XVIII LE MANETTE

Si era all’inizio della primavera, un paio di mesi prima che Alvin compisse diciannove anni, quando Makepeace Smith andò da lui e gli disse: «Alvin, sarà bene che tu cominci a pensare al tuo saggio finale, che ne pensi?»

Alle orecchie di Alvin quelle parole suonarono melodiose quasi come il canto di un pettirosso, cosicché non riuscì nemmeno a parlare e si limitò ad annuire.

«Bene, che cosa pensi di fare?» chiese il suo padrone.

«Stavo pensando a un vomere» rispose Alvin.

«Ci vuole un sacco di ferro e uno stampo perfetto. Non è un lavoro facile. Mi stai chiedendo di rischiare un bel po’ di materiale, ragazzo.»

«Se non ci riesco, potete sempre rifonderlo.»

Poiché entrambi sapevano che Alvin aveva più o meno le stesse probabilità di fallire che d’imparare a volare, quelle erano in buona parte parole vuote: gli ultimi brandelli dell’antica finzione di Makepeace riguardo alla presunta incapacità di Alvin.

«Direi di sì» disse Makepeace. «Tu cerca solo di fare del tuo meglio, ragazzo. Duro ma non troppo fragile. Abbastanza pesante da mordere in profondità, ma abbastanza leggero da poter essere trainato. Abbastanza affilato da tagliare la terra, e abbastanza forte da farsi strada tra i sassi.»

«Sissignore.» Alvin conosceva a memoria le regole degli attrezzi da quando aveva dodici anni.

C’erano anche altre regole che Alvin intendeva rispettare. Doveva dimostrare a se stesso di essere un bravo fabbro, e non semplicemente un Creatore in erba, il che significava che non avrebbe fatto ricorso ai suoi poteri, bensì semplicemente alle qualità che ogni fabbro deve possedere: un buon occhio, la conoscenza del metallo nero, il vigore delle braccia e la destrezza delle mani.

Lavorare al pezzo che l’avrebbe innalzato alla condizione di libero artigiano significava che per tutto quel tempo non gli sarebbe stato assegnato nessun altro compito. Stavolta partì da zero, come si conviene a un bravo fabbro ambulante. Per lo stampo non si accontentò della solita argilla, ma risalì il corso dell’Hatrack in cerca di argilla bianca della migliore qualità, in modo che la superficie dello stampo fosse liscia e uniforme e conservasse la forma alla perfezione. Modellare lo stampo significava vedere le cose alla rovescia, ma Alvin aveva una particolare sensibilità per le forme. Picchiettò e carezzò l’argilla per adattarla all’armatura di legno, sempre considerando come i diversi pezzi dello stampo avrebbero dato al ferro la forma voluta. Poi mise a cuocere lo stampo finché non fu duro e asciutto, pronto ad accogliere il ferro.

Per il metallo, fece ricorso al mucchio del ferro di recupero, e poi lavorò di spazzola e lima per ripulirlo da ogni traccia di sporco e di ruggine. Per l’occasione raschiò anche l’interno del crogiuolo. Solo allora fu pronto alla fusione e alla gettata. Fece divampare il fuoco di carbonella azionando egli stesso il mantice, alzando e abbassando l’impugnatura come aveva fatto quand’era un apprendista alle prime armi. Alla fine nel crogiuolo il ferro era diventato bianco, e il calore del fuoco era tale che Alvin riusciva a malapena ad avvicinarsi. Tuttavia si avvicinò ugualmente, con le tenaglie in mano: sollevò il crogiuolo dal fuoco, lo portò fino allo stampo e lo inclinò. Il ferro sfrigolò in una cascata di scintille, ma lo stampo resisté egregiamente, senza deformarsi o creparsi per il calore.

Rimettere il crogiuolo sul fuoco. Far scivolare al loro posto le altre parti dello stampo. Con delicatezza, senza scosse né schizzi. Alvin aveva giudicato esattamente la quantità di ferro fuso necessaria; quando l’ultima parte della forma scivolò al suo posto, dal bordo ne trapelò solo una piccolissima parte, dalla quale si poteva capire che ne era stata versata una quantità sufficiente e che lo spreco era stato ridotto al minimo.

Aveva finito. Ora non restava che attendere che il ferro si raffreddasse, indurendosi. Il mattino dopo avrebbe visto che cosa aveva fabbricato.

E il mattino dopo Makepeace Smith avrebbe visto il vomere e l’avrebbe dichiarato uomo: un libero artigiano, autorizzato a lavorare a qualsiasi forgia, anche se non ancora pronto a prendere a sua volta degli apprendisti. Ma nel caso di Alvin… be’, quel livello egli l’aveva raggiunto già da anni. A Makepeace sarebbero mancate soltanto poche settimane perché Alvin completasse i sette anni al suo servizio. Era solo questo che aveva atteso, e non il vomere.

No, per Alvin la vera prova d’esame doveva ancora venire. Quando Makepeace avesse dichiarato che quel vomere era di suo gradimento, Alvin avrebbe fatto qualcosa di più.


«Lo trasformerò in oro» disse Alvin.

La signorina Larner inarcò un sopracciglio. «E poi? Che cosa racconterai alla gente di fronte a un vomere d’oro? Che l’hai trovato da qualche parte? Che casualmente ti ritrovavi tra le mani un po’ d’oro e hai pensato. ‘Guarda, è giusto quello che mi basta per fabbricare un vomere?’»

«Siete stata voi a dirmi che il Creatore è uno che riesce a trasformare il ferro in oro.»

«Sì, ma questo non significa che sia opportuno farlo davvero.» La signorina Larner uscì dal calore soffocante della fucina nell’aria stagnante del tardo pomeriggio. Faceva più fresco, ma non di molto: era la prima serata veramente afosa di quella primavera.

«Qualcosa di più dell’oro» disse Alvin. «O almeno non oro normale.»

«L’oro normale non ti basterebbe?»

«L’oro è morto. Come il ferro.»

«Non è morto. È semplicemente terra senza fuoco. Non è mai stato vivo, perciò non può essere morto.»

«Siete stata voi a dirmi che, se riuscivo a immaginarmi qualcosa, poi forse sarei riuscito a farlo esistere.»

«E tu sapresti immaginare un oro vivo?»

«Un vomere che solca la terra senza essere trainato dai buoi.»

La signorina Larner non disse nulla, ma gli occhi le scintillarono di gioia.

«Se riuscissi a creare una cosa del genere, signorina Larner, mi potreste considerare diplomato alla vostra scuola per Creatori?»

«Direi che non saresti più un apprendista.»

«Proprio come pensavo, signorina Larner. Libero artigiano e libero Creatore. Tutte e due le cose insieme, se ci riesco.»

«E ci riuscirai?»

Alvin annuì, poi alzò le spalle. «Penso di sì. Per via di quello che mi avete detto sugli atomi, a gennaio.»

«Credevo che tu avessi lasciato perdere.»

«Niente affatto. Me ne stavo lì e pensavo: come sarà qualcosa che non può essere diviso in pezzi ancora più piccoli? E poi ho pensato: ecco, finché di qualcosa si può dire che abbia delle dimensioni, quella cosa può essere divisa. Perciò l’atomo non è altro che un luogo, un punto, senza nessuna dimensione.»

«Il punto geometrico di Euclide.»

«Proprio così; solo che mi avevate detto che la geometria di Euclide era tutta immaginaria, mentre questa è reale.»

«Ma Alvin, se l’atomo non possiede dimensioni…»

«È quello che mi dicevo anch’io: se non ha dimensioni, allora non è niente. E invece non è vero. È un luogo. Quindi ho pensato: no, non è nemmeno un luogo… bensì ha un luogo. Non so se capite la differenza. L’atomo può trovarsi in un certo posto, in un puro punto geometrico come quello di cui parlavate, e al tempo stesso può muoversi. Un istante dopo può trovarsi da qualche altra parte. Perciò, vedete, non solo ha un luogo, ma anche un passato e un futuro. Ieri era lì, oggi è qui, domani sarà laggiù.»

«Ma una cosa del genere sarebbe fatta di nulla, Alvin.»

«Sì, di nulla. Ma questo non significa che non è qualcosa.»

«Che non sia qualcosa.»

«Sì, signorina Larner, la regola grammaticale la conosco, ma in questo momento non ci stavo pensando.»

«Non potrai dire di conoscere la grammatica finché non l’applicherai anche senza pensarci. Ma non importa.»

«Vedete, allora ho cominciato a pensare che, se l’atomo non aveva dimensioni, com’era possibile capire dove si trovava? Luce non ne emanava, perché non conteneva fuoco che potesse emanarne. Perciò sono arrivato a questa conclusione: immaginiamo per un momento che l’atomo non possieda dimensioni, bensì una qualche sorta di mente. Una specie di minuscolo frammento d’intelligenza, sufficiente a capire dove si trova. E l’unica capacità che ha è quella di spostarsi da qualche altra parte, e capire dove si trova in quel momento.»

«Com’è possibile una cosa del genere? Come può possedere una memoria qualcosa che neppure esiste?»

«Provate a pensarci! Mettiamo di avere migliaia di atomi che si muovono da tutte le parti. Com’è possibile che uno qualsiasi di loro sappia dove si trova? Poiché gli altri atomi si muovono in tutte le direzioni, niente di ciò che lo circonda in ogni dato momento resta uguale a se stesso. Ma allora immaginiamo che arrivi qualcuno — e in questo momento penso a Dio — qualcuno che sia in grado di mostrar loro un certo disegno. Un modo per star fermi. Mettiamo che dica: ‘Ehi, tu, mettiti al centro, e voialtri invece restate sempre alla stessa distanza’. Che cosa ne verrebbe fuori?»

La signorina Larner ci pensò su un istante. «Una sfera vuota. Una palla. Ma sarebbe ancora composta di niente, Alvin.»

«Ma non capite? Ecco che cosa mi ha dato la certezza della verità di ciò che avevo pensato. Voglio dire, se c’è una cosa che ho imparato, inviando la mia pulce qua e là, è che gli oggetti sono per la maggior parte fatti di vuoto. Quell’incudine sembra ben solida, no? Eppure vi assicuro che è per lo più fatta di vuoto. Sono solo tanti frammenti di ferro sospesi a una certa distanza uno dall’altro secondo un certo disegno. Ma la maggior parte dell’incudine è formata dallo spazio vuoto che sta fra l’uno e l’altro. Non capite? Quei frammenti si comportano proprio come gli atomi di cui stavamo parlando. Perciò mettiamo che l’incudine sia come una montagna, solo che, quando uno la vede da vicino, si accorge che la montagna è fatta di ciottoli. E quando prendi in mano quei ciottoli, ti si sbriciolano in mano, e vedi che sono fatti di polvere. E se si potesse prendere uno di quei granelli di polvere ci accorgeremmo che è fatto esattamente come la montagna, ossia di ciottoli ancora più piccoli.»

«Vorresti dire che quelli che vediamo come oggetti solidi non sono in realtà che illusioni? Minuscoli frammenti fatti di nulla che costituiscono minuscole sfere che a loro volta si compongono per formare i tuoi frammenti, e questi frammenti si compongono in pezzi, e questi pezzi formano l’incudine…»

«Solo che nel mezzo ci sono molti più passaggi, credo. Non capite che questo spiegherebbe tutto quanto? Il motivo, per esempio, per cui non devo far altro che immaginare una nuova forma o un nuovo disegno o un nuovo ordine, e costruirlo nella mia mente, e se lo penso in modo sufficientemente chiaro e solido, e ordino ai frammenti di trasformarsi… ebbene, si trasformano. Perché quei frammenti sono vivi. Possono essere piccolissimi e non troppo intelligenti, ma se lo mostro loro con sufficiente chiarezza, riescono a farlo.»

«Tutto questo è troppo strano per me, Alvin. Pensare che tutto quanto in realtà si riduca a nulla…»

«No, signorina Larner, non riuscite a capire la cosa fondamentale. La cosa fondamentale è che tutto è vivo. Che tutto è formato di atomi viventi, che obbediscono agli ordini ricevuti da Dio. E semplicemente obbedendo a quegli ordini, ebbene, alcuni di essi si trasformano in luce e calore, altri in ferro, altri in acqua, altri in aria, e altri ancora nella pelle e nelle ossa di cui siamo fatti noi. Tutte queste cose sono reali, e di conseguenza sono reali anche gli atomi.»

«Alvin, io ti ho parlato degli atomi perché mi sembrava una teoria interessante. I più grandi pensatori della nostra epoca però sono convinti che essi non esistano.»

«Vi chiedo scusa, signorina Larner, ma i più grandi pensatori non hanno mai visto le cose che ho visto io, perciò non sanno proprio un accidente. Per parte mia vi dico che è l’unica idea in base alla quale penso che si possa spiegare tutto, sia quello che vedo sia quello che faccio.»

«Ma questi atomi da dove vengono?»

«Non vengono da nessuna parte. Oppure in realtà vengono da tutte le parti. Forse esistono e basta. Sono sempre esistiti ed esisteranno in eterno. Non possono essere divisi. Non possono morire. Non si possono creare né distruggere. Sono eterni.»

«Allora non è stato Dio a creare il mondo.»

«Ma certo che è stato Dio. È stato Lui a collocare ciascun atomo in un certo posto in modo da sapere dove si trovava, e in modo che anche l’atomo stesso sapesse dove si trovava… e tutto ciò che esiste nell’universo è composto di quegli atomi.»

La signorina Larner rifletté molto, molto a lungo. Alvin la osservava in silenzio. Era tutto vero, ne era certo, o per lo meno più vero di qualsiasi altra cosa avesse udito o pensato fino a quel momento. A meno che lei non riuscisse a trovare qualche pecca nel suo ragionamento. Tante volte nel corso di quell’anno era accaduto che la signorina Larner mettesse in rilievo qualcosa che lui aveva dimenticato, qualche motivo per cui la sua idea non poteva funzionare. Perciò attese che la signorina Larner sollevasse un’obiezione. Qualcosa che non tornava.

Forse sarebbe successo proprio così. Tuttavia, mentre la signorina Larner rifletteva davanti alla fucina, entrambi udirono un rumore di zoccoli che risalivano al piccolo galoppo la strada di Hatrack. E naturalmente entrambi alzarono lo sguardo per vedere chi stesse arrivando così di fretta.

Erano lo sceriffo Pauley Wiseman e due uomini che Alvin non aveva mai visto prima d’allora. Dietro di loro sobbalzava la carrozza del dottor Physicker, a cassetta della quale c’era il vecchio Po Doggly. E non passarono oltre. Si fermarono proprio sulla curva davanti alla fucina.

«Signorina Larner» disse Pauley Wiseman. «Arthur Stuart è per caso da queste parti?»

«Perché me lo chiedete?» domandò lei. «Chi sono questi uomini?»

«È qui» annunciò uno degli uomini. Quello dai capelli bianchi. In mano aveva una minuscola scatola. Entrambi gli stranieri la guardarono, poi alzarono lo sguardo verso il deposito. «Lassù» indicò l’uomo dai capelli bianchi.

«Vi servono altre prove?» chiese Pauley Wiseman. Si era rivolto al dottor Physicker, che adesso era sceso dalla carrozza. Appariva sconvolto, con un’espressione di furia impotente.

«Cacciatori» mormorò la signorina Larner.

«Proprio così» disse l’uomo dai capelli bianchi. «E lassù si nasconde uno schiavo fuggiasco, signora.»

«Niente affatto» si oppose lei. «È un mio allievo, legalmente adottato da Horace e Margaret Guester…»

«Abbiamo una lettera del suo proprietario con la data di nascita, ed ecco qui il suo contrassegno. È proprio lui. Siamo Cacciatori giurati e certificati, signora. Ciò che catturiamo nessuno ce lo può togliere. Questa è la legge. Se v’intromettete, ostacolate il corso della giustizia.» L’uomo aveva parlato a bassa voce, con grande pacatezza e cortesia.

«Non dovete preoccuparvi, signorina Larner» disse il dottor Physicker. Ho già un’ordinanza del sindaco, e questa basterà a trattenerlo qui fino all’arrivo del giudice, domani.»

«Trattenerlo in prigione, si capisce» precisò Pauley Wiseman. «Meglio evitare che a qualcuno venga in mente di scappare con lui, nevvero?»

«Comunque non gli servirebbe a molto» disse il Cacciatore dai capelli bianchi. «Se a qualcuno venisse un’idea del genere, noi non faremmo altro che seguirlo. E a quel punto probabilmente spareremmo, come si spara a un ladro che fugge con un oggetto rubato.»

«Non avete nemmeno avvertito i Guester, immagino!» esclamò la signorina Larner.

«E come avrei potuto farlo?» disse il dottor Physicker. «Dovevo restare con loro, per assicurarmi che non se lo portassero via.»

«Noi rispettiamo la legge» affermò il Cacciatore dai capelli bianchi.

«Eccolo lì» gridò il Cacciatore dai capelli neri.

Arthur Stuart era in piedi sulla soglia del vecchio deposito.

«Resta dove sei, ragazzo!» urlò Pauley Wiseman. «Se muovi un dito, ti frusto fino a ridurti la pelle a brandelli!»

«Non avete nessun bisogno di minacciarlo» protestò la signorina Larner, ma non c’era più nessuno che potesse udirla perché tutti stavano risalendo di corsa il pendio.

«Non fategli male!» gridò il dottor Physicker.

«Se non scappa, nessuno gli farà niente» disse il Cacciatore dai capelli bianchi.

«Alvin» mormorò la signorina Larner. «Non farlo.»

«Non devono prendere Arthur Stuart…»

«Non devi usare i tuoi poteri in questo modo. Non per far del male a qualcuno.»

«Vi ho detto…»

«Pensaci bene, Alvin. Abbiamo tempo fino a domani. Forse il giudice…»

«Rinchiuderlo in prigione!»

«Se succedesse qualcosa ai Cacciatori, arriverebbe immediatamente la polizia federale per applicare il Trattato sugli Schiavi Fuggiaschi. Capisci? Non sarebbe un delitto di competenza locale come l’omicidio. Ti porterebbero negli Appalachi e là ti processerebbero.»

«Non posso starmene qui senza far nulla.»

«Corri ad avvertire i Guester.»

Alvin restò immobile per un istante. Se fosse dipeso da lui, avrebbe carbonizzato le mani a quei Cacciatori non appena si fossero provati a toccare Arthur. Ma il ragazzo era già in mezzo a loro, e le dita dei due Cacciatori gli stringevano le braccia come artigli. La signorina Larner aveva ragione. Dovevano trovare il modo di liberare Arthur una volta per tutte. Agire con precipitazione non avrebbe fatto che peggiorare le cose.

Alvin corse a casa dei Guester. La loro reazione lo sorprese. Pareva che avessero trascorso gli ultimi sette anni aspettandosi da un momento all’altro qualcosa del genere. La vecchia Peg e Horace si limitarono a scambiarsi un’occhiata, e senza dire una parola la vecchia Peg cominciò a fare i bagagli, impacchettando le sue cose e quelle di Arthur Stuart.

«Come mai prende anche i suoi vestiti?» chiese Alvin.

Horace sorrise amaramente. «Non ha nessuna intenzione di lasciare che Arthur Stuart trascorra una notte in prigione da solo. Perciò si farà rinchiudere insieme a lui.»

Non si poteva darle torto… Ma era strano pensare a gente come Arthur Stuart e la vecchia Peg Guester in prigione.

«E voi che avete intenzione di fare?» chiese Alvin.

«Caricare i fucili» spiegò Horace. «E, quando se ne saranno andati, seguirli.»

Alvin gli riferì quello che aveva detto la signorina Larner a proposito della polizia federale: sarebbe sicuramente arrivata non appena qualcuno avesse messo le mani su un Cacciatore.

«Qual è la cosa peggiore che possono farmi? Impiccarmi. Ti assicuro che preferisco essere impiccato piuttosto che continuare a vivere in questa casa dopo essermi lasciato portar via Arthur Stuart senza aver fatto nulla per impedirglielo. E posso farlo, Alvin. Diavolo, ragazzo, ai miei tempi avrò salvato almeno cinquanta schiavi fuggiaschi. Po Doggly e io andavamo a prenderli da questa parte del fiume e li facevamo arrivare fino in Canada. Succedeva in continuazione.»

Alvin non rimase affatto sorpreso nello scoprire che Horace Guester era un Emancipazionista, e non solo a parole.

«Ti dico questo, Alvin, perché ho bisogno del tuo aiuto. Io sono solo, e quelli sono in due. Non c’è nessun altro di cui possa fidarmi; con Po Doggly non faccio cose del genere da anni e anni, e non so più come lui la pensi. Ma tu… So che sai mantenere un segreto, e che vuoi bene ad Arthur Stuart non meno di mia moglie.»

Il modo in cui lo disse fece ad Alvin una strana impressione. «Perché, voi non gli volete bene, signore?»

Horace guardò Alvin come se quest’ultimo fosse impazzito. «Da questa casa nessuno porterà mai via con la forza un piccolo mulatto, Alvin.»

Goody Guester scese le scale con due borse di stoffa piene di vestiti. «Portami in città, Horace Guester.»

Sulla strada davanti alla locanda udirono passare un gruppo di cavalieri.

«Devono essere loro» mormorò Alvin.

«Non preoccuparti, Peg» fece Horace.

«Non preoccuparti, hai detto?» La vecchia Peg si rivoltò come una furia. «Questa storia può finire solo in due modi, Horace. O perdo mio figlio, ridotto in schiavitù al Sud, o quel pazzo di mio marito probabilmente si farà ammazzare cercando di salvarlo. Hai ragione, non devo preoccuparmi.» Poi scoppiò in lacrime e abbracciò Horace così forte che Alvin si sentì spezzare il cuore.

Alla fine fu Alvin a portare in città Goody Guester col carro della locanda. Quindi restò nell’ufficio dello sceriffo finché la vecchia Peg non ebbe convinto Pauley Wiseman a lasciarle trascorrere la notte in cella, anche se Wiseman le fece giurare sotto pena delle più tremende sventure che non avrebbe tentato di far scappare Arthur Stuart di prigione.

Mentre la conduceva verso la porta della cella, Pauley Wiseman disse: «Non dovete essere così agitata, Goody Guester. Il suo padrone è sicuramente un brav’uomo. Da queste parti la gente ha un’idea sbagliata della schiavitù».

La vecchia Peg si voltò di scatto. «Allora perché al suo posto non ci vai tu, Pauley? Così potrai verificare quant’è divertente.»

«Io?» Wiseman parve divertito. «Ma io sono Bianco, Goody Guester. La schiavitù non è la mia condizione naturale.»

Alvin fece sfuggire le chiavi di mano a Pauley Wiseman.

«Guarda un po’ che sbadato» disse lo sceriffo.

Il piede della vecchia Peg si posò con naturalezza sul mazzo di chiavi.

«Alzate immediatamente quel piede, Goody Guester» tuonò lo sceriffo «o v’incrimino non solo per resistenza alla forza pubblica, ma anche per complicità e connivenza.»

La vecchia Peg alzò il piede. Lo sceriffo aprì la porta della cella. La vecchia Peg entrò prendendo immediatamente tra le braccia Arthur Stuart. Alvin guardò Pauley-Wiseman chiudere la porta a chiave. Poi se ne tornò a casa.


Alvin spaccò lo stampo e spazzolò via l’argilla che ancora aderiva alla superficie del metallo. Il ferro era liscio e duro, e quel vomere era il migliore che Alvin avesse visto fino a quel momento. Lo sondò all’interno e non vi trovò difetti, per lo meno non così vistosi da pregiudicare la qualità del metallo. Quindi limò e spazzolò, spazzolò e limò finché la superficie non diventò perfettamente liscia, e il taglio così affilato da far pensare che non avrebbe sfigurato neanche su un bancone di macellaio. Allora lo sollevò, mettendolo in bella vista sul banco da lavoro. Poi sedette, in attesa, mentre il sole spuntava all’orizzonte e il resto del mondo si svegliava.

A tempo debito, Makepeace uscì di casa, entrò nella fucina ed esaminò accuratamente il vomere. Ma Alvin non se ne accorse, perché nel frattempo si era addormentato. Makepeace lo svegliò di quel tanto che bastava a farlo tornare a casa sulle sue gambe.

«Povero ragazzo» borbottò Gertie. «Mi sa che stanotte non ha chiuso occhio. Scommetto che è rimasto in bottega a lavorare a quello stupido vomere per tutta la notte.»

«Il vomere sembra a posto.»

«Il vomere sembra perfetto, scommetto, conoscendo Alvin.»

Makepeace fece una smorfia. «Che ne sai tu di lavori in ferro?»

«Conosco Alvin e conosco te.»

«Strano ragazzo. La sai una cosa, però? I lavori più belli li fa quando resta sveglio per tutta la notte.» Makepeace lo disse in tono quasi affettuoso. Ma Alvin si era ormai riaddormentato nel suo letto e non poté udirlo.

«È così affezionato a quel mulattino» mormorò Gertie. «Non c’è da stupirsi che non riuscisse a dormire.»

«Ora dorme» le fece notare Makepeace.

«Immagina Arthur Stuart ridotto in schiavitù, alla sua età poi!»

«La legge è legge» tagliò corto Makepeace. «Non posso dire che mi piaccia, ma bisogna adattarsi.»

«Tu e la legge» sbottò Gertie. «Sono contenta che non viviamo dall’altra parte dell’Hio, Makepeace, o penso proprio che al posto di un apprendista prenderesti volentieri qualche schiavo… Ammesso che tu sappia distinguere le due cose.»

Era una dichiarazione di guerra in piena regola, e i due sarebbero stati pronti a ingaggiare uno dei loro proverbiali litigi con urla, vestiti strappati e piatti rotti, sennonché in soffitta c’era Alvin che russava di gusto e di conseguenza si limitarono a scambiarsi un’occhiata da incenerire. Poiché tutti i loro litigi andavano a finire nello stesso modo, con gli stessi insulti dati e ricevuti e le stesse crudeltà fatte e subite, era come se quella volta si fossero stancati ancor prima di cominciare e si fossero detti: «Facciamo finta che io abbia detto tutte le cose che ti fanno più male al mondo e che tu abbia fatto lo stesso con me, e non pensiamoci più».

Alvin non dormì né a lungo né bene. La paura, la rabbia e l’eccitazione gl’impedivano di star fermo, o di abbandonarsi alla corrente dei sogni. Si svegliò sognando un vomere di ferro che si trasformava in oro. Si svegliò nuovamente sognando Arthur Stuart che veniva frustato. Si svegliò di nuovo sognando di puntare un fucile verso uno di quei Cacciatori e premere il grilletto. Si svegliò ancora una volta sognando di puntare il fucile verso un Cacciatore e non premere il grilletto, e poi guardarli mentre se ne andavano tirandosi dietro Arthur che strillava a perdifiato: «Alvin, dove sei? Alvin, non lasciare che mi portino via!»

«Svegliati o sta’ zitto!» gridò Gertie. «Mi spaventi i bambini.»

Alvin aprì gli occhi e si sporse dal bordo del soppalco. «Ma se i bambini non ci sono nemmeno.»

«Allora spaventi me. Non so cosa stavi sognando, ragazzo, però spero che un sogno del genere non capiti neanche al mio peggiore nemico… che stamattina si dà il caso sia mio marito, se vuoi sapere la verità.»

Sentendo ricordare Makepeace, Alvin si svegliò di colpo. Proprio così. S’infilò i calzoni, chiedendosi quando e come fosse finito sul soppalco, e chi gli avesse sfilato i calzoni e gli stivali. In quel breve volgere di tempo, Gertie era riuscita — non si sa come — a mettergli sul tavolo la colazione: pane di mais, formaggio e una cucchiaiata di melassa. «Non ho tempo di mangiare, signora» disse Alvin. «Mi spiace, ma devo…»

«Hai tutto il tempo che ti serve.»

«No, signora. Mi spiace…»

«Prendi il pane, allora, testone che non sei altro. Vorresti lavorare tutto il giorno a pancia vuota? Dopo aver dormito solo qualche ora? Figuriamoci, non è ancora mezzogiorno.»

Così Alvin scese alla fucina sbocconcellando il pane di mais. Sulla strada c’erano di nuovo la carrozza del dottor Physicker e i cavalli dei Cacciatori. Per un istante Alvin immaginò che fossero venuti perché Arthur Stuart in qualche modo era riuscito a scappare e i Cacciatori avevano perso le sue tracce, e…

No. Arthur Stuart era con loro.

«Buon giorno, Alvin» disse Makepeace. Si rivolse agli altri. «Ce ne devono essere pochi di padroni come me, che lasciano dormire il loro apprendista fin quasi a mezzogiorno.»

Alvin non fece quasi caso al fatto che Makepeace l’avesse in qualche modo rimproverato, dandogli per giunta dell’apprendista quando il pezzo che faceva di lui un libero artigiano se ne stava lì, finito, sul banco da lavoro. Per prima cosa si accovacciò davanti ad Arthur Stuart guardandolo negli occhi.

«Sta’ indietro» disse il Cacciatore dai capelli bianchi.

Alvin quasi non si accorse di lui. In realtà non stava guardando Arthur Stuart, almeno non con gli occhi. Stava esplorando il suo corpo cercando segni di percosse. Niente. Per adesso, almeno. Solo paura.

«Non ci avete ancora risposto» disse Pauley Wiseman. «Volete farle o no?»

Makepeace tossì. «Signori, una volta ho fabbricato un paio di manette, laggiù nella Nuova Inghilterra. Erano destinate a un uomo condannato per alto tradimento che doveva essere rimandato in Inghilterra in catene. Spero di non ridurmi mai a fabbricare un paio di manette per un bambino di sette anni che non ha mai fatto male a una mosca, un bambino che giocava nella mia fucina e…»

«Makepeace» lo interruppe Pauley Wiseman. «Sono stato io a dirgli che, se voi aveste fabbricato un paio di manette, non avrebbero avuto bisogno di usare questo.»

Wiseman sollevò il pesante collare di legno e ferro che fino a quel momento aveva tenuto penzoloni contro la gamba.

«È la legge» precisò il Cacciatore dai capelli bianchi. «Gli schiavi fuggiaschi li riportiamo a casa con quel collare, per mostrare agli altri ciò che li attende. Siccome è solo un bambino e a scappare non è stato lui, bensì sua madre, abbiamo acconsentito a usare le manette. Ma per noi non fa nessuna differenza. Manette o collare, ci pagano ugualmente.»

«Voi e il vostro maledetto Trattato sugli Schiavi Fuggiaschi!» esclamò Makepeace. «Usate quella legge per fare anche di noi degli schiavisti.»

«Le faccio io» intervenne Alvin.

Makepeace lo guardò inorridito. «Tu!»

«Sono meglio del collare» spiegò. Quello che non disse fu che non aveva nessuna intenzione di lasciare che Arthur Stuart portasse quelle manette per più di una notte. Guardò il ragazzino. «Vedrai che le mie manette non ti faranno male, Arthur Stuart.»

«Bravo» approvò Pauley Wiseman.

«Fa piacere vedere che da queste parti c’è qualcuno con un po’ di sale in zucca» disse il Cacciatore dai capelli bianchi.

Alvin lo guardò, cercando di dominare il proprio odio. Non ci riuscì sino in fondo. Il suo sputo andò a schiacciarsi nella polvere ai piedi del Cacciatore.

Il Cacciatore dai capelli neri aveva tutta l’aria di volergli saltare addosso, e ad Alvin non sarebbe affatto dispiaciuto venire alle mani e magari strofinargli la faccia nella polvere per un paio di minuti. Ma Pauley Wiseman balzò in mezzo a loro ed ebbe sufficiente buon senso da rivolgersi al Cacciatore dai capelli neri e non ad Alvin. «Dovete essere pazzo furioso a volervi battere con un fabbro. Guardate che braccia.»

«Non so se con me ce la farebbe» si vantò il Cacciatore.

«Voialtri dovete capirci» disse il Cacciatore dai capelli bianchi. «È il nostro dono. Non possiamo fare a meno di essere Cacciatori più di quanto…»

«Ci sono doni» intervenne Makepeace «con i quali sarebbe meglio morire in fasce, prima di crescere abbastanza da poterli usare.» Si rivolse ad Alvin. «Non ti permetto di usare la mia fucina per loro.»

«Non fate storie, Makepeace» lo ammonì Pauley Wiseman.

«Vi prego» disse il dottor Physicker. «Per il ragazzo è peggio.»

Suo malgrado, Makepeace fu costretto a cedere.

«Dammi le mani, Arthur Stuart» fece Alvin.

Alvin misurò i polsi di Arthur con un pezzo di spago. In verità non ne avrebbe avuto bisogno perché conosceva le sue misure per dritto e per rovescio, e avrebbe modellato il ferro in modo che quelle manette gli si adattassero ai polsi perfettamente, con i bordi bene arrotondati e non più pesanti dello stretto necessario. Arthur non avrebbe sofferto. Non in senso fisico, almeno.

In piedi nella fucina, tutti osservarono Alvin che si metteva al lavoro. Anche in seguito, nessuno di loro avrebbe mai visto qualcuno lavorare in maniera più perfetta e armoniosa. Stavolta il giovane fece ricorso ai suoi poteri, ma in modo che nessuno se ne accorgesse. Batté e piegò il ferro, tagliandolo con la massima precisione. Le due metà di ciascuna manetta avevano esattamente la forma del polso, in modo da non muoversi e non pizzicare la pelle. Nel frattempo Alvin pensava a tutte le volte che Arthur aveva azionato il mantice per lui, o semplicemente era stato lì a chiacchierare mentre lui lavorava. Non sarebbe successo mai più. Anche dopo averlo salvato, quella notte stessa, avrebbero dovuto portarlo in Canada o nasconderlo da qualche parte… Ma si può sfuggire a un Cacciatore?

«Ottimo lavoro» disse il Cacciatore dai capelli bianchi. «Non ho mai visto un fabbro lavorare così bene.»

Da un angolo buio della fucina Makepeace commentò: «Dovresti essere orgoglioso di te stesso, Alvin. Quelle manette potrebbero addirittura essere il tuo saggio finale, eh?»

Alvin si voltò nella sua direzione. «Il mio saggio finale è il vomere che si trova sul banco da lavoro, Makepeace.»

Era la prima volta che Alvin si rivolgeva al suo padrone col nome di battesimo: non avrebbe potuto trovare una maniera più eloquente per fargli capire che i tempi in cui Makepeace poteva trattarlo da apprendista erano ormai finiti.

Makepeace fece finta di nulla. «Sta’ attento a come parli, ragazzo! Il tuo pezzo finale è quello che dico io, e…»

«Su, figliolo, mettiamoci queste manette.» Il Cacciatore dai capelli bianchi non sembrava particolarmente interessato ai discorsi di Makepeace.

«Ancora no» disse Alvin.

«Sono pronte» fece il Cacciatore.

«Sono troppo calde» spiegò Alvin.

«Be’, buttale in quel secchio e falle raffreddare.»

«Se lo facessi, si deformerebbero leggermente e poi taglierebbero le braccia del ragazzo facendole sanguinare.»

Il Cacciatore dai capelli neri alzò gli occhi al cielo. Che gliene importava a quello se il mulattino sanguinava un po’?

Ma il Cacciatore dai capelli bianchi sapeva che, se non avessero aspettato, si sarebbero trovati tutti contro. «Non c’è fretta» disse. «Non ci vorrà molto.»

Si misero seduti e attesero, all’inizio senza dire una parola. Poi Pauley cominciò a chiacchierare del più e del meno, lo stesso fecero i Cacciatori, e persino il dottor Physicker si unì ai loro discorsi, facendo viaggiare la lingua a tutto spiano come se i due Cacciatori fossero due vecchie conoscenze. Forse pensavano che in quel modo i Cacciatori si sarebbero rabboniti e, una volta di là dal fiume, non avrebbero maltrattato il ragazzo. Alvin si costrinse a pensare che le cose stavano proprio così, in modo da non odiarli troppo.

E poi nella sua mente stava prendendo forma un’idea. Portare via Arthur Stuart ai Cacciatori quella notte stessa non sarebbe bastato… E se si fosse riusciti a fare in modo che i Cacciatori non lo ritrovassero più?

«Che c’è in quel contrassegno che usate voi Cacciatori?» chiese.

«Ti piacerebbe saperlo, eh?» fece il Cacciatore dai capelli neri.

«Non è un segreto» intervenne il Cacciatore dai capelli bianchi. «Chiunque possieda achiavi prepara una scatoletta come questa per ognuno di essi, non appena gli nasce o lo acquista. Frammenti di pelle, capelli, una goccia di sangue, cose del genere. Purché siano parte della sua stessa carne.»

«E voi riconoscete l’odore?»

«No, non è un odore. Noi non siamo segugi, signor Smith.»

Alvin capì che chiamarlo Smith era un atto di pura adulazione. Perciò sorrise appena, fingendo che gli facesse piacere.

«E allora a che vi serve?»

«Be’, è il nostro dono» disse il Cacciatore dai capelli bianchi. «Chi lo sa come funziona? Ci basta guardarlo e… è come se vedessimo la sagoma della persona che dobbiamo cercare.»

«No, non è proprio così» disse il Cacciatore dai capelli neri.

«Be’, per me è così.»

«Io invece so immediatamente dove si trova. Come se potessi vedere la sua anima. Se sono abbastanza vicino, naturalmente. L’anima dello schiavo che sto cercando diventa luminosa come il fuoco.» Il Cacciatore dai capelli neri sorrise. «Riesco a vederla da molto lontano.»

«Non potreste mostrarmi come fate?»

«Non c’è niente da mostrare» sbottò il Cacciatore dai capelli bianchi.

«Te lo farò vedere io, ragazzo» disse il Cacciatore dai capelli neri. «Adesso ti volto le spalle, e tu porta il bambino in giro per la fucina. Io te lo indicherò col dito sopra la spalla, e vedrai che non sbaglierò.»

«Piantala» disse il Cacciatore dai capelli bianchi.

«Tanto non abbiamo niente da fare, finché il ferro non si raffredda. Dammi il contrassegno.»

Il Cacciatore dai capelli neri fece esattamente ciò che si era vantato di saper fare: ogni volta indicò esattamente il punto in cui si trovava Arthur Stuart. Ma Alvin non vi fece particolarmente caso. Era occupatissimo a osservare il Cacciatore dall’interno, cercando di capire che cosa faceva, che cosa vedeva, e che rapporto c’era fra tutto quello e la scatoletta. Non riusciva davvero a capire come qualche frammento preso sette anni prima dal corpo di Arthur Stuart neonato potesse aiutarli a capire dove si trovava adesso.

Poi gli tornò in mente che proprio all’inizio il Cacciatore non l’aveva indicato affatto. Il dito era rimasto per qualche momento come sospeso in aria, e solo dopo quella pausa l’uomo aveva preso a indicare l’esatta posizione di Arthur Stuart. Come se avesse cercato di capire chi tra le persone che si trovavano alle sue spalle fosse precisamente Arthur Stuart. La scatoletta non serviva a cercare, bensì a riconoscere. Il dono dei Cacciatori permetteva loro di percepire la presenza di qualsiasi persona, ma senza scatoletta non sarebbero stati in grado di distinguere un individuo dall’altro.

Dunque ciò che essi vedevano non era la mente o l’anima di Arthur. Individuavano semplicemente un corpo, in nulla diverso da qualsiasi altro corpo finché non erano in grado di distinguerlo. Ma Alvin sapeva benissimo che cos’era a permetter loro di distinguerlo… non aveva forse guarito un numero sufficiente d’individui da sapere che le persone si somigliavano un po’ tutte, tranne per un piccolissimo frammento al centro di ogni pezzetto del loro organismo vivente? Quei minuscoli frammenti erano tutti uguali in ogni singola persona, ma diversi da una persona all’altra. Quasi che Dio avesse trovato quel modo per dare un nome a ciascuno già nelle sue stesse carni. Oppure era il marchio della Bestia, come si leggeva nel libro della Rivelazione. Ma non aveva importanza. Alvin sapeva che l’unica cosa contenuta in quella scatoletta che potesse collegarla al corpo di Arthur Stuart era la sigla che continuava a vivere in ogni — parte del suo corpo, perfino in quelle parti ormai morte e risecchite che si trovavano là dentro.

Posso cambiare quei frammenti, pensò Alvin. Sì, posso cambiarli trasformandoli in ogni parte del suo corpo. Come trasformare il ferro in oro. Come trasformare l’acqua in vino. E allora il contrassegno non funzionerebbe più. Non servirebbe più a nulla. Potrebbero cercare Arthur Stuart con tutto l’accanimento di cui sono capaci, ma, a parte vederlo in viso e riconoscerlo nel modo abituale, non avrebbero alcuna possibilità di trovarlo.

Soprattutto non ne capirebbero mai il perché. Il contrassegno nelle loro mani sarebbe esattamente lo stesso di prima, perché nessuno l’avrebbe toccato. Ma potrebbero cercare per mare e per terra, e non troverebbero mai un corpo che possa corrispondere ai frammenti conservati nella scatoletta, senza alcun indizio che possa metterli sulla strada giusta.

Lo farò, pensò Alvin. Troverò il modo di trasformarlo. Anche se nel suo corpo ci saranno sicuramente milioni di sigle, troverò il modo di cambiarle tutte una per una. Stanotte lo farò, e domani Arthur Stuart sarà al sicuro per sempre.

Il ferro si era raffreddato. Alvin s’inginocchiò davanti ad Arthur Stuart e gli applicò le manette: si adattavano tanto bene che parevano gettate in uno stampo preso direttamente sul polso di Arthur. Quando furono chiuse, unite da un tratto di catena a maglie sottili, Alvin guardò Arthur diritto negli occhi. «Non avere paura» disse.

Arthur Stuart non rispose.

«Non mi dimenticherò di te» mormorò Alvin.

«Certo» disse il Cacciatore dai capelli neri. «Ma nel caso che ti venga in mente di ricordarti di lui mentre è ancora in viaggio verso la casa del suo legittimo proprietario, è meglio che tu sappia fin d’ora che noi due dormiamo sempre a turno; inoltre, parte del nostro dono di Cacciatori consiste nel sapere sempre se si sta avvicinando qualcuno. Nessuno può avvicinarsi a noi di nascosto. Meno che mai tu, giovane fabbro. Ti vedrei a dieci miglia di distanza.»

Alvin si limitò a guardarlo. Alla fine il Cacciatore ghignò beffardamente e si allontanò. Arthur Stuart salì a cavallo davanti al Cacciatore dai capelli bianchi. Alvin tuttavia era certo che, non appena fossero giunti sull’altra sponda dell’Hio, l’avrebbero fatto scendere. Non tanto per cattiveria, forse… Ma per due Cacciatori non sarebbe stato il caso di mostrarsi gentili con uno schiavo fuggiasco. E poi bisognava dare un esempio agli altri schiavi, no? Facciamogli vedere un bambino di sette anni che segue a piedi due uomini a cavallo, con la testa china e i piedi sanguinanti, e ci penseranno due volte prima di tentare la fuga insieme ai loro figli. Capiranno che i Cacciatori non conoscono pietà.

Pauley Wiseman e il dottor Physicker se ne andarono insieme a loro. Avrebbero accompagnato i Cacciatori sino al fiume Hio e li avrebbero guardati attraversare il corso d’acqua, per accertarsi che non maltrattassero Arthur Stuart finché si trovava in territorio libero. Più di così non potevano fare.

Makepeace non aveva molto da dire, ma quel poco lo disse chiaramente. «Un vero uomo non avrebbe mai messo un paio di manette ai polsi di un amico» sibilò. «Adesso vado a casa e ti firmo la patente di libero artigiano. Non voglio vederti nella fucina o in casa una sola notte di più.» E se ne andò, lasciando Alvin solo davanti alla fucina.

Makepeace non se n’era andato da più di cinque minuti quando arrivò Horace Guester.

«Andiamo» lo incitò.

«No» rispose Alvin. «Non ancora. Possono vederci arrivare. Se capiscono di essere seguiti lo diranno allo sceriffo.»

«Non abbiamo scelta. Altrimenti li perderemo.»

«Horace, voi sapete qualcosa a proposito di quel che io sono e di ciò che posso fare» disse Alvin. «Anche in questo momento so dove si trovano. Non si allontaneranno più di un miglio dalla riva dell’Hio prima di cadere addormentati.»

«Puoi fare questo?»

«So che cosa succede dentro alle persone quando si addormentano. E posso farlo succedere dentro quei due non appena mettono piede nel territorio degli Appalachi.»

«Già che ci sei, perché non li ammazzi?»

«Non posso.»

«Quelli non sono esseri umani! Ucciderli non sarebbe peccato!»

«Sono esseri umani» gli fece notare Alvin. «E poi, se li ammazzassi, questo costituirebbe una violazione del Trattato sugli Schiavi Fuggiaschi.»

«Ti metti a fare l’avvocato, adesso?»

«Me l’ha spiegato la signorina Larner. Voglio dire che l’ha spiegato ad Arthur Stuart mentre c’ero anch’io. Arthur voleva sapere che cos’era. È successo l’autunno scorso. Lui le ha chiesto: «Se vengono a cercarmi i Cacciatori, come mai il mio papà non li può ammazzare?» E la signorina Larner gli ha spiegato che in questo modo sarebbero arrivati altri Cacciatori, solo che stavolta, prima di portarsi via Arthur Stuart, avrebbero impiccato voi.»

Il viso di Horace si fece di fiamma. Alvin sul momento non ne capì il motivo, finché Horace non glielo spiegò. «Non avrebbe dovuto chiamarmi ‘papà’. Non sono stato io a volerlo in casa mia.» Deglutì. «Ma aveva ragione. Se fossi convinto che possa servire a qualcosa, ammazzerei quei Cacciatori senza pensarci due volte.»

«Non parliamo più di ammazzare» disse Alvin. «Credo di poter sistemare le cose in modo che non lo ritrovino mai più.»

«Lo so. Lo porteremo in Canada. A cavallo fino al lago, e poi in barca.»

«Nossignore» lo fermò Alvin. «Penso di poter sistemare le cose in modo che non possano più trovarlo da nessuna parte. Dobbiamo soltanto nasconderlo finché non se ne saranno andati.»

«Dove?»

«Nel vecchio deposito, se la signorina Larner ce lo permette.»

«E perché proprio lì?»

«L’ho riempito di talismani protettivi dal tetto alle fondamenta. All’epoca credevo di farlo per la maestra. Ma adesso comincio a pensare che in realtà lo facevo per Arthur Stuart.»

Horace sorrise. «Sei proprio un fenomeno, lo sai?»

«Forse. Vorrei solo sapere dove mi porterà tutto questo.»

«Vado a chiedere alla signorina Larner se ci lascia usare la sua casa.»

«Se conosco la signorina Larner, vi dirà di sì prima che abbiate finito di chiederglielo.»

«Da dove cominciamo, allora?»

Udendo un uomo adulto chiedere a lui da dove cominciare, Alvin fu colto di sorpresa. «Non appena fa buio, direi. Non appena i Cacciatori si saranno addormentati.»

«Davvero puoi fare una cosa del genere?»

«Sì, se continuo a tenerli d’occhio. Insomma, non è proprio come tenerli d’occhio. Se mi mantengo in contatto con loro in modo da sapere dove si trovano. In modo da non far addormentare le persone sbagliate.»

«E li stai seguendo anche in questo momento?»

«So dove sono.»

«Continua a seguirli, allora.» Horace sembrava un po’ spaventato, quasi come quella volta, sette anni prima, quando Alvin gli aveva parlato della ragazza sepolta nella tomba senza nome. Spaventato perché sapeva che Alvin avrebbe potuto fare qualcosa di strano, qualcosa che andava oltre qualsiasi dono o talismano di cui Horace avesse mai fatto esperienza.

Non mi conosci, Horace? pensò il giovane. Non sai che sono sempre Alvin, il ragazzo per cui provavi simpatia, del quale ti fidavi, che tante volte hai aiutato? Se adesso scopri che sono più forte di quanto tu immaginassi, che posso agire in modi ai quali non avevi mai pensato, ciò non significa che per te io sia diventato più pericoloso di prima. Non c’è motivo di aver timore.

Come se Horace avesse potuto udire i suoi pensieri, la paura gradualmente scomparve dal suo viso. «Volevo solo dire… La vecchia Peg e io contiamo su di te. E ringraziamo Iddio che tu sia arrivato in questo posto, proprio nel momento in cui avevamo tanto bisogno di te. Il Signore ci protegge.» Horace sorrise, quindi si voltò e uscì dalla fucina.

Le parole di Horace infusero in Alvin una nuova forza. Adesso si sentiva tranquillo e sicuro di sé. Ma quello era proprio il dono di Horace, no? Presentare agli altri l’idea di se stessi che più li poteva rassicurare.

Alvin rivolse immediatamente i suoi pensieri ai Cacciatori, inviando nella loro direzione la sua pulce perché restasse insieme a loro e seguisse i due corpi mentre avanzavano come piccoli nembi neri attraverso il canto verde della foresta, con il piccolo canto di Arthur Stuart chiaro e luminoso in mezzo a loro. Bianco e Nero non hanno niente a che vedere con la luce o l’ombra racchiuse nel cuore di ciascuno, pensò Alvin. Le sue mani erano impegnate nel lavoro della forgia, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a prestarvi la necessaria attenzione. Non aveva mai seguito nessuno da così lontano… tranne quella volta che era stato salvato da poteri per lui incomprensibili, all’interno della Collina Ottagonale.

Ma il peggio sarebbe stato se li avesse perduti, se i Cacciatori fossero riusciti ad andarsene con Arthur Stuart perché Alvin non era stato abbastanza attento e aveva perso il ragazzo in mezzo alle anime derelitte di schiavi degli Appalachi e delle regioni più a meridione, in quel profondo Sud in cui tutti i Bianchi erano al servizio dell’altro Arthur Stuart, re d’Inghilterra, e di conseguenza i Neri erano schiavi di schiavi. Non posso perdere Arthur in un posto così orribile. Bisogna che gli resti vicino, come se fossimo uniti da un filo.

Più o meno nello stesso istante in cui pensava queste cose, quasi nello stesso momento in cui aveva immaginato un sottilissimo filo invisibile che lo collegava al piccolo mulatto, ebbene, quel filo comparve davanti a lui. Nell’aria c’era un filo, sottile come quello che si era immaginato la volta che cercava di capire gli atomi. Un filo che si estendeva in un’unica dimensione… la direzione che conduceva ad Arthur Stuart, unendo il suo cuore a quello di Alvin. Resta con lui, disse Alvin rivolgendosi al filo come se fosse dotato di vita propria. E in risposta il filo sembrò diventare più spesso e luminoso, e Alvin fu certo che chiunque l’avrebbe potuto vedere.

Però, quando Alvin lo guardò con gli occhi, il filo scomparve, riapparendo soltanto quando lo guardò senza ricorrere agli occhi. Alvin era assolutamente sbalordito all’idea che una cosa del genere potesse davvero esistere, una cosa creata non dal nulla, ma senza un disegno preordinato, tranne quello che si era formato un istante prima nella sua mente. Questa è una Creazione, pensò. La mia prima, sottile, invisibile Creazione… Tuttavia è reale, e stanotte mi condurrà da Arthur Stuart in modo che io lo possa liberare.


Dalla sua casetta, Peggy teneva d’occhio sia Alvin sia Arthur Stuart, facendo la spola dall’uno all’altro, cercando di scoprire qualche sentiero che conducesse Arthur alla libertà senza costare ad Alvin la morte o la prigionia. Per quanta cura profondesse in quell’indagine, non riusciva a trovare nessun sentiero del genere. I Cacciatori erano troppo forti con il loro terribile dono; in alcuni di quei sentieri, Alvin e Horace riuscivano a portar via Arthur, ma questi veniva immancabilmente ritrovato e catturato, al prezzo del sangue o della libertà di Alvin.

Perciò Peggy aveva quasi abbandonato ogni speranza quando Alvin creò quel suo filo pressoché inesistente. Solo allora, per la prima volta, Peggy scorse nella fiamma vitale di Arthur Stuart il lontanissimo bagliore di una possibile libertà. Esso era alimentato non dalla convinzione che il filo avrebbe condotto Alvin al ragazzo; su molti dei sentieri esplorati da Peggy prima che Alvin creasse il filo, lei lo aveva visto raggiungere i Cacciatori e farli piombare in un sonno profondo. No, la differenza stava proprio nel fatto che Alvin fosse riuscito a creare quel filo. Fino a quel momento le possibilità che ci riuscisse erano state così esigue che nessun sentiero l’aveva mostrato. O forse — era la prima volta che lei ci pensava — l’atto stesso del Creare costituiva una tale violazione dell’ordine naturale che il dono di Peggy non bastava a vedere i sentieri che dipendevano da un simile atto, almeno non prima che venisse compiuto.

Eppure al momento della nascita di Alvin, Peggy non aveva forse visto il suo glorioso futuro? Non gli aveva visto edificare una città fatta di vetro o di ghiaccio purissimo? Non aveva visto la sua città formicolare di persone che parlavano nelle lingue degli angeli e vedevano con gli occhi di Dio? Che Alvin diventasse un Creatore, questo era sempre stato probabile, ammesso naturalmente che riuscisse a sopravvivere. Ma ogni singolo atto di Creazione era talmente innaturale, talmente improbabile, che nemmeno una fiaccola straordinaria come Peggy era in grado di scorgerlo in anticipo.

Peggy vide Alvin far sprofondare nel sonno i due Cacciatori non appena fu scesa l’oscurità ed essi ebbero trovato un luogo adatto ad accamparsi sull’altra riva dell’Hio. Vide Alvin e Horace incontrarsi nella fucina prima di mettersi in cammino verso l’Hio passando per i boschi, per non correre il rischio d’incontrare lo sceriffo e il dottor Physicker di ritorno dalla Foce. Ma Peggy prestò loro scarsa attenzione. Ora che poteva sperare di nuovo, rivolse tutta la sua attenzione al futuro di Arthur, studiando come e quando quei nuovi angusti sentieri di libertà gettassero le loro radici nell’azione che Alvin e Horace stavano per intraprendere. Però non riuscì a trovare alcun momento preciso di scelta e cambiamento. Ai suoi occhi ciò dimostrava che tutto dipendeva dal fatto che Alvin diventasse un Creatore, sino in fondo, quella notte stessa.

«Oh Signore» mormorò «se sei stato Tu a far sì che quel ragazzo nascesse con un simile dono, Ti prego d’insegnargli a creare, adesso, stanotte.»


In piedi uno accanto all’altro sulla riva del fiume, nascosti dalle ombre, Alvin e Horace attesero il passaggio di un battello fluviale sfarzosamente illuminato. Sul battello suonava un’orchestrina, e sul ponte i passeggeri erano impegnati in una complicata quadriglia. Alvin si sentì invadere dalla rabbia nel vederli giocare come bambini mentre intanto un bambino vero veniva tradotto in schiavitù. Eppure sapeva che quelle persone non erano mosse da cattive intenzioni, e che non era giusto prendersela con chi si divertiva mentre qualcun altro stava soffrendo a sua insaputa. Altrimenti al mondo nessuno avrebbe potuto essere felice, pensò Alvin. Visto che la vita è quella che è, non esiste momento della giornata in cui non ci sia una moltitudine di persone costrette a soffrire per qualche motivo.

Il battello non era ancora scomparso dietro la curva del fiume che essi udirono nel bosco alle loro spalle un rumore assordante di rami spezzati. O meglio, Alvin udì quel rumore, e a lui parve assordante a causa del suo senso del giusto ordine delle cose nel canto verde della foresta. Horace lo sentì soltanto dopo qualche minuto. Chiunque si avvicinasse a loro, si muoveva ben silenziosamente per essere un Bianco.

«In questo momento sento proprio la mancanza di un fucile» sussurrò Horace.

Alvin scosse la testa. «Aspettiamo a dirlo» disse a voce tanto bassa che le labbra a malapena si mossero.

Attesero. Qualche istante dopo, videro un uomo uscire dal bosco e scendere cautamente il pendio viscido di fango sino alla sponda, a poche braccia dalla quale beccheggiava una barca a remi. Vedendo che non c’era nessuno si guardò intorno, quindi sospirò e, dopo essere salito in barca, andò a sedersi a poppa, con il mento tetramente posato sulle mani.

A un tratto Horace cominciò a ridacchiare. «Che il demonio possa giocare ai birilli con le mie ossa se quello non è il vecchio Po Doggly!»

Nello stesso istante, l’uomo sulla barca fece un movimento, e Alvin riuscì finalmente a scorgergli il viso illuminato dalla luna. Era proprio il cocchiere del dottor Physicker. Ma a Horace questo non parve dare il minimo fastidio, tant’è vero che si lanciò giù per la sponda scivolosa, entrò in acqua tra gli schizzi, e abbracciò Po Doggly con tanta violenza che la barca s’inclinò pericolosamente. Allora, senza dire una parola, i due si mossero in modo da equilibrare perfettamente il carico, e poi, sempre in silenzio, Po infilò i remi negli scalmi mentre Horace prendeva da sotto il sedile una tazza di stagno e cominciava a immergerla ritmicamente nell’acqua che aveva invaso il fondo della barca e a vuotarla fuori bordo.

Per un istante Alvin si meravigliò nel vederli muoversi con tale perfetta coordinazione. Tuttavia, senza bisogno di far domande, capì immediatamente che non era la prima volta che quei due si trovavano in una situazione del genere. Ciascuno dei due sapeva esattamente cos’avrebbe fatto l’altro, per cui non aveva nemmeno bisogno di pensare. Ciascuno faceva la sua parte, e nessuno dei due aveva bisogno di controllarne l’esecuzione.

Come gl’infiniti frammenti di cui era composto il mondo; come la danza degli atomi che Alvin aveva visto con l’immaginazione. Prima di allora non ci aveva mai pensato, ma adesso si rese conto che anche le persone potevano essere come gli atomi. Il più delle volte la gente si muoveva in modo disorganizzato, ciascuno senza sapere chi fosse l’altro e che cosa facesse; nessuno stava fermo abbastanza a lungo da poter dare od ottenere fiducia, proprio come gli atomi prima che Dio insegnasse loro chi fossero e che cosa dovessero fare. Ma adesso Alvin vedeva davanti a sé due uomini che in apparenza neanche si conoscevano se non nella maniera superficiale in cui in una cittadina come Hatrack ciascuno conosce chiunque altro. Po Doggly, un ex contadino ridotto a far da cocchiere al dottor Physicker, e Horace Guester, il primo a stabilirsi in quei luoghi, padrone di una prospera locanda. Chi avrebbe mai pensato che potessero muoversi così all’unisono? Ma questo accadeva perché ciascuno dei due sapeva chi era l’altro, lo sapeva nella maniera più pura e profonda, lo sapeva con la stessa certezza con cui l’atomo sapeva il nome che Dio gli aveva dato; ciascuno al suo posto, a svolgere il proprio compito.

Tutti questi pensieri si accavallarono nella mente di Alvin in maniera così tumultuosa che lui a malapena si accorse di pensarli; eppure, negli anni a venire, si sarebbe ricordato bene che quello era stato il primo momento in cui aveva veramente capito: quei due uomini, insieme, creavano qualcosa di altrettanto solido e reale del terreno sotto i piedi di Alvin, dell’albero cui egli era appoggiato. La maggioranza delle persone non se ne sarebbe neanche accorta: non avrebbe visto altro che due uomini casualmente seduti nella stessa barca. D’altra parte, forse anche per gli atomi era la stessa cosa: agli occhi degli altri i due atomi che costituivano un pezzo di ferro magari sembravano solo due atomi che casualmente si trovavano uno accanto all’altro. Forse bisognava vedere tutto da molto lontano, come Dio, o comunque essere molto più grandi in modo da poter osservare che cosa fanno due atomi quando sono uniti in una certa maniera. Ma il semplice fatto che un altro atomo sia incapace di vedere quel rapporto non significa che esso non sia reale, o che il ferro non sia forte com’è nella sua natura.

E se posso insegnare agli atomi a creare dal nulla un lunghissimo filo, o magari a trasformare il ferro in oro, o addirittura — poniamo — a cambiare la sigla invisibile e segreta che contraddistingue ogni minuscolo frammento del corpo di Arthur in modo che i Cacciatori non possano più riconoscerlo… ebbene, pensò Alvin, perché un Creatore non potrebbe fare la stessa cosa con le persone, insegnando loro un nuovo ordine, e una volta trovato un numero sufficiente di individui di cui fidarsi, unirli in modo da costruire qualcosa di nuovo, qualcosa di forte, qualcosa di reale come il ferro?

«Allora, Alvin, ti decidi?»

Come dicevo, Alvin a malapena si rese conto di aver pensato tutte queste cose. Ma non se ne dimenticò nemmeno una: no, già mentre si lasciava scivolare sulla sponda fangosa seppe che non avrebbe più dimenticato ciò che aveva appena pensato, anche se per capirlo fino in fondo gli sarebbero stati necessari anni e miglia e lacrime e sangue.

«Che piacere vederti, Po» disse Alvin. «Anche se mi ero fatto l’idea che questa nostra spedizione dovesse restare segreta.»

A forza di remi, Po spinse la barca verso riva, allentando contemporaneamente la cima per permettere al giovane di salire a bordo senza bagnarsi i piedi. Alvin apprezzò la cortesia. Aveva una certa avversione per l’acqua, un’avversione senz’altro giustificata considerando tutte le volte che il Distruttore aveva tentato di usare l’acqua per ucciderlo. Ma quella sera l’acqua sembrava soltanto acqua; il Distruttore era invisibile o lontano. Forse era il filo sottile che ancora univa Alvin ad Arthur… forse quel filo era una creazione così potente che nemmeno disponendo di tutta quell’acqua il Distruttore aveva la forza di danneggiare Alvin.

«Non preoccuparti, Alvin, il segreto resta tale» disse Horace. «C’è qualcosa che tu non sai. Prima che tu arrivassi a Hatrack — o meglio, prima che tu vi facessi ritorno — Po e io venivamo spesso a prendere qualche schiavo fuggiasco per aiutarlo a rifugiarsi in Canada.»

«E i Cacciatori non vi hanno mai scoperto?» chiese Alvin.

«Se lo schiavo era arrivato fin quaggiù, di solito voleva dire che non aveva Cacciatori alle calcagna» spiegò Po. «E parecchi di loro avevano rubato il contrassegno.»

«In più, questo accadeva prima del Trattato sugli Schiavi Fuggiaschi» disse Horace. «Se non ci prendevano dall’altra parte, una volta giunti nell’Hio i Cacciatori non potevano più toccarci.»

«E a quei tempi avevamo anche una fiaccola» concluse Po.

Horace non fece commenti: si limitò a sciogliere la cima dalla barca rilanciandola a riva. Non appena la barca fu libera, Po fece forza sui remi; Horace si era già aggrappato ai bordi per non perdere l’equilibrio. Era straordinario vedere come ciascuno dei due intuisse ogni mossa dell’altro ancor prima che questi iniziasse a compierla. A quella vista Alvin quasi scoppiò a ridere dalla gioia, scorgendo ciò che era possibile, sognando ciò che avrebbe potuto significare: migliaia di persone che si conoscevano a vicenda come quei due, che si muovevano in modo da assecondarsi l’un l’altro, che lavoravano insieme in perfetta armonia. Chi avrebbe potuto opporsi a un popolo del genere?

«Dopo che la figlia di Horace se n’è andata, non abbiamo più avuto modo di sapere quando da queste parti arrivava uno schiavo fuggiasco.» Po scosse la testa. «Era finita. Ma sapevo che se avessero messo Arthur Stuart in catene e l’avessero trascinato al Sud, neanche mille diavoli avrebbero potuto impedire al vecchio Horace di attraversare il fiume per riportarlo indietro. Perciò, dopo aver lasciato i Cacciatori, mi sono allontanato dal fiume, poi ho fermato la carrozza e sono saltato giù.»

«Il dottor Physicker se ne sarà sicuramente accorto» disse Alvin.

«Certo che se n’è accorto, testone!» esclamò Po. «Vedo che vuoi prendermi in giro. Già, se n’è accorto. E mi ha detto: ‘Stai attento, quei ragazzi sono pericolosi’. Io gli ho assicurato che sarei stato prudente, e allora lui ha aggiunto: ‘È stato quell’idiota di sceriffo, Pauley Wiseman. Non aveva nessun bisogno di lasciarselo portar via così in fretta. Magari avremmo potuto opporci alla… esterdizione — così mi sembra che abbia detto — se Arthur Stuart fosse rimasto qui fino all’arrivo del giudice ambulante. Ma Pauley ha fatto tutto secondo la legge, solo che si è mosso così in fretta che in cuor mio ho capito immediatamente che c’era poco da fare. Pauley non vedeva l’ora che Arthur Stuart se ne andasse da Hatrack per non tornare mai più’. E io gli credo, Horace. A Pauley Wiseman quel piccolo mulatto è sempre rimasto sullo stomaco, soprattutto da quando la vecchia Peg si è messa in mente di mandarlo a scuola.»

Horace grugnì spostando leggermente il timone proprio nel momento in cui Pauley faceva meno forza su un remo in modo che la barca virasse leggermente a monte per toccar terra nel punto voluto.

«Vuoi sapere che stavo pensando?» chiese Horace. «Stavo pensando che il tuo lavoro non ti tiene abbastanza occupato, Po.»

«Il mio lavoro mi piace» disse Po Doggly.

«In autunno ci saranno le elezioni locali, e tra l’altro sarà in palio la carica di sceriffo. Credo proprio che sia giunta l’ora di licenziare Pauley Wiseman.»

«Io diventare sceriffo? Credi che sia possibile, visto che sono un notorio ubriacone?»

«Da quando lavori per il dottore non hai più toccato un goccio d’alcol. Se poi usciamo vivi da questa storia e torniamo indietro con Arthur sano e salvo, ebbene, allora sarai un eroe.»

«Eroe dei miei stivali! Sei impazzito, Horace? Non ne potremo parlare ad anima viva, o dall’Hio a Camelot, tutti i cacciatori di taglie faranno a gara per spalmare il nostro cervello su una fetta di pane di segale.»

«Non stamperemo questa storia per venderla agli angoli di strada, se è questo che vuoi dire. Ma sai bene come le voci si diffondano. Le persone per bene verranno a sapere quello che abbiamo fatto.»

«Allora perché non lo fai tu lo sceriffo, Horace?»

«Io?» Horace sorrise. «Riesci a vedermi mettere qualcuno in galera?»

Po rise sommessamente. «Credo di no.»

Anche quando raggiunsero la riva opposta, si mossero rapidamente e in perfetta armonia. Era difficile credere che fossero trascorsi tanti anni dall’ultima volta che avevano lavorato insieme. Era come se il loro corpo sapesse già quel che doveva fare, cosicché quei due non dovevano nemmeno pensarci. Po saltò nell’acqua, che gli arrivava alle caviglie, appoggiandosi alla barca in modo che non sollevasse troppi spruzzi. Sotto il suo peso l’imbarcazione naturalmente beccheggiò, tuttavia Horace quasi inconsapevolmente si chinò all’indietro in modo da controbilanciare il beccheggio. Nel giro di pochi istanti avevano tirato a riva la prua — la sponda era sabbiosa, non fangosa come quella della riva opposta — e l’avevano legata a un albero. Ad Alvin la corda parve vecchia e mezza marcia, ma quando la saggiò con la sua pulce vide che era ancora abbastanza robusta da trattenere la barca nonostante l’urto della corrente contro la poppa.

Solo dopo aver sistemato tutto quanto, Horace si mise sull’attenti come un miliziano in piazza, con le spalle all’indietro e lo sguardo fisso su Alvin. «Bene, Alvin, adesso penso che tocchi a te indicarci la strada.»

«Non dobbiamo cercare le loro tracce?» chiese Po.

«Alvin sa già dove sono» disse Horace.

«Be’, è una buona notizia» annuì Po. «E per caso sa anche se abbiamo i loro fucili puntati in mezzo alla fronte?»

«Sì» disse Alvin. Lo disse in modo da far capire che non avrebbe risposto ad ulteriori domande.

Ma Po non capì. «Vuoi dire che questo ragazzo è una fiaccola o roba del genere? Su di lui avevo sentito dire al massimo che aveva il dono per ferrare i cavalli.»

Ecco il vero problema di essere accompagnati da qualcun altro. Alvin non aveva nessuna voglia di spiegare a Po Doggly fin dove arrivassero i suoi poteri, però non poteva nemmeno dirgli che non si fidava di lui.

Fu Horace a venire in suo soccorso. «Po, c’è una cosa che devi sapere. Alvin non fa parte della storia di questa notte.»

«A me sembra che faccia la parte del leone.»

«Ascoltami bene, Po: quando racconteremo questa storia ci saremo solo noi due che per caso abbiamo trovato i due Cacciatori addormentati, hai capito?»

Po aggrottò la fronte, poi annuì. «Dimmi soltanto una cosa, ragazzo. Qualunque sia il tuo dono, sei cristiano? Non voglio nemmeno sapere se sei metodista.»

«Sissignore» rispose Alvin. «Sono cristiano. Credo nella Bibbia.»

«Bene» annuì Po. «L’unica cosa che vorrei evitare sarebbe di restare immischiato in qualche storia diabolica.»

«Non con me» lo rassicurò Alvin.

«Benissimo, allora. Meglio se non so che cosa sai fare, ragazzo. Cerca però di non farmi ammazzare soltanto perché non ne sono al corrente.»

Alvin tese la mano. Po la strinse e sorrise. «Voi fabbri dovete essere forti come orsi.»

«Io?» ridacchiò Alvin. «Se un orso viene a darmi noia, lo picchio sulla testa fino a ridurlo a uno scoiattolo.»

«Mi piacciono anche le tue vanterie, ragazzo.»

Un istante di silenzio, poi Alvin si mise alla testa del piccolo gruppo, seguendo il filo che lo univa ad Arthur Stuart.

Non era molto lontano, ma per attraversare al buio quel tratto di foresta ci volle più di un’ora… Con le chiome fitte degli alberi, il chiarore lunare difficilmente riusciva a penetrare fino al suolo. Senza Alvin e il suo senso della foresta, ci sarebbero volute tre volte quel tempo e dieci volte il rumore.

Trovarono i Cacciatori addormentati al margine di una radura, davanti a un fuoco da campo che si andava lentamente spegnendo. Il Cacciatore dai capelli bianchi era rannicchiato sulla coperta. Quello dai capelli neri doveva essere rimasto di guardia; adesso russava sonoramente appoggiato al tronco di un albero. I cavalli dormivano a poca distanza. Alvin fermò i suoi compagni prima che si avvicinassero al punto da disturbare gli animali.

Arthur Stuart era completamente sveglio, seduto a fissare il fuoco.

Alvin restò immobile per qualche minuto, cercando di riordinare le idee. Non sapeva bene fin dove arrivassero i poteri dei Cacciatori. E se fossero stati capaci di trovare pezzetti di pelle, capelli caduti e via dicendo, nonché di usarli per fabbricare un nuovo contrassegno? Nell’eventualità, trasformare Arthur lì dove si trovava non sarebbe servito a niente; né sarebbe stato il caso di entrare nella radura, giacché lui e gli altri avrebbero potuto lasciare frammenti del proprio corpo tali da costituire prova evidente dell’identità di chi aveva rapito Arthur.

Perciò, dal punto in cui si trovava, Alvin entrò a distanza nel ferro delle manette e spezzò le quattro parti di cui erano composte in modo che caddero a terra tutte insieme con un lieve tintinnio. Quel rumore infastidì i cavalli che nitrirono piano, ma i Cacciatori continuarono a dormire come sassi. Ad Arthur, tuttavia, bastò un istante per rendersi conto di che cosa fosse successo. Saltò in piedi e cominciò a guardarsi intorno in cerca di Alvin.

Alvin fischiò, cercando d’imitare il canto del pettirosso. Come imitazione non era granché, ma Arthur lo udì e capì che Alvin lo stava chiamando. Senza esitare un solo istante, si lanciò tra gli alberi e non più di cinque minuti dopo, guidato da qualche successivo richiamo, si trovò a faccia a faccia con Alvin.

Naturalmente Arthur Stuart fece per gettargli le braccia al collo, ma Alvin alzò una mano. «Non toccare niente e nessuno» sussurrò. «Prima devo cambiarti, Arthur Stuart, in modo che i Cacciatori non possano più trovarti.»

«Va bene» mormorò il ragazzino.

«Non possiamo lasciare che nemmeno un pezzetto di te resti come prima. Nei vestiti hai sicuramente un sacco di capelli, pezzetti di pelle e cose del genere. Perciò devi spogliarti completamente.»

Arthur Stuart non esitò. Nel giro di qualche istante i suoi indumenti formavano un mucchietto ai suoi piedi.

«Scusa se m’intrometto» disse Po. «Io sono ignorante, però, se lasciamo qui i vestiti, i Cacciatori capiranno che Arthur Stuart è passato da questa parte, e una traccia del genere indica il nord altrettanto chiaramente che se avessimo dipinto sul terreno una grande freccia bianca.»

«Penso che tu abbia ragione» annuì Alvin.

«Perciò è meglio che Arthur Stuart se li porti dietro per buttarli nel fiume» suggerì Horace.

«Accertatevi solamente di non toccare Arthur né le sue cose» li ammonì Alvin. «Arthur, tu prendi i vestiti e seguici facendo bene attenzione a dove metti i piedi. Se ti perdi, lancia il richiamo del pettirosso e io ti risponderò nello stesso modo.»

«Lo sapevo che saresti venuto, Alvin» sorrise Arthur Stuart. «E anche tu, papà.»

«Se lo aspettavano sicuramente anche i Cacciatori» disse Horace «e purtroppo non dormiranno in eterno, anche se a me non dispiacerebbe.»

«Aspettate un momento» li fermò Alvin. Inviò nuovamente la sua pulce all’interno delle manette e riunì i pezzi, facendoli aderire uno all’altro e saldandoli insieme. Ora erano per terra, perfettamente chiuse e assolutamente intatte: non avrebbero fornito alcun indizio riguardo al modo in cui il ragazzo poteva essersene liberato.

«Non arrivo a sperare che tu gli stia rompendo le gambe o qualcosa del genere, Alvin» disse Horace.

«Può davvero fare qualcosa del genere da così lontano?» chiese Po.

«Non ne ho la minima intenzione» lo zittì Alvin. «Dobbiamo soltanto fare in modo che i Cacciatori smettano di cercare un ragazzo che, per quanto ne potranno capire, per loro sarà come scomparso nel nulla.»

«Sì, mi sembra un’ottima idea, ma non mi sarebbe nemmeno dispiaciuto vedere quei Cacciatori con le gambe rotte» borbottò Horace.

Alvin sorrise e s’infilò tra gli alberi della foresta, facendo deliberatamente un po’ di rumore e muovendosi con sufficiente lentezza perché gli altri potessero seguirlo nella semioscurità; se avesse voluto, avrebbe potuto muoversi come un Rosso, in assoluto silenzio e senza lasciare traccia del suo passaggio.

Giunti sulla riva del fiume si fermarono. Alvin non voleva che Arthur salisse in barca con la sua pelle attuale, lasciando tracce di sé da tutte le parti. Perciò, se voleva trasformarlo, doveva farlo subito.

«Butta i vestiti in acqua, Arthur» disse Horace. «E più lontano che puoi.»

Il ragazzino mosse un paio di passi nell’acqua. Alvin per un momento si spaventò, perché col suo occhio interiore aveva visto una parte di Arthur, fatta di luce, terra e aria, scomparire improvvisamente nell’acqua tenebrosa. Eppure, durante il viaggio d’andata, l’acqua non aveva recato loro alcun danno, e Alvin si rese conto che stavolta avrebbe potuto perfino essergli utile.

Arthur Stuart lanciò nell’acqua il fagotto dei suoi vestiti. La corrente non era molto forte e i vestiti cominciarono a girare su se stessi allontanandosi pian piano l’uno dall’altro; poi si mossero lentamente verso valle. Ritto nell’acqua che gli arrivava alle natiche, Arthur li guardava. No, in realtà non stava guardando i vestiti: quando essi si allontanarono verso sinistra, Arthur non mosse la testa di un pollice continuando invece a guardare la riva opposta, in direzione della libertà.

«In questo posto ci sono già stato» mormorò. «E anche questa barca l’ho già vista.»

«Può darsi» rifletté Horace. «Anche se eri un po’ troppo piccolo per ricordartene. Po e io abbiamo aiutato la tua mamma a salire su questa stessa barca. E, quando siamo arrivati dall’altra parte, sei sceso a riva tra le braccia di mia figlia Peggy.»

«Mia sorella Peggy» disse Arthur. Si voltò guardando Horace come se in realtà si fosse trattato di una domanda.

«Direi di sì» ammise Horace, e poi tacque.

«Adesso resta dove sei, Arthur Stuart» disse Alvin. «Quando ti trasformo, devo cambiarti tutto, dentro e fuori. Meglio farlo nell’acqua, dove tutta la pelle vecchia con i segni di com’eri prima verrà portata via senza lasciar traccia.»

«Vuoi farmi diventare Bianco?» chiese Arthur Stuart.

«Sapresti fare una cosa del genere?» domandò sbalordito Po Doggly.

«Non ho la minima idea di che cosa potrà cambiare» disse Alvin. «Spero solo di non farti diventare Bianco. Sarebbe come portarti via la parte che ti è stata donata dalla tua mamma.»

«Ma un Bianco non può diventare schiavo» rifletté Arthur Stuart.

«Nemmeno questo piccolo mulatto diventerà mai schiavo» disse Alvin. «Se può dipendere da me, almeno. Adesso resta dove sei, più fermo che puoi, e lasciami capire che cosa fare.»

Così tutti tacquero, mentre Alvin studiava Arthur Stuart dall’interno, cercando la minuscola sigla che contrassegnava ogni frammento del suo organismo vivente.

Alvin sapeva che non avrebbe potuto trasformarla a casaccio, per il semplice motivo che non capiva sino in fondo a che cosa servisse. Sapeva soltanto che in qualche modo essa era parte di ciò che rendeva Arthur Stuart quello che era, e una cosa del genere non si poteva cambiare tanto alla leggera. Se avesse trasformato le parti sbagliate, magari Arthur Stuart sarebbe rimasto accecato sull’istante, o il sangue gli sarebbe diventato acqua piovana. Chi poteva saperlo?

Fu il filo che ancora li univa da cuore a cuore a dare ad Alvin l’idea giusta… Quel filo e il ricordo di ciò che aveva detto Pettirosso, per bocca dello stesso Arthur Stuart. Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea. Alvin si tolse a sua volta la camicia, entrò nel fiume e s’inginocchiò in maniera da avere il viso allo stesso livello di quello di Arthur Stuart, mentre l’acqua fresca gli lambiva delicatamente la vita. Poi tese le braccia, trasse a sé Arthur Stuart e lo tenne stretto, petto contro petto, le mani sulle spalle.

«Credevo che nessuno dovesse toccarlo» disse Po.

«Chiudi il becco, maledetto idiota» tagliò corto Horace Guester. «Alvin sa quello che fa.»

Quanto vorrei che fosse vero, pensò Alvin. Ma per lo meno aveva un’idea di che cosa fare, ed era già meglio di nulla. Ora che la loro pelle era a contatto, Alvin poteva guardarla da vicino e confrontare la sigla segreta di Arthur Stuart con la propria. Per lo più era identica, assolutamente identica, e Alvin ne ricavò la conclusione che fosse la parte che li rendeva entrambi esseri umani anziché mucche, rane, porci o galline. E quella parte non avrebbe mai osato cambiarla, nemmeno per idea.

Il resto… lo posso cambiare, pensò. Ma non a casaccio. A che mi servirebbe salvarlo se poi diventasse giallo come un limone o magari completamente idiota?

Così Alvin fece l’unica cosa che gli parve sensata. Trasformò alcuni pezzetti della sigla di Arthur in modo che diventasse esattamente come quella di Alvin. Non tutto ciò che gli appariva diverso, no, non arrivò a tanto. Solo una piccolissima parte. Ma anche quella piccolissima parte significava che Arthur aveva smesso di essere completamente se stesso per cominciare a essere in parte simile ad Alvin. Alvin pensò che quello che stava facendo era terribile e meraviglioso al tempo stesso.

Quanto? Quanto di Arthur avrebbe dovuto cambiare perché i Cacciatori non fossero più in grado di riconoscerlo? Certamente non tutto. Certamente questo sarebbe bastato, solo questi cambiamenti. Non c’era modo di averne la certezza. Alvin non poteva fare altro che seguire il suo intuito. Perciò così fece.

Ma quello fu solo l’inizio, si capisce. Alvin prese infatti a cambiare le altre sigle in modo che fossero tutte uguali alla prima, in ciascun frammento dell’organismo vivente di Arthur, uno alla volta, più in fretta che poteva. A decine, a centinaia; ogni nuova sigla che trovava, Alvin la trasformava in modo che seguisse in tutto e per tutto il nuovo disegno.

Ne cambiò a centinaia, a migliaia, e ancora non aveva trasformato che una minuscola porzione di pelle del torace di Arthur. Come poteva pensare di trasformare tutto il suo corpo, procedendo così lentamente?

«Mi fa male» sussurrò Arthur.

Alvin si staccò da lui. «Non sto facendo niente che possa farti del male, Arthur Stuart.»

Arthur si guardò il petto. «Proprio qui» disse, toccandosi nel punto in cui Alvin aveva operato il cambiamento.

Alvin lo guardò al chiaro di luna e vide che effettivamente quel punto sembrava gonfio e più scuro. Guardò di nuovo, stavolta non con gli occhi, e vide che il resto del corpo di Arthur stava attaccando la parte trasformata da Alvin, distruggendola frammento per frammento, più in fretta che poteva.

Ma certo. Che cosa si era aspettato? Quella sigla era il modo in cui il corpo di Arthur riconosceva se stesso: ecco perché ogni frammento di un organismo vivente deve recare la stessa sigla. Se la sigla era diversa, il corpo sapeva che doveva trattarsi di una malattia o di qualcosa del genere, e partiva immediatamente all’attacco. Non era già abbastanza disastroso che per trasformare Arthur ci volesse tutto quel tempo? Ora Alvin capiva che, anche trasformandolo, non sarebbe arrivato a nulla… Più lo cambiava, più Arthur sarebbe stato male e il suo corpo avrebbe cercato di autodistruggersi finché il ragazzo non fosse morto o la parte trasformata non fosse andata perduta.

Era proprio come nella fiaba che una volta gli aveva narrato Scambiastorie, in cui qualcuno cercava di costruire un muro così lungo che a metà dell’opera la parte costruita aveva già cominciato a crollare riducendosi in polvere. Com’è possibile costruire un muro del genere se crolla più in fretta di quanto uno possa costruirlo?

«Non ci riesco» disse Alvin. «Sto cercando di fare una cosa impossibile.»

«Se non ci riesci tu» intervenne Po Doggly «allora spero che tu sappia volare, perché è l’unico modo in cui il ragazzo potrebbe arrivare in Canada senza essere riacchiappato dai Cacciatori.»

«Non ci riesco» ripeté Alvin.

«Sei solo stanco» disse Horace. «Cerchiamo di stare zitti, in modo che tu possa riflettere.»

«È lo stesso» mormorò Alvin.

«La mia mamma sapeva volare» disse Arthur Stuart.

Alvin sospirò d’impazienza nel sentir ripetere la solita vecchia storia.

«È vero» confermò Horace. «Me l’ha detto la piccola Peggy. Quella piccola schiava nera ha impastato insieme un po’ di cenere, qualche penna di corvo e via dicendo, ed è volata fin quaggiù. È per questo che è morta. La prima volta che mi sono reso conto che il bambino se ne ricordava non riuscivo a crederlo, e abbiamo sempre tenuto la bocca chiusa nella speranza che se ne dimenticasse. Ma devo proprio dirtelo, Alvin, è una vergogna che quella bambina sia morta solo perché sette anni dopo tu potessi darti per vinto proprio qui sulla riva del fiume, nello stesso identico posto.»

Alvin chiuse gli occhi. «Ora state zitti e lasciatemi pensare» li pregò.

«Non l’avevo già detto?» disse Horace.

«Allora chiudi il becco anche tu» lo zittì Po Doggly.

Alvin li udì a malapena. Era tornato all’interno del corpo di Arthur per osservare nuovamente la piccola chiazza di pelle già trasformata. La nuova sigla non era cattiva in sé: l’unico punto in cui la pelle nuova si ammalava e moriva era la linea di confine con la pelle che recava ancora la vecchia sigla. Arthur non avrebbe dunque corso alcun pericolo se Alvin fosse riuscito a trasformarlo tutto insieme, anziché un pezzetto alla volta.

Alvin ripensò al modo in cui il filo era comparso non appena egli l’aveva pensato, immaginandone l’inizio e la fine e tutto il resto. Tutti gli atomi erano andati al loro posto nello stesso istante. Come il modo in cui Po Doggly e Horace Guester si muovevano in perfetta coordinazione: ciascuno intento a svolgere il proprio compito, e insieme consapevole di ciò che l’altro andava facendo.

Il filo però era fatto di una sostanza semplice e uniforme. Stavolta sarebbe stato molto più difficile… Come egli stesso aveva detto una volta alla signorina Larner: sarebbe stato come trasformare l’acqua in vino e il ferro in oro.

No, non posso pensare in questo modo. Quando ho creato il filo non ho fatto altro che insegnare agli atomi che cosa fare e dove andare, e ci sono riuscito perché ciascuno di essi era vivo e in grado di obbedirmi. Ma, all’interno del corpo di Arthur, non ho a che fare con singoli atomi, bensì con pezzetti di sostanza vivente, ciascuno dei quali dotato di vita propria. Forse è la sigla stessa a renderli vivi, forse posso insegnare a ciascuno di essi che cosa deve fare, invece di muoverne una minuscola parte alla volta. Potrei dir loro: «Siate così!» e loro lo faranno.

Non aveva ancora finito di pensarlo che provò a metterlo in pratica. Immaginò dunque di parlare alle sigle della pelle del torace di Arthur, rivolgendosi a tutte contemporaneamente; mostrò loro il disegno che aveva in mente, un disegno così complesso che egli stesso non era in grado di comprenderlo, a parte il fatto che era lo stesso disegno delle sigle della piccola chiazza di pelle che aveva trasformato un pezzetto alla volta. E, non appena lo mostrò, non appena ordinò loro: «Siate così! Il modo è questo!» quei pezzetti cambiarono tutti insieme, tutta la pelle del torace di Arthur Stuart si trasformò nello stesso istante.

Arthur trasalì violentemente, poi cominciò a urlare di dolore. Quello che prima era stato un bruciore localizzato in una piccola chiazza di pelle ora si era diffuso per tutto il torace.

«Fidati di me» lo rassicurò Alvin. «Adesso ti cambierò completamente, e non sentirai più male. Ma dobbiamo farlo sott’acqua, in modo che la pelle vecchia venga portata via tutta insieme. Turati il naso! Trattieni il respiro!»

Arthur Stuart ansimava per il dolore, ma fece quel che Alvin gli aveva chiesto. Si turò il naso con la mano destra, poi trasse un profondo respiro e chiuse la bocca. Alvin allora afferrò il polso di Arthur con la mano sinistra, gli passò la destra dietro la schiena e lo tuffò sott’acqua. In quell’istante Alvin tenne ben fermo nella sua mente l’intero corpo di Arthur, scorgendone tutte le sigle non una alla volta ma tutte insieme; mostrò loro il disegno, la nuova sigla, e stavolta pensò quelle parole così intensamente che le sue labbra le pronunciarono.

«Il modo è questo! Siate così!»

Con le mani non sentì assolutamente nulla… Il corpo di Arthur non si trasformò in maniera tale da poter avvertire il cambiamento con i cinque sensi. Alvin però vide ugualmente la trasformazione avvenire tutta insieme, nello stesso istante, mutando ogni sigla nel corpo del ragazzo, nei suoi organi interni, nei muscoli, nel sangue, nel cervello; si trasformarono perfino i capelli, ogni parte di lui che fosse unita alle altre. E ciò che non era unito, ciò che non cambiò, venne trascinato via dall’acqua del fiume e andò perduto per sempre.

Alvin si tuffò sott’acqua a sua volta per liberarsi dai capelli o dalle squame di pelle che per caso gli fossero rimaste attaccate. Poi si tirò in piedi, sollevando Arthur dall’acqua in un unico movimento. Il ragazzo riemerse grondante d’acqua, come una cascata di gelide perle al chiaro di luna. Restò lì boccheggiante e tremante di freddo.

«Dimmi che non ti fa ancora male» disse Alvin.

«Più male» disse Arthur, correggendo l’errore come faceva sempre la signorina Larner. «Sto bene. A parte il freddo.»

Alvin lo tirò fuori dall’acqua portandolo in braccio fino alla riva. «Avvolgetelo nella mia camicia e poi andiamocene di qui.»

Così fecero. Nessuno di loro si accorse che, quando Arthur aveva imitato la signorina Larner, non aveva imitato la sua voce.


Nemmeno Peggy se ne accorse, almeno non immediatamente. Era troppo occupata a scrutare nella fiamma vitale di Arthur Stuart. Com’era cambiata da quando Alvin l’aveva trasformato! Il mutamento era stato così sottile che Peggy non avrebbe saputo dire che cosa esattamente fosse accaduto… Eppure nell’istante in cui Arthur Stuart era emerso dall’acqua, in lui non restava più un solo sentiero appartenente al suo passato, non uno che conducesse verso il Sud e verso la schiavitù. E tutti i nuovi sentieri, i nuovi futuri che derivavano da quella trasformazione conducevano a possibilità assolutamente straordinarie.

Per tutto il tempo che fu necessario a Horace, Po e Alvin per riattraversare l’Hio insieme ad Arthur Stuart e riportare il ragazzo attraverso i boschi sino alla fucina, Peggy non fece altro che esplorare la fiamma vitale di Arthur Stuart, studiando possibilità del tutto inedite per il mondo. In quella terra muoveva i primi passi un nuovo Creatore; Arthur era la prima anima che egli avesse toccato, e adesso tutto era diverso. In più, la maggior parte dei futuri di Arthur erano inestricabilmente legati a quello di Alvin. Peggy scorse possibilità di viaggi incredibili: su uno di quei sentieri compariva un viaggio in Europa in cui Arthur Stuart si sarebbe trovato al fianco di Alvin mentre il nuovo imperatore del Sacro Romano Impero, Napoleone, s’inchinava davanti a lui; su un altro sentiero c’era un viaggio fino a uno strano paese molto più a sud in cui i Rossi trascorrevano tutta la loro esistenza su piattaforme di alghe galleggianti; su un altro sentiero ancora lo attendeva una cavalcata trionfale verso le terre dell’Ovest, dove i Rossi acclamavano in Alvin il grande unificatore di tutte le razze e riponevano in lui una fiducia così assoluta da spalancargli le porte del loro ultimo rifugio. E al suo fianco c’era sempre Arthur Stuart, il piccolo mulatto, ora divenuto il suo braccio destro, e dotato a sua volta di alcuni dei poteri del Creatore.

La maggior parte di quei sentieri incominciava con l’arrivo del piccolo gruppo al deposito sulla sorgente; perciò Peggy non fu sorpresa nel sentirli bussare alla sua porta.

«Signorina Larner» la chiamò Alvin a bassa voce.

Peggy ne rimase quasi delusa; la realtà non era interessante come i futuri che le si erano appena rivelati nella fiamma vitale di Arthur Stuart, no, non lo era proprio. Peggy comunque aprì la porta. Ed eccoli lì, in piedi davanti alla soglia, Arthur ancora infagottato nella camicia di Alvin.

«L’abbiamo ripreso» annunciò Horace.

«Lo vedo» disse Peggy. Certo, ne era felice, ma la sua voce non lo rivelava affatto. Il suo tono di voce era quello di una persona indaffarata, scocciata, disturbata. E in effetti era proprio così. Sbrighiamoci, avrebbe voluto dire. Ho già udito questa conversazione con le orecchie di Arthur, perciò sbrighiamoci, facciamola finita il più presto possibile, perché voglio tornare a esplorare ciò che questo ragazzo potrà diventare. Ma naturalmente non poteva dire nulla di simile… almeno se non voleva rinunciare a essere la signorina Larner.

«Non lo troveranno» disse Alvin «a meno che non se lo vedano di fronte. Qualcosa… Il contrassegno non gli serve più a nulla.»

«Non serve loro» lo corresse Peggy.

«Giusto» disse Alvin. «Il motivo per cui veniamo… siamo venuti… possiamo lasciarlo qui con voi? Questa casa, signorina, la casa in cui abitate, l’ho circondata di talismani così potenti che l’idea di entrare non gli passerà nemmeno per la mente, a patto che teniate la porta chiusa a chiave.»

«Non avete altri vestiti per lui all’infuori di questo? È tutto bagnato… Volete che si prenda qualche malattia?»

«La notte è calda» annuì Horace «e non è il caso di andare a prendere altri vestiti a casa nostra. Lo potremo fare solo dopo che i Cacciatori saranno tornati qui, si saranno stancati di cercarlo e se ne saranno andati.»

«Molto bene» annuì Peggy.

«Meglio tornare alle nostre faccende» disse Po Doggly. «Io devo andare dal dottor Physicker.»

«E siccome ho detto alla vecchia Peg che sarei sceso in città, sarà meglio che lo faccia davvero» concluse Horace.

Alvin si rivolse direttamente a Peggy. «Io resterò alla fucina, signorina Larner. Se succede qualcosa, datemi una voce e sarò da voi nel giro di dieci secondi.»

«Grazie. Ora… vi prego di andarvene.»

Peggy chiuse la porta. Non avrebbe voluto essere così brusca. Però davanti a sé aveva una miriade di futuri completamente nuovi. A parte lei, nessuno era mai stato così importante nell’Opera di Alvin come lo sarebbe stato Arthur. Ma forse questo sarebbe accaduto a chiunque Alvin avesse toccato e trasformato… Forse, come Creatore, lui avrebbe trasformato tutti coloro che amava finché tutti quanti non si sarebbero trovati al suo fianco in quei gloriosi momenti, finché tutti quanti non avrebbero guardato il mondo attraverso le mura sfolgoranti della Città di Cristallo, vedendo ogni cosa come Dio stesso doveva vederla.

Qualcuno bussò alla porta. Peggy andò ad aprire.

«In primo luogo» disse Alvin «non aprite la porta se non sapete chi è.»

«Sapevo che eri tu» ribatté Peggy. Ma non era vero. Non ci aveva nemmeno pensato.

«In secondo luogo, aspettavo di sentirvi chiudere la porta a chiave, e voi non l’avete fatto.»

«Scusami» disse lei. «Me n’ero dimenticata.»

«Per portare fin qui questo ragazzo abbiamo sudato sangue, signorina Larner. Ora tutto dipende da voi. Finché i Cacciatori non se ne saranno andati.»

«Sì, lo so.» Le rincresceva veramente, e lasciò che la sua voce esprimesse quel dispiacere.

«Buona notte, allora.»

Alvin restò immobile davanti alla porta. Che cosa aspettava?

Ah, sì. Che lei chiudesse la porta.

Peggy la chiuse, poi girò la chiave, e infine tornò accanto ad Arthur Stuart, stringendolo forte tra le braccia finché lui non cominciò a divincolarsi. «Ora sei al sicuro» disse.

«Certo» disse Arthur Stuart. «Per portare fin qui questo ragazzo abbiamo sudato sangue, signorina Larner.»

Ascoltandolo parlare, Peggy ebbe la certezza che c’era qualcosa che non andava. Ma che cosa? Ah, sì, naturalmente. Alvin aveva pronunciato esattamente quelle parole. Ma che cos’era a non quadrare? Arthur Stuart imitava gli altri in continuazione.

Imitava gli altri… Però stavolta Arthur Stuart aveva ripetuto le parole di Alvin con la propria voce, non con quella di Alvin. Non era mai successo prima. Peggy aveva sempre pensato che ciò avvenisse a causa del suo dono; che imitare gli altri gli venisse così spontaneo che egli stesso non se ne rendeva conto.

«Come si scrive ‘cicala’?» gli chiese.

«C-I-C-A-L-A» rispose lui. Con la propria voce, non con quella della signorina Larner.

«Arthur Stuart» mormorò Peggy. «Che cosa c’è che non va?»

«Niente, signorina Larner» disse Arthur. «Sono tornato a casa.»

Non lo sapeva. Non se ne rendeva conto. Poiché non aveva mai capito veramente quanto le sue imitazioni fossero perfette, adesso non si rendeva conto che il suo dono era scomparso. Possedeva ancora la capacità di ricordare al primo ascolto tutto ciò che sentiva dire… Ma le voci erano scomparse; restava solo la sua, quella di un ragazzino di sette anni.

Peggy lo abbracciò di nuovo, per un istante, più brevemente. Adesso capiva. Finché Arthur Stuart fosse rimasto se stesso, i Cacciatori avrebbero potuto catturarlo e portarlo al Sud in catene. L’unico modo per salvarlo consisteva nel non farlo più essere completamente se stesso. Alvin non poteva sapere — ed era naturale — che nel salvare Arthur gli aveva portato via il suo dono, o almeno una parte di esso. La libertà di Arthur era stata pagata al prezzo del suo non essere più completamente se stesso. Alvin l’aveva capito?

«Signorina Larner, sono stanco» mormorò Arthur Stuart.

«Ma certo, hai ragione» disse lei. «Puoi dormire qui, nel mio letto. Togliti quella camicia sporca e infilati sotto le coperte, e starai al sicuro e al calduccio per tutta la notte.»

Il ragazzo esitò. Peggy guardò nella sua fiamma vitale e ne comprese il motivo; sorridendo, si voltò dall’altra parte. Udì un fruscio di stoffa, il cigolio delle molle e un altro fruscio, stavolta quello di un piccolo corpo che scivolava tra le lenzuola. Allora Peggy si voltò, si chinò sulla testolina posata sul cuscino, e lo baciò leggermente sulla guancia.

«Buona notte, Arthur» disse.

«Buona notte» rispose lui.

Nel giro di qualche istante si era addormentato. Peggy sedette alla scrivania e alzò lo stoppino della lampada. In attesa del ritorno dei Cacciatori avrebbe letto qualcosa. Qualcosa che l’aiutasse a restare calma.

No, non era possibile. Le parole erano lì in fila sulla pagina, però lei non riusciva a cavarne alcun senso. Che cosa stava leggendo: Cartesio o il Deuteronomio? Non aveva nessuna importanza. Niente avrebbe potuto distoglierla dalla nuova fiamma vitale di Arthur. Certo che tutti i sentieri della sua vita erano cambiati. Non era più la stessa persona. No, questo non era del tutto vero. Era sempre Arthur. Soprattutto Arthur.

Quasi Arthur. Quasi quello di prima. Ma non del tutto.

Ne era valsa la pena? Perdere parte di ciò che era stato al fine di vivere libero? Forse quella nuova identità era migliore della precedente; ma il vecchio Arthur Stuart se n’era andato per sempre, questo era certo, ancora più certo che se fosse andato al Sud e avesse trascorso in dolorosa schiavitù il resto dei suoi giorni, mentre la sua vita a Hatrack sarebbe diventata solo un ricordo, poi un sogno, e infine una specie di fiaba che egli avrebbe raccontato ai suoi nipotini negli ultimi anni prima di morire.

Pazza! esclamò in cuor suo rivolta a se stessa. Nessuno è la stessa persona che era ieri. La freschezza, l’ingenuità, l’ignoranza della gioventù passano e se ne vanno. Arthur Stuart sarebbe stato trasformato — malformato -dalla vita in cattività in maniera molto più atroce che in seguito ai delicati cambiamenti introdotti da Alvin. Arthur Stuart era molto più se stesso in quel momento che se fosse stato trascinato in catene negli Appalachi. E poi lei stessa aveva visto gli oscuri sentieri che una volta risiedevano nella sua fiamma vitale: il dolore lancinante della sferza, il sole cocente che gli dardeggiava le spalle mentre egli faticava nei campi, o il nodo scorsoio che l’attendeva sui molti sentieri che lo vedevano partecipare o addirittura mettersi alla testa di una rivolta di schiavi, uccidendo nel sonno decine di Bianchi. Arthur Stuart era troppo piccolo per capire quello che gli era successo; tuttavia, se fosse stato abbastanza grande, se avesse potuto decidere da solo il futuro che preferiva, Peggy era certa che avrebbe scelto il genere di futuro che Alvin gli aveva appena reso possibile.

In un certo senso, Arthur Stuart aveva perso una parte di sé, una parte del suo dono, e di conseguenza una parte delle possibilità di scelta alle quali avrebbe potuto trovarsi di fronte. Ma, rinunciando a quelle possibilità, aveva guadagnato tanta libertà e tali poteri che il cambio si risolveva chiaramente a suo vantaggio.

Eppure, nel ricordare il suo visetto illuminarsi di gioia mentre compitava qualche parola difficile con la stessa voce della sua maestra, Peggy non poté trattenersi dal versare qualche lacrima di rincrescimento.

Загрузка...