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Nel grigiore che precedeva l’alba, Cazaril fu svegliato dai rumori tipici del palazzo che si animava: i richiami dei servi nel cortile, il lontano clangore metallico delle pentole… Nell’aprire gli occhi, si sentì disorientato, sull’orlo del panico, ma il rassicurante abbraccio del materasso di piume lo fece scivolare di nuovo nel dormiveglia. No, non giaceva su una dura panca che ondeggiava. Non si muoveva affatto. I cinque Dei gli erano testimoni che quel semplice fatto per lui equivaleva al paradiso. Il calore delle piume, poi, era una vera panacea per la sua povera schiena.

I festeggiamenti previsti per il Giorno della Figlia si sarebbero protratti dall’alba a notte inoltrata, ma forse lui poteva restarsene a letto finché tutti non si fossero uniti alla processione, e andarsene poi in giro senza dare nell’occhio, oziando al sole, insieme coi gatti del castello. Se poi avesse avuto fame, avrebbe potuto attingere ai ricordi di paggio: all’epoca, sapeva bene come convincere il cuoco a dargli qualche boccone in più…

Un colpo deciso battuto contro la porta interruppe quei pensieri piacevoli. Cazaril sussultò, rilassandosi tuttavia subito dopo nel sentire la voce di Lady Betriz.

«Mio signore dy Cazaril? Castillar, siete sveglio?» chiese la ragazza.

«Un momento, mia signora», rispose lui. Scivolato fino al bordo del letto, si strappò dall’amorevole abbraccio del materasso, posando i piedi nudi su una stuoia di canne intrecciate. Assestatasi la lunga camicia da notte di lino, raggiunse la porta e la socchiuse.

Betriz, nel corridoio, stringeva in una mano una candela, protetta da una lanterna di vetro soffiato, e nell’altra un assortimento di stoffa, di cinghie di cuoio e di qualcosa che emetteva un tintinnio metallico. Era vestita per la giornata di festa, con un abito azzurro e una sopravveste bianca lunga dalle spalle alle caviglie; aveva i capelli scuri raccolti in trecce sulla testa e ornati con fiori e foglie. Nel notare l’allegro scintillio dei suoi occhi marroni, Cazaril non riuscì a trattenersi dal sorridere a sua volta.

«Sua Grazia la Provincara vi augura un benedetto Giorno della Figlia», annunciò Betriz, poi lo costrinse a balzare indietro, assestando un calcio alla porta per spalancarla. Avanzò nella stanza con fare deciso, mettendogli in mano la candela con un distratto: «Reggete questa…» e depositando sul letto un mucchio di stoffa bianca e azzurra nonché una spada, completa di cintura. Mentre Cazaril posava la candela sulla cassapanca ai piedi del letto, aggiunse: «La Provincara vi manda questi abiti e vi chiede di raggiungere il resto della famiglia nella sala degli antenati, per le preghiere dell’alba. Dopo, faremo colazione. Ha detto che sapete benissimo come trovare la strada per la sala da pranzo».

«È vero, mia signora.»

«Ho chiesto io a mio padre la spada», continuò Betriz. «È una delle sue migliori. Per lui sarebbe stato un onore prestarvela, mi ha detto. È vero che avete preso parte all’ultima guerra?» chiese, girandosi a fissarlo con aria interessata.

«Uh… A quale vi riferite?»

«Ne avete combattuta più di una?» esclamò Betriz, sgranando gli occhi.

Credo di averle combattute tutte, negli ultimi diciassette anni, pensò Cazaril. Poi ricordò di aver perso la recente campagna contro Ibra, morta sul nascere, perché rinchiuso nelle prigioni di Brajar, e di non aver partecipato neppure alla stolta spedizione del Roya a sostegno della Darthaca, perché il generale roknari con cui il Provincar della Guarida era impegnato a trattare — peraltro con totale inettitudine -, lo stava ingegnosamente torturando. Ma, a parte quelle due, nell’ultimo decennio non c’era stata un’unica sconfitta cui non fosse stato presente.

«Alcune, qua e là, nel corso degli anni», borbottò, assalito dall’improvvisa, orribile consapevolezza che, fra la sua nudità e gli occhi di quella fanciulla, non c’era che un sottile strato di lino. Arretrò, con le mani incrociate sul ventre e un pallido sorriso sulle labbra.

«Vi ho messo in imbarazzo?» domandò Betriz, notando il suo gesto. «Mio padre dice sempre che i soldati non hanno pudore, giacché devono vivere tutti insieme, negli accampamenti.»

«Stavo pensando al vostro pudore, mia signora», riuscì a rispondere Cazaril, arrossendo.

«Allora non ci sono problemi», fu l’allegra risposta di Betriz.

La ragazza non accennava ad andarsene.

«Non era mia intenzione disturbare la famiglia nel corso della celebrazione», osservò allora Cazaril, indicando il mucchio d’indumenti. «Siete certa che…?»

Betriz congiunse le mani con aria compunta e il suo sguardo, fisso sul volto di lui, si fece più intenso. «Oh, ma voi dovete partecipare alla processione e assistere all’elargizione di doni per il Giorno della Figlia, al Tempio.» Poi, saltellando tutta allegra, gli confidò: «Quest’anno, sarà la Royesse Iselle a rivestire il ruolo della Signora della Primavera».

«D’accordo, allora, se vi fa piacere», si arrese Cazaril, con un sorriso contrito. Come poteva resistere a una supplica tanto insistente? La Royesse Iselle doveva avere quasi sedici anni… Quanti ne aveva Lady Betriz? si chiese. È troppo giovane per te, vecchio mio… Ma poteva almeno osservarla da un punto di vista meramente estetico, rendendo grazie alle Dee per la gioventù, la bellezza e l’energia che loro avevano elargito, giacché quei doni ravvivavano il mondo come altrettanti fiori.

«Inoltre è la Provincara stessa a richiedere la vostra presenza», aggiunse Lady Betriz.

Annuendo, Cazaril accese la propria candela da quella di lei e, per farle capire che era arrivato per lei il momento di andarsene — per permettergli di vestirsi -, le consegnò di nuovo la candela nella lanterna. Quella luce più intensa aveva l’effetto di farla apparire ancora più bella… come di certo faceva risultare lui ancor meno attraente. Betriz si era appena voltata per andarsene, quando Cazaril rammentò la domanda che la sera precedente si era ripromesso di porre alla prima occasione utile.

«Mia signora, aspettate…» disse.

Betriz si girò a guardarlo con un sorriso interrogativo.

«Non volevo turbare la Provincara, né porre domande alla presenza del Royse e della Royesse, ma posso sapere cosa affligge la Royina Ista? Non vorrei dire o fare qualcosa di sbagliato per semplice ignoranza…»

La luce che brillava negli occhi di Betriz si attenuò, e lei scrollò le spalle. «È stanca e nervosa… nulla di più. Speriamo che, col ritorno del sole, si sentirà meglio, dato che il suo stato pare sempre migliorare, durante l’estate.»

«Da quanto tempo vive qui con la madre?»

«Da sei anni, signore», rispose Betriz, quindi accennò una riverenza e concluse: «Ora devo andare dalla Royesse Iselle. Non fate tardi, Castillar!» Gli rivolse un altro sorriso e saettò fuori della stanza.

Cazaril non riuscì a immaginare che quella giovane dama potesse arrivare in ritardo da qualche parte, considerata l’energia di cui disponeva. Scuotendo il capo, ma con un sorriso che ancora gli aleggiava sulle labbra, procedette a esaminare i suoi nuovi abiti.

Stava passando a indumenti di seconda mano di qualità superiore… La tunica era di broccato di seta azzurro e la sopravveste, lunga fino al ginocchio, era di lana candida. Il tutto era pulito e con rammendi e macchioline praticamente invisibili… Probabilmente si trattava di una tenuta da festa scartata da dy Ferrej, oppure appartenuta addirittura al defunto Provincar. Gli abiti gli andavano un po’ larghi, ma la cintura provvedeva a mimetizzare un po’ la cosa. Col peso familiare e nel contempo estraneo della spada che gli gravava sul fianco sinistro, Cazaril lasciò di li a poco la rocca centrale e attraversò il cortile per raggiungere la sala degli antenati.

Nel cortile l’aria era fredda e umida, i ciottoli erano scivolosi sotto le suole sottili degli stivali e si scorgevano ancora alcune stelle. Socchiusa la massiccia porta di legno della sala, Cazaril sbirciò all’interno, individuando varie candele accese e alcune figure. Chiedendosi se fosse arrivato in ritardo, sgusciò dentro e attese che la vista si adattasse alla penombra.

Si rese conto di non essere in ritardo, bensì in anticipo. Una mezza dozzina di candele quasi consumate ardeva davanti alle piccole lapidi di famiglia e due donne, avvolte in scialli, sedevano sulla prima panca, occupate a vegliare su una terza figura.

La Royina Vedova Ista giaceva prona davanti all’altare in un atteggiamento d’intensa supplica, con le braccia protese, le mani che si serravano e si rilassavano, le unghie rosicchiate a sangue. La massa di camicie da notte e di scialli in cui era avvolta formava una chiazza intorno a lei e i folti capelli crespi — un tempo dorati e ora invece di un’opaca tinta castana — si allargavano intorno alla sua testa come un ventaglio, incorniciando il volto pallido, girato lateralmente con la guancia appoggiata sul pavimento. Gli occhi, grigi e fissi, erano aperti, lucidi di pianto trattenuto.

Quello era il volto di chi aveva sperimentato il più profondo dolore. A Cazaril rammentò l’espressione degli uomini spezzati nel corpo e nell’anima a causa della prigionia e degli orrori delle galee… Ma ricordò anche il proprio volto, riflesso in uno specchio di lucido acciaio, nella Casa della Madre, a Ibra, quando gli Accoliti lo avevano rasato, incitandolo poi a verificare quanto il suo aspetto fosse migliorato. Era peraltro assolutamente certo che la Royina non si fosse mai neppure avvicinata a una segreta in tutta la sua vita, che non avesse mai avvertito il morso di una frusta né fosse mai stata colpita da un uomo in preda all’ira. E dunque cosa può averla ridotta così? si chiese, rimanendo immobile, con le labbra socchiuse, timoroso di parlare.

Uno scricchiolio e un fruscio provenienti da un punto alle sue spalle lo indussero a girarsi e lui vide la Provincara e sua cugina sgusciare nella sala. Nel passargli accanto, la Provincara inarcò appena un sopracciglio, gesto cui lui rispose con un accenno d’inchino, poi si diresse verso le due dame di compagnia, che sussultarono e si alzarono con una riverenza.

Avanzando lungo la navata, tra le panche, la Provincara si soffermò a contemplare la figlia. «Oh, Dei! Da quanto tempo è qui?» chiese, senza tuttavia manifestare nessuna emozione particolare.

«Si è alzata nel cuore della notte, Vostra Grazia», rispose una delle dame, con un’altra riverenza. «Abbiamo pensato fosse meglio permetterle di venire qui, piuttosto che ostacolarla. Come voi ci avete ordinato…»

«Sì, sì», la interruppe la Provincara, con un gesto spazientito. «Ha dormito almeno un poco?»

«Una o due ore, credo, mia signora.»

Sospirando, la Provincara s’inginocchiò accanto alla figlia, e la sua voce suonò d’un tratto gentile, senza la consueta asprezza. Per la prima volta, Cazaril avvertì in essa il peso degli anni.

«Ista, tesoro, alzati e torna a letto. Per oggi, provvederanno altri a continuare le preghiere.»

Le labbra della donna prostrata si mossero due volte, prima di riuscire a emettere un fievole sussurro. «Se gli Dei non ci sentono… e se pure ci sentono, non parlano. Il loro viso è distolto da me, madre.»

Con un gesto quasi goffo, la vecchia le accarezzò i capelli. «Altri pregheranno, oggi. Accenderemo nuove candele e tenteremo ancora. Ora lascia che le tue dame ti rimettano a letto. Suvvia, alzati.»

La Royina tirò su col naso, sbatté le palpebre e obbedì con riluttanza. In risposta a un secco cenno del capo della Provincara, le due dame di compagnia si affrettarono a guidare la Royina fuori della sala, raccogliendo lungo la strada gli scialli che lei lasciava cadere dietro di sé. Quando gli passò accanto, Cazaril la scrutò in volto con ansia, senza però scorgere quella tonalità gialla della pelle e quei lineamenti emaciati che potevano indicare la tisi. Quanto alla Royina, non parve neppure vederlo e non dimostrò di riconoscere quello sconosciuto dalla barba brizzolata… Del resto, non c’era motivo per cui dovesse ricordarsi di lui, considerato che era stato soltanto uno dei molti paggi che, nel corso degli anni, si erano avvicendati al servizio della famiglia dy Baocia.

Quando la porta si richiuse alle spalle della figlia, la Provincara distolse infine lo sguardo da essa, e Cazaril la vide sospirare silenziosamente.

«Ringrazio Vostra Grazia per questi abiti da festa», disse, con un inchino, poi esitò, e aggiunse: «Se c’è qualcosa che posso fare per alleggerire il vostro fardello, signora, o quello della Royina, non avete che da dirlo».

Sorridendo, la dama gli batté un colpetto sulla mano, senza però rispondere, quindi andò ad aprire le imposte della finestra esposta a est, in modo da lasciar entrare la luce rosata dell’alba. Vicino all’altare, Lady dy Hueltar provvide a spegnere le candele quasi consumate e a gettarle in un cestino che aveva portato con sé a quello scopo. Poi la Provincara e dy Cazaril l’aiutarono a sostituire quei mozziconi con nuove candele di cera; quando infine dozzine di piccole luci furono accese davanti alle rispettive tavolette, disposte in fila come soldatini, la Provincara indietreggiò di un passo, annuendo con aria soddisfatta.

In quel momento, il resto della famiglia e della servitù cominciò ad arrivare. Cazaril si sedette su una delle ultime panche, in un angolo appartato, mentre cuochi, servitori, garzoni di stalla, paggi, il capo cacciatore e il falconiere, la governante e il siniscalco, tutti con indosso i loro abiti migliori e con la massima quantità di azzurro e di bianco possibile, andarono a prendere posto. Le ultime ad arrivare furono Lady Betriz e la Royesse Iselle, che procedeva un po’ rigida, avvolta com’era nelle elaborate vesti a ricami vivaci e a molteplici strati, proprie della Signora della Primavera, che quel giorno era stata eletta a impersonare. Scélta una delle prime panche, le due ragazze sedettero con aria attenta e concentrata, riuscendo per una volta a non ridacchiare. Subito dopo fece il suo ingresso un Divino della Sacra Famiglia, proveniente dal Tempio cittadino e avvolto non nelle vesti nere e grigie proprie del Padre, indossate fino al giorno precedente, bensì in quelle bianche e azzurre proprie della Figlia. Il Divino guidò l’assemblea in una breve cerimonia per propiziare il cambiamento di stagione e la pace dei morti, che essa rappresentava; poi, quando i primi raggi del sole penetrarono attraverso la finestra esposta a est, spense l’ultima candela, l’unica fiamma ancora presente in tutto il castello.

Seguì una colazione a base di cibi freddi, preparata su tavoli disposti nel cortile. Per quanto fredde, le vivande erano più che abbondanti, tanto che Cazaril dovette ricordare a se stesso di non dover per forza rimediare in un solo giorno a tre anni di privazioni, anche in considerazione del fatto che presto avrebbe dovuto camminare a lungo, in salita e in discesa. Quando infine il mulo bianco della Royesse venne guidato nel cortile, lui si sentiva comunque piacevolmente sazio.

Anche il mulo era stato decorato con nastri azzurri e coi primi fiori primaverili, intrecciati nella criniera, e la gualdrappa era sfarzosamente ricamata con tutti i simboli della Signora della Primavera. Abbigliata nelle vesti del Tempio, coi capelli color ambra che le ricadevano in una splendida cascata lungo le spalle, da sotto la coroncina di fiori e di foglie che le cingeva la fronte, Iselle venne sistemata in sella con ogni cautela e le vesti le furono drappeggiate intorno con cura. Per l’occasione, la ragazza acconsentì a ricorrere ai gradini e all’assistenza di un paio di giovani e agili paggi. Poi il Divino prese la cavezza di seta azzurra del mulo e lo condusse fuori, seguito dalla Provincara, in sella a una tranquilla giumenta saura dai garretti bianchi, decorata a sua volta con nastri e fiori e condotta per le briglie dal siniscalco. Soffocando un rutto, Cazaril rispose a un cenno di dy Ferrej e si affrettò a prendere posto dietro le cavalcature delle due dame, offrendo cortesemente il braccio a Lady dy Hueltar, mentre il resto della processione s’incolonnava alle loro spalle.

Il gruppo festante si avviò lungo le strade cittadine, fino alla vecchia porta orientale, da dov’era previsto che la processione avesse formalmente inizio. In attesa c’erano circa duecento persone, inclusa una cinquantina di cavalieri appartenenti alle associazioni delle guardie votate alla Figlia, provenienti da tutte le terre circostanti Valenda. Fu così che Cazaril si trovò a passare proprio sotto il naso del massiccio soldato che, il giorno precedente, gli aveva gettato per errore la moneta d’oro. Ma il soldato si limitò a guardarlo e a rivolgergli un cortese cenno del capo, prendendo nota dell’abbigliamento di seta, della spada e probabilmente anche dei capelli e della barba ben tagliati. È strano come ci lasciamo abbagliare dall’apparenza delle cose, rifletté Cazaril, pensando altresì che gli Dei probabilmente vedevano al di là dell’aspetto esteriore… Si chiese allora se essi trovassero la cosa complicata proprio come succedeva a lui, da qualche tempo.

Il formarsi della processione lo costrinse ad accantonare quelle meditazioni. Il Divino consegnò la briglia del mulo di Iselle all’anziano gentiluomo scelto per il ruolo di Padre dell’Inverno. Nel corso della processione invernale, il Padre sarebbe stato un giovane abbigliato con abiti scuri, lindi e austeri come quelli di un giudice, in sella a un elegante cavallo nero, che l’uscente, lacero Figlio dell’Autunno avrebbe condotto per la briglia. Quel giorno, invece, l’anziano Padre uscente era avvolto in un assortimento di stracci grigi tale da far sembrare al confronto eleganti perfino gli abiti da mendicante che Cazaril aveva avuto indosso fino al giorno precedente; in più aveva la barba, i capelli e i polpacci nudi cosparsi di cenere. Sorridendo, l’anziano Padre rivolse qualche parola scherzosa a Iselle, che scoppiò a ridere, poi le guardie presero posto alle spalle dei due e l’intera parata iniziò il giro delle vecchie mura cittadine, per quanto fosse possibile dai nuovi edifici. Alcuni Accoliti del Tempio, schierati fra le guardie e il resto dei partecipanti, erano impegnati a guidare i canti e a incoraggiare tutti a usare le parole giuste e non versioni più volgari di quegli stessi inni.

I cittadini che non prendevano parte alla processione fungevano da pubblico, gettando fiori ed erbe. Cazaril vide le giovani donne ancora nubili correre in avanti per toccare l’abito della Figlia, giacché era di buon augurio per trovare un marito in quella stagione. Poi le ragazze si ritraevano altrettanto in fretta con una risatina imbarazzata.

Dopo una lunga camminata, che per fortuna si svolse con un clima piacevolmente mite — contrariamente a una certa primavera in cui la processione si era tenuta sotto una tempesta di grandine -, l’intera colonna aggirò di nuovo la porta orientale ed entrò nel Tempio, che sorgeva su un lato della piazza cittadina, circondato da un po’ di verde e da un basso muretto di pietra. Com’era tradizione, il Tempio si estendeva su quattro aree semicircolari che, come un quadrifoglio, si allargavano intorno al cortile centrale. Le sue mura erano della pietra dorata propria di quei luoghi e tanto cara al cuore di Cazaril, mentre sui tetti c’erano le tegole rosse locali. Ciascuna delle quattro aree circolari ospitava l’altare del Dio di una stagione; quello del Bastardo si trovava nella torre rotonda, separata dal resto, alle spalle delle porte riservate alla Madre.

Lady dy Hueltar trascinò Cazaril in prima fila per assistere al momento in cui la Royesse veniva aiutata a scendere dal mulo e guidata sotto il portico. Poi, piegando il collo, lui continuò a seguire Iselle con lo sguardo; da dove si trovava, si rese conto di poter avvertire il fresco profumo dei fiori e delle foglie intrecciati intorno alla testa di Iselle che, mescolandosi con quello dei suoi capelli, generava un sentore che pareva quello stesso della primavera.

La folla che incalzava alle loro spalle li spinse oltre le porte spalancate e all’interno del Tempio dove, con le ombre del primo mattino che ancora oscuravano il cortile principale, il Padre dell’Inverno procedette a rimuovere le ultime ceneri dal focolare sopraelevato che ospitava il fuoco sacro, spargendole sulla propria persona. Gli Accoliti si affrettarono allora a portare nuova esca e altra legna, cui il Divino impartì la consueta benedizione. Il vecchio Padre venne quindi scacciato dal Tempio con grida, fischi, bastoncini adorni di piccole campanelle e palle di morbida lana, che raffigurava la neve. Se la folla si trovava nella possibilità di usare vere palle di neve, l’anno veniva in genere considerato sfortunato, almeno dall’avatar del Dio che ne era bersagliato.

A quel punto, la Signora della Primavera, impersonata da Iselle, venne fatta avanzare perché accendesse il nuovo fuoco con l’acciarino. Inginocchiatasi su un cuscino, Iselle si morse un labbro con aria concentrata, ammucchiando i pezzetti di esca e le erbe sacre. Tutti trattennero il fiato: erano molteplici le superstizioni legate alla quantità di tentativi che, a ogni stagione, l’avatar del Dio entrante doveva fare per accendere il fuoco.

Tre rapidi colpi, una pioggia di scintille e un vigoroso soffio dei giovani polmoni di Iselle furono sufficienti a far attecchire la fiamma. Il Divino si affrettò a chinarsi per accendere una nuova candela prima che essa potesse estinguersi e la piccola fiamma continuò ad ardere, vigorosa. Quando essa venne infine trasferita nel focolare sacro, dalla folla si levò un. mormorio di sollievo e di approvazione. Iselle, che appariva compiaciuta e, in certa misura, sollevata, venne aiutata a rialzarsi, gli occhi grigi che ardevano con la stessa allegra intensità della nuova fiamma, e accompagnata fino al trono del Dio regnante.

Iniziò così la parte più importante della cerimonia, cioè la raccolta delle elargizioni trimestrali al Tempio, cosicché esso potesse avere di che mantenersi per i tre mesi successivi. Il capo di ciascuna famiglia si fece avanti per deporre una piccola sacca di monete o altre offerte nelle mani della Signora, perché il dono fosse benedetto e il suo ammontare venisse registrato dal segretario del Tempio, seduto a un tavolo alla destra di Iselle; subito dopo, chi aveva fatto l’offerta riceveva una candela accesa col nuovo fuoco, da portare nella propria casa. Naturalmente, la famiglia della Provincara fu la prima a presentare la propria offerta: il siniscalco depose nelle mani di Iselle una pesante borsa piena d’oro. Fu poi la volta di altri uomini di rango, e ogni volta Iselle accettò e benedisse l’offerta con un sorriso, il Divino anziano sorrise a sua volta e trasferì l’offerta nel mucchio con una parola di ringraziamento. Pure il segretario sorrise, annotandone l’ammontare.

D’un tratto Betriz, che era accanto a Cazaril, s’irrigidì e serrò per un momento il braccio del Castillar. «Il prossimo è quell’immondo Giudice Vrese», gli sibilò all’orecchio. «State a guardare.»

Un uomo di mezz’età dall’aria acida, elegantemente abbigliato in velluto blu scuro, tinta esaltata da una pesante catena d’oro, si presentò davanti al trono della Signora con una borsa di denaro, protendendola con un rigido sorriso. «Il Casato Vrese presenta la propria offerta alla Dea», recitò, con voce nasale. «Dateci la vostra benedizione per la stagione entrante, mia signora.»

Iselle incrociò le mani in grembo e sollevò il mento, fissando Vrese con volto serio e impassibile. «La Figlia della Primavera riceve le offerte fatte con cuore onesto», dichiarò, con voce limpida e sonora. «Non accetta tangenti, Onorevole Vrese. Per voi, l’oro è la cosa più importante che ci sia, quindi lo potete tenere.»

Vrese indietreggiò di mezzo passo e rimase a bocca aperta per lo stupore. Sulla folla scese un silenzio stupefatto, che si trasformò quasi subito in un crescente mormorio, dovuto a coloro che non avevano sentito bene e stavano chiedendo cosa fosse successo. Accanto al trono, il Divino anziano si tinse di un pallore mortale e il segretario sollevò lo sguardo con espressione inorridita.

D’un tratto, un giovane ben vestito, che attendeva in fila subito dopo il giudice, scoppiò in una secca risata. Ma non c’era traccia di divertimento in lui; si trattava piuttosto di un segno di apprezzamento per quell’atto di giustizia. Accanto a Cazaril, la giovane Lady Betriz prese quasi a saltellare per l’entusiasmo. Poi una serie di risate soffocate, accompagnate da sussurri di spiegazione, si diffuse tra la folla.

Spostando il proprio sguardo sul Divino anziano, il giudice abbozzò uno strano gesto contratto con la mano che teneva la borsa, quasi intendesse consegnare a lui l’offerta. Aprendo e serrando convulsamente i pugni lungo i fianchi, il Divino rivolse uno sguardo implorante all’avatar della Dea, assisa sul suo trono.

«Lady Iselle…» sussurrò, con un angolo della bocca, senza però riuscire a mantenere la voce abbastanza bassa. «Voi non potete… Noi non possiamo… È la Dea che vi sta parlando e che vi guida in questo?»

«La Dea parla al mio cuore», replicò Iselle a voce alta. «Non è forse così anche per voi? Inoltre, ho chiesto alla Dea di mostrarmi la sua approvazione, concedendomi di accendere la fiamma al primo tentativo, e così è stato.» Perfettamente composta, ignorando l’annichilito giudice, rivolse un luminoso sorriso al cittadino che era il prossimo nella fila, mormorando un cortese: «Venite avanti, signore…»

Il giudice fu costretto a spostarsi di lato, anche perché l’uomo alle sue spalle non ebbe esitazione a spingerlo per avanzare, con un sogghigno dipinto sul volto.

Pungolato da uno sguardo di fuoco del suo superiore, un Accolita si affrettò a farsi avanti per invitare il giudice ad appartarsi con lui da qualche parte, in modo da discutere di quel contrattempo, ma il suo accenno a protendere la mano per accettare l’offerta venne stroncato sul nascere da una gelida occhiata della Royesse. Ritraendo le mani dietro la schiena, l’Accolita invitò con un inchino il giudice a seguirlo. Dalla parte opposta del cortile, la Provincara, seduta in disparte, si serrò l’arco del naso tra pollice e indice, passandosi poi una mano sulla bocca e fissando la nipote con aria esasperata. Iselle, dal canto suo, si limitò ad alzare il mento e continuò a elargire la benedizione della Dea in cambio delle offerte che giungevano dai cittadini i quali, d’un tratto, non apparivano più minimamente annoiati. Le elargizioni in natura come polli, uova e un giovane toro vennero raccolte all’esterno del Tempio, mentre chi aveva fatto l’offerta si presentava per ricevere la benedizione e il nuovo fuoco.

Dopo qualche tempo, Lady dy Hueltar e Betriz andarono a raggiungere la Provincara sulla panca messa a sua disposizione, e Cazaril prese posto alle sue spalle insieme col siniscalco, che persisteva nel fissare la figlia con aria accigliata e insospettita Progressivamente, la folla prese ad assottigliarsi, ma la Royesse continuò a svolgere con entusiasmo il proprio sacro dovere fino agli ultimi, più umili postulanti: un raccoglitore di legna da ardere, un carbonaio e un mendicante, il cui unico dono fu cantare un inno. Eppure la giovane benedisse tutti con lo stesso tono pacato che aveva usato per gli uomini più importanti di Valenda.


La tempesta che, a giudicare dall’espressione della Provincara, era imminente non scoppiò se non quando l’intera famiglia fu tornata al castello per i festeggiamenti pomeridiani. Lungo il tragitto, Cazaril si trovò a condurre per la briglia il cavallo della dama, perché il siniscalco stava provvedendo a reggere con mano salda e attenta la cavezza del mulo di Iselle. Anche per quello, una volta al castello, vide morire sul nascere il suo piano di ritirarsi in silenzio, senza dare nell’occhio.

«Castillar, offritemi il braccio», ordinò infatti seccamente la Provincara, non appena i servi l’ebbero aiutata a scendere dalla giumenta, serrandogli il polso con dita tese e tremanti. Poi, a labbra strette, aggiunse: «Iselle, Betriz, dy Ferrej, qui dentro». E, con un cenno secco del capo, indicò le porte di legno della sala degli antenati, che si affacciava sul cortile.

Una volta ultimata la cerimonia, Iselle aveva lasciato al Tempio le vesti della Signora della Primavera, tornando a essere soltanto una giovane donna elegantemente vestita in azzurro e bianco… No, meglio, si disse Cazaril, notando il modo in cui lei aveva alzato di nuovo il mento, era tornata a essere soltanto una Royesse che, sotto un’apparente ansia, rivelava una determinazione spaventosa. Nel tenere aperta la porta per permettere a tutti di entrare, inclusa Lady dy Hueltar, Cazaril rimpianse l’epoca in cui era stato un paggio: allora, la consapevolezza di un pericolo incombente da parte delle alte sfere lo avrebbe indotto ad andarsene il più in fretta possibile; in quel momento, invece, non gli sarebbe stato permesso allontanarsi… E infatti dy Ferrej si arrestò per aspettarlo, obbligandolo in pratica a seguirlo.

La sala era silenziosa e vuota, benché intensamente illuminata dalle candele sull’altare, candele che, quel giorno, sarebbero rimaste accese fino a consumarsi, e sotto il cui chiarore i banchi di legno, consumati da innumerevoli occupanti, apparivano ancora più lucidi del solito.

Avanzando fino al centro della stanza, la Provincara si girò di scatto verso le due ragazze, che, sotto l’esame del suo sguardo severo, si fecero più vicine l’una all’altra. «Allora: chi di voi due ha avuto quell’idea?» chiese.

Iselle fece un passo e abbozzò un accenno di riverenza. «Sono stata io, nonna», rispose, quasi con lo stesso tono secco e limpido che aveva avuto nel Tempio, e aggiunse: «Anche se Betriz ha pensato di chiedere come conferma che riuscissi ad accendere subito la fiamma».

«Sapevi che questo sarebbe successo?» esclamò dy Ferrej, girandosi di scatto verso la figlia. «E non me lo hai detto?»

Betriz reagì con una riverenza identica a quella di Iselle, eseguita in modo altrettanto rigido. «Mi era sembrato di capire, padre, che dovevo fungere da dama di compagnia per la Royesse Iselle, e non da spia. Se poi la mia fedeltà dovesse andare a qualcun altro, e non a Iselle, be’, nessuno me lo ha comunicato. Proteggi il suo onore con la tua vita: ecco ciò che tu mi hai detto.» Era uno splendido discorso, che tuttavia perse almeno un po’ di fierezza quando la giovane, in tono più cauto, aggiunse: «Comunque non potevo essere certa che sarebbe successo davvero finché lei non ha acceso la prima fiamma».

Rinunciando a discutere con quella giovane sofista, dy Ferrej abbozzò un gesto impotente in direzione della Provincara.

«Tu sei più matura, Betriz», affermò quest’ultima. «Pensavamo che la tua influenza servisse a calmarla, che tu avresti insegnato a Iselle quali siano i doveri di una fanciulla salda nella fede… come quando Beetim, il cacciatore, abbina i bracchi più giovani a quelli più maturi.» Fece una smorfia. «È un peccato che non abbia incaricato lui di educarvi, invece di affidarvi a quelle inutili governanti.»

«Sì, mia signora», ribatté Betriz, con un’altra riverenza.

La Provincara le scoccò un’occhiata in tralice, sospettando che si stesse prendendo gioco di lei, e Cazaril dovette mordersi un labbro per non scoppiare a ridere.

«I Devoti non mi hanno mai insegnato che, tra i primi doveri di una fanciulla salda nella fede, ci sono la tolleranza verso le ingiustizie e la determinazione a ignorare la tragica e inutile dannazione di due uomini», ribatté Iselle, traendo un profondo sospiro.

«Certo che no», scattò la Provincara, attenuando però il tono aspro e cercando di mostrarsi conciliante. «Ma fare giustizia non è un tuo compito, tesoro.»

«Gli uomini cui spetta tale incarico paiono disinteressarsene. Io non sono una contadina, a Chalion ho grandissimi privilegi e doveri altrettanto grandi… Il Divino e la nostra buona Devota me Io hanno detto entrambi!» esclamò Iselle, scoccando un’occhiata di sfida a Lady dy Hueltar.

«Io stavo parlando della necessità di avere costanza nello studio, Iselle», protestò la dama di compagnia.

«Quando i Devoti parlavano dei doveri morali, Iselle, non intendevano… non volevano…» intervenne dy Ferrej.

«Non volevano che li prendessi sul serio?» completò la Royesse, con falsa dolcezza.

Dy Ferrej farfugliò qualcosa e Cazaril non poté fare a meno di simpatizzare con lui. Quella giovane dama innocente, ribelle e ignara dei pericoli che correva — proprio come il cucciolo cui la Provincara l’aveva paragonata — era convinta di avere un vantaggio morale. Cazaril si sentì profondamente grato del fatto di non avere voce in capitolo in quella faccenda.

«Per adesso, potete andare entrambe nelle vostre camere, e rimanerci», dichiarò la Provincara, furente. «Imporrei a entrambe di leggere le scritture per penitenza, ma… Deciderò poi se vi sarà permesso di partecipare alla festa. Mia buona Devota, per favore, seguile e accertati che arrivino a destinazione. Va’!» ordinò, con un gesto imperioso del braccio. Cazaril fece per accodarsi alle tre donne, ma la Provincara, puntando un dito a terra, disse: «Cazaril, dy Ferrej, trattenetevi ancora un momento».

Lady Betriz si scoccò alle spalle un’occhiata piena di curiosità, mentre Iselle uscì a passo di marcia, a testa alta e senza guardarsi indietro.

«Bene», commentò dy Ferrej, dopo un momento. «Speravamo che diventassero amiche.»

Ormai le due giovani donne si erano allontanate, quindi la Provincara si concesse un sorriso e mormorò: «Purtroppo sì».

«Quanti anni ha Lady Betriz?» chiese Cazaril con curiosità, fissando la porta chiusa.

«Diciannove», rispose il siniscalco con un sospiro.

Cazaril rifletté che, rispetto a lei, non era così vecchio come aveva supposto, benché le sue esperienze lo facessero sembrare tale.

«Pensavo davvero che Betriz avrebbe esercitato un’influenza positiva… Invece sembra accaduto il contrario», aggiunse dy Ferrej.

«Stai accusando mia nipote di aver corrotto tua figlia?» chiese bruscamente la Provincara.

«Direi piuttosto che è diventata per lei una fonte d’ispirazione», precisò dy Ferrej, con aria cupa, scrollando le spalle. «È una cosa che mi spaventa tanto che mi chiedo… se non dovremmo dividerle.»

«Le proteste non avrebbero fine», replicò la Provincara, in tono stanco, sedendo su una panca e indicando ai due uomini di fare altrettanto. «Non voglio torcermi il collo», spiegò poi, a mo’ di spiegazione.

Serrando le mani tra le ginocchia, Cazaril attese che la dama si decidesse a dirgli cosa voleva da lui.

«Voi osservate la faccenda con occhi nuovi», disse infatti la Provincara, dopo averlo scrutato con aria pensosa per un lungo momento. «Avete qualcosa da suggerire?»

«Sono abituato ad addestrare giovani soldati, mia signora, e non ho mai avuto a che fare con giovani donne… Esula del tutto dalla mia esperienza», replicò Cazaril, inarcando le sopracciglia. «D’altro canto, mi sembra un po’ tardi per insegnare a Iselle a essere una vigliacca… Piuttosto si può farle notare che le prove su cui si è basata erano piuttosto labili», proseguì, incerto. «Come poteva essere certa che il giudice fosse effettivamente colpevole? Ha prestato ascolto a dicerie, pettegolezzi… prove superficiali, che possono essere fasulle.» Avvilito, ripensò alla prontezza con cui l’uomo dei bagni pubblici era saltato a conclusioni errate, semplicemente guardando la sua schiena. «Questo non ci potrà aiutare per l’incidente di oggi, ma potrebbe indurre Iselle a essere più cauta, in futuro. Inoltre forse sarebbe bene far più attenzione al genere di pettegolezzi di cui si discute in sua presenza.»

Dy Ferrej sussultò, punto nel vivo.

«In presenza di tutte e due», precisò la Provincara. «Quattro orecchie, una sola mente… e una sola cospirazione.» Contrasse le labbra in una smorfia pensosa e, fissando il Castillar con occhi intenti, proseguì: «Cazaril… voi parlate e scrivete il darthacano, vero?»

«Sì, mia signora…» rispose Cazaril, sconcertato da quell’improvviso cambio di argomento.

«E il roknari?»

«Ecco… il mio roknari colto è un po’ arrugginito, attualmente, ma vi garantisco che parlo il roknari popolare in maniera molto scorrevole.»

«E la geografia? Conoscete la geografia di Chalion, di Ibra e dei principati dei roknari?»

«Per i cinque Dei, certo che la conosco, mia signora. Le terre che non ho percorso a cavallo le ho attraversate a piedi, oppure sono stato trascinato su di esse, per cui la loro geografia è incisa sulla mia pelle. Quanto all’Arcipelago, ne ho girato almeno la metà, sulle galee.»

«E sapete scrivere, far di conto, tenere libri contabili, stilare lettere, rapporti, trattati, ordini logistici…»

«Può darsi che in questo momento le mie mani tremino un poco, tuttavia ho fatto tutte queste cose», ammise Cazaril, con aria sempre più guardinga. Quale poteva essere il motivo ultimo di un simile interrogatorio?

«Sì, certo!» esclamò la Provincara, battendo le mani con entusiasmo, un suono secco che strappò un sussulto a Cazaril. «Sono stati senza dubbio gli Dei a mandarvi da me! Che i demoni del Bastardo mi portino via se non sarò abbastanza furba da approfittarne nel modo migliore.»

Sempre più sconcertato, lui le rivolse un sorriso interrogativo.

«Ebbene… Avete detto di volere un incarico e adesso ce l’avete: segretario e tutore della Royesse Iselle», esclamò la dama, trionfante.

A bocca aperta per lo stupore, Cazaril riuscì soltanto a fissarla con aria stupida. «Come?» riuscì infine ad articolare.

«Teidez ha un suo segretario, che gli tiene in ordine i registri, gli scrive le lettere… È tempo che anche Iselle abbia un tutore, qualcuno che faccia da baluardo tra il mondo delle donne e quello più grande in cui ben presto dovrà vivere. Nessuna di quelle stupide governanti è mai riuscita a gestirla: le serve l’autorità di un uomo, e voi avete il rango necessario, l’esperienza che serve…» La Provincara si abbandonò a un sorriso pieno di entusiasmo. «Che ne pensate, mio signore dy Cazaril?»

«Credo…» Cazaril deglutì a fatica. «Be’, credo che se adesso voi mi prestaste un rasoio per tagliarmi la gola, ciò risparmierebbe molta fatica a tutti. Vi scongiuro, Vostra Grazia!»

«Bene, Cazaril, bene», sbuffò la Provincara. «Mi piace un uomo che non sottovaluta le situazioni.»

Dy Ferrej, che in un primo momento si era mostrato sorpreso e allarmato, cominciò a studiare Cazaril con rinnovato interesse.

«Scommetto che voi riuscirete a farla concentrare sulle declinazioni del darthacano. Dopotutto è un paese in cui siete stato, cosa che non si può dire di nessuna di queste stupide donne», insistette la Provincara, con crescente entusiasmo. «E conoscete anche il roknari, sebbene io spero che Iselle non abbia mai bisogno di parlarlo. Potrete leggerle la poesia brajarana… Vi piaceva, no? E le darete lezioni di portamento, dato che avete prestato servizio alla corte del Roya. Suvvia, Cazaril, non mi guardate come un vitello smarrito: dovrebbe essere un lavoro facile per voi, considerato che siete convalescente… Ah, non negate, solo gli Dei sanno quanto dovete essere stato malato», aggiunse, ignorando il piccolo cenno di diniego dell’uomo. «Dovrete rispondere a un paio di lettere alla settimana, e, dal momento che in passato avete fatto il corriere, quando uscirete a cavallo con le ragazze non dovrò poi sentire le lamentele e le proteste di quelle donne con la pelle tenera come pasta di pane. Quanto infine a tenere i registri relativi al contenuto delle camere… dopo aver gestito una fortezza, per voi dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Che ne dite, Cazaril?»

«Non potreste invece affidarmi una fortezza sotto assedio?» replicò il Castillar, affascinato e nel contempo sgomento di fronte alla prospettiva che gli si offriva.

Ogni traccia di allegria svanì dal volto della Provincara, che si protese in avanti e gli batté un colpetto sul ginocchio. «Iselle lo sarà ben presto…» sussurrò. «Mi avete chiesto se potevate fare qualcosa per alleviare il mio fardello. Per la maggior parte dei miei problemi, la risposta è no: non potete ridarmi la giovinezza né far sì che le cose… che molte cose migliorino.» Cazaril si ritrovò a chiedersi quanto quella dama così energica fosse oppressa dallo strano, cagionevole stato di salute della figlia. «Però non potreste concedermi almeno questa piccola cosa?»

Lo stava implorando… La Provincara stava rivolgendo una supplica a lui. Era fondamentalmente sbagliato. «Naturalmente, mia signora, sono ai vostri ordini», rispose Cazaril, suo malgrado. «È solo che… siete sicura di quello che state facendo?»

«Voi non siete… Tu qui non sei uno straniero, Cazaril, e io ho un disperato bisogno di un uomo di cui potermi fidare.»

Sentendo il cuore — o forse il cervello — che gli si scioglieva di fronte a quelle parole così accorate, Cazaril s’inchinò. «Allora sono ai vostri ordini», affermò.

«A quelli di Iselle», ribatté la Provincara.

Puntellando i gomiti sulle ginocchia, Cazaril sollevò lo sguardo, spostandolo dalla Provincara al pensoso, accigliato dy Ferrej, e riportandolo infine sul volto dell’anziana dama. «Io… credo di capire», annuì.

«Ne sono convinta, Cazaril, ed è per questo che voglio avere te al suo fianco.»

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