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La carovana che accompagnava il Royse e la Royesse si avvicinò a Cardegoss dalla strada meridionale, risalendo a fatica un’ultima altura per poi trovare la vasta pianura che si stendeva davanti a essa, annidata tra le montagne. Respirando a fondo, Cazaril assaporò l’aroma tagliente del vento teso, conseguenza della fredda pioggia che, la notte precedente, aveva ripulito l’aria. Ammassi di nubi color ardesia si accalcavano ancora verso est, seguendo i contorni delle cime azzurrine, che limitavano l’orizzonte; da occidente, la luce del sole fendeva la pianura come una spada incandescente. Ergendosi sulla grande sporgenza di roccia che dominava la congiunzione dei due fiumi, le pianure, i passi montani e l’occhio di chiunque contemplasse quel panorama, la fortezza di Zangre coglieva in pieno quella luce e brillava come oro fuso sullo sfondo delle nuvole sempre più lontane, con le torri di pietra color ocra coronate da tetti di ardesia dello stesso colore delle nubi in corsa, simili a una schiera di elmi d’acciaio che proteggessero un coraggioso drappello di soldati. Seggio preferito dei Roya di Chalion da generazioni, il castello di Zangre aveva prevalentemente l’aspetto di una fortezza e sembrava dedicata alla guerra al pari di qualsiasi soldato-fratello votato ai sacri ordini militari che servivano gli Dei.

Spingendo il proprio cavallo nero in modo da affiancarlo al baio di Cazaril, il giovane Teidez indugiò a fissare la loro meta con un’espressione nel contempo ammirata e avida. Senza dubbio, in lui c’era il desiderio di veder realizzata la promessa di una vita più libera, priva delle costrizioni imposte da madri e nonne. D’altro canto, Teidez sarebbe stato molto stupido se in quel momento non si fosse chiesto quali possibilità c’erano che quello scintillante capolavoro di pietra potesse diventare suo. E Teidez non era affatto stupido. Per quale altro motivo era stato chiamato a corte, se non perché Orico, disperando ormai di avere un Erede diretto, aveva deciso di prepararlo a succedergli sul trono?

Arrestato a sua volta il pomellato grigio su cui era montata, Iselle indugiò a fissare il castello con avidità quasi pari a quella di Teidez. «È strano, lo ricordavo più grande», commentò infine.

«Aspetta di essere più vicina», le consigliò Cazaril.

Ser dy Sanda, in testa alla colonna, segnalò di riprendere la marcia, e l’intera processione di cavalieri e di muli da soma si avviò di nuovo lungo la strada fangosa. La carovana comprendeva i due giovani di sangue reale, i loro segretari-tutori, Lady Betriz, alcuni servitori e stallieri, una scorta armata che sfoggiava la livrea verde e nera della Baocia, cavalli di scorta, Fiocco di Neve — che ormai si poteva ribattezzare Palla di Fango — e una considerevole quantità di bagagli. Avendo una lunga esperienza di quegli spostamenti — segnati dalle interminabili, irritate lamentele delle nobildonne -, Cazaril valutò alla stregua di un miracolo la rapidità con cui si era svolto il viaggio: avevano impiegato soltanto quattro giorni e mezzo per arrivare fin lì da Valenda. Abilmente coadiuvata da Betriz, la Royesse Iselle aveva gestito il suo seguito con decisione ed efficienza. Nessuna delle inevitabili cause di ritardo che si erano presentate si poteva attribuire a qualche suo capriccio femminile.

A dire il vero tanto Teidez quanto Iselle avevano costretto il loro seguito a mantenere l’andatura più rapida possibile fin dal momento in cui erano usciti da Valenda, precedendo al galoppo il resto del convoglio per allontanarsi dai lamenti angosciosi di Ista, che echeggiavano perfino al di là dei bastioni. Iselle era arrivata al punto di premersi le mani sulle orecchie e di guidare il cavallo soltanto con le ginocchia finché non si era allontanata abbastanza da sottrarsi alle eccessive manifestazioni di dolore della madre.

La notizia che i suoi figli stavano per allontanarsi da lei, per ordine regio, aveva fatto sprofondare la Royina Vedova in uno stato che, pur non essendo di vera e propria follia, era senza dubbio improntato a una profonda disperazione. Ista aveva pianto, pregato e protestato con tanta veemenza che, quando infine si era chiusa nel silenzio, tutti avevano sospirato di sollievo. Prima della partenza, dy Sanda aveva confidato a Cazaril di essere stato preso in disparte dalla Royina, che aveva cercato di corromperlo per indurlo a fuggire con Teidez. Ma dalle sue parole — che dy Sanda aveva definito farneticanti e sconclusionate — non si era capito né come né dove.

La notte precedente la partenza, Ista era andata a cercare anche Cazaril, trovandolo nella sua stanza, intento a riporre le proprie cose nelle sacche da sella. Nel suo caso, però, la conversazione si era svolta in maniera diversa o quantomeno non era stata farneticante.

Per un lungo, snervante momento, Ista si era limitata a fissarlo. «Avete paura, Cazaril?» aveva chiesto poi, senza preamboli.

«Sì, mia signora», aveva risposto lui, con sincerità, dopo una breve riflessione.

«Dy Sanda è uno stolto. Se non altro, voi non lo siete», aveva dichiarato la Royina.

Non sapendo come ribattere, Cazaril si era limitato a un cortese cenno del capo.

«Proteggete Iselle», aveva proseguito la dama, con occhi d’un tratto dilatati dal timore. «Se mai mi avete amata, giurate sul vostro onore di proteggerla. Giuratelo, Cazaril!»

«Lo giuro.»

Ista lo aveva scrutato in volto, ma non aveva chiesto promesse più elaborate né ulteriori rassicurazioni.

«Da che cosa dovrò proteggerla?» si era comunque azzardato a chiedere Cazaril. «Cosa temete, Lady Ista?»

Lei era rimasta in silenzio, sotto la luce delle candele.

«Mia signora, vi prego, non mi mandate in battaglia alla cieca», aveva insistito Cazaril, ricordando la supplica analoga formulata da Palli.

Sbuffando, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco, Ista aveva scosso il capo con aria disperata, si era girata di scatto e aveva lasciato di corsa la stanza, seguita dalla sua dama di compagnia, che sembrava ansiosa ed esasperata nel contempo.

Ormai la meta era vicina e l’eccitazione dei suoi giovani compagni di viaggio stava gradualmente scacciando dall’animo di Cazaril il ricordo della contagiosa inquietudine di Ista. Più avanti, la strada incontrava il fiume che usciva da Cardegoss, e procedeva parallelamente a esso, addentrandosi in un’area boschiva. Più avanti, c’era un altro corso d’acqua, che confluiva nel primo. Una gelida corrente d’aria attraversava la valle ombreggiata e, sulla riva del fiume opposta rispetto alla strada, s’innalzava una parete di roccia alta almeno trecento piedi, coperta di felci e con qualche stento alberello che cresceva nelle fenditure.

Soffermandosi vicino a quel bastione naturale, Iselle levò lo sguardo, mentre Cazaril si arrestava accanto a lei. Da quel punto, era impossibile vedere dove cominciavano le misere aggiunte difensive che i costruttori umani avevano posto sulla sommità di quel muro naturale.

«Oh!» mormorò Iselle.

«Per gli Dei!» esclamò Betriz, raggiungendoli e gettando a sua volta indietro il capo per guardare.

«In tutta la sua storia, la fortezza di Zangre non è mai stata conquistata con un assalto diretto», commentò Cazaril.

«Capisco», mormorò Betriz.

Alcune foglie gialle, segnali dell’autunno imminente, scivolarono via sulle acque scure del fiume mentre il gruppo riprendeva la marcia, uscendo dalla valle nel punto in cui un grande arco di pietra sovrastava il corso d’acqua, dando accesso a una delle sette porte cittadine. Cardegoss condivideva con la fortezza quella pianura scavata dai fiumi, e i bastioni si levavano lungo la sommità dei burroni circostanti con una sagoma tale da creare la forma di una barca: la fortezza era la prua e, da essa, partiva un lungo muro curvo verso l’interno che creava una specie di poppa.

Nella luce limpida di quel terso pomeriggio autunnale, la città aveva un aspetto tutt’altro che sinistro. Le stradine laterali erano piene di banchetti che offrivano cibi, fiori e altre mercanzie e affollate da uomini e donne di ogni genere: fornai e banchieri, tessitori e sarti, gioiellieri e sellai. C’erano anche le botteghe di numerosi artigiani che, per esercitare il loro mestiere, non avevano bisogno di acqua corrente e quindi potevano stare lontani dal fiume. Il gruppo reale raggiunse la cosiddetta Piazza del Tempio, dotata di cinque lati, uno per ciascuna grande casa regionale dei sacri ordini degli Dei. Là, Divini, Accoliti e Devoti andavano e venivano con un piglio indaffarato che dava loro più l’aspetto di burocrati che di asceti. Nel centro della grande piazza pavimentata spiccava poi la mole dalla familiare forma di quadrifoglio, con torre annessa, del Tempio della Santa Famiglia di Cardegoss, decisamente più vasto e impressionante di quello di Valenda.

Nonostante la malcelata impazienza del fratello, Iselle pretese di fare una sosta davanti al Tempio. Su suo ordine, Cazaril entrò nell’echeggiante cortile interno a deporre un’offerta in denaro sull’altare della Signora della Primavera, in segno di gratitudine per il buon esito del viaggio. Un’Accolita prese in consegna il denaro con qualche parola di ringraziamento e fissò con curiosità Cazaril, che si limitò a borbottare una rapida e distratta preghiera per poi uscire subito e rimontare in sella.

Nel risalire il lungo e dolce pendio che portava alla fortezza di Zangre, il gruppo percorse alcune strade lungo le quali sorgevano le alte e squadrate case dei nobili, costruite in pietra levigata e dotate d’inferriate che proteggevano porte e finestre. All’inizio della sua vedovanza, la Royina Ista aveva abitato per qualche tempo in una di esse e Iselle, piena di eccitazione, credette per tre volte di riconoscere la dimora della sua infanzia. Alla fine, confusa, desistette, facendo però promettere a Cazaril di accertare quale fosse la vera casa.

Il gruppo raggiunse così il portone della fortezza, davanti al quale il suolo del pianoro si apriva in una fenditura naturale, più profonda e minacciosa di qualsiasi fossato. Al di là di essa, c’erano le basi delle mura: enormi massi irregolari, ma così ben incastrati che tra essi non poteva passare neppure la lama di un coltello. Le mura, invece, erano in pietra finemente lavorata dai roknari, decorata con eleganti disegni geometrici, che la facevano apparire delicata come zucchero filato. Sulla sommità, tuttavia, le pietre erano squadrate in modo più grezzo. Pareva che gli uomini avessero voluto competere con gli Dei, costruendo un edificio possente al pari del baluardo di roccia su cui esso sorgeva. Zangre era l’unico castello che riuscisse a dare a Cazaril un senso di vertigine anche semplicemente guardandolo dal basso.

Dalla sommità delle mura giunse uno squillo di corno, poi alcuni soldati che indossavano la livrea del Roya Orico salutarono i nuovi venuti, mentre essi oltrepassavano il ponte levatoio e la stretta arcata di accesso al cortile. Lady Betriz prese a guardarsi intorno con le labbra socchiuse per la meraviglia, serrando le redini con un certo nervosismo. Il cortile era dominato da un’enorme torre rettangolare, edificata durante il regno del Roya Ias e di Lord dy Lutez, quindi piuttosto recente. Cazaril si era sempre chiesto se le sue grandi dimensioni fossero un indice della forza degli uomini che l’avevano eretta o non piuttosto delle loro paure. A poca distanza dalla torre squadrata, e alta quasi quanto essa, si scorgeva una torre rotonda, che incombeva sul corpo principale della fortezza; il suo tetto di ardesia era sfondato, la sua sommità infranta e irregolare.

«Dei santissimi… Cos’è successo a quella torre? Perché non la riparano?» mormorò Betriz.

«Ah, quella è la torre del Roya Fonsa il Saggio», rispose Cazaril, assumendo il suo atteggiamento da precettore, più per la propria tranquillità che per quella di Betriz. Evitò di aggiungere che, dopo la sua morte, quel sovrano era diventato comunemente noto come Fonsa l’Abbastanza Saggio. «Dicono che lui avesse l’abitudine di starvi per tutta la notte, cercando di leggere nelle stelle la volontà degli Dei e il destino di Chalion. Durante la notte in cui ha operato il suo miracolo di magia di morte a spese del Generale Dorato, una grande tempesta accompagnata da fulmini ha abbattuto il tetto e appiccato un fuoco che, nonostante la pioggia torrenziale, non si è spento fino al mattino successivo.»

L’invasione dei roknari iniziata con uno sbarco, aveva portato alla conquista della maggior parte di Chalion, di Ibra e di Brajar. Sull’onda di quei successi, i roknari avevano addirittura oltrepassato Cardegoss e si erano spinti fino ai piedi delle catene montuose meridionali, con scorrerie che avevano minacciato perfino la Darthaca. Dalle ceneri dei deboli Vecchi Regni e dalla dura culla delle colline erano però emersi uomini nuovi, che avevano combattuto per generazioni, decisi a riconquistare i territori perduti. Essendo guerrieri-ladri, avevano elevato il saccheggio a stile di vita: i nobili non creavano il loro patrimonio, lo rubavano. Una vera beffa del destino per i roknari, per i quali «riscuotere un tributo» significava mandare un gruppo di soldati a prendere con la forza tutto ciò di cui si aveva bisogno. A forza di corruzioni e di contro corruzioni, i roknari erano stati ricacciati indietro, finché Chalion non era diventata teatro di una strana danza in cui si avvicendavano eserciti e contabili. Col tempo, poi, i roknari erano stati confinati nella zona settentrionale, verso il mare, e si erano lasciati alle spalle numerosi castelli in rovina e una lunga serie di brutalità. Si erano poi ridotti a cinque principati lungo la costa orientale, in perenne lotta fra loro.

Il Generale Dorato, il Leone di Roknar, aveva cercato d’invertire il flusso di quella marea. Con la guerra, l’astuzia e un matrimonio, in dieci anni aveva riunito i cinque principati: era la prima volta, da quando i roknari erano sbarcati sul continente. Appena trentenne, aveva ai suoi ordini una grande quantità di uomini e si era preparato a calare nuovamente verso il sud, dichiarando che avrebbe spazzato via con la spada e col fuoco gli eretici quintariani, che adoravano il Bastardo. Disperate e disunite, Chalion, Ibra e Brajar avevano cominciato a subire sconfitte su ogni fronte.

Dato che i tentativi «convenzionali» di assassinare quel genio militare erano falliti, si era fatto ricorso alla magia di morte almeno una dozzina di volte, ma invano. Basandosi su studi approfonditi, Fonsa il Saggio era allora giunto alla conclusione che il Generale Dorato era stato prescelto da uno degli Dei e che nessun sacrificio inferiore a quello della vita di un re avrebbe potuto controbilanciare il suo sfolgorante destino. Nel corso delle guerre contro il nord, Fonsa aveva già perso cinque figli ed eredi, e il suo figlio più giovane, Ias, era impegnato in una lotta serrata contro i roknari, per difendere gli ultimi passi montani e bloccare le vie d’invasione. In una notte di tempesta, prendendo con sé soltanto un Divino del Bastardo che godeva della sua confidenza e un giovane paggio fedele, Fonsa era salito sulla sua torre, e si era chiuso a chiave la porta alle spalle…

La mattina successiva, i cortigiani di Chalion avevano estratto dalle macerie tre corpi carbonizzati. Soltanto la diversa statura aveva permesso loro di distinguere il Divino dal paggio e dal Roya. Sconvolta e terrorizzata, l’intera corte aveva atteso che il suo fato si compisse, ma il corriere partito da Cardegoss alla volta del settentrione, per portare la luttuosa notizia, si era incontrato con un altro corriere diretto a sud per annunciare la vittoria. Funerale e incoronazione erano così stati celebrati contemporaneamente all’interno del castello di Zangre.

«Quand’è tornato dalla guerra, il Royse Ias — ora divenuto Roya — ha ordinato di murare le finestre più basse e le porte della torre del padre, proclamando che nessuno vi doveva entrare», spiegò Cazaril a Betriz, contemplando quelle alte mura.

In quel momento, una nera sagoma svolazzante si lanciò dalla sommità della torre, inducendo Betriz ad abbassare la testa con uno strillo spaventato.

«I corvi vi hanno fatto il nido fin da allora», osservò Cazaril, piegando la testa all’indietro per seguire il corvo che volava in cerchio sullo sfondo azzurro del cielo. «Credo si tratti degli stessi corvi che i Divini del Bastardo nutrono nel cortile del Tempio. Sono uccelli intelligenti, tanto che gli Accoliti li addomesticano e insegnano loro a parlare.»

«Cosa dicono?» domandò Iselle, che si era fatta più vicina.

«Non molto», ammise Cazaril, scoccandole un rapido sorriso. «Non ne ho mai visto uno il cui vocabolario consistesse di più di tre stridii, benché alcuni Accoliti sostenessero che stavano dicendo molto di più.»

Avvertito dal messaggero che dy Sanda aveva mandato a precederli, uno stuolo di servitori e di garzoni di stalla stava accorrendo per assistere gli ospiti, e il siniscalco del castello di Zangre provvide a sistemare i gradini perché la Royesse Iselle potesse smontare di sella. Osservando quella testa grigia china davanti a lei, forse Iselle si rammentò del proprio rango e, per una volta, si servì dei gradini, scendendo da cavallo con la grazia propria di una dama. Teidez consegnò le redini della propria cavalcatura a uno stalliere che continuava a inchinarsi e a guardarsi intorno con occhi scintillanti. Il siniscalco conferì poi rapidamente con dy Sanda e con Cazaril per risolvere una dozzina di problemi pratici immediati, che andavano dal trovare una sistemazione ai cavalli e ai servi al fare altrettanto col Royse e con la Royesse.

Subito dopo, il siniscalco accompagnò i due giovani figli della Royina verso le stanze loro assegnate, nell’ala sinistra del corpo principale del palazzo, precedendo una lunga fila di servitori carichi di bagagli. A Teidez e al suo seguito venne data metà di un intero piano, mentre Iselle e le sue dame furono sistemate al piano superiore. Quanto a Cazaril, si vide assegnare una camera sul piano riservato ai gentiluomini, proprio in fondo al corridoio, tanto da indurlo a chiedersi se ci si aspettava da lui che sorvegliasse la porta.

«Riposate e rinfrescatevi», consigliò il siniscalco. «Il Roya e la Royina vi riceveranno stasera, nel corso di un banchetto per celebrare il vostro arrivo, un banchetto cui presenzierà tutta la corte.»

Seguì un’altra processione di servitori che portavano acqua per lavarsi, asciugamani e lenzuola puliti, pane, frutta, pasticcini, formaggio e vino. Prima del banchetto, i visitatori giunti da Valenda non avrebbero patito né la fame né la sete.

«Dove sono il mio regale fratello e mia cognata?» chiese Iselle al siniscalco.

«La Royina sta riposando», rispose l’uomo, con un inchino. «Il Roya invece sta visitando il suo serraglio, che costituisce per lui una grande consolazione.»

«Mi piacerebbe vederlo», osservò Iselle, in tono un po’ malinconico. «Me ne ha parlato spesso, nelle sue lettere.»

«Diteglielo, e di certo sarà lieto di mostrarvelo», garantì il siniscalco, con un sorriso.

Le dame si trovarono ben presto impegnate in una frenetica ricerca per scegliere gli indumenti adatti al banchetto. Era un’attività che non richiedeva l’assistenza di Cazaril, il quale ordinò al servitore messogli a disposizione di scaricare il baule col suo vestiario nella stanzetta. Poi, dopo aver chiesto al giovane di andarsene, gettò le sacche da sella sul letto e vi frugò dentro, cercando la lettera per Orico che la Provincara gli aveva ingiunto di consegnare al Roya al più presto possibile, dopo il suo arrivo al castello di Zangre. Trovata la lettera, Cazaril si concesse appena il tempo di lavarsi le mani dalla polvere accumulata durante il viaggio e di dare una rapida occhiata dalla finestra della sua stanza. Era affacciata su un profondo burrone che, su quel lato del castello, sembrava partire proprio dal suo davanzale ed estendersi fino a un vago scintillare d’acqua che rivelava la presenza del fiume, a stento visibile tra gli alberi, molto più in basso. Infine uscì per andare alla ricerca di Orico.

Nel tragitto fino al serraglio — annesso alle stalle e quindi situato fuori delle mura e al di là dei giardini -, Cazaril si perse soltanto una volta, individuando infine la sua meta grazie a un acuto odore di letame che però non era né umano né equino. Indugiando davanti all’ingresso, fissò con diffidenza la soglia ad arco dell’edificio di pietra, attendendo che la vista gli si abituasse alla penombra, poi entrò con cautela.

Venne immediatamente attratto da un paio di stallaggi, convertiti in gabbie, che ospitavano due splendidi orsi neri dal pelo lucido e folto. Uno di essi stava dormendo su un mucchio di paglia pulita; l’altro sollevò il muso al suo passaggio e annusò l’aria con fare speranzoso. Sul lato opposto del passaggio, altri stallaggi ospitavano bestie che lui non riuscì neppure a identificare: sembravano capre alte e dinoccolate, con un lungo collo ricurvo, occhi miti e una pelliccia folta e morbida. Subito dopo, in una stanza laterale, grandi uccelli dai colori vivaci — almeno una dozzina — erano appollaiati sui trespoli, intenti a ciangottare e a pavoneggiarsi, mentre altri volatili più piccoli, ma ugualmente colorati, svolazzavano all’interno di una serie di gabbie appese alla parete. Dalla parte opposta, in una rientranza aperta, Cazaril trovò infine alcuni esseri umani: uno stalliere che indossava la livrea del Roya e un uomo grasso che sedeva a gambe incrociate su un tavolo, la mano stretta intorno al collare adorno di gemme di un leopardo. Sussultando, Cazaril s’immobilizzò nel vedere l’uomo protendere la testa, avvicinarla alle fauci aperte del grande felino e mettersi a pettinare l’animale con gesti decisi, in mezzo a una nuvola di peli gialli e neri. Il leopardo si contorse sul tavolo in preda a quella che, dopo un momento, Cazaril identificò come una manifestazione felina di estasi. Ma, concentrato com’era sul leopardo, impiegò un altro istante a rendersi conto che l’uomo impegnato a spazzolarlo era il Roya Orico.

Erano trascorsi almeno dodici anni da quando l’aveva visto e il tempo non era certo stato clemente con Orico. A dire il vero, non era mai stato un uomo avvenente, neppure quand’era ancora nel fiore degli anni. Di statura leggermente inferiore alla media, Orico aveva il naso un po’ troppo corto e, purtroppo, deformato da una frattura in seguito a una caduta da cavallo avvenuta quand’era ancora un ragazzo. Ormai sembrava che, al centro del viso, pallido e gonfio, ci fosse una sorta di fungo schiacciato. Gli occhi erano segnati da spesse borse; i capelli, un tempo ramati e ricciuti, erano diventati rossicci e molto più radi; il corpo appariva vistosamente ingrassato. Mentre procedeva a spazzolarlo, Orico rivolgeva al leopardo versi gorgoglianti e il felino gli strusciava la testa contro la tunica, spargendo altro pelo, e leccando il broccato con colpi vigorosi di una lingua grande quanto uno strofinaccio. Senza dubbio, era interessato a una grossa macchia di grasso che si stendeva sull’ampio ventre del Roya. Le maniche di Orico erano arrotolate, rivelando una mezza dozzina di graffi; d’un tratto, il leopardo chiuse le fauci intorno a un braccio nudo e lo trattenne brevemente, senza però accentuare la stretta. Costringendosi a rilassare le dita, strette intorno all’impugnatura della spada, Cazaril si schiarì la gola per annunciare la propria presenza e, quando il Roya girò la testa, posò al suolo un ginocchio.

«Sire, vi porto i rispettosi saluti della Provincara della Baocia e questa sua lettera», disse, porgendo il documento. Poi, nell’eventualità che nessuno avesse ancora provveduto a informare Orico, aggiunse: «Il Royse Teidez e la Royesse Iselle sono arrivati a palazzo sani e salvi».

«Oh, sì», commentò il Roya, rivolgendo un cenno del capo all’anziano stalliere, che si avvicinò a Cazaril e gli rivolse un aggraziato inchino, prendendo la lettera.

«Sua Grazia la Provincara mi ha ordinato di consegnarla nelle vostre mani», precisò Cazaril, in tono incerto.

«Sì, sì… Aspettate un momento soltanto…»

Con uno sforzo, impacciato dal ventre sporgente, Orico si chinò in avanti per abbracciare il felino, poi attaccò una catena d’argento al collare e, con qualche altro verso d’incitamento, indusse la bestia a saltare giù dal tavolo, scendendo a sua volta con maggiore lentezza. «Prendi, Umegat», disse.

Evidentemente quello era il nome dello stalliere e non del felino, dato che l’uomo venne avanti e s’impadronì del guinzaglio d’argento, consegnando la lettera prima di condurre il leopardo verso la sua gabbia. Ve lo spinse dentro con un ginocchio senza troppe cerimonie e, mentre l’animale si sfregava contro le sbarre, Cazaril osservò lo stalliere chiudere la gabbia e si concesse un sospiro di sollievo.

Orico infranse il sigillo della lettera, spargendo frammenti di cera sul pavimento di piastrelle spazzato con cura, poi segnalò distrattamente a Cazaril di rialzarsi e si mise a leggere con fatica le righe stilate dalla Provincara nella sua calligrafia angolosa e minuta, ora avvicinando e ora allontanando il foglio per vedere meglio. Rammentando come si doveva comportare un messaggero, Cazaril incrociò le mani dietro la schiena e si dispose ad attendere di essere interrogato o congedato, a seconda delle esigenze di Orico.

Per passare il tempo, durante l’attesa indugiò a osservare lo stalliere — forse addirittura il capo stalliere? -, che era di origini roknari, cosa peraltro chiara già dal suo nome. Sebbene la sua figura fosse piuttosto curva, da giovane, Umegat probabilmente era stato alto. Così la sua pelle, che doveva aver avuto una tonalità dorata, si era incartapecorita e aveva un colore simile al cuoio. I ricciuti capelli ramati, abbondantemente striati di grigio, erano raccolti in due trecce aderenti al cranio: partivano dalle tempie e seguivano il contorno della testa, fino a incontrarsi sulla nuca in una coda ordinata, secondo un antico stile roknari. Quella pettinatura suggeriva che lui fosse un roknari di razza pura… Era però vero che, a Chalion, i mezzosangue abbondavano. Lo stesso Roya Orico aveva un paio di principesse roknari nel proprio albero genealogico, sia sul lato chalionese sia su quello brajariano, cosa che spiegava i suoi capelli ricciuti. Abbigliato con la livrea usata da tutti i servitori di Zangre — tunica e calzoni, più un tabarro lungo fino al ginocchio su cui spiccava lo stemma di Chalion, un leopardo rampante sulla sagoma stilizzata di un castello -, lo stalliere appariva molto più pulito e ordinato del suo padrone.

«La Royina Ista non ha preso bene la cosa, vero?» sospirò Orico, rivolto a Cazaril, quando ebbe finito di leggere.

«Naturalmente è rimasta turbata all’idea di doversi separare dai suoi figli», replicò lui, soppesando le parole.

«Era quello che temevo, ma non ho potuto evitarlo. Considerati i suoi disturbi, preferisco saperla a Valenda e non a Cardegoss. Non la voglio qui, perché è troppo… difficile da gestire», dichiarò Orico, sfregandosi il naso col dorso della mano. «Riferite a Sua Grazia la Provincara che gode di tutta la mia stima, e garantitele che mi preoccuperò personalmente del benessere dei suoi nipoti, che godranno della mia fraterna protezione.»

«Intendo scriverle stanotte stessa, sire, per informarla che siamo arrivati a destinazione sani e salvi, e le riferirò le vostre parole.»

Orico annuì, si massaggiò nuovamente il naso, poi fissò CazariL socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco il suo volto. «Vi conosco?» domandò, infine.

«Io… non credo, sire. Di recente, la Provincara mi ha nominato segretario della Royesse Iselle e, in passato, quand’ero più giovane, ho servito il defunto Provincar della Baocia in qualità di paggio.» Non volendo far affiorare nella mente del Roya ricordi più recenti, Cazaril evitò di spiegare che era stato anche al servizio di dy Guarida. Senza dubbio, una certa copertura gli era garantita dalla barba, dai capelli spruzzati di grigio e dal suo aspetto generalmente debilitato. Il fatto che Orico non fosse in grado di riconoscerlo lo indusse a sperare che anche altri non sarebbero stati capaci di farlo. Nel contempo, però, si chiese per quanto tempo poteva vivere lì a Cardegoss senza rivelare il proprio nome.

Ma, a quanto pareva, il suo anonimato si sarebbe protratto ancora per qualche tempo, dato che Orico annuì con aria soddisfatta e, senza chiedergli come si chiamasse, lo congedò con un cenno della mano. «Suppongo quindi che sarete presente al banchetto», disse soltanto. «Riferite alla mia affascinante sorella che sono impaziente d’incontrarla.»

Inchinatosi, Cazaril batté in ritirata e, tormentandosi un labbro tra i denti con fare preoccupato, si diresse verso lo Zangre. Se tutta la corte sarebbe stata presente al banchetto di benvenuto di quella sera, senza dubbio ci sarebbe stato anche il Cancelliere, March dy Jironal, principale consigliere di Orico. E, dove c’era March dy Jironal, di solito si trovava anche suo fratello, Lord Dondo.

Forse neppure loro si ricorderanno di me, si disse, pensando che erano trascorsi oltre due anni dalla caduta — dalla vergognosa vendita — di Gotorget, e un tempo ancora più lungo dallo sgradevole incidente nella tenda del folle Principe Olus. Dopotutto, la sua esistenza di certo non era stata che una minuscola seccatura, per quei potenti nobili, ed essi ignoravano che lui era al corrente della verità, vale a dire del fatto che la sua vendita come schiavo era dipesa da un ponderato tradimento e non da un errore. Se non avesse fatto nulla per attirare l’attenzione su di sé, quei due non si sarebbero ricordati di nulla, e lui non avrebbe corso rischi.

È da stolti sperarlo, pensò tuttavia, un momento più tardi, incurvando le spalle e accelerando il passo.


Tornato in camera, Cazaril indugiò per un momento a contemplare la semplice veste marrone accompagnata dalla consueta sopravveste nera: quei due capi costituivano il suo abbigliamento preferito, per la sobrietà e l’anonimato che gli assicuravano. Ma, obbediente agli ordini giunti dal piano superiore tramite una cameriera, fu costretto a scegliere una tenuta molto più appariscente ed elegante: una tunica celeste abbinata a una sopravveste di broccato turchese e a calzoni blu scuro. Erano indumenti appartenuti al vecchio Provincar e ancora vagamente pervasi dal sentore delle spezie riposte insieme con essi per proteggerli dalle tarme. Spada e stivali completarono quel suo abbigliamento da cortigiano, cui mancava soltanto qualche anello e monile per renderlo perfetto.

Dietro insistente richiesta di Teidez, il Castillar salì quindi al piano superiore per controllare se le dame fossero pronte, scoprendo così che l’abbigliamento da lui indossato — e tanto vistoso, a suo parere — armonizzava col resto del gruppo. Iselle aveva infatti scelto la sua veste bianca e azzurra preferita, unita a una sopragonna con gli stessi colori; i colori indossati da Betriz e dalla dama di compagnia erano rispettivamente il turchese e il blu notte. All’interno del gruppetto, qualcuno aveva deciso che non era però il caso di eccedere nello sfarzo, per cui Iselle sfoggiava soltanto gioielli adatti a una giovane donna nubile: piccoli orecchini di diamanti, una spilla che ornava la scollatura, una cintura smaltata e due anelli. Quanto a Betriz, le erano stati prestati alcuni degli altri gioielli di proprietà della Royesse. Raddrizzandosi, Cazaril cessò di rimpiangere i suoi abiti anonimi e si ripromise di recitare sino in fondo il proprio ruolo nell’interesse di Iselle.

Dopo le ultime, piccole modifiche al vestiario o ai gioielli, Cazaril scortò le donne al piano di sotto, dove si unirono a Teidez e al suo piccolo seguito, costituito da dy Sanda, dal capitano delle guardie baociane che li avevano scortati durante il viaggio e dal suo sergente, questi ultimi abbigliati con la loro divisa migliore e tutti con al fianco una spada dall’impugnatura adorna di gemme. Tra un frusciare di stoffe e un tintinnare di metalli, il gruppetto seguì il paggio reale fino alla sala del trono di Orico.

Giunti nell’anticamera, si fermarono per disporsi nel giusto ordine, in obbedienza alle istruzioni sussurrate dal siniscalco, poi le porte si spalancarono, ci fu uno squillare di corni e il siniscalco annunciò il loro ingresso con voce stentorea. «Il Royse Teidez dy Chalion! La Royesse Iselle dy Chalion! Ser dy Sanda…» scandì, presentando l’uno dopo l’altro i nuovi venuti nell’opportuno ordine di rango e finendo con: «Lady Betriz dy Ferrej, il Castillar Lupe dy Cazaril, Sera Nan dy Vrit!»

«Lupe?» sussurrò Betriz, scoccando un’occhiata in tralice a Cazaril, con una luce divertita negli occhi scuri. «Il vostro nome è Lupe

Considerata la situazione, Cazaril si ritenne esentato dal dare una risposta, che comunque sarebbe stata incoerente e confusa. La sala era affollata di dame e di cortigiani, l’aria era intrisa di un sentore di profumo e d’incenso, pervasa di eccitazione. Nel contemplare quella massa scintillante, adorna di gioielli e di stoffe preziose, Cazaril si rese conto che il suo abbigliamento era comunque austero e anonimo. Anzi, se avesse optato per la severa veste marrone, avrebbe fatto la figura di un corvo in mezzo a una marea di pavoni, dato che persino le pareti erano rivestite di broccato rosso.

Su una piattaforma rialzata, posta in fondo alla sala e sovrastata da un baldacchino di broccato rosso frangiato con trecce dorate, il Roya Orico e la sua Royina sedevano su due seggi dorati. Lavato e con indosso abiti puliti, Orico aveva un aspetto decisamente migliore, con le guance gonfie pervase da una sfumatura di colore e la coroncina d’oro che gli conferiva un’aria quasi regale, nonostante il fisico tozzo e tutt’altro che giovanile. La Royina Sara indossava eleganti vesti scarlatte e sedeva tenendosi eretta, quasi rigida. Ormai oltre la trentina, appariva sfiorita. Anzi aveva un’aria così impassibile che Cazaril si chiese quali fossero i suoi sentimenti riguardo al ricevimento a corte dei regali cognati. Non avendo avuto figli, la Royina aveva mancato di adempiere al suo principale dovere nei confronti della royacy di Chalion… Sempre che quella colpa fosse da attribuire a lei, rifletté Cazaril. Fin dall’epoca in cui era un semplice paggio, lui aveva sentito sussurrare che Orico non aveva mai generato nessun bastardo, anche se a quel tempo la cosa veniva attribuita alla sua fedeltà nei confronti della Royina. Ma quel riconoscimento ufficiale, concesso a Teidez dalla coppia reale, equivaleva all’ammissione pubblica di una disperazione quanto mai privata e personale.

A turno, Teidez e Iselle avanzarono verso la piattaforma, scambiando col Roya e con la Royina fraterni baci di benvenuto sulle mani. Per quell’occasione, i formali baci di sottomissione sulla fronte, sulle mani e sui piedi non vennero contemplati dal cerimoniale. E infatti anche al seguito fu concesso d’inginocchiarsi e di baciare soltanto la mano ai regnanti. Sotto il tocco rispettoso delle labbra di Cazaril, la mano di Sara parve gelida come cera.

Preso posto alle spalle di Iselle, il Castillar si dispose a esercitare la virtù della pazienza, dato che i due fratelli dovevano ricevere il saluto di una lunga fila di cortigiani. Sapeva bene che sarebbe stato offensivo escludere qualcuno da quella breve cerimonia, negandogli di presentarsi personalmente al Royse e alla Royesse. D’un tratto, però, sentì il respiro che gli si bloccava in gola e fissò con terrore i due uomini che stavano avanzando per presentarsi a Teidez e a Iselle.

Abbigliato in marrone, arancione e giallo — la tenuta da corte completa richiesta per un generale del sacro Ordine militare del Figlio -, il March dy Jironal non era cambiato da quando lo aveva visto l’ultima volta, cioè tre anni prima. Quell’incontro era avvenuto sotto la tenda da campo di dy Jironal, il quale aveva consegnato a Cazaril le chiavi di Gotorget e l’incarico di difendere la fortezza. Il March dy Jironal era sempre magro, brizzolato, freddo, pervaso di energia e poco propenso al sorriso. La larga cintura a bandoliera cui era appesa la spada era decorata coi simboli del Figlio — armi, animali e botti di vino — realizzati in smalto e gemme; al collo, lui sfoggiava la catena d’oro simbolo della sua carica di Cancelliere di Chalion. Sulle mani, poi, erano visibili tre grossi anelli con sigillo: quello del suo ricco casato, quello di Chalion e quello dell’Ordine del Figlio. Non portava altri gioielli, ma non ce n’era bisogno: il suo potere era già più che evidente.

Anche Lord Dondo dy Jironal indossava le vesti di un generale di un sacro Ordine, nel suo caso quelle azzurre e bianche dell’Ordine della Figlia. Più massiccio del fratello, e con la sgradevole tendenza a sudare abbondantemente, a quarant’anni Lord Dondo emanava ancora il dinamismo tipico della sua famiglia e, a parte la nuova carica indicata dal vestiario, non appariva cambiato o invecchiato rispetto a quando Cazaril lo aveva visto per l’ultima volta, nell’accampamento del fratello. Osservandolo, Cazaril si rese conto di aver sperato che Dondo fosse almeno diventato grasso quanto Orico, considerato che era famoso per i suoi eccessi — a letto, a tavola o altrove -, ma il suo fisico appariva soltanto un poco appesantito. I gioielli che gli decoravano le mani, le orecchie, il collo, le braccia e gli stivali dagli speroni d’oro costituivano uno sfoggio di ricchezza tale da compensare abbondantemente la sobrietà del fratello.

Dy Jironal lanciò un’occhiata distratta a Cazaril, però non sembrò riconoscerlo. Dondo invece si accigliò, indugiando a scrutare con aria sempre più corrucciata il volto del Castillar, ben attento a mantenere un’espressione neutra e affabile. Ma l’attento esame di Dondo s’interruppe allorché il fratello fece cenno a un servitore di presentare i propri doni al Royse Teidez: una sella e briglie decorate in argento, un eccellente arco da caccia e una lancia per cinghiali dalla scintillante punta di acciaio cesellato. Teidez accettò quei regali con parole di ringraziamento tanto eccitate quanto sincere.

Dopo essersi presentato formalmente, Lord Dondo schioccò le dita in direzione di un servitore, che si affrettò a porgergli un piccolo cofanetto, dal quale, con fare teatrale, Dondo prelevò una collana di perle di una lunghezza incredibile, che sollevò perché tutti potessero vederla. «Royesse, vi porgo il benvenuto a Cardegoss per conto del mio sacro Ordine, della mia gloriosa famiglia e della mia nobile persona! Permettetemi di offrirvi questo filo di perle, la cui lunghezza equivale alla vostra statura, quindi la raddoppia.» Mostrò nuovamente la collana, che in effetti era lunga come Iselle, che la guardava, stupita. «Intendo inoltre rendere grazie agli Dei per il fatto che voi non siete ancora più alta… altrimenti sarei andato in bancarotta.» Mentre una risatina si diffondeva tra i cortigiani, Lord Dondo sfoggiò un accattivante sorriso e aggiunse, in tono sommesso: «Posso?»

Senza attendere una risposta, si chinò in avanti per passare le perle sopra la testa di Iselle, che sussultò leggermente nel sentire la mano di lui che le sfiorava la guancia. Subito dopo, tuttavia, prese ad accarezzare quelle piccole sfere scintillanti con un sorriso pieno di meraviglia, balbettando parole di ringraziamento cui Dondo rispose con un inchino un po’ troppo accentuato, tanto che a Cazaril sembrò improntato più a una sottile derisione che al rispetto.

Conclusa la presentazione e l’offerta del suo dono, Dondo si concesse infine un momento per mormorare qualcosa all’orecchio del fratello e, pur essendo troppo lontano per distinguere le parole, Cazaril ebbe la netta impressione di vedere le sue labbra formare la parola Gotorget. Per un istante, dy Jironal si girò a guardare Cazaril con occhi sorpresi e attenti, poi entrambi i fratelli furono costretti a spostarsi per fare posto al nobile successivo.

I doni di benvenuto elargiti al Royse e alla Royesse erano così numerosi che Cazaril fu costretto ad assumersi l’incarico di catalogare quelli di Iselle. Con l’aiuto di Betriz, annotò il nome di ciascun donatore, il regalo ricevuto e trascrisse poi tutto nell’inventario personale della Royesse. Ma ciò non impedì al Castillar di notare — con una punta di divertimento — che quei cortigiani stavano sciamando intorno ai due giovani come mosche intorno a un vasetto di miele. Teidez era senza dubbio esaltato da tutte quelle attenzioni — infatti riusciva a stento a soffocare risatine entusiaste -, mentre dy Sanda appariva un po’ rigido: era soddisfatto, sì, però anche molto teso. Quanto a Iselle, pur essendo felice di quei doni, si stava comportando con notevole dignità. Si mostrò allarmata soltanto quando le venne presentato un inviato roknari, proveniente da uno dei principati del settentrione: un uomo alto, dalla pelle dorata, coi capelli ramati raccolti in un insieme elaborato di trecce e abbigliato con eleganti vesti di lino che fluttuarono come bandiere allorché lui eseguì un profondo inchino. Scura in volto, Iselle rispose con una cortese riverenza e accettò con qualche parola di ringraziamento una splendida cintura d’oro decorata con coralli intagliati e pezzi di giada.

Benché fossero soprattutto armi, i doni di Teidez risultarono più assortiti; Iselle ricevette prevalentemente gioielli, ma anche tre eleganti carillon. Alla fine della cerimonia, i regali non immediatamente indossati vennero disposti su un tavolo, dato che il loro scopo ultimo era appunto permettere a tutti di ammirare la ricchezza, l’ingegnosità o la generosità di chi li aveva elargiti. Infine, lasciati quei doni alla sorveglianza di due paggi, la folla dei cortigiani di Cardegoss passò nella sala dei banchetti.

Il Royse e la Royesse vennero scortati alla tavola d’onore e fatti sedere rispettivamente accanto a Orico e alla Royina; i posti successivi vennero occupati dai fratelli dy Jironal, dal Cancelliere — accomodato vicino al quattordicenne Teidez, al quale riservò un sorriso alquanto teso -, e da Lord Dondo, che, seduto accanto a Iselle, cercò subito di accattivarsene il favore. Ma le sue battute ebbero scarso successo.

Cazaril fu sistemato a uno dei lunghi tavoli disposti perpendicolarmente alla tavola d’onore, più avanti rispetto alla massa e abbastanza vicino alla sua protetta. Ben presto scoprì che il gentiluomo di mezz’età seduto alla sua destra era un inviato di Ibra.

«Gli ibrani mi hanno trattato bene nel corso del mio ultimo soggiorno nella vostra terra», disse con cortesia, dopo che si furono presentati, evitando peraltro di scendere nei dettagli. «Cosa vi ha condotto a Cardegoss, mio signore?»

«Siete il segretario di Iselle, vero?» replicò l’ibrano, con un sorriso cordiale. «Ecco, a parte il fatto che è senza dubbio piacevole venire a caccia a Cardegoss, in autunno, il Roya di Ibra mi ha inviato qui perché persuadessi il Roya Orico a non sostenere la ribellione scatenata dall’Erede nell’Ibra meridionale. Attualmente, l’Erede sta accettando aiuti dalla Darthaca, ma, col tempo, scoprirà che sono una lama a doppio taglio.»

«La ribellione del suo Erede deve costituire un doloroso contrattempo per il Roya di Ibra», osservò Cazaril, sincero, ma in tono volutamente neutro. Negli ultimi trent’ anni, infatti, la vecchia Volpe di Ibra aveva fatto il doppio gioco con Chalion tante di quelle volte da poter essere considerata un dubbio alleato e un pericoloso nemico, anche se quell’orribile, intermittente guerra contro il figlio poteva essere considerata una punizione inflittagli dagli Dei per la sua infida astuzia. «Non ho idea di quali siano le intenzioni del Roya Orico», proseguì. «Tuttavia preferire un contendente giovane a uno anziano mi sembra una scommessa vincente. Quei due dovranno fare di nuovo la pace, altrimenti sarà il tempo a risolvere la contesa: per quel vecchio, sconfiggere il figlio sarebbe come sconfiggere se stesso.»

«Non stavolta, dato che il Roya di Ibra ha un altro figlio», ribatté l’inviato, poi si guardò intorno e si protese verso Cazaril, proseguendo in un sussurro: «Questo fatto non è sfuggito all’Erede che, per garantire la propria posizione, lo scorso autunno ha cercato di aggredire il fratello minore. Badate, lui sostiene di non aver ordinato affatto una simile azione… Dice che sono stati alcuni suoi seguaci a fraintendere certe affermazioni avventate, ma, a mio parere, le sue parole erano state comprese fin troppo bene… Comunque, grazie agli Dei, il tentativo di rapire il giovane Royse Bergon è stato sventato. Con quel gesto, però, l’Erede ha esaurito ogni possibilità di fare appello alla clemenza del padre. Non ci sarà pace tra loro, a meno che l’Ibra meridionale non scelga di arrendersi».

«Una triste vicenda», affermò Cazaril. «Spero che finiscano tutti per ritrovare un po’ di buon senso.»

«Già», convenne l’inviato, con un sorrisetto teso, apprezzando l’abilità con cui Cazaril aveva evitato di schierarsi e rinunciando a smuoverlo dalla sua posizione chiaramente a favore dell’Erede.

Il banchetto fu davvero superbo e Cazaril si ritrovò pieno fin quasi a scoppiare quando finalmente la corte si trasferì nel salone in cui si sarebbero svolte le danze. Il Roya Orico si addormentò immediatamente sul suo seggio, suscitando in lui una notevole invidia. L’esibizione dei musici di corte risultò eccellente e la Royina Sara, pur non prendendo parte alle danze, si addolcì progressivamente in volto nell’ascoltare la musica e ne seguì il ritmo battendo la mano sul bracciolo. Accostatosi a una parete, Cazaril vi si appoggiò comodamente con le spalle, cercando di digerire quello che aveva mangiato, e rimase a guardare gli ospiti più giovani, più vigorosi o semplicemente meno sazi descrivere le eleganti figure della danza. Né Iselle, né Betriz e neppure Nan dy Vrit erano mai senza cavaliere.

Nel vedere Betriz eseguire una danza con un altro cavaliere — il quinto -, Cazaril si accigliò un poco. Infatti la Royina Ista non era stata l’unica ad averlo interpellato prima della partenza da Valenda. Ser dy Ferrej aveva fatto altrettanto.

«Tenete d’occhio la mia Betriz», aveva implorato, combattuto tra il timore di un disastro e la speranza di un’opportunità. «Dovrebbe avere accanto sua madre, o comunque una dama più matura ed esperta delle cose di mondo, ma purtroppo… Aiutatela a tenersi alla larga da uomini indegni di lei, perditempo privi di patrimonio e buoni soltanto a gozzovigliare… Sapete cosa intendo.»

Cazaril aveva annuito, chiedendosi se lui stesso rientrasse in quella categoria.

«D’altro canto, se lei dovesse incontrare una persona affidabile e onorevole, non sarei contrario a permetterle di seguire le inclinazioni del suo cuore… Sapete, magari una persona piacevole come, come per esempio quel vostro amico, il March dy Palliar…»

L’esempio sembrava gettato li per caso, ma casuale non era suonato all’orecchio di Cazaril. Possibile che Betriz avesse una segreta simpatia per il suo amico? Quella sera, purtroppo, Palli non era presente, perché aveva dovuto tornare al distretto dopo l’elezione di Lord Dondo alla carica di generale del suo Ordine. Quanto sarebbe piaciuto a Cazaril scorgere un volto familiare in mezzo a quella folla…

Un accenno di movimento lo indusse a spostare lo sguardo di lato, distogliendolo dalla danza, e lui si trovò davanti proprio un volto familiare, atteggiato a un freddo sorriso. Ma quell’incontro non gli fece minimamente piacere. Allontanandosi dalla parete, rispose al lieve inchino di saluto del Cancelliere dy Jironal e cercò nel contempo di sgombrare la mente dai fumi del vino e dalla pesantezza indotta dal cibo. Doveva tornare immediatamente lucido.

«Dy Cazaril, siete proprio voi. Vi avevamo creduto morto.»

Non ne dubito, pensò lui.

«No, mio signore, sono fuggito», si limitò a rispondere.

«Alcuni vostri amici temevano che aveste disertato…» continuò dy Jironal, anche se Cazaril sapeva benissimo che nessuno dei suoi amici avrebbe mai ipotizzato una cosa del genere. «Però i roknari hanno riferito che eravate morto.»

«Una sporca menzogna, mio signore», si azzardò a ribattere Cazaril, trattenendosi però dallo specificare chi fosse stato a mentire. «Mi hanno venduto come schiavo sulle galee, insieme con gli uomini per cui non è stato pagato riscatto.»

«Che ignominia!»

«L’ho pensato anch’io.»

«È un miracolo che siate sopravvissuto a una simile esperienza.»

«Infatti, è stato un miracolo», annuì Cazaril, con un sorriso cortese. «Avete almeno recuperato il denaro del mio riscatto, come conseguenza di quella menzogna? Oppure qualche ladro se lo è intascato? Mi piacerebbe essere certo che qualcuno abbia pagato per quell’inganno.»

«Non lo rammento. È una cosa di cui si è occupato il quartiermastro.»

«Bene, si è trattato di uno spaventoso equivoco, ma alla fine tutto si è risolto per il meglio.»

«Infatti. Prima o poi, mi racconterete le vostre avventure.»

«Quando volete, mio signore.»

Sorridendo, dy Jironal gli rivolse un austero cenno del capo e si allontanò, evidentemente rassicurato.

Cazaril sorrise a sua volta, compiaciuto del proprio autocontrollo… sempre che non si fosse trattato di puro e semplice terrore. Ma no. Era stato in grado di sorridere e di trattenersi dal prendere quel furfante per la gola. Sono ancora un cortigiano, eh?

Ora che i suoi peggiori timori si erano placati, Cazaril abbandonò ogni tentativo di restare invisibile e chiamò a raccolta il proprio coraggio per chiedere a Lady Betriz di concedergli una danza. Sapeva di essere alto, dinoccolato e privo di grazia, ma almeno non era ubriaco fradicio, cosa che gli assicurava una posizione di vantaggio rispetto a una buona metà dei giovani presenti. Inoltre Lord Dondo dy Jironal, dopo aver monopolizzato Iselle per qualche tempo, si era allontanato col suo seguito di compagni di gozzoviglia, diretto a piaceri più grezzi, o forse — come sperava e ipotizzava Cazaril — a un corridoio vuoto dove vomitare in pace. Per qualche istante, mentre danzavano, Cazaril si dimenticò persino di Dondo, perdendosi invece negli occhi di Betriz.

D’un tratto, Orico si svegliò, i musici cessarono di suonare e la serata si avviò al termine. Convocati alcuni paggi, Lady Betriz e Sera dy Vrit, Cazaril prelevò i doni di Iselle, per riporli al sicuro, lasciando dy Sanda a occuparsi di Teidez, il quale aveva ignorato le danze e si era concentrato più sull’incredibile assortimento di dolci che sulle bevande. Eppure, benché il ragazzo fosse più ubriaco d’attenzioni che di vino, c’era da scommettere che, prima dell’alba, dy Sanda si sarebbe dovuto confrontare con qualche violento malessere.

«Lord Dondo sostiene che chiunque potrebbe pensare a me come a un diciottenne», annunciò Teidez a Iselle, in tono trionfante. La sua crescita improvvisa, avvenuta l’estate precedente, lo aveva ormai reso molto più alto della sorella maggiore, un fatto che Teidez aveva commentato spesso e con crescente soddisfazione, adducendolo a segno di superiorità nei confronti della sorella. Gongolante, il giovane si allontanò verso la camera da letto, coi piedi che quasi non toccavano terra.

Betriz, con le mani piene dei gioielli di Iselle, chiese allora a Cazaril di aiutarla a riporli nelle cassette dotate di lucchetto che la Royesse teneva nella sua anticamera. «Allora, Lord Gaz, posso sapere perché non usate mai il vostro nome?» domandò poi. «Cosa c’è che non va in Lupe? Dopotutto, è un nome assolutamente virile.»

«È un’avversione che risale all’infanzia», sospirò Cazaril. «Il mio fratello maggiore e i suoi amici mi provocavano di frequente, uggiolando e ululando sino a farmi piangere di rabbia, cosa che mi rendeva ancora più irato. Purtroppo, quando finalmente sono diventato abbastanza grande da poterlo picchiare, lui era maturato a sua volta e aveva smesso di fare quel gioco… cosa che ho sempre considerato decisamente sleale, da parte sua.»

«Capisco!» esclamò Betriz, ridendo.

Approdato finalmente alla quiete della propria camera da letto, Cazaril si rese conto di non aver stilato il promesso messaggio di rassicurazione per la Provincara. Combattuto tra il dovere e la stanchezza, si decise a tirare fuori penna, inchiostro e pergamena, accingendosi con un sospiro a svolgere il proprio dovere. Il suo resoconto fu molto più breve del dettagliato rapporto che aveva avuto intenzione di fornire, riducendosi a poche righe che si concludevano con: A Cardegoss tutto procede per il meglio.

Sigillato il messaggio, rintracciò un paggio assonnato che lo consegnasse al corriere destinato a lasciare lo Zangre il mattino successivo e infine crollò sul letto, sfinito.

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