11

Tre giorni più tardi, la mattina, Cazaril stava uscendo dalla sua stanza per andare a colazione quando venne accostato da un paggio, che lo afferrò per una manica.

«Mio signore dy Cazaril!» esclamò il giovane, affannato. «Il siniscalco vi prega di raggiungerlo immediatamente nel cortile.»

«Perché? Cos’è successo?» chiese Cazaril, avviandosi insieme col ragazzo.

«Si tratta di Ser dy Sanda. La scorsa notte è stato aggredito da alcuni tagliaborse ed è stato derubato e pugnalato.»

«Quanto sono gravi le sue ferite? Dove si trova?»

«Non è ferito, mio signore, è morto!»

Oh, per gli Dei, no, gemette tra sé Cazaril, mentre si lasciava alle spalle il paggio e scendeva di corsa le scale, uscendo nel cortile principale del castello in tempo per vedere un uomo che indossava il tabarro del conestabile di Cardegoss e un altro individuo, vestito da contadino, scaricare una forma rigida dalla groppa di un mulo e adagiarla sull’acciottolato. Cupo in volto, il siniscalco del castello di Zangre si chinò sul cadavere, mentre un paio di guardie del Roya osservavano la scena tenendosi a qualche passo di distanza, quasi che le ferite da coltello potessero essere contagiose.

«Cos’è successo?» domandò Cazaril.

Notando il suo abbigliamento da cortigiano, il contadino si affrettò a togliersi il cappello di lana in un saluto rispettoso. «L’ho trovato stamattina sulla riva del fiume, signore, quando ho portato il mio bestiame ad abbeverarsi», spiegò. «In quel punto, il fiume fa una curva, e mi capita spesso di trovare cose impigliate nelle rocce. La scorsa settimana, per esempio, c’era una ruota di carro, ed è per questo che controllo sempre. I cadaveri non sono frequenti — sia resa grazie alla Misericordia della Madre — e non ne avevo più visto uno dopo la povera dama che si è annegata, due anni fa…» Scambiò con l’uomo del conestabile un cenno del capo da cui si capiva che entrambi rammentavano quell’episodio, poi concluse: «Questo, però, non sembra essere annegato».

I calzoni di dy Sanda erano ancora fradici, ma i capelli avevano smesso di gocciolare; la tunica era stata rimossa da chi lo aveva trovato ed era ripiegata sul dorso del mulo. Sul torace messo a nudo spiccavano le ferite, che il fiume aveva ripulito dal sangue, scure lacerazioni ben visibili sulla pelle pallida del collo, del ventre e della schiena. Erano oltre una dozzina, inferte con forza e in profondità.

Appoggiandosi all’indietro sui talloni, il siniscalco indicò un pezzetto di corda fradicia che pendeva dalla cintura di dy Sanda. «Dovevano avere fretta», osservò. «Hanno tagliato i cordoni della sua borsa.»

«Non si è trattato soltanto di una rapina», dichiarò Cazaril. «Un paio di queste ferite sarebbero state sufficienti a metterlo fuori combattimento e a porre fine a ogni resistenza da parte sua, quindi non c’era bisogno di… No, volevano essere sicuri che fosse morto.» Aveva usato il plurale e ciò lo indusse a chiedersi se davvero gli aggressori erano più di uno. Non c’era modo di appurarlo, almeno per il momento, ma, considerato che dy Sanda non era certo un avversario facile, lo ritenne più che probabile. «Immagino che gli abbiano preso la spada», aggiunse, dopo un momento. Dy Sanda aveva avuto il tempo di estrarla, oppure il primo colpo lo aveva colto alla sprovvista, provenendo da un uomo che gli camminava accanto e di cui lui si fidava?

«Gliel’hanno presa, oppure l’ha portata via il fiume», affermò il contadino. «Se avesse avuto ancora addosso quel peso che lo trascinava verso il basso, non si sarebbe arenato sulla curva tanto presto.»

«Indossava anelli o altri gioielli?» chiese l’uomo del conestabile.

«Parecchi anelli e un orecchino d’oro», annuì il siniscalco.

Naturalmente di quei monili non c’era più traccia.

«Voglio una descrizione di ognuno di quei preziosi, mio signore», disse la guardia, e il siniscalco si limitò ad annuire.

«Sapete dov’è stato trovato», osservò Cazaril, rivolto alla guardia. «Avete scoperto anche dov’è stato aggredito?»

«Difficile a dirsi», replicò l’uomo, scuotendo il capo. «Forse, da qualche parte nei bassifondi…» Si riferiva alla parte più bassa, socialmente e geograficamente, di Cardegoss, addossata su entrambi i lati del muro che correva tra i due fiumi. «Ci sono una mezza dozzina di punti da dove si potrebbe gettare un cadavere dalle mura cittadine con la certezza che venga portato via dalla corrente, e alcuni sono più isolati di altri. Quand’è stata l’ultima volta che qualcuno di voi lo ha visto, ieri sera?»

«Io l’ho visto a cena, ma non mi ha accennato di voler scendere in città», rispose Cazaril, pensando che anche all’interno dello Zangre c’erano un paio di posti da cui un cadavere poteva essere gettato nel fiume. «Ha riportato qualche frattura?»

«Io non ne ho notate nel toccarlo, signore», rispose la guardia del conestabile. In effetti, il cadavere non mostrava quasi lividi di sorta.

Una rapida indagine presso le guardie del castello rivelò che dy Sanda aveva effettivamente lasciato lo Zangre la notte precedente, da solo e a piedi, più o meno nel corso del turno di guardia intermedio. Quella notizia indusse Cazaril ad accantonare l’intenzione di passare al setaccio ogni angolo dei corridoi e delle nicchie del vasto castello, alla ricerca di macchie di sangue recenti. Nel tardo pomeriggio, poi, le guardie del conestabile trovarono tre persone che avevano visto il segretario del Royse bere in una taverna dei bassifondi e andarsene dal locale da solo. Una di esse aggiunse che dy Sanda era ubriaco e barcollava, una frase che indusse Cazaril a desiderare di poter trascorrere qualche tempo da solo con quell’uomo nelle celle di pietra dello Zangre, situate nelle gallerie che scendevano fino ai fiumi. Era infatti certo che laggiù sarebbe riuscito a estorcergli la verità, considerato che, da quando lo aveva conosciuto, non gli era mai capitato di vedere dy Sanda ubriaco.

Su Cazaril ricadde il triste compito d’inventariare e impacchettare i pochi averi di dy Sanda, che sarebbero stati inviati al suo unico parente ancora in vita, un fratello maggiore che risiedeva in una delle province di Chalion. Poi, mentre gli uomini del conestabile setacciavano i bassifondi cittadini alla ricerca dei supposti tagliaborse — fatica inutile, a suo parere -, lui procedette ad analizzare ogni pezzo di carta presente nella stanza di dy Sanda. Quale che fosse stato il contenuto del messaggio che lo aveva attirato nella parte bassa della città, però, dy Sanda doveva averlo ricevuto verbalmente oppure aveva portato il biglietto con sé.

Giacché il defunto segretario non aveva parenti che vivessero abbastanza vicini da poter assistere al funerale, il rito si svolse il giorno successivo, alla presenza del Royse, della Royesse e del loro seguito, come pure di alcuni cortigiani ansiosi di conquistarsi il loro favore. La cerimonia si tenne nella camera del Figlio, su un lato del cortile principale del Tempio, e fu piuttosto breve. Nel prendervi parte, Cazaril si rese improvvisamente conto di quanto fosse stata solitaria la vita dy Sanda. Non c’erano amici intorno al feretro che si disputavano l’onore di elogiare le virtù del defunto, non c’erano pianti né tentativi di confortarsi a vicenda. Fu lo stesso Cazaril a pronunciare poche parole di rammarico per quella perdita, per conto della Royesse, e riuscì ad arrivare in fondo al discorso senza neppure dover sbirciare sul pezzo di carta sul quale lo aveva affrettatamente composto, quella mattina, e che teneva nella manica.

Cazaril si ritrasse quindi dalla bara per lasciare il posto alla benedizione degli animali e si unì alla piccola folla raccolta vicino all’altare. Gli Accoliti, vestiti ciascuno coi colori del Dio cui si erano votati, si fecero avanti con le loro bestiole e si disposero intorno alla cassa in cinque punti equidistanti. Nei Templi di campagna, per quel rito veniva utilizzato l’insieme più assurdo di animali. Una volta, per la figlia defunta di un uomo privo di mezzi, Cazaril lo aveva visto eseguire da un unico Accolita, munito di un cesto contenente cinque gattini, ciascuno con un nastro di colore diverso legato intorno al collo.

I roknari, invece, usavano spesso i pesci, anche se il loro numero sacro era il quattro e non il cinque. I Divini della fede Quadripartita contrassegnavano i pesci con la tintura e interpretavano la volontà degli Dei in base alle figure che essi creavano nuotando in una vasca. Quali che fossero i mezzi utilizzati, comunque, quel messaggio di commiato era l’unico, minuscolo miracolo che gli Dei concedevano a ogni persona defunta, per quanto umile fosse la sua condizione sociale.

Naturalmente il Tempio di Cardegoss aveva risorse tali da potersi permettere i più splendidi animali sacri, selezionati secondo il colore e il sesso più appropriati. L’Accolita della Figlia, avvolta nelle sue ampie vesti azzurre, era accompagnata da una ghiandaia femmina dalla bellissima cresta azzurra, nata la primavera precedente; l’Accolita della Madre, abbigliata in verde, teneva invece sul braccio un grande uccello verde che, a parere di Cazaril, era strettamente imparentato con quelli presenti nel serraglio del Roya. Vestito in rosso e arancio, l’Accolita del Figlio aveva con sé uno splendido cucciolo maschio di volpe, il cui manto rossiccio pareva risplendere come fuoco nella cupa atmosfera dell’echeggiante camera a volta; l’Accolita del Padre, tutto in grigio, era accompagnato da un anziano, robusto e dignitoso lupo grigio. Quanto all’Accolita del Bastardo, avvolta in vesti candide, Cazaril si era aspettato di vederla con uno dei corvi sacri della Torre di Fonsa; invece la donna teneva tra le braccia un paio di grassi ratti bianchi dall’aria curiosa.

Prostratosi al suolo, il Divino implorò gli Dei di mandare un segno, poi si rialzò e si mise accanto alla testa di dy Sanda, mentre gli Accoliti, l’uno dopo l’altro, incitavano le loro bestiole a farsi avanti. In risposta a uno scatto dell’Accolita della Figlia, la ghiandaia azzurra svolazzò nell’aria, ma tornò subito a posarsi sulla spalla della sua custode. L’uccello verde della Madre fece altrettanto. Sganciato dal suo guinzaglio di rame, il cucciolo di volpe annusò l’aria, avanzò trotterellando fino alla cassa, uggiolò e, con un salto, si accoccolò accanto a dy Sanda, appoggiandogli il muso sul cuore con un profondo sospiro. Quanto al lupo, che sembrava avere una notevole esperienza di quelle cerimonie, non dimostrò il minimo interesse per la bara o per il defunto. I ratti dell’Accolita del Bastardo, invece, una volta liberati sul pavimento, risalirono le maniche della donna, andando ad annusarle le orecchie e affondandole gli artigli nei capelli fino a quando lei non li districò con pazienza.

Nulla di singolare, insomma. A meno che non si fossero votati in vita a un altro Dio, in genere coloro che morivano senza aver generato figli venivano reclamati dalla Figlia o dal Figlio, mentre i genitori defunti appartenevano di solito alla Madre o al Padre. Dal momento che dy Sanda era morto senza avere figli e che, da giovane, era stato un Devoto laico dell’Ordine militare del Figlio, rientrava nel corso naturale delle cose che proprio il Figlio reclamasse la sua anima, benché qualche famiglia avesse scoperto proprio durante il funerale di un congiunto che questi doveva avere un figlio da qualche parte. Quanto al Bastardo, chiamava a sé tutti i membri del suo Ordine, e le anime che venivano respinte dagli Dei più importanti; per sua natura, infatti, il Bastardo era il Dio dell’ultima spiaggia, l’estremo, seppure ambiguo, rifugio per coloro che avevano rovinato la loro vita.

Obbedendo alla limpida voce della volpe, l’Accolita del Figlio si fece avanti per concludere il rito, invocando la speciale benedizione del suo Dio sull’anima di dy Sanda. Infine tutti sfilarono davanti alla bara per deporre sull’altare del Figlio piccole offerte per l’anima del defunto.

Cazaril per poco non si conficcò le unghie nel palmo delle mani, nel vedere Dondo dy Jironal recitare la parte dell’afflitto. Accanto a lui, Teidez, silenzioso e sconvolto, offrì una notevole somma in oro. Probabilmente rimpiangeva tutte le lamentele con cui aveva bersagliato il suo fedele segretario-tutore. A almeno così si augurava Cazaril.

Iselle e Betriz rimasero quasi sempre in silenzio, sia nel corso del rito sia in seguito, facendo soltanto qualche commento sui pettegolezzi che la corte stava già facendo su quell’omicidio. Rifiutarono una serie d’inviti a scendere in città e trovarono sempre una scusa per controllare, anche cinque o sei volte per sera, che Cazaril continuasse a godere di buona salute.

A corte si parlò a lungo di quel mistero, e vennero addirittura stabilite nuove e più severe punizioni per rapinatori e tagliaborse, ma Cazaril si guardò sempre dal dare il suo parere al riguardo. La morte di dy Sanda, per lui, non aveva nulla di misterioso, e l’unica cosa da fare era trovare qualche prova a carico dei veri colpevoli, i fratelli dy Jironal. Ma non riuscì a escogitare nessun modo per incastrarli e non osava far avviare un processo contro di loro senza aver prima definito ogni singolo passo: sapeva che lui stesso rischiava di finire con la gola tagliata.

D’altro canto, se qualche sfortunato tagliaborse fosse stato ingiustamente accusato di quel crimine, sarebbe stato suo dovere… Già, quale sarebbe stato il suo dovere? Che valore avrebbe mai avuto la sua parola, dopo la calunnia legata alle cicatrici che portava sulla schiena? Gran parte della corte era rimasta favorevolmente impressionata dalla testimonianza resa dal corvo sacro, però era evidente che, per alcuni, essa non aveva nessun valore. Gli era facile stabilire a quale delle due categorie appartenessero i cortigiani in base al modo in cui i gentiluomini allontanavano da lui il mantello e le dame si ritraevano con disgusto da un eventuale contatto. Per fortuna, dal conestabile non giunse nessuna vittima sacrificale per garantire la chiusura di quel caso e, ben presto, la gaiezza della vita di corte si estese a coprire quello sgradevole incidente, come una crosta su una ferita.

A Teidez venne assegnato un nuovo segretario, scelto dal Cancelliere dy Jironal all’interno del personale della Cancelleria del Roya. Si trattava di un individuo dal volto aguzzo, completamente dipendente dal Cancelliere, che non cercò in nessun modo di stringere amicizia con Cazaril. Nel contempo, Dondo dy Jironal si assunse il compito di distrarre il giovane Royse dal dolore della perdita subita, fornendogli ogni sorta di piacevoli intrattenimenti, il cui genere Cazaril immaginò fin troppo bene, vedendo l’assortimento di donne di malaffare e di bravacci che presero a frequentare la camera del ragazzo fino a notte inoltrata. Una volta, ubriaco al punto di non riuscire più a distinguere una camera dall’altra, Teidez entrò incespicando nella stanza di Cazaril e vomitò ai suoi piedi un quarto di litro di vino rosso, prima che il Castillar lo guidasse fino alle sue stanze e alle cure dei suoi servitori.

Ciò che però lasciò più turbato Cazaril, nei giorni che seguirono, fu cogliere il bagliore di una gemma verde sulla mano del capitano della guardia di Teidez, giunto con loro fin dalla Baocia. Quell’uomo, prima di partire, aveva giurato formalmente alla madre e alla nonna del Royse di proteggere entrambi i ragazzi, a costo della sua stessa vita.

Mentre il capitano gli passava accanto, Cazaril si protese di scatto ad afferrargli la mano, costringendolo a fermarsi e abbassando lo sguardo sulla familiare gemma dal taglio piatto. «Un bell’anello», commentò.

«Lo penso anch’io», ribatté il capitano, ritraendo la mano e accigliandosi.

«Spero che non l’abbiate pagato troppo, perché credo che la pietra sia falsa.»

«È uno smeraldo vero, mio signore.»

«Al vostro posto, lo farei controllare da un tagliatore di gemme. Ultimamente, è per me una continua fonte di stupore constatare quali menzogne gli uomini siano disposti a dire per profitto.»

«È un anello di valore», insistette il capitano, coprendosi una mano con l’altra.

«Io dico che non vale nulla, considerato ciò con cui lo avete barattato.»

Serrando le labbra, il capitano si liberò con uno strattone e si allontanò a grandi passi.

Se questo è un assedio, noi stiamo perdendo, si ritrovò a pensare Cazaril.


Il clima divenne ben presto gelido e piovoso e il livello dei fiumi salì: la stagione del Figlio si avviava al termine. In una sera di pioggia, nel corso di un intrattenimento musicale, Orico si protese verso la sorella. «Domani, a mezzogiorno, vieni col tuo seguito nella sala del trono per assistere all’investitura di dy Jironal, perché al termine avrò alcuni lieti annunci da fare a tutta la corte. Inoltre, metti il tuo abito più elegante e le tue perle… Appena la scorsa notte, Lord Dondo mi diceva che non te le ha mai viste indosso.»

«Non ritengo che mi si addicano», replicò Iselle, scoccando un’occhiata a Cazaril, seduto poco lontano, e abbassando poi lo sguardo sulle proprie mani, serrate in grembo.

«Sciocchezze. Non c’è fanciulla cui non si addicano le perle», ribatté il Roya, interrompendosi per applaudire i musici per il brano vivace che avevano appena eseguito.

Iselle non fece commenti su quel suggerimento finché Cazaril non l’ebbe scortata insieme con le sue dame fino all’anticamera che fungeva da studio. Il Castillar stava per augurare loro la buonanotte e per congedarsi, sbadigliando, quando la Royesse esplose. «Non intendo indossare le perle di quel ladro di Dondo!» esclamò. «Sarei pronta a restituirle all’Ordine della Figlia, se non considerassi un gesto del genere un insulto alla Dea. Quelle perle sono infette, Cazaril. Cosa posso farne?»

«Il Bastardo non è un Dio che guarda troppo per il sottile. Regalatele al Divino, per il suo ospedale dei trovatelli, in modo che le venda per il mantenimento degli orfani», suggerì Cazaril.

«Questo irriterebbe non poco Lord Dondo, che però non potrebbe neppure protestare…» rifletté Iselle. «È una buona idea. Porterete le perle agli orfani, come segno del mio interessamento. Quanto a domani… Indosserò la sopragonna di velluto rosso e l’abito di seta bianca, coi granati che mi ha regalato mia madre. Nessuno potrà rimproverarmi perché ho messo i gioielli di mia madre, no?»

«Ma cosa supponete che intendesse vostro fratello, parlando di lieti annunci?» intervenne Nan dy Vrit. «Credete che abbia già preso una decisione in merito al vostro fidanzamento?»

Per un momento Iselle s’immobilizzò, sconcertata, poi scosse il capo. «No, non è possibile», rispose. «Prima dovrebbero esserci dei negoziati — ambasciatori, lettere, scambi di regali, trattati relativi alla dote — e si dovrebbe ottenere il mio consenso. Dopo, bisogna inviare il mio ritratto al futuro sposo, e io intendo vedere un suo ritratto, chiunque egli sia… Un ritratto vero e onesto, eseguito da un artista inviato da me. Qualora il mio principe fosse grasso, strabico, calvo o con un labbro leporino, potrei anche accettarlo, ma non intendo fidarmi di un ritratto menzognero.»

«Quando verrà il momento, spero che ti tocchi in sorte un uomo avvenente», commentò Betriz, storcendo il naso di fronte alle ipotesi avanzate da Iselle.

«Mi piacerebbe, ma non lo ritengo probabile, considerata la maggior parte dei nobili che ho avuto modo di vedere», sospirò la Royesse. «Credo che mi accontenterò di avere un marito sano, senza assillare gli Dei con preghiere impossibili. Mi basta che sia sano e quintariano.»

«Un atteggiamento molto razionale», interloquì Cazaril, incoraggiando quel modo pratico di vedere le cose, che avrebbe facilitato la vita di tutti, e la sua in particolare, nel prossimo futuro.

«Quest’autunno ci sono stati molti scambi d’inviati coi principati dei roknari», osservò Betriz, un po’ a disagio.

Iselle serrò le labbra di scatto, senza fare commenti.

«In effetti, tra i nobili quintariani di alto rango, le alternative non sono molte», ammise Cazaril.

«Il Roya di Brajar è rimasto di nuovo vedovo», intervenne Nan dy Vrit, con aria dubbiosa.

«È un partito da escludere», dichiarò Iselle, senza esitazioni «Ha cinquantasette anni, la gotta e un Erede già adulto e sposato. A cosa potrebbe mai servirmi generare un figlio che sia in buoni rapporti con suo zio Orico, o con suo zio Teidez, se poi questo figlio non salirà mai al trono?»

«C’è il nipote del Roya di Brajar…» le ricordò Cazaril.

«Ha sette anni! Ne dovrei aspettare altri sette!» protestò Iselle.

Il che non sarebbe una cosa malvagia, pensò Cazaril.

«Adesso è troppo presto e fra sette anni potrebbe essere troppo tardi», mormorò Iselle. «Può accadere qualsiasi cosa nel frattempo. Le persone muoiono, le nazioni entrano in guerra…»

«È vero», annuì Nan dy Vrit. «Quando avevate due anni, vostro padre, il Roya Ias, vi aveva fidanzata con un principe roknari, ma di lì a poco quel povero ragazzo è morto di febbre e l’accordo è stato sciolto. Sareste già partita da due anni per il suo principato…»

«Anche la Volpe di Ibra è vedovo», suggerì Betriz, in tono volutamente provocatorio.

«Ha settant’anni!» esclamò Iselle, con voce soffocata.

«Però non è grasso, e immagino che non dovresti sopportarlo troppo a lungo» le fece notare l’amica.

«Ah! Col carattere che ha, potrebbe vivere altri vent’anni giusto per farmi dispetto. Quanto al suo Erede, è sposato, quindi credo che il suo secondo figlio sia l’unico Royse che abbia più o meno la mia stessa età, ma non è Erede al trono.»

«Per quest’anno, non vi verrà offerto un ibrano, Royesse», intervenne Cazaril. «La Volpe è ancora infuriata con Orico per le sue goffe intromissioni nella guerra nell’Ibra meridionale.»

«Sì, ma… Si dice che i nobili ibrani di alto rango vengano tutti addestrati come ufficiali di marina», obiettò Iselle.

«Di che utilità potrebbe essere questo, per Orico?» sbuffò Nan dy Vrit. «Chalion non possiede neppure un miglio di costa.»

«Cosa che torna a nostro detrimento», mormorò Iselle.

«Quando avevamo Gotorget, e controllavamo quei passi, eravamo quasi nella posizione adatta per calare sul porto di Visping e conquistarlo», affermò Cazaril, in tono di rammarico. «Adesso però abbiamo perso quella base… Royesse, la mia ipotesi è che voi siate destinata a un nobile darthacano. Ecco perché la prossima settimana sarà bene dedicare un po’ di tempo a quelle declinazioni, non credete?»

Iselle assentì, con una smorfia e un sospiro.

Congedatosi con un inchino, Cazaril prese a scendere le scale, riflettendo che, se a Iselle non fosse toccato in sposo un Roya regnante, a lui non sarebbe dispiaciuto un nobile darthacano di confine, il signore di una delle calde province settentrionali della Darthaca. Sia il potere sia la distanza sarebbero infatti stati sufficienti a proteggere Iselle dalle… difficoltà che stava incontrando alla corte di Chalion. Quanto prima fosse riuscita da andarsene da lì, tanto meglio sarebbe stato.

Per lei, o per te? si chiese. Per entrambi, fu la risposta.


Anche se Nan dy Vrit sussultò, portandosi una mano agli occhi come per proteggerli, Cazaril pensò che Iselle appariva luminosa e piena di calore nelle sue vesti color carminio, coi riccioli ambrati che le ricadevano lungo le spalle fin quasi alla cintura. Per essere in armonia con gli altri, Cazaril aveva optato per una tunica di broccato rosso, appartenuta al vecchio Provincar, abbinandola a una sopravveste di lana bianca. Per l’occasione, anche Betriz aveva scelto il suo completo rosso preferito. Solo Nan dy Vrit, asserendo di preferire la sobrietà, si era abbigliata in bianco e nero.

Anche se le diverse tonalità di rosso contrastavano leggermente, nel complesso il gruppetto creava un effetto sgargiante che sfidava l’atmosfera deprimente generata dalla pioggia.

In fretta, i quattro si diressero verso la grande Torre di Ias, attraversando il fradicio cortile acciottolato e passando accanto alla Torre di Fonsa, dove tutti i corvi parevano aver cercato rifugio nel nido… No, non proprio tutti, considerato che un certo uccello, cui mancavano due penne della coda, sbucò dalla pioggia e calò in picchiata verso Cazaril, stridendo Caz, Caz! Temendo che il volatile gli macchiasse la sopravveste bianca, lo schivò e il corvo completò il suo volo circolare, tornando ad appollaiarsi sul tetto in rovina con un triste stridio.

Nella sala del trono di Orico, vividamente illuminata dai candelabri a parete che dissipavano il grigiore autunnale, c’erano almeno due dozzine di cortigiani. Avvolto nelle vesti formali della sua carica, e con la corona in testa, Orico sedeva sul trono, ma senza la Royina Sara al suo fianco. Accanto a lui, alla sua destra e su un seggio più basso, c’era invece Teidez.

Baciata la mano al sovrano, Iselle e il suo seguito presero posto a loro volta. Iselle si accomodò su una sedia più piccola, alla sinistra di quella riservata a Sara, e gli altri rimasero in piedi alle sue spalle.

Sorridendo, Orico diede inizio alle elargizioni previste per quel giorno, assegnando a Teidez i proventi di altre quattro città per il proprio sostentamento, cosa per cui il giovane lo ringraziò col baciamano previsto dall’etichetta di corte e con un breve discorso. Evidentemente, la notte precedente, Dondo non lo aveva tenuto sveglio fino a tarda ora, dato che il suo volto appariva meno verdastro e malsano del solito.

Poi Orico fece cenno al suo Cancelliere di avvicinarsi e, com’era già stato annunciato, gli consegnò le lettere di nomina e la spada in cambio del giuramento che lo rendeva il nuovo Provincar dell’Ildar. Alcuni nobili minori della provincia dell’Ildar procedettero quindi a prestare il giuramento di fedeltà a dy Jironal.

Più spettacolare e imprevisto fu l’atto che seguì: il re e dy Jironal, insieme, trasferirono infatti il titolo di March dy Jironal, insieme con le città e con le tasse a esso connessi, a Lord Dondo, ora il nuovo March dy Jironal.

Iselle rimase sorpresa, ma anche palesemente compiaciuta, quando suo fratello le assegnò i proventi di sei città per il proprio sostentamento. Non era di certo una donazione affrettata, dato che, fino a quel momento, le sue disponibilità economiche erano state assai scarse, almeno per una Royesse. Mentre Iselle pronunciava un cortese discorsetto di ringraziamento, la mente di Cazaril cominciò a elaborare una successione di possibilità: con quel denaro, Iselle avrebbe potuto permettersi una propria compagnia di guardie, al posto degli uomini prestati dalla Provincara e condivisi con Teidez? Se sì, lui avrebbe potuto sceglierli di persona… E poi Iselle avrebbe potuto anche insediarsi in una casa propria, in città, protetta da quelle guardie…

Iselle tornò al suo posto, sulla piattaforma, e si assestò le gonne, il volto adesso sereno, privo di quella tensione che non era apparsa evidente a nessuno finché non si era dissolta.

«E ora sono lieto di annunciare la più meritata e desiderata tra le ricompense oggi elargite», disse Orico, schiarendosi la gola, «Iselle, alzati, ti prego», proseguì, alzandosi a sua volta e protendendo la mano verso la sorellastra. Perplessa, ma sorridente, Iselle obbedì e gli si mise al fianco. «March dy Jironal, venite avanti», ordinò allora Orico.

Vestito con la tenuta di gala propria del generale del sacro Ordine della Figlia, e accompagnato da un paggio che indossava la livrea dei dy Jironal, Lord Dondo raggiunse Orico sull’altro lato.

Che cosa mai avrà in mente Orico? si chiese Cazaril, agghiacciato.

«Il mio amato e fedele Cancelliere e Provincar dy Jironal mi ha supplicato per avere il dono di un legame di sangue col mio casato e, dopo aver riflettuto, sono giunto alla conclusione che è per me una gioia assecondare il suo desiderio», dichiarò Orico, che però appariva più nervoso che felice. «Il Cancelliere ha chiesto la mano di mia sorella Iselle per suo fratello, il nuovo March dy Jironal. Di mia libera volontà, acconsento e suggello questo fidanzamento.» Girò verso l’alto il palmo massiccio di Dondo, accostando a esso la mano snella di Iselle e congiungendo le due mani all’altezza del proprio petto, prima d’indietreggiare.

Pallidissima in volto, Iselle rimase del tutto immobile, fissando Dondo come se non riuscisse a credere a ciò che aveva sentito; quanto a Cazaril, il sangue gli stava pulsando nelle orecchie con una violenza martellante, assordandolo. Non riusciva quasi a respirare.

«Come dono di fidanzamento, mia cara Royesse, credo di aver intuito che il tuo più grande desiderio fosse quello di completare la tua parure», disse Dondo a Iselle, chiamando a sé il paggio con un cenno.

«Hai intuito che desidero una città costiera, con un porto eccellente?» ribatté Iselle, continuando a fissarlo con totale distacco.

Dondo soffocò una risata e le volse le spalle. Il paggio aprì il cofanetto di cuoio lavorato, rivelando una tiara di perle e argento che Dondo sollevò a beneficio della corte. Gli amici del Lord risposero a quel gesto con un applauso. Cazaril, invece, serrò la mano intorno all’impugnatura della spada, calcolando quali probabilità aveva di estrarla e di scattare in un affondo… ma soltanto per concludere che sarebbe stato falciato prima ancora di poter muovere qualche passo.

Quando poi Dondo sollevò la tiara per posarla sulla testa di Iselle, lei si ritrasse come una giumenta spaventata.

«Orico…» sussurrò.

«Questo fidanzamento rispecchia la mia volontà e i miei desideri, cara sorella», dichiarò Orico, con voce carica di tensione.

Riluttante all’idea di dover inseguire Iselle con la tiara, Dondo si fermò e scoccò al Roya un’occhiata significativa. Iselle, dal canto suo, era riuscita a reprimere un istintivo grido d’indignazione e adesso stava disperatamente cercando di decidere come rispondere. Per carattere, non avrebbe mai risolto quella difficile situazione fingendo di svenire… «Sire, come ha detto il Provincar della Labran, quando le forze del Generale Dorato si sono riversate oltre le sue mura… questa è decisamente una sorpresa», disse infine.

I cortigiani si abbandonarono a una risatina esitante.

«Non me lo hai detto», aggiunse allora Iselle, a denti stretti e a bassa voce. «Non hai chiesto il mio consenso.»

«Ne parleremo in seguito», ribatté Orico in un sussurro.

Iselle rimase immobile ancora per qualche istante, poi accettò quella risposta con un lieve cenno del capo, e finalmente Dondo poté consegnarle la tiara di perle, chinandosi quindi a baciarle la mano. Tuttavia non pretese il consueto bacio di risposta: a giudicare dall’espressione sorpresa e disgustata di Iselle, c’erano notevoli probabilità che lei potesse morderlo.

Conclusi quei preliminari, il Divino di corte di Orico si fece avanti, abbigliato nelle vesti stagionali del Fratello, e invocò sulla nuova coppia la benedizione di tutti gli Dei.

«Fra tre giorni c’incontreremo qui di nuovo per veder celebrare questa unione», annunciò allora Orico.

«Tre giorni! Tre giorni!» esclamò Iselle, con la voce che cominciava a incrinarsi. «Sire, di certo volevi dire tre anni.»

«Tre giorni», ribadì Orico. «Preparati.» E si accinse a lasciare la sala, chiamando a sé i propri servitori.

La maggior parte dei cortigiani se ne andò insieme coi dy Jironal, porgendo loro le congratulazioni di rito. Soltanto i più audaci e curiosi indugiarono nella sala, tendendo le orecchie per cogliere la conversazione che, prevedibilmente, stava per svolgersi tra fratello e sorella.

«Come posso prepararmi in tre giorni? Non c’è neppure il tempo di mandare un corriere fino nella Baocia, e tantomeno quello di avere una risposta da mia madre o da mia nonna…» sibilò Iselle.

«Come tutti sanno, tua madre è troppo malata per poter sostenere la fatica di un viaggio fino a corte, e tua nonna deve rimanere a Valenda per prendersi cura di lei», la interruppe Orico.

«Ma io non…» accennò a ribattere Iselle, ma Orico le aveva ormai dato le spalle e si stava affrettando a uscire dalla sala del trono.

La giovane lo inseguì nella stanza successiva, tallonata da Betriz, Nan e Cazaril, e dopo averlo raggiunto ed essersi piantata di fronte a lui, esclamò: «Orico, io non desidero sposare Dondo dy Jironal!»

«Una dama del tuo rango non si sposa in base alle proprie inclinazioni, ma per fare progredire il proprio casato», la ammonì Orico, in tono severo.

«Ah, è così? Allora spiegami quale vantaggio reca alla Casa di Chalion sprecarmi col figlio minore di un casato secondario! Mio marito avrebbe dovuto portarci una royacy!»

«Questo matrimonio vincola i dy Jironal a me… e a Teidez»

«Direi piuttosto che vincola noi a loro! A mio parere, soltanto una delle due partì ne trae vantaggio!»

«Hai detto che non volevi sposare un principe roknari, e io ho assecondato questo tuo desiderio, anche se le offerte non sono certo mancate… In questa stagione, ne ho già rifiutate due. Pensaci, sorella, e dimostrami un po’ di gratitudine!»

La sta minacciando o supplicando? si ritrovò a pensare Cazaril.

«Inoltre, non desideravi lasciare Chalion. Benissimo, adesso potrai rimanere qui. Volevi sposare un nobile quintariano… e io te ne ho dato uno, che è anche un generale di un sacro Ordine!» sbottò Orico, scrollando le spalle. «Per di più, se ti avessi data in moglie a un sovrano di una potenza troppo vicina ai miei confini, rischiavi di essere usata come scusa per reclamare parte delle mie terre. Con questa scelta, ho fatto del mio meglio per garantire il futuro di Chalion.»

«Lord Dondo ha quarant’anni ed è un ladro, un uomo empio e corrotto! E un libertino! Ed è anche di peggio! Orico, non mi puoi fare questo!» insistette Iselle, in tono sempre più acuto.

«Non intendo ascoltarti», dichiarò lui, premendosi le mani sulle orecchie. «Hai tre giorni di tempo per calmarti e provvedere al tuo guardaroba» Poi fuggì, come da una torre in fiamme, ribadendo: «Non voglio sentire altro!»

Nel corso della giornata, Orico si mostrò deciso a rimanere su quella posizione. Durante quel pomeriggio, Iselle tentò per ben quattro volte di andare nel suo alloggio per rinnovare la propria supplica, ma ogni volta lui la fece allontanare dalle guardie, arrivando poi addirittura ad abbandonare il castello per installarsi in un capanno di caccia tra le querce, una mossa che indicava una notevole vigliaccheria.

Quando lo venne a sapere, CazariI si augurò che il tetto perdesse e che la pioggia gelida colasse a raffreddare la testa del sovrano.

Quella notte, il Castillar dormì molto male e al mattino, quando si avventurò al piano di sopra, si ritrovò davanti tre donne che non avevano chiuso occhio.

Iselle lo trascinò per una manica fino al suo salotto, lo fece sedere nella rientranza della finestra e si protese in avanti, per sussurrargli con voce tesa: «Cazaril, potete procurare quattro cavalli? O anche tre, due, o perfino uno soltanto? Ci ho pensato, ho passato tutta la notte a riflettere, e sono giunta alla conclusione che l’unica soluzione sia la fuga».

«Anch’io ci ho pensato a lungo», sospirò Cazaril. «Per prima cosa, mi stanno sorvegliando. La scorsa notte, quando ho cercato di lasciare il castello, due guardie mi hanno accompagnato… per la mia protezione, hanno detto. Potrei anche ucciderne o corromperne una, ma non due.»

«Potremmo uscire a cavallo fingendo di andare a caccia», suggerì Iselle.

«Con questa pioggia?» replicò Cazaril, indicando la pioggerella che colava lungo la finestra, velando di caligine la valle al punto di rendere impossibile scorgere il burrone sottostante e trasformando i nudi rami degli alberi in macchie scure. «Inoltre, anche se ci permettessero di uscire, senza dubbio ci farebbero accompagnare da una scorta armata.»

«Se potessimo acquisire soltanto un po’ di vantaggio…»

«Cosa potremmo fare? Una volta raggiunti, per prima cosa le guardie mi tirerebbero giù di sella e mi taglierebbero la testa, lasciandomi in pasto alle volpi e ai corvi, poi vi riporterebbero qui. E se pure, per qualche miracolo, non dovessero raggiungerci, sapete dirmi dove potremmo andare?»

«Verso un confine… un confine qualsiasi.»

«Brajar e l’Ibra meridionale vi rimanderebbero subito indietro per far piacere a Orico, mentre i cinque principati e la Volpe di Ibra vi terrebbero come ostaggio. Quanto alla Darthaca… per arrivarci, dovremmo attraversare metà Chalion e tutto l’Ibra meridionale. Temo proprio che la cosa non sia realizzabile, Royesse.»

«Che altro posso fare?» domandò Iselle, con una nota di disperazione nella voce.

«Nessuno può essere costretto al matrimonio, ed entrambe le parti devono dare liberamente il loro assenso davanti agli Dei. Se avrete il coraggio di presentarvi alla cerimonia e di opporre un semplice rifiuto, il matrimonio non potrà essere celebrato. Credete di poterlo fare?»

«Ma certo», ribatté lei, serrando le labbra. «Però… cosa succederà, dopo? Mi pare che adesso siate voi a non considerare tutti gli aspetti della situazione: credete che a quel punto Lord Dondo sarebbe disposto a rinunciare?»

«Tutti sanno che un matrimonio contratto con la forza non è valido», insistette Cazaril scuotendo il capo. «Aggrappatevi a questo pensiero.»

«Ah, Cazaril, voi non capite», esclamò Iselle, scuotendo il capo, angosciata e spazientita.

Sul momento, il Castillar interpretò quell’affermazione come un lamento giovanile, ma, quel pomeriggio stesso, Dondo si presentò nelle camere della Royesse per fare opera di persuasione.

Come richiedevano le regole, le porte del salotto della Royesse vennero lasciate aperte, e una guardia armata prese posto su ciascuna soglia, in modo da tenere lontani sia Cazaril, da un lato, sia Nan dy Vrit e Betriz dall’altro. Il Castillar non riuscì quindi a cogliere più di una parola su tre della rabbiosa discussione, condotta peraltro a bassa voce, che si stava svolgendo tra il massiccio cortigiano e la Royesse. Alla fine, però, Dondo se ne andò a grandi passi, con un’espressione di selvaggia soddisfazione dipinta sul volto, e Iselle si accasciò sul sedile antistante la finestra, ansimando per il terrore e l’ira che l’attanagliavano.

«Ha detto… che mi prenderà comunque, anche se non darò le risposte di rito», spiegò con voce soffocata, aggrappandosi a Betriz. «E quando ho ribattuto che Orico non gli avrebbe mai permesso di violentare sua sorella, mi ha chiesto di spiegargli per quale motivo sarebbe intervenuto, dato che aveva permesso a lui e a suo fratello di violentare sua moglie. Infatti, giacché la Royina Sara non riusciva a concepire, nel letto di Orico sono state… infilate dame, fanciulle e prostitute, per tacere di cose ancor più disgustose. Ma mio fratello si è rivelato del tutto impotente e allora i dy Jironal lo hanno persuaso a lasciarli… provare con sua moglie. Dondo e suo fratello l’hanno posseduta ogni notte, per un anno, uno alla volta o insieme, finché lei non ha minacciato di uccidersi. Dondo ha sostenuto che mi avrebbe posseduta fino a quando non avesse piantato il suo seme nel mio grembo, aggiungendo che, una volta incinta, non avrei più fatto tante storie nell’accettarlo come marito.» Iselle sbatté le palpebre sugli occhi velati di lacrime e spostò lo sguardo su Cazaril, le labbra ritratte sui denti in un’espressione che era quasi un ringhio. «Ha detto che il mio ventre si sarebbe fatto molto grosso, perché sono bassa di statura. Cazaril, quanto coraggio credete che mi possa servire per pronunciare un semplice no? E cosa succede se il coraggio non fa nessuna differenza?»

Credevo che l’unico posto in cui il coraggio non avesse importanza fosse una galea roknari manovrata da schiavi, ma mi sbagliavo, pensò Cazaril. «Non lo so, Royesse», sussurrò poi, avvilito.

Oppressa e disperata, Iselle si rivolse alle preghiere e al digiuno. Nan dy Vrit l’aiutò a erigere nelle sue camere un altare e lo decorò con tutti i simboli della Signora della Primavera che riuscì a trovare. Seguito dalle solite due guardie, Cazaril si recò allora a Cardegoss, trovando un fioraio che aveva delle violette fuori stagione, cresciute in serra, che portò al castello perché venissero messe sull’altare, in un bicchiere pieno d’acqua. Nel ringraziarlo, la Royesse gli fece cadere una lacrima sulla mano, però lui continuò a sentirsi stupido e impotente di fronte a quella situazione.

Senza mangiare né bere, Iselle si prostrava di continuo sul pavimento davanti all’altare. Cazaril non poté trattenersi dal ripensare alla prima volta in cui aveva visto la Royna Ista, nella sala degli antenati della Provincara, e, notando quella somiglianza, ne fu così sconvolto da dover lasciare la stanza in tutta fretta. Trascorse le ore successive aggirandosi per il palazzo e cercando di riflettere, ma senza nessun risultato.

In tarda serata, Lady Betriz lo convocò nell’anticamera di quello che stava rapidamente diventando un luogo da incubo. «Ho trovato una soluzione!» annunciò. «Cazaril, insegnatemi come si fa a uccidere un uomo con un coltello.»

«Come?»

«Le guardie di Dondo hanno l’ordine di non farvi avvicinare a lui, però, la mattina del matrimonio, io sarò al fianco di Iselle, come sua testimone, e nessuno si aspetta una mossa da parte mia. Nasconderò il coltello nel corpetto e, quando Dondo si chinerà per baciarle la mano, potrò colpirlo, anche due o tre volte, prima che qualcuno riesca a fermarmi. Però non so dove e come colpire per essere certa di uccidere. Suppongo di dover mirare al collo, ma in che punto?» Poi tirò fuori da sotto le gonne un sottile pugnale. «Avanti, fatemi vedere così potremo esercitarci finché non sarò certa di poter agire rapidamente e con scioltezza.»

«Per gli Dei, no, Lady Betriz! Rinunciate a questo folle piano! Vi ucciderebbero sul posto… o comunque v’impiccherebbero!»

«Sarei lieta di andare sulla forca, se prima potessi uccidere Dondo. Ho giurato di proteggere Iselle con la mia vita, e sono pronta a farlo», ribatté Betriz, con gli occhi scuri che ardevano come fuoco nel volto pallido.

«No», ribadì con fermezza Cazaril, togliendole di mano il coltello e chiedendosi come se lo fosse procurato. «Questo non è un incarico adatto a una donna.»

«Secondo me, è un incarico adatto a chiunque abbia la possibilità di portarlo a termine, cioè io. Avanti, fatemi vedere!»

«No, ascoltate… Aspettate. Io… tenterò qualcosa, vedrò di scoprire cosa posso fare.»

«Potete uccidere Dondo? Iselle è là dentro, intenta a pregare la Signora della Primavera perché faccia morire o lei o Dondo prima del matrimonio… Chi dei due non le importa più molto, ormai, però a me importa, e credo che a morire dovrebbe essere Dondo.»

«Sono assolutamente d’accordo. Ascoltatemi, Lady Betriz, dovete aspettare. Vedrò cosa posso fare.» E pensò: Se gli Dei non risponderanno alle tue preghiere, Lady Iselle, allora proverò a farlo io.

Il giorno successivo, alla vigilia del matrimonio, Cazaril trascorse ore intere a pedinare Lord Dondo per tutto il castello di Zangre, come se fosse un cinghiale in una foresta di pietra, ma non riuscì mai ad avvicinarsi abbastanza da poterlo colpire. Verso la metà del pomeriggio, poi, Dondo fece ritorno al grande palazzo che i dy Jironal possedevano in città, e Cazaril provò per ben due volte a valicarne le mura o le porte. La seconda volta, i bravacci al soldo di Dondo lo gettarono fuori e uno dei due lo tenne fermo, mentre l’altro lo tempestava di pugni al petto, al ventre e all’inguine. Tornò allo Zangre con passo lento e incerto, sorreggendosi ai muri come un ubriaco. Le guardie del Roya, che lui era riuscito a seminare nei vicoli di Cardegoss e che avevano assistito sia al pestaggio sia al suo cammino verso a casa, non intervennero.

Sulla spinta di un’ispirazione improvvisa, Cazaril si ricordò poi del passaggio segreto che univa lo Zangre col palazzo dei dy Jironal, all’epoca in cui esso era stato di proprietà di Lord dy Lutez. Si diceva che Ias e dy Lutez lo usassero di giorno per le riunioni di Stato e di notte per gli appuntamenti amorosi. Cercò allora di capire dove fosse, ma ben presto scoprì che quel passaggio era segreto quanto la strada principale di Cardegoss, sorvegliato da guardie e difeso da porte sprangate. Tentò persino di corrompere un paio di guardie, ricevendone in cambio spinte, imprecazioni e la minaccia di altre percosse.

Sono davvero in gamba, come assassino, pensò con amarezza, mentre tornava barcollando verso la sua camera, al crepuscolo. Si lasciò cadere sul letto, gemendo, con la testa che pulsava e il corpo dolorante, rimanendo immobile per qualche tempo prima di riscuotersi quanto bastava per accendere una candela. Doveva salire al piano di sopra per controllare come stavano le dame, ma temeva di non poter reggere al loro pianto, né se la sentiva di riferire a Betriz il proprio fallimento e di fare fronte a ciò che lei gli avrebbe chiesto. Lui non era riuscito a uccidere Dondo, quindi che diritto aveva di stroncare sul nascere un tentativo da parte della fanciulla?

Morirei con gioia, se ciò impedisse l’abominio che si verificherà domani… pensò.

Dici sul serio?

Si sollevò a sedere di scatto, rigido, chiedendosi se quella voce che gli era echeggiata nella mente fosse effettivamente la sua. Be’, la lingua gli si era mossa leggermente dietro le labbra, come gli capitava di solito quando discuteva con se stesso. E la risposta era come… nata dentro di lui.

Sì.

Si portò ai piedi del letto e si lasciò cadere in ginocchio, aprendo il coperchio del baule e cominciando a frugare tra gli indumenti ripiegati e profumati con chiodi di garofano, a difesa dalle tarme, fino a trovare una sopravveste di velluto nero avvolta intorno a una veste di lana marrone… e a un librettino in codice al quale non aveva più pensato da quando il giudice corrotto era fuggito da Valenda. Gli venne in mente che non l’aveva neppure restituito al Tempio, frenato dalle imbarazzanti spiegazioni che avrebbe dovuto fornire per giustificare il ritardo con cui lo aveva consegnato. Con mosse febbrili, lo tirò fuori e accese altre candele. Non aveva molto tempo a disposizione, e quasi un terzo del volumetto era ancora da decifrare.

Lascia perdere tutti gli esperimenti falliti, e va’ all’ultima pagina, si disse.

A onta della rozzezza di quel codice, la disperazione del mercante di lana emergeva concreta da quelle pagine, con una sorta di strana, scintillante semplicità: abbandonando tutte le precedenti, bizzarre elaborazioni, il mercante aveva fatto ricorso alla pura e semplice preghiera, a un ratto e a un corvo come mezzi per trasmettere la sua supplica, alle candele come strumento per illuminare la via, alle erbe aromatiche per elevare il suo cuore col loro profumo. Queste ultime lo avrebbero aiutato a improntare la mente alla purezza della volontà nonché ad accantonare la volontà stessa, deposta spontaneamente come un’offerta sull’altare del Dio.

Aiutami. Aiutami. Aiutami.

Quelle erano le ultime tre parole annotate sul libretto.

Posso farlo anch’io, pensò Cazaril, con un senso di meraviglia.

E se avesse fallito… ci sarebbe stata pur sempre Betriz, col suo coltello.

Ma non fallirò, promise a se stesso. Nella mia vita, ho fallito in quasi ogni cosa. Però non fallirò nella morte.

Riposto il volumetto sotto il cuscino, chiuse a chiave la porta della stanza e andò in cerca di un paggio, scegliendo infine un ragazzo assonnato che era in attesa nel corridoio, pronto a sopperire alle esigenze dei nobili e delle dame che stavano cenando nella sala dei banchetti di Orico. In quel luogo, senza dubbio, la prolungata assenza di Iselle era oggetto di scottanti pettegolezzi, scambiati senza remore e a voce alta, dato che nessuno degli interessati era presente. Dondo stava infatti cenando nel suo palazzo, coi suoi amici, e Orico si trincerava ancora nel capanno di caccia.

Prelevato dalla borsa un reale d’oro, Cazaril lo mostrò al paggio, tenendolo bene in vista tra pollice e indice. «Senti, ragazzo!» chiamò. «Ti andrebbe di guadagnarti un reale?»

Per i paggi dello Zangre, la cautela era d’obbligo. E un reale d’oro era una somma sufficiente a comprare servizi assai intimi da coloro che erano disposti a venderli, ma anche da ispirare cautela in quelli che non amavano giochi simili. «Cosa dovrei fare, mio signore?» chiese quindi il ragazzo.

«Cattura un ratto per me.»

«Un ratto, mio signore? Perché?»

Ah, già, ci voleva una motivazione, e Cazaril non poteva certo dichiarare di voler mettere in atto una magia di morte ai danni del secondo nobile più potente di tutta Chalion. Appoggiatosi con le spalle alla parete, il Castillar sfoggiò un sorriso da cospiratore. «Quando mi trovavo nella fortezza assediata di Gotorget, tre anni fa, dov’ero il comandante, almeno finché il mio coraggioso generale non ci ha venduti tutti al nemico, abbiamo imparato a mangiare i ratti», spiegò. «Sono piccole creature saporite, se riesci a catturarne abbastanza da saziarti, e adesso sento un’acuta nostalgia del sapore di una bella coscetta di ratto arrostita sulla fiamma di una candela. Procurami un bel ratto grasso e avrai una seconda moneta come questa.» Lasciò cadere la moneta nella mano del paggio e si leccò le labbra con un’aria che doveva senza dubbio apparire folle, almeno a giudicare dal modo in cui il ragazzo prese a indietreggiare. «Sai dove si trova la mia camera?» domandò poi.

«Sì, mio signore.»

«Allora portami là il ratto, in un sacco, più in fretta che puoi, perché ho davvero fame», ribadì Cazaril e si allontanò, ridendo… Una risata vera, dovuta a una strana, selvaggia esaltazione che gli pervadeva il cuore.

Quello stato d’animo durò finché, nella sua stanza, non sedette sul letto per elaborare il resto del suo piano, quell’oscura preghiera che si sarebbe conclusa con un suicidio. Era notte, dunque il suo corvo non sarebbe venuto sul suo davanzale, neppure se avesse cercato di adescarlo col pezzo di pane prelevato nella sala dei banchetti, prima di tornare nella parte centrale del palazzo. Dal momento che i corvi avevano il loro nido nella Torre di Fonsa, doveva essere lui a strisciare fino a loro, passando per i tetti. C’era tuttavia il rischio di scivolare al buio… Senza contare la difficoltà di tornare nella propria camera con un fagotto stridente sotto il braccio.

No. Doveva andare col sacco in cui c’era il ratto. Se avesse fatto ciò che doveva lassù, avvolto dall’oscurità del tetto in rovina, un unico viaggio sarebbe bastato. E poi in quella torre la magia di morte aveva già funzionato una volta, in modo spettacolare, a favore del nonno di Iselle, no? Non c’era dunque da sperare che lo spirito di Fonsa fosse disposto ad aiutare l’empio soldato che stava difendendo sua nipote? La sua torre era un luogo temuto, sacro al Bastardo e ai suoi uccelli, soprattutto nel cuore della notte e sotto quella pioggia gelida… Lassù il suo corpo non sarebbe mai stato trovato, né avrebbe avuto bisogno di sepoltura. I corvi avrebbero banchettato coi suoi resti… Un equo scambio, considerato il sacrificio che lui intendeva richiedere a uno di essi. Dopotutto, gli animali erano creature innocenti, anche i macabri corvi, e senza dubbio quell’innocenza li rendeva tutti sacri, almeno in certa misura. Il paggio tornò molto più in fretta di quanto lui si aspettasse, portando un sacco dentro cui qualcosa si contorceva disperatamente. Controllato il contenuto — un ratto infuriato che pesava più di una libbra e mezzo -, Cazaril consegnò al ragazzo l’altra moneta. Dopo averla riposta in tasca, il paggio si allontanò lentamente lungo il corridoio, continuando a guardarsi indietro con aria dubbiosa.

Cazaril richiuse il sacco e lo ripose nel baule, per impedire la fuga del «prigioniero», poi si tolse la tenuta da cortigiano e, come buon augurio, si mise la veste marrone e la sopravveste nera che il mercante di lana aveva indossato al momento della morte. Indugiò per qualche istante a chiedersi se, per affrontare la scalata delle pietre e delle tegole bagnate di pioggia, fosse meglio usare gli stivali, le scarpe o restare scalzo e, alla fine, optò per quest’ultima strada. Prima d’iniziare la sua impresa, però, s’infilò le scarpe per fare un’ultima visita.

«Betriz?» chiamò qualche minuto più tardi, fermandosi davanti alla porta dell’anticamera. «Lady Betriz? So che è tardi… Ma potete venire fuori per parlare con me?»

Ancora completamente vestita, pallida ed esausta, Betriz oltrepassò la soglia e gli permise di stringerle le mani, arrivando ad appoggiargli per un momento la fronte contro il petto; per un vertiginoso istante, il profumo dei suoi capelli riportò Cazaril al secondo giorno che aveva trascorso a Valenda, quando si era trovato accanto a lei, in mezzo alla calca che affollava il Tempio. L’unica cosa rimasta immutata, da quel giorno sereno, era la sua lealtà.

«Come sta la Royesse?» le chiese.

«Continua a pregare la Figlia senza un attimo di sosta», rispose Betriz, sollevando lo sguardo su di lui alla tenue luce delle candele. «Non ha mangiato né bevuto da ieri. Non so dove siano gli Dei, o perché ci abbiano abbandonati…»

«Oggi non ho potuto uccidere Dondo. Avvicinarlo mi è stato impossibile», confessò Cazaril.

«L’avevo immaginato… Altrimenti avremmo sentito qualcosa al riguardo.»

«Mi rimane ancora una cosa da tentare. Se non dovesse funzionare… Be’, in tal caso, tornerò domattina, e vedremo cosa si potrà fare col vostro coltello. Volevo soltanto che voi sapeste… Ecco, se domattina non dovessi tornare, sappiate che comunque starò bene. Non vi preoccupate per me e non mi cercate.»

«Non ci state abbandonando, vero?» esclamò Betriz, stringendogli spasmodicamente le mani.

«No, mai.»

«Non capisco», mormorò lei, sbattendo le palpebre, stupita.

«Non importa. Abbiate cura di Iselle, e non vi fidate mai, per nessun motivo, del Cancelliere dy Jironal.»

«Non c’è bisogno che me lo diciate!»

«Ancora una cosa. Il mio amico Palli, il March dy Palliar, conosce la verità: sa che, dopo Gotorget, io sono stato tradito… E sa anche come Dondo e io siamo diventati nemici… Adesso non ha più importanza, ma è bene che Iselle sappia che il fratello maggiore di Dondo ha deliberatamente escluso il mio nome dall’elenco degli uomini da riscattare, condannandomi alla schiavitù sulle galee e alla morte. Non ci sono dubbi al riguardo, perché ho visto l’elenco, stilato di suo pugno. Conoscevo fin troppo bene la sua calligrafia, per aver letto più volte i suoi ordini militari.»

«Non si può fare nulla al riguardo?» chiese Betriz.

«Ne dubito. Se si potesse dimostrarlo, una buona metà dei nobili di Chalion rifiuterebbe di cavalcare in futuro sotto la sua bandiera, e forse ciò sarebbe sufficiente a farlo cadere in disgrazia… o forse no. Questa è una freccia che Iselle deve tenere nella sua faretra, perché un giorno potrebbe tornarle utile.» Indugiò per un lungo momento a fissare il volto di lei, sollevato verso il suo, con la pelle d’avorio, le labbra di corallo e i profondi occhi d’ebano, che apparivano enormi nella penombra, poi si chinò con fare impacciato, e la baciò.

Per un attimo, Betriz smise di respirare, poi scoppiò in una risata stupita e si portò una mano alla bocca.

«Scusatemi… La vostra barba punge», disse.

«Io… perdonatemi. Palli sarebbe per voi un marito quanto mai onorevole, se voleste prenderlo in considerazione. Inoltre è sincero proprio come voi. Potete riferirglielo da parte mia.»

«Cazaril, cosa state…»

«Betriz?» chiamò in quel momento Nan dy Vrit, dalle camere della Royesse. «Puoi venire qui, per favore?»

Per Cazaril era giunto il momento di separarsi da tutto, anche dal rimpianto. Le baciò ancora una volta le mani e si allontanò in fretta.


L’arrampicata notturna sui tetti dello Zangre, dal corpo principale del palazzo fino alla Torre di Fonsa, fu difficoltosa proprio come Cazaril aveva anticipato. Stava ancora piovendo, la luna brillava a tratti fra le nuvole, ma la sua luce cupa e intermittente non era molto utile. A peggiorare le cose, le superfici su cui si muoveva, a piedi nudi, erano dolorosamente ruvide o spaventosamente scivolose, oltre a essere tanto gelide da eliminare ogni sensibilità. La parte peggiore fu il piccolo salto finale di circa due iarde fino alla sommità della torre rotonda; per fortuna, tuttavia, il balzo risultò inclinato verso il basso, evitando in tal modo a Cazaril di schiantarsi sull’acciottolato sottostante.

Stringendo il sacco col ratto, che continuava a dibattersi, e respirando a fatica, ancora tremante per il salto, Cazaril si accovacciò sul tetto, contro una fila di tegole viscide di pioggia. Però, temendo che una si staccasse, cadendo nel cortile e attirando l’attenzione di una guardia, dopo qualche istante il Castillar prese a spostarsi lungo il contorno della torre. Raggiunse così lo squarcio nel tetto e lì si sedette, lasciando penzolare le gambe all’interno e tastando coi piedi alla ricerca di una superficie solida. Non trovandola, attese che la luna uscisse da dietro le nubi, fornendo un po’ di luce, ma cominciò anche a dubitare del fatto che, sotto i suoi piedi, ci fosse un pavimento o anche solo un tratto di ringhiera. Davanti a lui, nel buio, un corvo gracchiò sommessamente.

Cazaril trascorse almeno dieci minuti in quella posizione precaria, mentre, con mani tremanti, cercava di accendere il mozzicone di candela che si era portato appresso, lavorando al tatto con accendino ed esca posati in grembo. Com’era prevedibile, finì per scottarsi, ma riuscì anche a ottenere una piccola fiamma, grazie alla quale vide che, più sotto, c’erano in effetti una ringhiera e un tratto di rozzo pavimento. Sembrava che, dopo l’incendio, per evitare un crollo rovinoso, qualcuno avesse costruito all’interno della torre una piattaforma di travi massicce. Trattenendo il respiro per la tensione, Cazaril saltò atterrando su quella superficie di dimensioni assai ridotte, ma piuttosto solida. Poi infilò la candela in una fessura tra due travi e ne accese una seconda, accostandola alla sua fiamma. Infine estrasse il pane e il sottile pugnale tolto a Betriz.

Prendere un corvo… Mentre era nella sua camera, la cosa gli era sembrata abbastanza semplice, ma adesso, in quel rudere avvolto da ombre tremolanti, non riusciva neppure a vedere quei dannati uccelli.

Accanto alla sua testa ci fu un improvviso sbattere d’ali e un corvo andò a posarsi sulla ringhiera. Tremando di spavento, Cazaril protese un pezzetto di pane e, quando il corvo glielo strappò di mano, per poi spiccare nuovamente il volo, si concesse una sonora imprecazione. Quindi trasse alcuni profondi respiri e si costrinse a procedere con ordine. Aveva il pane, il coltello, le candele, il sacco col ratto… ed era anche in ginocchio. Ma poteva dire di avere il cuore sereno? Certamente no.

Aiutami, aiutami, aiutami, pregò.

Il corvo, o un suo gemello, tornò verso di lui, stridendo: «Caz, Caz!» in tono non troppo alto. Quel richiamo, tuttavia, riecheggiò potente nella torre in rovina.

«D’accordo», sbuffò Cazaril. «Così va bene.» Estratto il ratto dal sacco, gli appoggiò il coltello contro la gola. «Corri dal tuo signore con la mia preghiera», sussurrò, sgozzando l’animale con un gesto rapido e preciso. Il fiotto di sangue, caldo e scuro, gli bagnò la mano. Lui posò il piccolo cadavere accanto alle ginocchia e protese il braccio verso il corvo. Come se obbedisse a un ordine, il volatile saltò su di esso e si chinò a lambire il sangue sulla mano di Cazaril, protendendo di scatto la lingua nera. Quel gesto colse così di sorpresa il Castillar da strappargli un violento sussulto. Allora, per evitare che il corvo volasse via, Cazaril bloccò l’uccello sotto il braccio e lo baciò sulla testa. «Perdonami, perché il mio bisogno è grande», disse. «Forse il Bastardo ti nutrirà col pane degli Dei e potrai posarti sulla sua spalla, quando lo raggiungerai. Vola dal tuo signore con la mia preghiera.»

Una rapida torsione fu sufficiente a spezzare il collo del corvo, che agitò per un istante le ali e giacque immobile tra le sue mani. Lentamente, Cazaril depose quel cadavere accanto all’altro. «Bastardo, Dio della giustizia quando ogni giustizia viene meno, Dio dell’equilibrio di tutte le cose fuori stagione, e Dio del mio bisogno. Per dy Sanda, per Iselle, per tutti coloro che la amano… per Lady Betriz, la Royina Ista, la vecchia Provincara… per il disastro sulla mia schiena, per la verità contrapposta alle menzogne, ricevi la mia preghiera…» Ignorava se quelle erano le parole giuste, ammesso che ci fossero parole «giuste» per quel rito. D’un tratto, però, il suo respiro divenne affannoso. Quindi cominciò a piangere e si piegò in avanti, sopra i corpi degli animali, straziato da un intenso dolore al ventre, una sorta di crampo unito a un bruciore devastante. Non sapeva di dover soffrire tanto… In ogni caso, è meglio che trovarsi su una galea e ricevere una scarica di quadrelle brajariane sul posteriore, si disse. Poi, rammentando le preghiere della sera che diceva da ragazzo, aggiunse: «Per le tue benedizioni, noi ti ringraziamo, Dio delle cose fuori stagione…»

Aiutami, aiutami, aiutami…

Oh.

La fiamma delle candele tremolò e si spense, l’oscurità si fece ancora più intensa e sembrò inghiottire ogni cosa.

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