani segreti, perfette figure esagonali capaci di dar sicurezza a chi avrebbe abitato in quella casa e di tenere a bada chiunque avesse cattive intenzioni. Una volta che la serratura fosse stata chiusa e montata, nessuno avrebbe visto quei disegni, ma essi avrebbero funzionato ugualmente, perché quando Alvin disegnava un esagono le misure erano così precise che esso gettava una rete di esagoni per parecchie braccia su entrambi i lati, formando una parete invalicabile.

Ogni tanto Alvin si chiedeva che cosa li facesse funzionare. Che l’esagono fosse una figura magica, dato che partecipava del tre e del due, non potevano esserci dubbi; e Alvin sapeva bene che, se si mettevano degli esagoni su un tavolo, questi si componevano perfettamente uno con l’altro, un po’ come dei quadrati, ma con maggior forza, dato che si univano sia secondo linee verticali e orizzontali sia secondo linee diagonali. L’esagono non era semplice e debole come il quadrato, che difatti raramente si trovava in natura; l’esagono invece era presente nei cristalli, nei fiocchi di neve, nelle celle degli alveari… Creare un unico esagono equivaleva a crearne un vasto tessuto, per cui gli esagoni perfetti che Alvin aveva nascosto all’interno della serratura si sarebbero estesi su tutta la superficie della casa, proteggendola dai pericoli esterni in modo altrettanto efficace che se egli avesse forgiato una rete di ferro e ne avesse ricoperto l’intero edificio.

Comunque tutto questo non spiegava perché quei talismani funzionassero. Perché gli esagoni nascosti potessero arrestare la mano di un uomo, o distogliere la sua mente dal pensiero di entrare. Perché l’esagono potesse riprodursi da solo e giungere tanto più lontano quanto maggiore era la precisione con cui era stato disegnato. Alvin aveva trascorso anni a rimuginare su cose del genere, e ancora ne sapeva così poco. Tale era la sua ignoranza, a dire il vero, che ogni tanto si sentiva invadere dallo scoramento; e anche allora, con la serratura del deposito fra le mani, si chiese se in realtà non avrebbe fatto meglio a lasciar perdere quella storia del Creatore e accontentarsi, invece, di essere un bravo fabbro.

Con tutti i suoi interrogativi, Alvin tuttavia non si pose quella che sarebbe stata la domanda più logica. Che bisogno c’era di proteggere una maestra con una simile serratura, dotata di talismani così potenti? Alvin non provò nemmeno a immaginarselo. Sapeva soltanto che quella casetta doveva diventare più bella possibile, e che la serratura era comunque una bella cosa. In seguito se lo sarebbe domandato, si sarebbe chiesto se già allora, ancor prima d’incontrarla, sapeva che cosa avrebbe significato per lui quella maestra. Forse in testa aveva già un piano, come la vecchia Peg Guester. Ma in quel momento sicuramente non poteva immaginarselo, ed era la pura verità. Mentre fabbricava quei cardini artisticamente decorati in modo che la porta acquistasse un aspetto gradevole, probabilmente lo faceva per Arthur Stuart; forse, senza neppure rendersene conto, si diceva che se la maestra avesse avuto un posto grazioso e confortevole in cui abitare, sarebbe stata più disposta a dare ad Arthur Stuart le famose lezioni private.

Il lavoro era finito, e Alvin avrebbe potuto riposarsi. Ma non fu così. Mise in una carriola la serratura e i cardini assieme agli attrezzi di cui pensava di aver bisogno e a un po’ di lamiera di scarto per la guaina del comignolo, e spinse il tutto fino al deposito. Lavorò in fretta, e quasi senza accorgersene usò il suo dono per accelerare i tempi. Tutte le misure tornavano senza bisogno di adattamenti; i battenti della porta chiudevano alla perfezione; la serratura si adattava esattamente alla parte interna della porta, ed era imbullonata in modo tanto solido che niente e nessuno avrebbero mai potuto scassinarla. Era pressoché impossibile forzare quella porta… Sarebbe stato più facile sfondare le pareti di tronchi a colpi d’ascia. E con i talismani incisi all’interno della serratura, nessun essere umano avrebbe mai osato alzare la sua scure contro quella casa; comunque, se l’avesse fatto, sarebbe stato troppo debole per assestare il colpo. Erano talismani, quelli, che neanche un Rosso avrebbe preso alla leggera.

Alvin fece un altro viaggio al capanno accanto alla fucina e, tra le vecchie stufe panciute che Makepeace aveva comprato a prezzo di rottame, scelse quella in migliori condizioni. Caricarsi addosso una stufa completa non era facile neanche per un uomo forte come un fabbro, ma la carriola sicuramente non era in grado di sostenere un simile carico. Perciò Alvin la portò di peso fino in cima alla salita. Dopo averla deposta fuori della porta, andò a cercare nel letto del ruscello le pietre per costruire una base sotto le tavole del pavimento nel punto in cui avrebbe collocato la stufa. Le tavole erano inchiodate su una serie di travi che correvano per l’intera lunghezza della casa; la striscia sotto la quale una volta scorreva il ruscello tuttavia era rimasta scoperta. A suo tempo, infatti, non avrebbe avuto senso ricoprirla, giacché quella costruzione doveva servire a tenere in fresco il latte e il burro. Alvin costruì una solida base di pietra sotto un angolo a monte, e poi imbullonò alle tavole alcune sottili lastre di ferro battuto in modo da creare un piano a prova di fuoco. Quindi collocò la stufa al suo posto e sistemò i tubi fino al buco che aveva praticato nel soffitto.

Ad Arthur Stuart assegnò l’incarico di rimuovere con una raspa il muschio secco che ricopriva le pareti all’interno del deposito. Il muschio si staccava con facilità, ma lo scopo del lavoro era tenere impegnato Arthur in modo che non vedesse come, nel riparare la vecchia stufa, Alvin facesse cose impossibili per una persona normale. Poco dopo la stufa era tornata come nuova, con tutte le cerniere perfettamente funzionanti.

«Ho fame» disse Arthur Stuart.

«Vai da Gertie e spiegale che stasera lavoro fino a tardi, e se per favore può preparare qualcosa per tutti e due, visto che sei qui ad aiutarmi.»

Arthur Stuart partì a gambe levate. Alvin sapeva che avrebbe riferito il messaggio parola per parola e con la stessa voce di Alvin, cosicché Gertie sarebbe scoppiata a ridere e gli avrebbe messo nel paniere una cena succulenta e abbondante. Così abbondante che probabilmente Arthur avrebbe dovuto fermarsi a riposare tre o quattro volte lungo il tragitto.

Nel frattempo, di Makepeace Smith non si era vista neppure l’ombra.

Quando Arthur Stuart fu di ritorno, Alvin era sul tetto a dare gli ultimi tocchi al comignolo e, già che c’era, a fissare qualche tegola. La guaina di lamiera tornava così a pennello che in quella casa non sarebbe mai penetrata una sola goccia d’acqua. Arthur Stuart lo attendeva di sotto e lo osservava in silenzio: non gli aveva chiesto né se poteva cominciare a mangiare, né quanto tempo gli mancava a finire; non era il tipo di bambino che piagnucola e si lamenta. Quando Alvin ebbe terminato, si calò dal tetto, restò aggrappato per un attimo al bordo della grondaia, quindi si lasciò cadere a terra.

«Il pollo freddo è quel che ci vuole dopo una calda giornata di lavoro» disse Arthur Stuart con una voce che era esattamente quella di Gertie Smith, solo più acuta e infantile.

Alvin gli sorrise e scoprì il cestino. Si gettarono sul cibo con la voracità di due marinai rimasti a razioni ridotte per metà del viaggio, e in breve si ritrovarono entrambi distesi sulla schiena con la pancia piena, e si misero a guardare le nuvolette bianche che percorrevano placidamente il cielo azzurro come vacche al pascolo.

A ovest il sole scendeva ormai verso l’orizzonte. Era proprio arrivato il momento di chiudere bottega, per quel giorno, ma Alvin non si sentiva ancora soddisfatto. «Sarà meglio che tu vada» disse ad Arthur. «Forse, se riporti il cesto vuoto a Gertie Smith e poi torni subito a casa, tua madre non si arrabbierà troppo con te.»

«E tu che fai?»

«Devo risistemare le finestre.»

«E io devo finire di dare la raspa alle pareti» ribatté Arthur Stuart.

Alvin sorrise, ma sapeva che ciò che voleva fare a quelle finestre non era qualcosa per cui avrebbe gradito la presenza di testimoni. Non aveva intenzione di perder tempo con i lavori di carpenteria, e quando usava il suo dono per fare qualcosa di evidente, di solito non permetteva a nessuno di guardarlo. «È meglio che tu vada a casa, adesso» ribadì.

Arthur sospirò.

«Mi sei stato di grande aiuto, ma non voglio farti passare dei guai.»

Con grande sorpresa di Alvin, Arthur si limitò a ripetere le sue parole con lo stesso tono di voce: «Mi sei stato di grande aiuto, ma non voglio farti passare dei guai».

«È la verità» mormorò Alvin.

Arthur Stuart si girò, poi si avvicinò ad Alvin e gli salì a cavalcioni sulla pancia; era una cosa che faceva spesso, ma in quel momento per Alvin non risultò del tutto gradevole, visto che la sua pancia adesso conteneva un pollo e mezzo.

«Smettila, Arthur Stuart» disse Alvin.

«Del pettirosso non ho mai detto nulla a nessuno, però» esclamò il ragazzino.

A quelle parole Alvin sentì un brivido percorrergli la schiena. In qualche modo si era immaginato che quel giorno, più di tre anni prima, Arthur Stuart fosse troppo piccolo per ricordare davvero quel che era successo. Ma Alvin avrebbe dovuto sapere che, se Arthur Stuart non parlava di una cosa, questo non significava che l’avesse dimenticata. Arthur Stuart non dimenticava mai niente, nemmeno il passaggio di un bruco su una foglia.

Se Arthur Stuart ricordava il pettirosso, allora sicuramente ricordava anche quel giorno in cui in piena estate si era messo a nevicare, il giorno in cui Alvin aveva fatto ricorso al suo dono per scavare un pozzo e ripulire dal terriccio un lastrone di pietra senza bisogno di usare le mani. E se Arthur Stuart era a conoscenza del dono di Alvin, allora che significato avevano tanti sotterfugi?

«Benissimo, allora» disse Alvin. «Aiutami a risistemare le finestre.» Avrebbe voluto quasi aggiungere: «…A patto che tu non vada a raccontarlo ad anima viva». Ma Arthur Stuart l’aveva già capito. Era una di quelle cose che capiva al volo.

Finirono prima che facesse buio. Alvin modellò il legno delle finestre a mani nude, dando forma a quello che era semplicemente legno inchiodato al legno fino a trasformarlo in una finestra capace di scorrere liberamente su e giù. Sui fianchi del telaio praticò alcuni piccoli buchi, e poi intagliò dei cavicchi di legno da infilarci dentro, in modo che la finestra potesse restare aperta o chiusa a piacere. Naturalmente non perse tempo a intagliare il legno come una persona normale, visto che ogni passata del coltello portava via un truciolo dalla perfetta forma ad arco. Ogni cavicchio richiese circa sei passate.

Nel frattempo Arthur Stuart aveva finito di ripulire le pareti, e poi spazzarono insieme il pavimento: con la scopa, si capisce, ma Alvin fece ricorso al suo dono affinché ogni granello di segatura o di limatura di ferro, ogni frammento di muschio e ogni bioccolo di polvere finissero fuori della soglia. L’unica cosa che non fecero fu ricoprire la striscia di terra che attraversava il pavimento del deposito, dove una volta scorreva il ruscello. Per far questo si sarebbe dovuto abbattere un albero per ricavarne delle tavole, e del resto Alvin cominciava a sentirsi un po’ impaurito, vedendo quante cose aveva fatto in così poco tempo. E se in quel momento fosse arrivato qualcuno e avesse capito che tutto quel lavoro era stato fatto in un solo lungo pomeriggio? Ci sarebbero state domande. Sarebbero nati sospetti.

«Non dire a nessuno che tutto questo l’abbiamo fatto in una sola giornata» disse Alvin.

Arthur Stuart si limitò a sorridere. Aveva appena perso uno degl’incisivi superiori, per cui c’era un punto in cui si scorgeva la gengiva rosea. Rosea come quella di un Bianco, pensò Alvin. In bocca non è diverso da un Bianco. Poi Alvin ebbe l’idea pazzesca di Dio che prendeva tutte le persone morte di questo mondo, le spellava e poi appendeva i loro cadaveri come porci in una macelleria, solo carne e ossa appese lì per i talloni, senza più nemmeno interiora e teste, solo carne. E poi Dio chiedeva a gente come quella del comitato scolastico di Hatrack d’indovinare quali fra tutti quei corpi appartenessero a un Nero, a un Rosso o a un Bianco. E loro non ci riuscivano. Allora Dio diceva: «Dunque, perché diavolo vi è saltato in mente che questo e questo e questo non potessero andare a scuola, mentre questo e questo e questo sì?» Che cosa avrebbero potuto rispondergli? Poi Dio diceva: «Anche voi sotto la pelle non siete che pezzi di carne cruda. Ma per me ha un pessimo sapore, per cui le vostre bistecche le getterò in pasto ai cani».

L’idea era così divertente che Alvin non poté fare a meno di raccontare tutto ad Arthur Stuart, il quale rise fino alle lacrime insieme ad Alvin. Solo dopo aver riso, ad Alvin tornò in mente che forse nessuno aveva spiegato al ragazzino che sua madre aveva cercato d’iscriverlo a scuola e il comitato scolastico l’aveva respinto. «Ma tu lo sai di che si tratta?»

Arthur Stuart non capì la domanda, o forse la capì meglio dello stesso Alvin. Fatto sta che rispose: «La mamma spera che la nuova maestra m’insegni a leggere e a scrivere qui nel deposito sulla sorgente».

«Proprio così» annuì Alvin. Dunque non avrebbe avuto senso parlargli della scuola. O Arthur Stuart sapeva già che cosa pensassero dei Neri alcuni Bianchi, o l’avrebbe scoperto da solo fin troppo presto senza bisogno che Alvin andasse a dirglielo.

«Siamo tutti dei pezzi di carne cruda» disse Arthur Stuart. Stavolta usò una voce strana, che Alvin non aveva mai udito.

«E questa che voce sarebbe?» chiese.

«Dio, si capisce» spiegò Arthur Stuart.

«Ottima imitazione» disse Alvin. Naturalmente il suo voleva essere solo un commento scherzoso.

«Certo che lo è» ribadì Arthur Stuart, in tutta serietà.


In realtà, nessuno salì al deposito sulla sorgente fino al lunedì della settimana successiva, quando Horace fece il suo ingresso nella fucina. Era mattina presto, un momento in cui era più facile trovare Makepeace intento a «insegnare» ad Alvin qualcosa che quest’ultimo sapeva già fare alla perfezione.

«Il mio capo d’opera era un’ancora da nave» stava dicendo Makepeace. «Naturalmente è successo a Newport, prima che mi trasferissi qui all’Ovest. Quelle navi, quelle baleniere, non sono roba da poco come le vostre casette o i vostri carri. Laggiù, quando si lavora il ferro, si fa sul serio. Un ragazzo come te può cavarsela egregiamente da queste parti dove nessuno ha mai visto niente, ma laggiù non combineresti nulla, perché laggiù un fabbro dev’essere un uomo.»

Alvin era abituato a quei discorsi. Li lasciava correre e basta. Però fu contento di vedere Horace arrivare alla fucina, ponendo così fine alle vanterie di Makepeace.

Dopo i saluti e i convenevoli di rito, Horace giunse al sodo. «Sono venuto a vedere se avevate cominciato a far qualcosa per il deposito sulla sorgente.»

Makepeace alzò un sopracciglio e guardò Alvin. Quest’ultimo si rese conto soltanto in quel momento che di quella commissione non aveva ancora fatto parola al suo padrone.

«Già fatto, signore» disse Alvin rivolgendosi a Makepeace… Come se la domanda inespressa di Makepeace fosse stata: «Hai finito?» e non: «Di che lavoro sta parlando?»

«Fatto?» chiese Horace.

Alvin si rivolse direttamente a lui. «Credevo che foste già stato lassù. Mi è sembrato che aveste fretta, perciò l’ho portato avanti nel mio tempo libero.»

«Be’, andiamo a vedere» esclamò Horace. «Venendo qui non mi era nemmeno venuto in mente di dare un’occhiata.»

«Sì, anch’io non sto nella pelle di vederlo, questo lavoro» approvò il fabbro.

«Io resto qui a lavorare» disse Alvin.

«No» fece Makepeace. «Tu invece vieni con noi per farci vedere che cosa sei stato capace di fare nel tuo tempo libero.» Nervoso com’era all’idea di mostrare a quei due il suo lavoro al deposito sulla sorgente, Alvin non fece caso al tono enfatico in cui Makepeace aveva pronunciato le ultime due parole. Per lui era già abbastanza essersi ricordato di mettersi in tasca le chiavi della nuova serratura.

In breve tempo giunsero al deposito. Horace era il tipo d’uomo che non esitava a complimentarsi per un lavoro ben fatto, e così fece anche quella volta. Sfiorò con le dita i nuovi cardini decorati, e ammirò la serratura prima d’infilarvi la chiave. Con grande soddisfazione di Alvin, questa girò senza intoppi. La porta si aprì silenziosamente. Se Horace si era accorto della presenza dei talismani, non lo diede a vedere. Erano altre cose quelle che attiravano la sua attenzione, non la magia.

«Guarda, hai ripulito anche le pareti» esclamò Horace.

«È stato Arthur Stuart» chiarì Alvin. «Le ha ripassate tutte con la raspa.»

«E la stufa… Ascolta, Makepeace, francamente non avevo pensato anche di comprare una stufa nuova.»

«Non è nuova» intervenne Alvin. «Voglio dire, forse non dovevo, ma era una vecchia stufa che tenevamo lì come rottame, e quando l’ho guardata bene ho visto che si poteva ancora aggiustare, e allora perché non metterla qui?»

Makepeace lanciò ad Alvin una occhiata gelida, poi si rivolse di nuovo a Horace. «Questo non significa che sia gratis, naturalmente.»

«Certo che no» disse Horace. «Se l’avevi comprata a prezzo di rottame, però…»

«Oh, sul prezzo vedrai che ci troveremo d’accordo.»

Horace ammirò la giunzione tra il tubo e il soffitto. «Un lavoro perfetto» commentò. Si voltò. Ad Alvin parve un po’ triste, o forse solo rassegnato. «Dovremo ricoprire il resto del pavimento, naturalmente.»

«Di questo genere di lavori noi non ci occupiamo» precisò Makepeace Smith.

«Stavo solo parlando tra me e me, non preoccuparti.» Horace si avvicinò alla finestra di levante, la spinse con le dita, poi la sollevò. Trovò i cavicchi sul davanzale, l’infilò nel terzo buco da una parte e dall’altra, quindi lasciò andare il telaio che scivolò verso il basso fino ad arrestarsi contro i cavicchi. Guardò i cavicchi, poi fuori dalla finestra, poi di nuovo i cavicchi, molto a lungo. Alvin dentro di sé tremava all’idea di dover spiegare come avesse fatto, lui che non era mai stato a bottega da un falegname, a costruire una finestra così precisa. Peggio ancora, che cosa sarebbe successo se Horace avesse intuito che si trattava della finestra originale, e non di una nuova? Una cosa del genere si poteva spiegare soltanto con il dono di Alvin… Nessun falegname avrebbe saputo entrare nel legno di una finestra fissa per ritagliarne una scorrevole.

Ma Horace si limitò a dire: «Hai fatto anche qualche lavoretto in più».

«Mi è sembrato che ce ne fosse bisogno» spiegò Alvin. Se Horace non gli chiedeva come avesse fatto, lui era ben felice di non dirglielo.

«Non pensavo che il lavoro potesse essere finito così in fretta» rifletté Horace. «Né che tu facessi tante cose. La serratura ha l’aria di costare un occhio, e la stufa… Spero soltanto di non dover pagare tutto in una volta.»

Alvin stava per dire che non avrebbe dovuto pagare neanche un centesimo, ma naturalmente non sarebbe stato il caso. Una decisione del genere spettava a Makepeace Smith.

Ma quando Horace si voltò in cerca di una risposta, non si rivolse a Makepeace Smith, bensì guardò Alvin diritto negli occhi. «Se Makepeace Smith fa pagare il tuo lavoro a prezzo intero, anch’io immagino di non poterti pagare di meno.»

Solo allora Alvin si rese conto di aver commesso un errore affermando di aver portato a termine quel lavoro nel suo tempo libero, perché tutto ciò che un apprendista faceva fuori delle ore di lavoro ufficiali veniva pagato direttamente a lui, e non al padrone. Makepeace Smith non aveva mai concesso ad Alvin del tempo libero: se qualcuno voleva qualcosa, Makepeace ordinava ad Alvin di farlo, e questo era un suo diritto, previsto nel contratto di apprendistato. Tuttavia, siccome Alvin aveva parlato di tempo libero, ora sembrava che Makepeace l’avesse autorizzato a lavorare anche per conto proprio.

«Signore, io…»

Makepeace intervenne prima che il ragazzo potesse spiegare l’equivoco. «Pagarlo a prezzo intero non sarebbe giusto» disse. «Visto che Alvin era così vicino al termine del suo contratto ho pensato che avrebbe dovuto cominciare a fare esperienza per conto proprio, anche per imparare a maneggiare il denaro. Ma anche se a te il lavoro può sembrare ben fatto, a me pare senz’altro scadente. Perciò possiamo accordarci sulla metà del prezzo normale. Per fare tutto questo penso che ci saranno volute una ventina di ore… Eh, Alvin?»

Più probabile che fossero state dieci, ma Alvin si limitò ad annuire. Non avrebbe saputo comunque che cosa obiettare, visto che il suo padrone evidentemente non aveva intenzione di dire la verità. E a un fabbro senza i poteri segreti di Alvin quel lavoro avrebbe richiesto almeno venti ore, cioè due giornate complete di lavoro.

«Perciò» continuò Makepeace «tra il lavoro di Alvin a metà prezzo, il costo della stufa, del ferro e tutto il resto… Be’, facciamo quindici dollari.»

Horace fischiò dondolandosi sui talloni.

«Il mio lavoro potete averlo gratis. A me basta l’esperienza» disse Alvin.

Makepeace gli lanciò uno sguardo di fuoco.

«Nemmeno per idea» protestò Horace. «Il Salvatore ha detto che ogni lavoratore deve ricevere una giusta mercede. È l’improvviso aumento del prezzo del ferro che mi lascia un po’ perplesso.»

«È una stufa» precisò Makepeace Smith.

Non lo era, finché non l’ho aggiustata, pensò Alvin.

«L’hai comprata come rottame» disse Horace. «Se vale lo stesso ragionamento che hai fatto a proposito del lavoro di Alvin, anche in questo caso pagarla a prezzo intero non sarebbe giusto.»

Makepeace sospirò. «In nome dei vecchi tempi, Horace, visto che sei stato tu a chiamarmi qui aiutandomi a mettere su bottega quando sono venuto all’Ovest diciott’anni fa… Nove dollari.»

Horace non sorrise ma annuì. «D’accordo. E siccome quando mandi Alvin a lavorare fuori di solito ti fai pagare quattro dollari al giorno, direi che le sue venti ore a metà prezzo vengono quattro dollari. Vieni stasera a casa mia, Alvin, e te li darò. In quanto a te, Makepeace, ti pagherò il resto quando avrò la locanda piena all’epoca del raccolto.»

«Mi pare giusto» acconsentì Makepeace.

«Sono contento di sapere che adesso lasci ad Alvin Un po’ di tempo libero» disse Horace. Un sacco di gente aveva cominciato a criticarti perché ti mostravi così rigido con un bravo apprendista, ma io ho sempre detto: Makepeace sta solo aspettando il momento giusto, aspettate e vedrete.»

«È vero» borbottò Makepeace. «Stavo solo aspettando il momento giusto.»

«Non ti dispiace, vero, se spargo la voce che il momento giusto è arrivato?»

«Alvin deve pur sempre lavorare per me» lo ammonì Makepeace.

Horace annuì con aria comprensiva. «Direi di sì» disse. «La mattina lavora per te, il pomeriggio per sé… non è così? La maggior parte dei padroni si comporta in questo modo quando l’apprendista è ormai sul punto di mettersi in proprio.»

Il viso di Makepeace cominciò a farsi di porpora. Alvin non ne fu sorpreso. Capiva fin troppo bene che cosa stava succedendo… Horace Guester si era messo dalla sua parte come un avvocato, sfruttando quell’occasione per far leva sull’amor proprio di Makepeace e costringerlo a trattare Alvin equamente per la prima volta in più di sei anni di apprendistato. Quando Makepeace aveva deciso di fingere che Alvin disponesse veramente di tempo libero, la porta si era schiusa di un pollice, e adesso Horace la stava spalancando a forza di spintoni. Costringere Makepeace a concedergli metà giornata, figuriamoci! Decisamente un boccone troppo grosso perché Makepeace riuscisse a inghiottirlo.

Ma Makepeace lo inghiottì. «Metà giornata mi sta bene. Era qualche tempo che ci stavo pensando.»

«Perciò nel pomeriggio adesso alla fucina ci starai tu, eh, Makepeace?»

Ah, Alvin fu costretto a guardare Horace con pura ammirazione. In questo modo Makepeace non avrebbe più potuto battere la fiacca, lasciando che fosse Alvin a mandare avanti la fucina.

«Quando lavoro è affar mio, Horace.»

«Be’, è tanto per far sapere alla gente quand’è che in bottega troverà il padrone, e quando l’apprendista.»

«Sarò qui tutto il giorno.»

«Ah, sono felice di saperlo» sorrise Horace. «Bene, proprio un bel lavoro, Alvin, non c’è che dire. Il tuo padrone ha tirato su un fabbro coi fiocchi, e tu sei stato ancor più preciso del solito. Vedi di passare da noi stasera per i quattro dollari.»

«Sissignore. Grazie, signore.»

«Adesso vi lascio al vostro lavoro» disse Horace. «Per la porta ci sono solo queste due chiavi, vero?»

«Sissignore» confermò Alvin. «Le ho oliate perché non si arrugginiscano.»

«E io le terrò oliate. Grazie per avermelo ricordato.»

Horace aprì la porta tenendola aperta con ostentazione finché Makepeace e Alvin non furono usciti a loro volta. Sotto i loro occhi, Horace chiuse accuratamente la porta a chiave. Poi si voltò verso Alvin e sorrise. «Forse il primo lavoro che ti affiderò sarà di fabbricare una serratura come questa per la mia porta d’ingresso.» Scoppiò in una risata e scosse la testa. «No, direi di no. Sono un locandiere. Il mio mestiere è lasciar entrare le persone, non tenerle fuori. Ma in città c’è gente cui questa serratura piacerà sicuramente.»

«Me lo auguro, signore. Grazie.»

Horace annuì di nuovo, poi guardò freddamente Makepeace come a dire: non dimenticare ciò che hai promesso oggi. Poi si avviò a lunghi passi sul sentiero che conduceva alla locanda.

Alvin si avviò a sua volta in direzione della fucina. Alle sue spalle udiva i passi di Makepeace, ma in quel momento una conversazione col suo padrone era l’ultima cosa che desiderava al mondo. Finché Makepeace non apriva bocca, ad Alvin stava più che bene.

Quel silenzio durò finché non si trovarono entrambi all’interno della fucina.

«Quella stufa era assolutamente irrecuperabile» disse Makepeace.

Era l’ultima cosa che Alvin si aspettava di udire, e quella che più gli faceva paura. Niente recriminazioni per avergli concesso del tempo libero; nessun tentativo di riprendersi quel che gli aveva promesso riguardo all’orario di lavoro. Makepeace Smith ricordava quella stufa meglio di quanto Alvin si fosse aspettato.

«Sì, sembrava piuttosto malridotta» mormorò Alvin.

«Non c’era modo di aggiustarla senza rifonderla» precisò Makepeace. «Se non avessi saputo che era impossibile, l’avrei riparata io stesso.»

«Lo pensavo anch’io» fece Alvin. «Ma quando l’ho guardata bene…»

L’espressione sul viso di Makepeace Smith lo costrinse a tacere. Alvin non ebbe più dubbi. Il padrone adesso sapeva ciò che il suo apprendista era in grado di fare. Alvin avvertiva nelle ossa la paura di essere scoperto; proprio come quando, da piccolo, giocava a nascondino insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle, laggiù a Vigor Church. Il momento peggiore era se eri l’ultimo, nessuno ti aveva ancora trovato e tu continuavi ad aspettare e aspettare finché non sentivi un rumore di passi: allora sentivi un pizzicore dappertutto, te lo sentivi in ogni parte del corpo, come se tutta la tua persona si fosse svegliata e avesse un tremendo bisogno di muoversi. Quel pizzicore diventava così insopportabile che avresti voluto saltare in piedi, gridando: «Eccomi qui! Sono qui!» per poi correre come una lepre, ma non verso la meta, correre da qualsiasi parte, semplicemente correre a perdifiato finché ogni muscolo del tuo corpo non avesse esaurito l’ultima briciola di forza e tu non fossi caduto a terra, esausto. Era una pazzia, e da simili pazzie non poteva venire niente di buono. Ma era così che uno si sentiva quando giocava con i suoi fratelli e le sue sorelle, ed era così che si sentiva Alvin, ritenendosi sul punto di essere scoperto.

Però, con sua grande sorpresa, sul volto di Makepeace si dipinse lentamente un sorriso. «Dunque è così» disse. «È proprio così. Ecco che cosa mi nascondevi. Tuo padre l’aveva detto, quando sei venuto al mondo: questo è il settimo figlio di un settimo figlio. Troppo bene ci sapevi fare, con i cavalli, e io me n’ero accorto. E quando hai scavato quel pozzo, trovando il punto giusto come un rabdomante. Anche di questo mi ero accorto. Ma ora…» Makepeace sorrise. «Ero convinto che tu fossi un fabbro nato, e adesso scopro che per tutto questo tempo me l’hai data a bere come un alchimista.»

«Non è vero» protestò Alvin.

«Ah, manterrò il tuo segreto, stanne certo» disse Makepeace. «Non lo racconterò ad anima viva.» Ma rideva in quella sua maniera ambigua, e Alvin capì che il suo padrone magari non l’avrebbe detto a chiare note, ma di allusioni ne avrebbe sparse eccome, di lì fino all’Hio. Tuttavia la cosa che impensieriva di più Alvin era un’altra.

«Signore» esordì. «Tutto il lavoro che ho fatto per voi l’ho sempre fatto onestamente, con le mie braccia e il mio ingegno.» Makepeace annuì con l’aria di chi la sa lunga, come se avesse colto nelle parole di Alvin qualche significato segreto. «Ho capito» annuì. «Con me il tuo segreto è al sicuro. Ma in fondo l’ho sempre sospettato. Non potevi essere quel gran fabbro che sembravi.»

Makepeace Smith non si rendeva conto di quanto fosse vicino alla morte. Alvin non era tipo da lasciarsi travolgere dall’istinto omicida; anche ammesso che fosse nato con qualche tendenza sanguinaria, una simile inclinazione sarebbe stata definitivamente cancellata dopo un certo giorno trascorso all’interno della Collina Ottagonale, quasi sette anni prima. Però, nei lunghi anni del suo apprendistato, non aveva mai udito da quell’uomo una sola parola di lode: sull’apprendista erano piovute soltanto lamentele a proposito della sua pigrizia e dei difetti del suo lavoro… Dunque per tutto quel tempo Makepeace Smith non aveva fatto altro che mentire, giacché sapeva benissimo che Alvin era davvero in gamba. Solo quando si era convinto che per i suoi lavori alla forgia Alvin avesse fatto ricorso a qualche potere segreto, solo allora Makepeace aveva ammesso la straordinaria bravura del ragazzo. Alvin lo sapeva, naturalmente, sapeva di essere un fabbro nato, ma non sentirselo mai dire ad alta voce gli aveva fatto più male di quanto egli stesso potesse rendersi conto. Il suo padrone non sapeva quanto avrebbe significato per lui una semplice parola di approvazione, che so, un: «Ottimo lavoro, ragazzo mio», oppure: «Ci sai fare sul serio». Ma Makepeace non aveva saputo dire niente del genere: aveva continuato a mentire e a fingere che Alvin non avesse alcun talento, finché non si era convinto che il talento di Alvin in realtà non aveva niente a che vedere con il mestiere del fabbro.

Alvin avrebbe voluto stendere il braccio, agguantare Makepeace per i capelli e sbattergli la testa sull’incudine con tanta forza che la verità s’imprimesse nel cranio e nel cervello di Makepeace. In questa fucina non ho mai usato i miei poteri di Creatore, pensò, non li ho usati finché non sono cresciuto abbastanza da lavorare il ferro da solo, ricorrendo soltanto alla forza e all’esperienza, perciò non sorridermi con quell’aria compiaciuta come se non fossi un vero fabbro, bensì una specie di ciarlatano. E poi, anche se avessi usato le mie arti di Creatore, credi davvero che sia così facile? Non sai che anche quelle arti ho dovuto pagarle a caro prezzo?

Tutta la furia di Alvin, tutti gli anni di schiavitù, tutti gli anni di rabbia per le ingiustizie cui era stato assoggettato dal suo padrone, tutti gli anni di sotterfugi e di misteri, il suo desiderio disperato di sapere che cosa fare della sua vita senza avere una persona sola al mondo cui chiederlo, tutto questo in Alvin divampava con una fiamma più rovente del fuoco della forgia. Ora il pizzicore e il formicolio che provava non erano più voglia di scappare. No, erano voglia di violenza, voglia di cancellare quel sorriso dalla faccia di Makepeace, di cancellarlo per sempre contro il corno dell’incudine.

Ma in qualche modo Alvin restò fermo, muto, immobile come un animale che cercasse di rendersi invisibile. E in quell’immobilità Alvin avvertì intorno a sé il canto verde, e lasciò che la vita della foresta si riversasse in lui, colmasse il suo cuore, gli portasse la pace. Il canto verde della foresta non era più forte come una volta, più a ovest, in tempi più selvaggi, quando l’uomo rosso univa ancora il suo canto a quella musica. Ora era più debole, e talvolta veniva quasi soffocato dal fragore disarmonico della vita cittadina, o dalla vibrazione monotona dei campi ben curati. Tuttavia, se ne aveva bisogno, Alvin riusciva ancora a udire quel canto, e cantare insieme a esso, e lasciare che s’impossessasse di lui e placasse il suo cuore.

Makepeace Smith sapeva di essere così vicino alla morte? Se fossero venuti alle mani, infatti, non avrebbe certamente potuto tener testa al suo apprendista, molto più giovane e alto di lui e con il cuore infiammato dall’ira. Che Makepeace intuisse il pericolo oppure no, fatto sta che il sorrisetto scomparve dal suo volto, ed egli annuì solennemente. «Manterrò tutto quello che ho detto lassù al deposito, anche se Horace si è approfittato della situazione. So che probabilmente sei stato tu a mettergli la pulce nell’orecchio, ma sono un uomo giusto, per cui ti perdonerò, a patto che tu continui a darmi una mano fino alla scadenza del tuo contratto.»

L’accusa di aver cospirato con Horace avrebbe dovuto rinfocolare l’ira di Alvin, ma ormai il canto verde lo possedeva, cosicché in realtà adesso non si trovava nemmeno più nella fucina. Era in quella sorta di trance in cui aveva imparato a entrare correndo con i Rossi di Ta-Kumsaw, uno stato in cui ti dimentichi chi sei e dove ti trovi, e il tuo corpo è soltanto una creatura che corre nei boschi in lontananza.

Makepeace restò in attesa di una risposta, ma questa tardava. Perciò il fabbro si limitò ad annuire con aria saputa e fece per andarsene. «Devo sbrigare una faccenda in città» borbottò. «Vedi di non battere la fiacca.» Fatto qualche passo, si arrestò sull’ampia soglia, tornando a rivolgersi verso l’interno della fucina. «Già che ci sei, potresti anche riparare le altre stufe rotte che ci sono nel capanno» disse. E se ne andò.

Alvin rimase dov’era per molto tempo, senza fare il minimo movimento, addirittura inconsapevole di possedere un corpo capace di muoversi. Prima che tornasse in sé era ormai mezzogiorno passato. Il suo cuore era tranquillo, senza una sola scintilla di rabbia. Se ci avesse pensato, avrebbe saputo che quella rabbia sarebbe tornata a divampare, che in realtà continuava a covare sotto la cenere. Ma per il momento gli bastava aver recuperato la serenità. Il suo contratto sarebbe scaduto quella primavera, e poi lui se ne sarebbe andato.

Una sola cosa, però. Non gli venne mai in mente di fare ciò che Makepeace gli aveva chiesto, ossia di riparare quelle vecchie stufe. E, in quanto a Makepeace, nemmeno lui tornò più sulla questione. Il dono di Alvin non rientrava nel suo apprendistato, e in fondo Makepeace doveva averlo capito, doveva aver capito di non avere il diritto di dire al giovane Alvin che cosa doveva fare quando creava.


Qualche giorno più tardi, Alvin si trovò tra coloro che aiutavano a montare il nuovo pavimento del deposito. Horace lo prese da una parte per chiedergli come mai non fosse mai andato a ritirare i suoi quattro dollari.

Alvin non poteva dirgli tutta la verità, cioè che non avrebbe mai potuto accettare del denaro per ciò che faceva ricorrendo al suo dono. «Consideratelo un contributo per lo stipendio della nuova maestra» disse.

«Ma tu non hai proprietà sulle quali pagare le tasse» gli fece notare Horace «né figli da mandare a scuola.»

«Allora diciamo che voglio pagarvi per il pezzetto di terra in cui riposa il corpo di mio fratello, lassù dietro la locanda» insistette Alvin.

Horace annuì solennemente. «Quel debito, se mai c’è stato, è stato più che ripagato dal lavoro di tuo padre e dei tuoi fratelli diciassette anni fa, giovane Alvin, comunque rispetto il tuo desiderio di pagare la tua parte. Perciò stavolta possiamo considerarci in pari. Ma per qualsiasi altro lavoro che farai per me sarai pagato a salario intero, siamo intesi?»

«Sissignore» disse Alvin. «Grazie, signore.»

«Chiamami Horace, figliolo. Quando un uomo fatto mi chiama ‘signore’, mi sento vecchio.»

Poi si rimisero al lavoro, e nessuno fece ulteriori commenti sulle migliorie che il ragazzo aveva apportato al vecchio deposito. Ma una cosa Alvin non se la dimenticò: ciò che Horace aveva detto quando lui gli aveva proposto di considerare il suo compenso come un contributo per lo stipendio della maestra: «Ma tu non hai proprietà sulle quali pagare le tasse, né figli da mandare a scuola». Questa era la realtà, espressa in poche e semplici parole. Ed era anche il motivo per cui, sebbene Alvin fosse ormai cresciuto e Horace l’avesse definito «un uomo fatto», in realtà non era ancora un uomo, nemmeno ai suoi stessi occhi. Perché non aveva famiglia. Perché non aveva né casa né terra. Finché non le avesse avute, sarebbe rimasto solo un ragazzone. Un bambino come Arthur Stuart, solo più alto, con quella poca barba che gli spuntava dal mento quando non si rasava.

E proprio come Arthur Stuart, non aveva niente a che fare con la scuola. Era troppo vecchio. La scuola non era stata pensata per quelli come lui. E allora perché era così ansioso di vedere la nuova maestra? Perché quando pensava a lei si sentiva invadere dalla speranza? La maestra non sarebbe venuta per lui, eppure Alvin sapeva che tutto ciò che aveva fatto al deposito era stato per lei, come per maturare un credito nei suoi confronti, o forse per ringraziarla in anticipo di ciò che così disperatamente avrebbe desiderato da lei.

Insegnami, disse in silenzio. Ho un’Opera da compiere su questa terra, ma nessuno sa che cosa sia o come si possa compiere. Insegnami. Ecco che cosa voglio da te, Signora: voglio che tu mi aiuti a trovare la mia strada fino alle radici del mondo o alle radici di me stesso o al trono di Dio o al cuore del Distruttore, ovunque insomma si trovi il segreto della Creazione, così che io possa operare contro le nevi dell’inverno, o accendere una luce al sopraggiungere delle tenebre.

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