Colin Elliot era un poliziotto del dipartimento di Polizia di L.A. con dieci anni di servizio alle spalle. Era uno dei tanti ufficiali che facevano i turni alla Valcour Hall nel campus della use.
Erano le tre del mattino. La Valcour Hall era a forma di L, con le due ali che si incontravano in un salone allargato su ogni piano. Pur essendo tardi, due dei Tosok erano seduti nel salone del quarto piano; decine di sedie speciali erano state costruite nella falegnameria universitaria. Sebbene il campus fosse semideserto per le vacanze natalizie, quella sera molti dei Tosok e dell'entourage erano andati a una lezione pubblica di Stephen Jay Gould, tenuta nell'estremità occidentale del campus, nel Davis Auditorium — a due passi da McClintock Street. Erano comunque rientrati da diverse ore.
I due Tosok alzarono le mani anteriori per salutare Elliot. Lui rispose con il saluto vulcaniano. Presumibilmente gli altri Tosok erano nelle loro stanze. Poiché il residence era molto ampio, ognuno si era sistemato a buona distanza da tutti gli altri. Mentre attraversava il corridoio Elliot oltrepassò un paio di stanze che avevano la porta aperta. In una delle stanze vide un alieno che lavorava su un computer prelevato dall'astronave madre. In un'altra vide un Tosok che guardava la TV — un vecchio episodio di Barney Miller, uno degli show preferiti di Elliot. Ai Tosok piacevano le sitcom — forse le risate registrate li aiutavano a capire cosa fosse divertente per gli umani. Notò che il Tosok aveva i sottotitoli attivati. Potevano tutti parlare inglese con l'ausilio dei computer che traducevano; forse i titoli in sovrimpressione aiutavano il Tosok a imparare a leggere.
I lunghi corridoi erano divisi in sezioni più brevi da pesanti porte a vetri; non erano porte antincendio ma isolavano parzialmente i suoni. Apparentemente i Tosok avevano un udito sensibile, ma non erano affatto disturbati dai rumori di sottofondo. Nei tre piani che li ospitavano, le porte a vetri erano abitualmente aperte; solo nei piani abitati dagli umani di solito la notte venivano chiuse.
Elliot arrivò alla tromba delle scale e scese al terzo piano — uno di quelli degli umani. Questi, naturalmente, dormivano tutti, e le luci del corridoio principale erano spente. L'unica illuminazione veniva dai cartelli luminosi delle uscite, da qualche piccola lampada di sicurezza, e dalle luci di un parcheggio del campus visibile attraverso le vetrate all'altra estremità del corridoio. Elliot andò avanti, senza aspettarsi di vedere niente. Passando accanto a una stanza sentì un suono, ma dopo essersi fermato un momento ad ascoltare realizzò che era soltanto qualcuno che russava.
Elliot raggiunse una delle porte a vetri chiuse che dividevano il lungo corridoio. La aprì, la attraversò e proseguì lungo il corridoio. A un tratto sentì il rumore di uno sciacquone. Non ne fu sorpreso. Alcune di queste teste d'uovo erano abbastanza anziane; probabilmente si alzavano un paio di volte a notte per fare pipì.
Il rivestimento a terra era di tipo industriale, naturalmente, di un grigio scuro — progettato per resistere ad anni di uso da parte degli studenti. Anche se Elliot pesava più di novanta chili, fece attenzione a fare dei passi leggeri, per evitare di svegliare…
Squish.
Elliot guardò in basso. Il tappeto era bagnato. Probabilmente una bibita che si era rovesciata…
No.
No. Il liquido era denso, vischioso.
E scuro.
Elliot aveva una torcia agganciata alla cintura. La prese, la accese e la puntò sulla pozza.
Rossa.
Era sangue, e filtrava da una porta chiusa. C'era anche uno spiraglio di luce — le luci dentro la stanza erano accese. Elliot tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e facendo pressione solo con due dita per lasciare meno impronte possibili, aprì la porta.
Si aspettava che non si aprisse del tutto, invece ruotò liberamente sui cardini rivelando il corpo.
Un fatto banale che da anni colpiva la mente del sergente Elliot: un essere umano ha circa un litro di sangue ogni dieci chili di peso corporeo.
L'uomo che era morto era molto magro, ma la sua altezza superava il metro e ottanta. Probabilmente conteneva quasi sette litri di sangue.
E sembrava che fosse quasi tutto sparso intorno al corpo, in una vasta pozza scura.
In un certo senso era sorprendente che la quantità di sangue fosse stata la prima cosa che Elliot aveva notato. Oh, certamente in qualsiasi altro omicidio sarebbe stato il fatto saliente. Ma quel cadavere aveva sofferto ben di più di una semplice emorragia.
La gamba destra era staccata dal corpo all'altezza di metà coscia. Qualsiasi cosa l'avesse recisa aveva fatto un lavoro straordinariamente pulito, tagliando i jeans dell'uomo e lasciando il bordo così netto che sembrava avessero l'orlo a quell'altezza. Anche la gamba era stata tagliata in modo altrettanto preciso. Sebbene il moncone fosse ormai coperto da una spessa crosta di sangue secco, il taglio era come quello di una sega a nastro su un pezzo di carne surgelata. La gamba, ancora avvolta nel cotone dei pantaloni, il piede con scarpa e calzino, era lì, delicatamente piegata all'altezza del ginocchio, a breve distanza dal corpo.
Ma neanche questa era la parte peggiore.
La testa era stata staccata dal corpo e — Dio — la parte inferiore della mascella era stata tagliata via. Non vedeva da nessuna parte l'osso, e — Cristo — sembrava mancare anche un bulbo oculare.
Il tronco era stato aperto, in una lunga linea che andava dalla base del collo fino all'inguine, passando dal centro del torace. La camicia del defunto era stata strappata — non tagliata, ma strappata, apparentemente prima che iniziasse il taglio. I bottoni erano saltati via e la camicia era aperta. I due lembi sembravano ali, ormai irrigidite, scure e confuse nella grande pozza di sangue che circondava il corpo.
Lo sterno era stato spaccato in due e le costole sparse a destra e a sinistra spuntavano da…
… Dal torso vuoto. Gli organi erano stati asportati. Elliot sapeva abbastanza di anatomia da riconoscere il cuore e i polmoni a poca distanza dal corpo. Gli altri pezzi, ormai tutti coperti di croste, erano sicuramente milza, fegato, reni e altro, ma Elliot non era in grado di distinguerli.
Nella cavità aperta del torace c'era ogni sorta di tessuto connettivo bianco-blu, e in alcuni punti si vedeva anche la colonna vertebrale.
L'ultima cosa che il Sergente Elliot esaminò fu il volto ormai privo di mascella e completamente bianco fino al labbro superiore che sembrava di cera. Elliot era soltanto al suo secondo turno con l'entourage dei Tosok; ancora non conosceva molti degli umani, ma questo gli era abbastanza familiare.
Era il tizio della televisione.
Cletus Calhoun.
Frank Nobilio stava facendo di nuovo quel sogno. Era all'università, negli anni Sessanta, con i pantaloni a zampa d'elefante e una camicia a fiori. Mentre camminava lungo un corridoio un altro studente, passando, gli augurava buona fortuna.
«Per cosa?» chiedeva Frank.
«Per l'esame, naturalmente» diceva lo studente.
«Esame?»
«Biochimica.»
Biochimica. Oh Cristo. Frank ricordava di essersi iscritto al corso all'inizio dell'anno accademico, ma chissà perché aveva dimenticato di andare alle lezioni. E quel giorno c'era l'esame finale — un esame per cui non aveva affatto studiato. Come diavolo pensavano che sarebbe…?
Frank stava riprendendo coscienza. Aveva finito l'università da decenni, ma faceva sempre quel dannato sogno. I dettagli cambiavano, a volte aveva dimenticato di frequentare Storia americana, a volte Statistica — ma la situazione continuava a ripetersi e…
Bussavano con insistenza alla porta. Un colpo precedente doveva averlo svegliato.
«Cosa c'è?» gridò Frank. La voce era roca; aveva dormito con la bocca aperta.
«Dottor Nobilio? È la polizia.»
Frank si districò dalle lenzuola, si alzò traballando in piedi e raggiunse la porta. La aprì e strizzò gli occhi per la luce nel corridoio. «Sì?»
Nel corridoio c'erano due uomini. Uno era il sergente Ellis, Elliot, o qualcosa del genere, in uniforme. L'altro non lo conosceva: un uomo compatto con la carnagione olivastra, forse sui quarantacinque. Aveva i capelli neri e mossi, gli occhi marroni e dei baffi ordinati. L'uomo mostrò il suo tesserino. «Dottor Nobilio, sono un detective, il tenente Jesus Perez, della polizia di Los Angeles. Mi spiace disturbarla, signore, ma c'è stato un omicidio.»
Frank sentì la sua mascella abbassarsi. «Quale?»
«Prego, signore?»
«Quale Tosok è stato ucciso?»
Perez scosse la testa. «Non è un Tosok, signore. È un umano.»
Frank fece uno sguardo sollevato. Perez lo guardò scioccato. «Scusate» disse Frank. «Mi… mi dispiace. È solo che, Cristo, non so che succederebbe se uno dei Tosok venisse ucciso.»
«Vorremmo che lei identificasse il corpo, signore.»
Il cuore di Frank ebbe un sussulto. Si stava ancora svegliando. «Volete dire che è qualcuno che conosco?»
«Probabilmente, signore.»
«Chi?»
«Pensiamo che si tratti di Cletus Calhoun, signore.» Frank si sentì come se gli avessero dato un pugno nello stomaco.
La commozione generale aveva svegliato anche altri umani. Quando Perez arrivò con Frank nella stanza di Clete, Packwood Smathers e Tamara Slynova erano già lì, sulla soglia, oltre la pozza di sangue. I capelli bianchi di Smathers erano scompigliati, e Frank non aveva mai visto Slynova struccata. Frank era in pigiama; Smathers aveva un accappatoio sul pigiama, e Slynova sembrava indossare soltanto un accappatoio.
Frank si avvicinò alla porta e guardò dentro. Due uomini della scientifica di L.A. erano già al lavoro. Il corpo di Clete era stato coperto con un lenzuolo, ormai macchiato di sangue, e rialzato nel punto in cui le costole spuntavano dal tronco. Frank guardò il viso del suo amico, senza la parte inferiore e bianco come il marmo. Si trattenne a mala pena dal vomitare.
«Allora?» disse Perez.
«È lui.»
Perez annuì. «Era quello che pensavamo. Gli abbiamo trovato addosso il portafogli. Lei sa chi è il parente più vicino?»
«Non è sposato. Ma ha una sorella — Daisy, credo — nel Tennessee.»
«Ha idea di chi potesse volerlo morto?»
Frank guardò Packwood Smathers, poi di nuovo il corpo. «No.»
Si recò al secondo, al quarto e al sesto piano — quelli abitati dai Tosok — accompagnato da uno scienziato tedesco, Kohl. Andarono per i corridoi fermandosi a ogni stanza occupata e chiedendo al Tosok che era dentro di seguirli. Gli alieni uscirono e si diressero tutti verso il salone che era al centro del sesto piano. Erano le 4:30 del mattino.
I Tosok aspettarono pazientemente. Frank fece un rapido conteggio — ce ne erano solo sei. Dunque: il capitano Kelkad, e poi Rendo, Torbat e…
«Scusate se vi ho fatto aspettare» disse una voce. «Che succede?»
Si voltò ed ebbe un shock quasi paragonabile a quando aveva visto il corpo scempiato di Clete. Dal corridoio stava arrivando, con passi di due metri, un Tosok che non aveva mai visto prima, con la pelle argentata.»
«Chi… chi sei?» disse Frank.
«Hask.»
«Ma… ma Hask ha la pelle bluastra.»
«Aveva» disse il Tosok. «Oggi ho fatto la muta.»
Frank lo guardò. In effetti aveva l'occhio frontale sinistro arancione e il destro verde. «Oh,» disse Frank «perdonami.»
Hask si andò a sedere. Frank guardò i sette alieni. Avevano visto molto della Terra. Anche se era stato fatto uno sforzo per mostrare loro il lato migliore dell'umanità, di sicuro avevano avuto modo di osservare anche i lati peggiori. I Tosok avevano conosciuto la povertà e l'inquinamento, e sapevano che la sicurezza era lì per proteggerli nel caso che un essere umano volesse far loro del male.
Però fino ad allora la violenza di cui l'umanità era capace era rimasta un concetto astratto. Ma adesso dovevano sapere.
«Amici miei,» disse Frank a quel mare di occhi rotondi «ho delle tristi notizie.» Fece una pausa. Dannazione, avrebbe voluto che i Tosok facessero delle espressioni; non era ancora bravo a decifrare il movimento dei loro ciuffi. «Clete è morto.»
Ci fu un lungo silenzio.
«Gli umani muoiono senza preavviso?» chiese Kelkad. «Sembrava in buona salute.»
«Non è morto per cause naturali» disse Frank. «È stato assassinato.»
Sette computer tascabili suonarono, leggermente fuori sincronia.
«Assassinato» ripeté Frank. «Significa ucciso da un altro essere umano.»
Kelkad emise un piccolo suono. Il suo computer lo tradusse come «Oh».