22

La necessità di viaggiare in segreto costrinse Cazaril a rinunciare, sia pure con dispiacere, a fermarsi presso le stazioni di cambio dei cavalli della Cancelleria… Ma non era davvero il caso di fornire a dy Jironal una mappa precisa del loro percorso e della loro destinazione. Armati della lettera di raccomandazione stilata da Palli, lui e i suoi compagni ottennero cavalli freschi presso i capitoli cittadini dell’Ordine della Figlia; una volta ai piedi delle montagne, però, furono costretti a trattare con un locale mercante di cavalli per alcuni robusti muli, dal passo sicuro, che permettessero loro di superare senza rischi quelle vette. Senza dubbio, erano anni che quel mercante si stava guadagnando abbondantemente da vivere imponendo prezzi esosi ai viandanti disperati.

«Questa bestia ha l’asma!» protestò Ferda, indignato, dopo aver dato un’occhiata ai muli che venivano loro offerti. «E sono disposto a mangiare il tuo cappello se quest’altro non si metterà ben presto a zoppicare!»

Tra lui e il mercante scoppiò una feroce discussione.

Cazaril, sfinito, era appoggiato alla ringhiera del recinto e pensava soltanto che non aveva voglia di montare in sella a un altro animale, zoppo o no, e che non l’avrebbe avuta per i prossimi mille anni. Infine si decise a raddrizzarsi e a oltrepassare il cancello del recinto, avanzando tra cavalli e muli, ancora agitati dall’arrivo delle cavalcature scartate dai tre viandanti.

«Se questo è il tuo volere, Signora, procuraci tre buoni muli», pregò, chiudendo gli occhi e allargando le mani in un gesto di supplica. Qualcosa che gli urtava un fianco lo indusse a riaprire gli occhi: era un mulo dai limpidi occhi scuri che lo stava fissando con aria incuriosita. Ben presto, altri due spintonarono il primo animale per avvicinarsi, agitando le lunghe orecchie. Il più alto dei due, col pelo marrone scuro e col naso color crema, appoggiò il mento sulla spalla di Cazaril e sbuffò con aria beata.

«Ti ringrazio, Signora», sussurrò lui, poi, alzando la voce, ordinò ai muli: «Seguitemi» e s’incamminò in mezzo al fango. I tre animali gli si accodarono, annusandolo con rumoroso interesse.

«Prenderemo questi tre», disse Cazaril al mercante che, al pari di Ferda, si era ammutolito e lo stava fissando a bocca aperta.

«Ma… quelli sono i miei tre animali migliori!» protestò l’uomo.

«Sì, lo so», ribatté Cazaril, uscendo dal recinto. Il mercante lottò per tenere chiuso il cancello e impedire ai tre muli di avanzare. Ma essi premevano con forza contro le assi, emettendo versi ansiosi. «Ferda, accordati sul prezzo», aggiunse. «Nel frattempo, io mi andrò a sdraiare su quello splendido mucchio di fieno. Svegliami quando i muli saranno sellati e pronti…»

La sua cavalcatura risultò sana, di buon temperamento e alquanto placida… A parere di Cazaril, su quelle pericolose piste di montagna, non c’era niente di meglio di un mulo placido. I focosi destrieri che Ferda preferiva, e che permettevano di viaggiare veloci in pianura, non avrebbero tenuto un’andatura più rapida di quella e sarebbero stati un pericolo per la loro tendenza a innervosirsi se si trovavano in luoghi angusti. Per di più, il passo lento dei muli non gli causava troppo dolore al ventre. D’altro canto, se la Dea aveva scelto di dare al suo santo quei buoni muli, lui non riusciva a capire perché non gli avesse concesso anche un clima migliore.

I fratelli dy Gura smisero di ridere del suo cappello a metà del passo che valicava la catena montuosa dei Denti del Bastardo. Sotto il nevischio, che il vento spingeva loro dritto in faccia, lui abbassò i paraorecchie imbottiti di pelliccia calda e se li legò sotto il mento, scrutando con occhi socchiusi la pista incorniciata dalle orecchie appiattite del suo mulo e valutando quante ore di luce avessero ancora a disposizione.

«Mio signore, non dovremmo cercare rifugio da questa bufera?» chiese Ferda, dopo un po’, affiancandosi a lui.

«Bufera?» ripeté Cazaril, pulendosi la barba dal ghiaccio e fissando interdetto il giovane ufficiale. Soltanto dopo un momento ricordò che gli inverni, a Palliar, erano piuttosto miti, caratterizzati più da pioggia che da neve e che probabilmente, prima di allora, i due fratelli non erano mai usciti dalla loro provincia. «Se questa fosse una bufera, non saresti in grado di vedere neppure le orecchie del tuo mulo. Non è una situazione pericolosa, è soltanto sgradevole», replicò.

Pur sgomento, Ferda strinse ben bene i lacci del cappuccio e si chinò in avanti per resistere al vento. Pochi minuti più tardi, tuttavia, emersero da quel turbine di neve e scorsero un’ampia valle. I raggi di un pallido sole fecero allora capolino tra le nubi argentee e chiazzarono di luce i pendii.

«Ibra!» gridò Cazaril, in tono incoraggiante, indicando davanti a sé.


Non appena iniziarono la discesa verso la costa, il clima si fece più mite, anche se i muli non accelerarono il passo. Ben presto, le aspre montagne di confine cedettero il posto alle colline: scure gobbe marroni tra cui si aprivano ampie vallate. Soltanto allora, e con riluttanza, Cazaril permise a Ferda di barattare quegli eccellenti muli con cavalcature più veloci. Un succedersi di strade in condizioni sempre migliori e di locande sempre più accoglienti permise loro di arrivare in appena due giorni al fiume che scorreva fino a Zagosur, incontrando lungo il percorso numerose fattorie e canali d’irrigazione gonfiati dalle recenti piogge.

Nell’emergere dalla valle del fiume, i tre scorsero la città con la sua cinta di mura grigie: un ammasso di case imbiancate a calce, coi tetti coperti dalle tegole verdi caratteristiche di quella regione, e con la fortezza che coronava il tutto, dominando il porto che si allargava ai piedi dell’abitato. Al di là della città si stendeva il mare, grigio come l’acciaio, un infinito orizzonte piatto striato di riflessi iridescenti. L’odore salmastro, misto a un sentore di acqua marcia dovuto alla bassa marea, permeava la brezza fredda proveniente dalla costa e indusse Cazaril a sollevare di scatto la testa, quasi con repulsione. Accanto a lui, Foix trasse un profondo respiro, gli occhi accesi da un’espressione di entusiasmo, mentre assaporava lo spettacolo, per lui inedito, del mare.

La lettera di Palli e il grado dei fratelli dy Gura permisero loro di ottenere rifugio presso la Casa della Figlia, adiacente la Piazza del Tempio di Zagosur. Cazaril ordinò ai due giovani di procurarsi un’uniforme di gala del loro Ordine, comprandola o prendendola a prestito, e uscì per andare da un sarto.

Non appena seppe che Cazaril era disposto a spendere qualsiasi cifra, a patto che gli venisse fornito subito un cambio di vestiario completo adeguato alle sue esigenze, il sarto si lanciò in un’attività frenetica. Poco più di un’ora dopo, Cazaril usciva dalla sua bottega, portando sotto un braccio una versione abbastanza accettabile della tenuta da lutto in uso presso la corte di Chalion.

Dopo un bagno freddo, indossò la pesante tunica di broccato color lavanda, dal collo molto alto, s’infilò i pesanti calzoni di lana porpora scuro e gli stivali, puliti e lucidati; assestatosi intorno alla vita la cintura e la spada che dy Ferrej gli aveva prestato tanto tempo prima, indossò la sopravveste di seta e velluto nero, contemplando con soddisfazione l’effetto complessivo. Uno degli ultimi anelli di Iselle, decorato con un’ametista a taglio quadrato, gli calzò di stretta misura al mignolo: era il suo unico gioiello e, più che la povertà, suggeriva il desiderio di non voler sfoggiare le proprie ricchezze. Osservandosi ancora una volta, Cazaril pensò che la tenuta da lutto e le striature grigie nella barba gli conferivano proprio l’aria grave e dignitosa che si addiceva a un inviato. Prese le preziose lettere diplomatiche di cui era latore, le ripose sotto il braccio, passò a prelevare la sua scorta, che si era ripulita e sfoggiava linde ed eleganti divise bianche e azzurre, e s’incamminò per le stradine tortuose della città, diretto verso la collina, al covo della Grande Volpe.

L’aspetto e l’atteggiamento di Cazaril fecero sì che lui venisse subito ricevuto dal siniscalco del Roya di Ibra. E l’esibizione delle lettere di cui era latore, munite di sigillo reale, gli aprì la strada fino allo studio del segretario del Roya, un individuo magro, di mezz’età e dall’aria tesa, che li accolse in una spoglia stanza dalle pareti imbiancate a calce, raggelata dalla perenne umidità invernale propria di Zagosur. L’uomo ricambiò da pari a pari l’inchino di Cazaril e rimase in attesa.

«Sono il Castillar dy Cazaril e giungo da Cardegoss per una missione diplomatica di una certa urgenza. Reco con me lettere di presentazione per il Roya e per il Royse Bergon dy Ibra, da parte della Royesse Iselle dy Chalion», spiegò allora lui, esibendo i sigilli, salvo poi ritrarre le lettere contro il proprio petto allorché il segretario si mosse per prenderle in consegna. «Le ho ricevute dalle mani della Royesse, con l’incarico di consegnarle direttamente in quelle del Roya.»

«Vedrò cosa posso fare per voi, mio signore», ribatté il segretario, chinando la testa di lato con aria incerta. «Ma attualmente il Roya è perseguitato da petizioni, soprattutto da parte di parenti di ex ribelli, che cercano la sua misericordia… alquanto scarsa, al momento, direi.» Poi squadrò Cazaril da capo a piedi. «Scusatemi, ma credo che nessuno vi abbia avvertito… Il Roya ha proibito il lutto di corte per il defunto Erede di Ibra, che è morto da ribelle, senza riconciliarsi con lui. Soltanto coloro che desiderano sfidare apertamente il Roya indossano abiti da lutto e di solito hanno la presenza di spirito di farlo… in sua assenza. Se non è vostra intenzione insultarlo, vi consiglio di andare a cambiarvi, prima di chiedere udienza.»

«Nessuno mi ha preceduto qui con la notizia?» esclamò Cazaril, inarcando le sopracciglia con aria sorpresa. «Certo, abbiamo viaggiato in fretta, ma non pensavo che avessimo battuto sul tempo tutti i corrieri. Non sfoggio questi lividi colori per l’Erede di Ibra, bensì per l’Erede di Chalion, il Royse Teidez, morto appena una settimana fa, improvvisamente, a causa di un’infezione.»

«Oh», mormorò il segretario, stupefatto. «Oh.» Dopo un istante, ritrovò il controllo e aggiunse, con maggiore scioltezza: «In tal caso, porgo le mie condoglianze alla Casa di Chalion, per la perdita di una così luminosa speranza. Avete detto che le lettere sono della Royesse Iselle?»

«Sì», confermò Cazaril e, per buona misura, aggiunse: «Quando ho lasciato in tutta fretta Cardegoss, il Roya Orico era gravemente malato e non si stava occupando degli affari di Stato».

Il segretario aprì la bocca e tornò a richiuderla senza aver emesso suono. «Venite con me», riuscì infine a dire, e precedette Cazaril e la sua scorta in una stanza più confortevole, dove un piccolo fuoco ardeva in un focolare d’angolo. «Vedrò cosa posso fare», mormorò, congedandosi.

Cazaril si adagiò su una sedia coperta di cuscini, accanto al focolare, mentre Foix sedette su una panca e Ferda prese ad aggirarsi per la stanza come una tigre in gabbia, guardando distrattamente gli arazzi appesi alle pareti. «Credete che ci riceveranno?» domandò infine. «Aver fatto tanta strada per essere costretti ad aspettare davanti alla porta, come venditori ambulanti…»

«Oh, sì, ci riceveranno», garantì Cazaril, con un accenno di sorriso. Un servitore affannato stava appunto entrando nella stanza per offrire ai tre visitatori del vino e alcuni piccoli dolci speziati su cui era impresso il sigillo ibrano, una specialità di Zagosur.

«Perché questo cane non ha le zampe?» chiese Foix, osservando con aria perplessa la creatura raffigurata su un biscotto, prima di affondarvi i denti.

«È un cane di mare, ha le pinne al posto delle zampe e si nutre di pesci», spiegò Cazaril. «Quelle bestie formano colonie lungo la costa tra qui e la Darthaca.» Permise quindi al servitore di versargli il vino, ma non più di un sorso: voleva rimanere sobrio ed evitare di sprecarlo.

Infatti non ebbe quasi il tempo di bagnarsi le labbra perché, come aveva previsto, il segretario rientrò nella stanza. «Lord dy Castillar, signori, seguitemi per favore», disse, con un inchino molto più profondo del precedente.

Ferda si affrettò a trangugiare il suo bicchiere di vino rosso ibrano e Foix si ripulì dalle briciole la sopravveste di lana bianca. Entrambi si accodarono poi a Cazaril e al segretario, che li guidò lungo alcune scale e attraverso un piccolo, arcuato ponte di pietra che dava accesso alla parte più nuova della fortezza. Dopo qualche svolta, il gruppetto giunse davanti a una porta a due battenti, decorata con intagli di creature marine, secondo lo stile roknari.

In quel preciso istante, la porta si aprì e apparve un nobile abbigliato in modo elegante, sottobraccio a un altro cortigiano e intento a lamentarsi. «Ho aspettato cinque giorni per quest’udienza!» stava brontolando il nobile. «Quale assurda…»

«Vuol dire che dovrete aspettare ancora un poco, mio signore», ribatté il cortigiano, accompagnandolo lungo il corridoio con una mano stretta saldamente intorno al suo gomito.

Con un inchino, il segretario invitò Cazaril e i fratelli dy Gura a entrare, annunciandoli in maniera formale, con nome e rango.

Si ritrovarono così in quella che non era la sala del trono, bensì una camera di ricevimento, adatta a ospitare riunioni di Stato. Un’estremità era occupata da un ampio tavolo, abbastanza spazioso da potervi stendere sopra mappe e documenti, mentre nella lunga parete opposta a esso si apriva una fila di porte, il cui telaio era rivestito integralmente da pannelli di vetro quadrati. Al di là di esse, una balconata si affacciava sul porto e sul cantiere navale che costituivano il cuore della ricchezza e del potere di Zagosur. Grazie alle ampie porte-finestre, la pallida luce marina illuminava intensamente la stanza, facendo apparire fioca la fiamma delle candele accese nei supporti a parete.

Nella stanza c’erano una mezza dozzina di uomini, ma Cazaril non ebbe difficoltà a riconoscere la Volpe e suo figlio. Tra i settanta e gli ottanta, il Roya di Ibra era un uomo magro e quasi calvo. La folta capigliatura rossiccia della sua giovinezza era ridotta a una lanuginosa frangia bianca che gli cingeva la parte posteriore del cranio. Eppure, nonostante l’età avanzata, appariva ancora vigoroso e rilassato, ma anche lucido e attento. Il giovane di alta statura, fermo accanto alla sua sedia coperta di cuscini, aveva invece dritti capelli castani ereditati dalla defunta madre darthacana, peraltro sfumati di rossiccio e tenuti lunghi quanto bastava per permettergli di calzare comodamente un elmo.

Se non altro, ha un aspetto sano, pensò Cazaril. Bene…

La sopravveste del Royse era decorata con centinaia di perle, cucite in modo da imitare le curve delle onde. Quando lui si voltò verso i nuovi arrivati, quella decorazione creò un elegante effetto ondulato.

L’uomo in piedi sull’altro lato del seggio della Volpe era invece il Cancelliere di Ibra, come proclamava la catena che portava al collo… Aveva un aspetto guardingo e intimidito: stando a tutti i rapporti, lui era un mero servitore della Volpe, che non gli faceva di certo mancare il lavoro, e non un suo rivale per il potere. Un altro dei presenti, almeno a giudicare dai gradi che sfoggiava, doveva essere un ammiraglio della flotta di Ibra.

Piegato un ginocchio al suolo davanti alla Volpe, con mosse abbastanza aggraziate nonostante gli indolenzimenti dovuti al lungo viaggio a cavallo, Cazaril chinò con deferenza il capo. «Mio signore, vi porto da Chalion la triste notizia della morte del Royse Teidez e lettere urgenti da parte di sua sorella, la Royesse Iselle», disse, porgendo la lettera in cui Iselle accreditava la sua autorità di ambasciatore.

Infranto il sigillo, la Volpe scorse in fretta le poche righe stilate con semplicità, poi inarcò le sopracciglia e fissò Cazaril con occhi penetranti. «Davvero interessante», commentò. «Alzatevi, Lord Ambasciatore.»

Tratto un profondo respiro, Cazaril obbedì, senza neppure doversi puntellare contro il pavimento con una mano o, cosa ancora peggiore, essere costretto a sorreggersi alla sedia del Roya. Nel sollevare lo sguardo, scoprì poi che il Royse Bergon lo stava scrutando con aria intensa, le labbra socchiuse in un’espressione leggermente corrucciata, cosa che lo lasciò perplesso e lo indusse a rivolgergli un esitante cenno del capo accompagnato da un sorriso. Nel complesso, il Royse era senza dubbio un bel giovane, dai lineamenti regolari e forse anche avvenenti, quando non era così accigliato. Gli occhi non erano storti e non aveva un labbro leporino… Forse era un po’ massiccio, ma per via dei muscoli e non del grasso. Soprattutto, poi, non aveva quarant’anni. No, Bergon era giovane, ma l’ombra scura sulle sue guance rasate indicava con chiarezza che aveva comunque raggiunto l’età virile. Tutto considerato, Cazaril ritenne che Iselle sarebbe stata soddisfatta.

«Parlate ancora!» ingiunse Bergon, fissandolo con crescente intensità.

«Mio signore?» replicò Cazaril, sorpreso, indietreggiando quando il Royse prese ad avanzare verso di lui e gli girò intorno, squadrandolo da capo a piedi, il respiro sempre più affannoso.

«Toglietevi la camicia!» ordinò.

«Come?»

«Toglietevi la camicia!»

«Mio signore… Royse Bergon…» balbettò Cazaril, rammentando la spiacevole scena organizzata da dy Jironal per screditarlo agli occhi di Orico. Ma lì a Zagosur non c’erano corvi sacri che potessero salvarlo. «Vi supplico, mio signore, non mi coprite di vergogna davanti a queste persone…»

«Per favore, ditemi… Oltre un anno fa, in autunno, non siete forse stato salvato dalla prigionia su una galea roknari, al largo della costa di Ibra?»

«Oh. Sì, certo…»

«Toglietevi la camicia!» gridò il Royse, che aveva ripreso a girargli intorno.

Stordito e sconcertato, Cazaril lanciò un’occhiata alla Volpe, che sembrava perplesso al pari dei presenti, ma che avvallò la strana richiesta del figlio con un cenno, spinto da un’evidente curiosità. Confuso e spaventato, Cazaril si decise infine a obbedire, slacciando le maniche della tunica e sfilandola insieme con la sopravveste, per poi ripiegare sul braccio entrambi gli indumenti, la mascella serrata per la tensione, deciso a sopportare con dignità qualsiasi umiliazione.

«Sei Caz! Tu sei Caz!» gridò invece Bergon, il cui cipiglio si era ora mutato in un sorriso quasi folle.

Cazaril si trovò a pensare che il Royse era pazzo, e dunque inadatto a Iselle… Una scoperta davvero sgradevole, dopo quella disperata galoppata per pianure e montagne… «Ecco, sì, i miei amici mi chiamano…» accennò a replicare, ma le parole gli si strozzarono in gola quando il Royse lo circondò con un abbraccio tanto improvviso quanto irruente, sollevandolo quasi da terra. «Padre, si tratta di lui!» esclamò, felice. «È lui quell’uomo!»

«Ma quale…» D’un tratto, grazie a un lieve cambiamento nella voce del Royse, e al diverso profilo che lui gli offriva, Cazaril comprese. Il suo stupore si mutò in un sorriso radioso. Il ragazzo era cresciuto, ma, se lo avesse ringiovanito di un anno, togliendo otto centimetri di statura, cancellando l’ombreggiatura della barba, rasando i capelli e aggiungendo un po’ di grasso giovanile e le scottature causate dal sole… «Per i cinque Dei», sussurrò. «Danni? Danni!»

«Dove sei andato?» chiese il Royse, afferrandogli le mani e baciandogliele. «Dopo che mi hanno riportato a casa, sono stato male per una settimana e, quando ho finalmente potuto mandare qualcuno a cercarti, tu eri scomparso. Sono riuscito a rintracciare altri schiavi liberati da quella nave, ma non te, e nessuno sapeva dove fossi finito.»

«Anch’io ero malato, e sono stato accolto presso l’ospedale della Madre, qui a Zagosur. Quando mi sono rimesso sono… tornato a casa a piedi.»

«Qui! Sei rimasto qui per tutto il tempo! Ah! Mi sembra impossibile. Ho fatto cercare anche negli ospedali… Com’è possibile che non ti abbiano trovato? Ho creduto che fossi morto a causa delle tue orribili ferite.»

«Io ero certo che fosse morto», commentò la Volpe, che stava seguendo quella scena con uno sguardo indecifrabile. «Non mi aspettavo certo di vederlo giungere qui a riscuotere il grande debito che la mia Casa ha nei suoi confronti.»

«Io non sapevo… chi eri, Royse Bergon.»

«Davvero?» esclamò la Volpe, inarcando le sopracciglia grigie.

«Non lo sapeva, padre», fu pronto a confermare Bergon. «Non ho detto a nessuno chi ero, e mi sono servito del soprannome che la mamma mi aveva dato quand’ero piccolo. Mi sembrava meno pericoloso restare anonimo che dichiarare. Quando mi hanno rapito, i sicari del mio defunto fratello non hanno rivelato al capitano roknari chi ero», aggiunse, a beneficio di Cazaril. «Credo si aspettassero che sarei morto sulla galea.»

«Mantenere il segreto è stato un atto stolto, Royse», lo rimproverò Cazaril. «Senza dubbio, i roknari ti avrebbero separato dagli altri per riscattarti.»

«Già, un ingente riscatto e concessioni politiche strappati a mio padre, se avessi svelato la mia identità», ribatté Bergon, serrando la mascella. «No, mi sono rifiutato di prestarmi a un simile gioco.»

«Bene…» interloquì la Volpe, con una strana intonazione nella voce, fissando Cazaril. «Dunque non sei intervenuto per salvare il Royse di Ibra, ma per aiutare un ragazzo qualsiasi.»

«Un giovane schiavo qualsiasi mio signore», precisò Cazaril, contraendo le labbra in un accenno di sorriso ironico, dato che la Volpe stava cercando di capire se ciò lo rendeva un eroe o un idiota.

«Mi chiedo quanto cervello tu abbia», commentò infine il Roya.

«A quel tempo, vi garantisco che me ne era rimasto ben poco», concesse Cazaril, in tono cortese. «Mi sono trovato sulle galee fin da quand’ero stato venduto come prigioniero di guerra, dopo la caduta di Gotorget.»

«Ah!» esclamò la Volpe. «Allora sei quel Cazaril, vero?»

Lui s’inchinò a titolo di conferma, chiedendosi cosa sapesse il Roya di quell’infruttuosa campagna. Poi scosse la tunica per liberarla dalle pieghe, e Bergon lo aiutò a rivestirsi. Guardandosi intorno, Cazaril constatò che tutti i presenti lo stavano fissando con stupore, perfino Ferda e Foix, sorpresi dal suo ampio sorriso, che faticava a non trasformarsi in una gioiosa risata. Sotto quella risata repressa, però, si celava un nuovo terrore, cui lui non riusciva neppure a dare un nome. Da quanto tempo i miei passi sono stati avviati su questa particolare strada? pensò, con sgomento. Quindi tirò fuori l’ultima lettera che aveva con sé e la porse al Royse Bergon con un profondo inchino.

«Come attesta il documento che il tuo rispettabile padre ha in mano, mi trovo qui come portavoce di una splendida e orgogliosa dama, inviato non solo e non tanto a lui, ma soprattutto a te, in quanto l’Erede di Chalion chiede di poterti avere come sposo», spiegò, consegnando la lettera sigillata allo sconcertato Bergon. «Al riguardo, lascerò che sia la Royesse Iselle a parlare per se stessa, giacché è quanto mai indicata a farlo grazie al suo singolare intelletto, al suo diritto naturale e al suo santo scopo. Più tardi, Royse, avrò molte altre cose da dirti.»

«Sono impaziente di ascoltarle, Lord Cazaril», garantì Bergon. Scoccando un’occhiata piena di tensione in giro per la stanza, s’isolò vicino a una porta-finestra, rompendo il sigillo e leggendo immediatamente la lettera, con un’espressione sempre più meravigliata che gli addolcì i lineamenti.

Lo stupore era presente anche sul volto della Volpe, il quale però sembrava tutt’altro che addolcito. Nel guardarlo, Cazaril ebbe la certezza che la sua mente stava lavorando a ritmo serrato, e si augurò che la propria si rivelasse all’altezza di quel duello.


Naturalmente, quella sera Cazaril e i suoi compagni vennero invitati nella sala dei banchetti del Roya. Verso il tramonto, Cazaril e Bergon scesero a passeggiare insieme sulla spiaggia sottostante la fortezza. Ben sapendo che quella sarebbe stata la cosa più simile a una conversazione privata che potesse ottenere, Cazaril segnalò ai fratelli dy Gura di tenersi più indietro lungo il sentiero sabbioso, in modo da non essere a portata di udito. Il rombo sordo della risacca copriva le loro voci, mescolandosi alle strida di alcuni gabbiani — strida penetranti quanto quelle dei corvi -, che calavano in picchiata sul mare o becchettavano in mezzo ai rifiuti sospinti dalle onde sulla sabbia umida. Soltanto allora Cazaril rammentò che, a Ibra, quegli uccelli dai freddi occhi dorati erano sacri al Bastardo.

Anche Bergon aveva ordinato alla sua scorta, pesantemente armata, di tenersi a distanza. Cazaril si rese conto che quella scorta era una precauzione divenuta ormai un’abitudine, nata dal fatto che quella terra era appena uscita da una guerra civile, in cui Bergon era stato nel contempo un giocatore e una pedina… Benché si potesse sostenere che, come pedina, si era manovrata da sola.

«Non dimenticherò mai la prima volta che ti ho visto… quando mi hanno scaricato accanto a te, sulla panca della galea. Per un momento, mi hai fatto più paura degli stessi roknari», rise Bergon.

«Soltanto perché ero uno sporco, ustionato spaventapasseri coperto di croste, peloso e puzzolente», sorrise Cazaril.

«Qualcosa del genere», ammise Bergon. «Poi però hai sorriso e mi hai detto: ’Buonasera, giovane signore’, come se mi stessi invitando a dividere con te la panca di una taverna e non quella di una galea.»

«Ecco… Eri una novità, e non ne vedevamo molte.»

«In seguito, ci ho riflettuto molto, però, a quel tempo, non sono certo di aver pensato con molta chiarezza…»

«È ovvio. Al tuo arrivo, era evidente che eri stato maltrattato.»

«Infatti. Ero stato rapito, ero spaventato… ed ero stato picchiato sul serio per la prima volta nella vita… Però tu mi hai aiutato, spiegandomi come tirare avanti, cosa aspettarmi e come sopravvivere. Per due volte mi hai dato dell’acqua in più, tolta dalla tua razione…»

«Solo se non ne avevo bisogno. Mi ero ormai abituato a quella temperatura torrida, e non potevo comunque prosciugarmi più di quanto non avessi già fatto. Dopo qualche tempo, s’impara a riconoscere la differenza tra il semplice disagio e l’espressione febbricitante di un uomo prossimo al collasso, ed era molto importante che tu non svenissi al remo.»

«Sei stato gentile.»

«Perché non avrei dovuto?» ribatté Cazaril, scrollando le spalle. «Cosa mi costava, dopotutto?»

«Chiunque può essere gentile, quando ha tutte le comodità», obiettò Bergon, scuotendo il capo. «Ecco perché avevo sempre considerato la gentilezza una virtù insignificante. Quando però eravamo affamati, assetati, malati, spaventati, con la morte che ci gridava all’orecchio, nel bel mezzo dell’orrore più assoluto, tu hai continuato a essere cortese, proprio come un gentiluomo seduto in tutta comodità vicino al proprio focolare.»

«Certi eventi sono orribili o inevitabili, ma gli uomini hanno sempre un’alternativa… Se sottrarsi a essi è impossibile, allora possono decidere come sopportarli.»

«Sì, ma… non ne sono stato consapevole finché non l’ho visto. È stato allora che ho cominciato a credere che fosse possibile sopravvivere, e non mi riferisco soltanto al mio corpo.»

«Sai, a quell’epoca, i roknari erano convinti che fossi quasi del tutto domato», gli confidò Cazaril, con un breve sorriso.

Bergon scosse il capo e sollevò con lo stivale una pioggerella di sabbia argentea, mentre il sole al tramonto accentuava i riflessi ramati dei suoi scuri capelli darthacani.

A Chalion, la madre del Royse era stata considerata una donna energica, un’intrusa darthacana che voleva soltanto inasprire la lotta fra il marito e il suo Erede a favore del proprio figlio. Bergon tuttavia pareva ricordarla con affetto. Da bambino, aveva vissuto insieme con lei due assedi, isolato dai soldati del padre nel corso delle guerre scoppiate tra questi e il suo fratellastro, ed era evidentemente abituato alle donne risolute che intervenivano nei consigli indetti dagli uomini. All’epoca in cui lui e Cazaril erano incatenati allo stesso remo, Bergon aveva parlato spesso della madre morta quando cercava di farsi coraggio, però non aveva mai accennato al padre, dimostrando così, in quei giorni funesti, un’intelligenza e un autocontrollo quanto mai precoci che, a parere di Cazaril, erano stati direttamente ereditati dalla Volpe.

«Permettimi di parlarti della Royesse Iselle di Chalion», suggerì Cazaril, con un ampio sorriso.

Bergon bevve con avidità ogni sua parola, mentre lui descriveva i capelli color ambra di Iselle, i suoi luminosi occhi azzurri, la bocca ampia e ridente, la sua perizia di amazzone e la sua erudizione. Parlò quindi del suo coraggio e della sua determinazione, nonché della rapidità con cui sapeva valutare un’emergenza. Nel complesso, vendere Iselle a Bergon risultò difficile quanto vendere del cibo a un affamato, dell’acqua a un assetato o un mantello a chi si trovasse nudo in mezzo a una tormenta, e tutto ciò senza neppure alludere al fatto che Iselle avrebbe ereditato una royacy. A guardarlo, il ragazzo sembrava già quasi innamorato, ma la vera sfida sarebbe stata la Volpe, che avrebbe indubbiamente sospettato un tranello. Ovviamente Cazaril non aveva nessuna intenzione di rivelare la natura di quel tranello alla Volpe di Ibra, ma con Bergon le cose erano diverse: lui aveva diritto di sapere la verità.

«Dietro la supplica della Royesse Iselle si cela un’urgenza motivata da una più cupa minaccia», spiegò, mentre arrivavano in fondo alla spiaggia a forma di mezzaluna e si giravano per tornare indietro. «Sto per dirti una cosa estremamente riservata, e lei spera di poter confidare sul tuo riserbo di marito, giacché si tratta di qualcosa che tu solo hai diritto di sapere.» Cazaril respirò a fondo l’aria marina e fece appello a tutto il suo coraggio, poi proseguì: «Tutto risale alla guerra tra Fonsa l’Abbastanza Saggio e il Generale Dorato…»

Ripercorsero per altre due volte la spiaggia, passando e ripassando sulle loro stesse orme, prima che Cazaril giungesse alla fine della sua storia. Ormai il sole, ridotto a un’incandescente sfera rossa, stava quasi toccando l’orizzonte marino e, col cambiare della marea, i frangenti, risalendo progressivamente la spiaggia scintillavano di scuri e splendidi colori. Il resoconto che Cazaril fornì a Bergon fu completo e sincero al pari di quello che lui aveva fatto a Ista, senza nessuna omissione — a parte la confessione della Royina -, neppure sulla sua spettrale persecuzione a opera di Dondo.

Quando infine tacque, il volto di Bergon, tinto di una sfumatura rossastra dal tramonto, aveva un’aria assorta. «Lord Cazaril, se queste cose mi fossero giunte dalle labbra di qualsiasi altro uomo, penso che non vi avrei dato credito. No, avrei ritenuto che si trattasse di un pazzo.»

«La follia può essere una conseguenza di questi eventi, Royse, però non ne è la causa. È tutto fin troppo reale… Avendo visto ogni cosa coi miei occhi, mi sento quasi annegare in tutta questa faccenda.» Non si poteva certo considerare una metafora riuscita, però il mormorio del mare, tanto vicino al suo orecchio, stava rendendo Cazaril sempre più nervoso. Si chiese se Bergon si fosse accorto di come, ogni volta che cambiavano direzione, lui badasse a interporlo tra sé e la risacca.

«Vorresti dunque trasformarmi nell’eroe di una favola per bambini, incaricato di salvare con un bacio una bella dama da un malvagio incantesimo», commentò Bergon.

«Ecco, credo che ci voglia qualcosa di più di un bacio», precisò Cazaril, schiarendosi la gola. «Per essere legalmente vincolante, un matrimonio dev’essere consumato, e suppongo che lo stesso valga dal punto di vista teologico.»

Il Royse gli scoccò un’occhiata indecifrabile e rimase in silenzio per un po’. «Ho visto all’opera la tua integrità, ed essa… ha ampliato il mio mondo», disse poi. «Io sono stato allevato da mio padre, che è un uomo cauto e prudente, sempre alla ricerca di motivazioni nascoste ed egoistiche. Nessuno lo può ingannare, però l’ho visto ingannarsi da solo, se capisci cosa intendo.»

«Sì.»

«Da parte tua, è stato molto stupido attaccare quell’ignobile roknari, sulla galea.»

«Sì.»

«E tuttavia, trovandoti nelle stesse circostanze, credo che lo rifaresti.»

«Sapendo quello che so adesso… sarebbe più difficile. Eppure spero… no, prego, Royse, che gli Dei mi infondano ancora quel genere di stupidità, qualora ne abbia bisogno.»

«Cos’è questa incredibile stupidità, che risplende più di tutto l’oro di mio padre? Caz, puoi insegnare anche a me come essere così stupido?»

«Oh, certo», sussurrò Cazaril.


Nella frescura della mattina seguente, Cazaril venne scortato nella luminosa camera di ricevimento affacciata sul mare per incontrare di nuovo la Volpe. Si trattò di un incontro privato, cui erano presenti soltanto lui, il Roya e il suo segretario, sistemato in fondo al tavolo con davanti una pila di carta, parecchie penne nuove e un’adeguata scorta d’inchiostro. Seduto al lato lungo del tavolo, la Volpe stava giocherellando con una splendida scacchiera di malachite, marmo bianco e onice, i cui pezzi erano costituiti da piccole, squisite sculture di corallo e di giada. Al suo ingresso, Cazaril s’inchinò e, in risposta a un cenno del Roya, prese posto al tavolo, di fronte a lui.

«Sai giocare?» domandò la Volpe.

«No, mio signore», rispose tristemente Cazaril. «O, per meglio dire, sono un giocatore assai modesto.»

«Ah, un vero peccato», commentò il Roya, spingendo la scacchiera di lato. «Bergon è rimasto molto colpito dalla descrizione che gli hai fatto di questo campione di bellezza che avete a Chalion. Sai fare bene il tuo lavoro, ambasciatore.»

«Lo spero.»

«Un documento straordinario», proseguì il Roya, posando la mano sulla lettera di accredito di Iselle, accanto a sé. «Sai che vincola la Royesse a qualsiasi cosa tu sia disposto a firmare in suo nome?»

«Sì, mio signore.»

«Saprai anche che la sua autorità, nell’attribuirti un simile potere, è discutibile. Tanto per cominciare, c’è la questione della sua età.»

«Ebbene, signore, se non le riconoscete il diritto di contrattare il proprio matrimonio, suppongo che non mi resti altro da fare se non montare a cavallo e tornare a Chalion.»

«No, no, non ho detto che sono io a metterlo in discussione!» esclamò il vecchio Roya, con una sfumatura di panico nella voce.

«In effetti, signore, trattare con me significa riconoscere pubblicamente la sua autorità», replicò Cazaril, reprimendo un sorriso.

«Sì, è vero, è proprio vero. I giovani sono così fiduciosi, ed è per questo che noi persone più mature dobbiamo salvaguardare i loro interessi», annuì il Roya, poi raccolse un elenco che Cazaril gli aveva dato la notte precedente e aggiunse: «Ho studiato le clausole da te suggerite per il contratto di matrimonio. Abbiamo molte cose di cui discutere».

«Vi prego di scusare la precisazione, signore, ma quelle clausole non sono suggerimenti, bensì requisiti. Se ne volete proporre altre, sono disposto ad ascoltarvi.»

«Non dirai sul serio», protestò la Volpe, inarcando le sopracciglia. «Per esempio, il punto relativo all’ereditarietà nel periodo in cui il loro Erede — se gli Dei concederanno loro di generarne uno — non avesse ancora raggiunto la maggiore età… Basterebbe un’accidentale caduta da cavallo perché la Royina di Chalion diventasse la reggente di Ibra! Non è accettabile. Bergon dovrà affrontare i rischi del campo di battaglia, cosa che non si può dire di sua moglie.»

«Ecco, speriamo che non lo si possa dire davvero. D’altro canto, a meno che io non sia male informato sulla storia di Ibra, mio signore, non è forse vero che la madre del Royse è uscita vincitrice da due assedi?»

La Volpe si schiarì la gola, incapace di obiettare.

«In ogni caso, a nostro parere i rischi sono reciproci e tale dev’essere anche la clausola», proseguì Cazaril. «Iselle infatti dovrà affrontare i pericoli connessi al parto, cosa che non si verificherà mai per Bergon. Basterebbe un parto andato male e Bergon diventerebbe reggente di Chalion. Quante delle vostre mogli vi sono sopravvissute, mio signore?»

La Volpe trasse un profondo respiro, poi cambiò argomento. «Veniamo allora alla clausola relativa al titolo di cui si fregeranno.»

Pochi minuti di pacata discussione furono sufficienti a dimostrare che Bergon dy Ibra-Chalion non suonava meglio di Bergon dy Chalion-Ibra, e anche quella clausola venne lasciata intatta.

«A quanto mi è dato di capire, tu sei un uomo privo di possedimenti, Lord Cazaril», osservò allora la Volpe, con un’espressione pensosa. «Come mai la Royesse non ti ha ricompensato come si addice a un uomo del tuo rango?»

«Le ricompense che elargisce sono adeguate al suo rango», replicò Cazaril. «Iselle non è ancora Royina di Chalion.»

«Capisco. Io, d’altro canto, sono l’attuale Roya di Ibra, e ho il potere di dispensare… molte ricompense.»

Cazaril si limitò a sorridere.

Incoraggiato, la Volpe gli descrisse un’elegante villa affacciata sul mare, posando nel contempo sul tavolo, davanti a loro, un castello di corallo. Volendo capire fin dove il suo interlocutore intendesse spingersi, Cazaril si trattenne dal sottolineare che la vista sul mare non era di suo gradimento. La Volpe parlò di cavalli di razza e di una tenuta su cui farli pascolare, e, mentre sottolineava che la terza clausola gli appariva assai poco appropriata, avvicinò al castello di corallo alcuni cavalieri di giada. Pungolato dai mormorii inarticolati di Cazaril, il Roya accennò con delicatezza a somme di denaro grazie alle quali un uomo avrebbe potuto vestirsi come si conveniva a un nobile ibrano dal rango molto più elevato di quello di Castillar, suggerendo una formulazione più adeguata per la sesta clausola e aggiungendo al resto un castello di giada, mentre il segretario prendeva una serie di annotazioni.

A ogni nuovo mormorio indistinto di Cazaril, il rispetto e il disprezzo negli occhi della Volpe aumentavano anche se, al crescere della ricompensa, la sua voce assunse anche una nota dolorosa.

«Sei un giocatore migliore di quanto mi aspettassi, Castillar», commentò infine la Volpe, appoggiandosi all’indietro e indicando il mucchietto di pedine che simboleggiavano quanto lui era disposto a offrire. «Allora, Cazaril, che te ne pare? C’è un’offerta che quella ragazza ti possa fare e alla quale io non ne possa contrapporre una migliore?»

«Ecco, signore… Credo che lei mi darà una tenuta a Chalion, del tutto adeguata alle mie esigenze, larga un passo e lunga due, destinata a essere mia in eterno», replicò Cazaril, con un ampio sorriso. Quindi, con gentilezza, in modo da non offendere e da non dare l’impressione di sentirsi a sua volta offeso, protese la mano e spinse di nuovo le pedine verso la Volpe, aggiungendo: «Vi devo una spiegazione. Ho un tumore al ventre, e la prospettiva di morire entro breve tempo. Doni del genere sono per i viventi, non per quelli che stanno per morire».

Le labbra della Volpe si mossero senza emettere suono, stupore e sgomento si avvicendarono sul suo volto e, insieme con essi, affiorò un’insolita sfumatura di vergogna, subito repressa. «Per i cinque Dei!» esclamò con una risata. «Quella ragazza è abbastanza astuta e spietata da insegnarmi il mestiere! Non mi meraviglio più che ti abbia conferito simili poteri! Per gli attributi del Bastardo, mi ha mandato un ambasciatore incorruttibile!»

Tre pensieri si accavallarono nella mente di Cazaril: anzitutto Iselle non aveva elaborato un piano tanto astuto; in secondo luogo, se le avessero fatto notare la cosa, lei si sarebbe limitata ad archiviarla, in previsione di una necessità futura; in terzo luogo… Be’, non era necessario rivelare quei pensieri alla Volpe.

Il Roya tornò serio e lo fissò. «Mi dispiace per il tuo male, Castillar… Non è certo cosa di cui ridere», si scusò. «La madre di Bergon è morta di un tumore al seno, alla verde età di trentasei anni. Tutti i problemi che ha dovuto affrontare, sposandomi, non l’hanno mai piegata, ma alla fine…»

«Io ho trentasei anni», non poté trattenersi dal sottolineare Cazaril, in tono mesto.

«In tal caso, non hai proprio un bell’aspetto», osservò il Roya.

«Infatti», convenne Cazaril, poi raccolse l’elenco delle clausole e aggiunse: «Dunque, signore, riguardo al contratto di matrimonio…»

Le richieste contenute nell’elenco di Cazaril furono tutte approvate. Un po’ sconcertato, la Volpe propose alcune intelligenti aggiunte alle clausole relative a situazioni di emergenza, e Cazaril fu lieto di accettarle. Per salvaguardare le apparenze, il Roya continuò peraltro a sollevare proteste ancora per qualche tempo, facendo numerosi accenni all’atteggiamento sottomesso che una donna doveva mantenere nei confronti del marito — una cosa tutt’altro che diffusa nella storia recente di Ibra, anche se Cazaril evitò diplomaticamente di sottolinearlo — e al fatto che le donne troppo amanti dell’equitazione tendevano a essere dotate di un’energia innaturale.

«Rincuorati, signore», lo consolò Cazaril. «Il tuo destino non è quello di conquistare oggi una royacy per tuo figlio, bensì un impero per tuo nipote.»

La Volpe si rasserenò, e perfino il segretario si concesse un sorriso. Alla fine delle trattative, poi, il Roya gli offrì la scacchiera e i suoi pezzi come suo ricordo.

«Credo che dovrò rifiutare», replicò Cazaril, contemplando con rammarico la scacchiera, poi però gli venne un’ispirazione improvvisa. «Se però poteste farla imballare, sarò lieto di portarla a Chalion, come vostro personale dono di fidanzamento per la vostra futura nuora.»

La Volpe scoppiò a ridere e scosse il capo. «Vorrei avere anch’io un cortigiano che mi riservasse tanta fedeltà in cambio di ricompense così limitate», affermò. «Non vuoi davvero nulla per te stesso, Cazaril?»

«Voglio del tempo.»

«Non ne vogliamo tutti?» ribatté il Roya, scuotendo il capo con rammarico. «Quella però è una richiesta che devi rivolgere agli Dei, non al Roya di Ibra.»

Cazaril scelse d’ignorare quelle parole, anche se le sue labbra quasi s’incurvarono in un sorriso ironico. «Se non altro, mi piacerebbe vedere Iselle sposata, e questo è un dono che tu mi puoi fare, signore, accelerando le procedure. Inoltre è quanto mai necessario che Bergon diventi Royse-consorte di Chalion prima che Martou dy Jironal ne diventi il reggente.»

Di fronte a quella prospettiva, perfino la Volpe fu costretta ad assentire.


Quella sera, dopo l’abituale banchetto offerto dal Roya, e dopo essersi liberato di Bergon che, non potendolo ricoprire con gli onori che lui si ostinava a rifiutare, pareva deciso a imbottirlo almeno di cibo, Cazaril si fermò al Tempio. A quell’ora, le alte sale rotonde erano buie e silenziose, i fedeli quasi inesistenti, anche se le luci alle pareti e il fuoco centrale ardevano, sorvegliati dai due Accoliti del turno di guardia notturno. Ricambiato il loro cordiale saluto, Cazaril oltrepassò l’arcata decorata a mosaico che dava accesso al cortile della Figlia.

Sul pavimento c’erano splendide stuoie di preghiera, intessute dalle fanciulle e dalle dame di Ibra, che le donavano ai Templi come atto di devozione, così da risparmiare alle ginocchia e ai corpi dei fedeli il contatto col marmo gelido dei pavimenti… un’usanza che, se fosse stata imitata a Chalion, avrebbe incrementato il numero di Devoti che frequentavano i Templi durante l’inverno. Stuoie di ogni dimensione, colore e disegno erano sparpagliate intorno all’altare della Signora. Cazaril ne scelse una di lana, larga e spessa, decorata con la rappresentazione di fiori primaverili, e si prostrò su di essa, rammentando a se stesso che era lì per pregare e non per scivolare nel sonno indotto dal vino.

Durante il viaggio fino a Ibra, ogni volta che si erano fermati in una Casa della Figlia e Ferda cambiava i cavalli, lui aveva pregato… Aveva pregato che Orico fosse preservato in vita, che Iselle e Betriz fossero al sicuro, che Ista trovasse un po’ di sollievo. Soprattutto, intimidito dalla reputazione di cui godeva la Volpe, aveva pregato per il successo della sua missione, anche se quella preghiera sembrava essere stata accolta in anticipo… Ma quanto in anticipo? si chiese, accarezzando la trama della stuoia, intessuta filo per filo dalle mani pazienti di qualche donna. Forse, però, quella tessitrice non era stata affatto paziente… Forse era stata stanca, o irritata, o distratta, o affamata, o rabbiosa. Forse stava morendo, eppure le sue mani avevano continuato a muoversi.

Da quanto tempo sto camminando su questa strada?

Un tempo, avrebbe fatto risalire il vincolo con la Signora a quella moneta lasciata cadere nel fango della Baocia da un soldato goffo. Adesso, tuttavia, non era più certo che fosse così. E si era dato un’altra risposta, che tuttavia non gli piaceva affatto. L’incubo vissuto sulle galee era venuto prima della moneta nel fango. Possibile che la sofferenza e la paura fossero state manipolate dagli Dei per i loro fini? Lui era dunque soltanto una marionetta? Oppure era un mulo legato alla cavezza, cocciuto e recalcitrante, da spingere avanti a colpi di frusta? Non sapeva se sentirsi attonito o furente… Umegat aveva ribadito che agli Dei era impossibile impadronirsi della volontà di un uomo; essi potevano soltanto aspettare che tale volontà venisse loro offerta. Ma quando aveva firmato quell’intangibile contratto?

D’un tratto, ricordò.

A Gotorget, in una notte fredda e disperata, oppresso dalla fame, aveva fatto il suo solito giro di controllo sui bastioni. Arrivato sulla torre più alta, aveva congedato il ragazzo di guardia, mandandolo al coperto per qualche tempo perché si ristorasse come poteva, e si era assunto lui stesso il suo compito, fissando i fuochi da campo nemici che ardevano nel villaggio in rovina, nella valle sottostante e sui costoni circostanti. Erano luci beffarde, che parlavano di calore, di cibo, di sicurezza… Di tutte quelle cose che mancavano ai difensori, asserragliati dentro le loro mura. Aveva pianificato, temporeggiato ed esortato i suoi uomini a resistere con lealtà, tappando brecce, respingendo sortite, mangiando le cose più ignobili, respingendo le scale d’assedio e, soprattutto, pregando. Finché non aveva esaurito le preghiere.

Da ragazzo, a Cazaril, aveva seguito la via propria della maggior parte dei giovani nobili, diventando un Devoto laico dell’Ordine del Fratello, attratto dalla gloria militare che tale ruolo prometteva. Le rare volte in cui si era preso la briga di pregare, si era sempre rivolto in maniera meccanica al Dio che gli era stato assegnato in virtù del suo sesso, della sua età e del suo rango… Quella notte, sulla torre, aveva avuto l’impressione che quella strada, seguita passivamente, senza porsi interrogativi, lo avesse condotto, passo dopo passo, a quella trappola impossibile, abbandonato dalla sua gente e dal suo Dio.

Sin dall’età di tredici anni, quando si era sottoposto alla cerimonia di consacrazione, prima di lasciare Cazaril per diventare un paggio nella casa del vecchio Provincar, aveva sempre portato al collo la medaglia del Fratello. Eppure quella notte, sulla torre, col volto solcato da lacrime di stanchezza, di disperazione e di rabbia, se l’era strappata di dosso e l’aveva scagliata oltre i bastioni, rinnegando il Dio che aveva rinnegato lui. Vorticando nell’aria, il piccolo disco d’oro era scomparso nel buio senza far rumore, mentre lui si prostrava sulle pietre, proprio come in quel momento, giurando di offrirsi a qualsiasi altro Dio disposto ad accettarlo, a patto che i suoi uomini potessero uscire da quella trappola. Per quanto lo riguardava, era un uomo finito. Finito.

Naturalmente non era successo nulla. Dopo un po’ era cominciato a piovere. Alla fine, si era rialzato, vergognandosi della propria crisi e grato che nessuno degli uomini lo avesse visto in quelle condizioni. Poi era arrivata la sentinella del turno seguente, e lui aveva lasciato i bastioni. Per alcune settimane non era successo altro… Poi era sopraggiunto quel corriere ben nutrito, con la notizia che la loro resistenza era stata vana, che tutto il sangue da loro versato, tutti i sacrifici fatti sarebbero stati venduti in cambio di un’ingente somma d’oro destinata ai forzieri di dy Jironal.

E i suoi uomini erano stati condotti al sicuro.

Però lui si era avviato su una strada diversa…

Cosa aveva detto Ista? Le peggiori maledizioni inflitte dagli Dei si manifestano come una risposta alle nostre preghiere. Le preghiere sono una cosa pericolosa. Era dunque sufficiente scegliere una volta soltanto di condividere la propria volontà con quella di un Dio, come giurare per arruolarsi in una compagnia militare? Oppure era una scelta che andava rinnovata di continuo, ogni giorno? O si trattava di entrambe le cose? Poteva abbandonare quella strada in qualsiasi momento, per esempio salendo a cavallo e andandosene nella Darthaca, costruendosi una nuova vita con un nuovo nome? In tal caso, come aveva ipotizzato Umegat, lui avrebbe agito come quel centinaio di altri Cazaril, che non si erano presentati all’appello, abbandonando di conseguenza tutti coloro che si fidavano di lui, Iselle, Ista, la Provincara, Palli, Betriz…

Ma, purtroppo, non Dondo.

Cazaril si contorse leggermente sulla stuoia, sgradevolmente consapevole della pressione al ventre e cercando di convincersi che era soltanto una conseguenza dell’abbondante banchetto offerto dalla Volpe, e non il suo tumore che cresceva, procedendo spedito verso il suo grottesco completamento, in attesa che la mano della Signora si allentasse. Forse gli Dei avevano imparato qualcosa dall’errore di Ista e dal crollo di dy Lutez… Forse si stavano accertando che il loro mulo non li abbandonasse a metà dell’opera, come aveva fatto dy Lutez…

In nessun modo, tranne che morendo. Quella porta rimaneva spalancata, ma cosa lo attendeva dall’altra parte? L’inferno del Bastardo, la dissoluzione di uno spettro rifiutato, oppure la pace?

Non ne aveva idea.

Dall’altra parte della Piazza del Tempio, nella Casa della Figlia, lo attendeva un letto caldo e morbido. Che il suo cervello si fosse spinto a formulare simili assurde elucubrazioni indicava che forse era il caso di raggiungerlo. Del resto, non stava pregando, ma soltanto discutendo con gli Dei. Si rialzò, dirigendosi alla porta. Pregare, rifletté, significava mettere un piede davanti all’altro, senza mai smettere di muoversi.

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