13

La Royesse era così spossata dallo strano funerale di Lord Dondo che percorse la salita verso il castello con passo incerto. Cazaril la lasciò con Nan e Betriz — ben decise a mettere a letto Iselle dopo una cena frugale, servita nelle loro camere — e oltrepassò di nuovo il portone del castello, soffermandosi all’esterno per guardare verso la città, cercando di capire se una colonna di fumo si stesse ancora levando al di sopra del Tempio. Sforzando la vista, gli parve d’intravedere un debole bagliore arancione contro le nuvole basse, ma l’oscurità era ormai tale da impedirgli di scorgere altro.

Nell’attraversare il cortile delle stalle, ebbe un violento sussulto a causa di un improvviso battere d’ali tutt’intorno a lui, ma scoprì che si trattava soltanto dei corvi di Fonsa. Due cercarono addirittura di posarsi sulla sua spalla, ma lui li schivò, allontanandoli poi con ampi gesti delle braccia e battendo i piedi. I corvi si portarono a distanza di sicurezza, però lo scortarono per tutto il tragitto fino al serraglio.

Trovò ad attenderlo uno dei sottoposti di Umegat, fermo accanto alle lanterne a parete che rischiaravano la soglia. Lo stalliere, un ometto anziano privo dei pollici, gli rivolse un ampio sorriso che rivelò una lingua mozzata, e lo accolse con un mormorio di saluto, unito ad alcuni cenni cordiali con cui lo invitò a seguirlo, poi socchiuse il pesante battente appena quanto bastava a permettere a Cazaril di entrare, respinse i corvi che cercavano di seguirlo e arrivò a gettare fuori il più testardo con un calcio, prima di richiudere la porta.

Reggendo un candelabro protetto da una campana di vetro soffiato e dotato di una maniglia, lo stalliere precedette Cazaril lungo il corridoio principale del serraglio, mentre gli animali chiusi nelle gabbie sbuffavano al suo passaggio, premendosi contro le sbarre per seguirlo con lo sguardo. Nella penombra, gli occhi del leopardo scintillavano come due gemme verdi e il suo ringhio echeggiò contro le pareti, non ostile, ma pervaso di uno strano tono interrogativo e cantilenante.

Il personale addetto al serraglio aveva i suoi alloggi in una metà del piano superiore dell’edificio, l’altra metà del quale era adibita a magazzino per la paglia e il foraggio. Giunto davanti a una porta aperta, da cui la luce di una candela si riversava nel corridoio buio, lo stalliere bussò contro lo stipite.

«Bene», rispose la voce di Umegat. «Ti ringrazio.»

In risposta a un inchino della sua guida, Cazaril oltrepassò la soglia. Si ritrovò in una camera stretta, la cui finestra si affacciava sul cortile delle stalle, ormai immerso nel buio. Tirate le tende a coprire la finestra, Umegat prese ad armeggiare intorno a un rozzo tavolo di legno di pino, coperto da una tovaglia colorata su cui erano posati una caraffa di vino, alcune coppe d’argilla e un piatto di pane e formaggio.

«Vi ringrazio per essere venuto, Lord Cazaril. Per favore, entrate e sedetevi. Grazie, Daris, non ho bisogno di altro», disse, chiudendo la porta.

Nel dirigersi verso la sedia, Cazaril si soffermò a osservare un alto scaffale carico di libri, che raccoglieva opere in ibrano, in darthacano e in roknari, di argomento soprattutto teologico. In particolare, fu attratto da un titolo a lettere dorate su un volume dall’aspetto familiare che si trovava sullo scaffale più alto: Il quintuplice sentiero dell’anima. La rilegatura in cuoio appariva logora per l’uso e il libro, come la maggior parte degli altri, non recava traccia di polvere. Come mai la cosa non mi sorprende? si chiese allora, accomodandosi sulla semplice sedia di legno.

Umegat riempì una coppa di vino rosso e la porse al suo ospite con un sorriso.

«Grazie», disse Cazaril, accettandola con gratitudine e con dita tremanti. «Ne ho bisogno.»

«Posso immaginarlo, mio signore», commentò Umegat, riempiendo una coppa anche per sé e sedendosi di fronte a lui. Il tavolo era di umile fattura, però le coppie di candele di cera che ardevano su di esso proiettavano una luce intensa e limpida… una luce adatta per la lettura.

Accostatosi la coppa alle labbra, Cazaril ne trangugiò il contenuto e, non appena l’ebbe posata sul tavolo, Umegat tornò a riempirla. A titolo di esperimento, Cazaril provò a chiudere gli occhi e poi a riaprirli, ma in entrambi i casi Umegat continuò a risplendere. «Tu sei un Accolita… no, un Divino… giusto?» domandò.

«Sì, dell’Ordine del Bastardo», ammise Umegat, schiarendosi la gola. «Ma non è per questo che sono qui.»

«E allora perché?»

«Ci arriveremo a tempo debito», garantì Umegat, prendendo il coltello sul piatto e procedendo ad affettare il pane e il formaggio.

«Io ho pensato… Ho sperato… Ecco, mi sono chiesto se non fossi stato mandato dagli Dei, per proteggermi e per guidarmi»

«Davvero?» fece Umegat, con un accenno di sorriso. «E io che mi stavo chiedendo se tu non fossi stato inviato dagli Dei per proteggere e guidare me

«Oh. Allora… le prospettive non sono molto buone, pare», mormorò Cazaril, accasciandosi un poco sulla sedia e bevendo un altro lungo sorso di vino. «Da quando ti sei accorto di me?»

«Da quel giorno nel serraglio, quando quel corvo della Torre di Fonsa si è praticamente messo a saltellare sulla tua testa, strillando ’È lui! È lui!’ Ammetto che a volte il mio Dio può essere spaventosamente ambiguo, ma quello era un segnale piuttosto difficile da ignorare.»

«Stavo già brillando, allora?»

«No.»

«Quando ho cominciato a… emanare luce?»

«In un momento imprecisato tra l’ultima volta che ti ho visto, cioè ieri pomeriggio, quando sei rientrato allo Zangre, zoppicando come se fossi caduto da cavallo, e stamattina al Tempio. Tu puoi individuare meglio di me qual è stato il momento esatto in cui il fenomeno si è manifestato. Perché non mangi qualcosa? Non hai un bell’aspetto.»

Cazaril non si fece pregare, perché non aveva più toccato cibo dopo il pane col latte e col miele che Betriz gli aveva portato a mezzogiorno.

Umegat attese che il suo ospite avesse la bocca piena di pane e formaggio, prima di riprendere la conversazione. «Prima del mio arrivo a Cardegoss, uno dei miei compiti in qualità di giovane Divino è stato quello di assistente di un Inquisitore del Tempio, nelle indagini su alcune accuse di magia di morte», disse e, mentre Cazaril quasi si strozzava col cibo, proseguì in tono serafico: «O del miracolo di morte, per usare una definizione più accurata dal punto di vista teologico. Abbiamo scoperto una quantità d’ingegnose simulazioni… di solito mediante l’impiego di veleno, anche se certi assassini meno documentati e intelligenti avevano usato metodi più crudi. In quei casi ho dovuto spiegare ai colpevoli che il Bastardo non si abbassa mai a giustiziare un peccatore che rifiuta di pentirsi ricorrendo a un pugnale o a un grosso martello. I veri miracoli sono molto più rari di quanto la loro notorietà possa far supporre, però non mi sono mai imbattuto in un caso autentico in cui la vittima fosse un innocente. Di conseguenza, per usare una definizione ancora più sottile, possiamo dire che il Bastardo concede miracoli di giustizia». La sua voce si era fatta più secca e decisa, perdendo l’abituale tono servile e buona parte del morbido accento roknari.

«Ah», borbottò Cazaril, trangugiando altro vino. Questo è l’uomo più acuto e intelligente che abbia incontrato finora a Cardegoss, pensò. E io l’ho praticamente ignorato per tre mesi soltanto perché indossa la livrea di un servitore. Be’, è anche vero che lui è poco propenso ad attirare su di sé l’attenzione… «Sai… quel tabarro costituisce per te un valido mantello dell’invisibilità», disse poi.

«Infatti», annuì Umegat, bevendo un sorso di vino.

«Dunque… adesso sei un Inquisitore?» chiese allora Cazaril, domandandosi se fosse dunque giunta la fine, se sarebbe stato incriminato, condannato e giustiziato per il suo attentato — fallito — alla vita di Dondo.

«No, non lo sono più.»

«Cosa sei, allora?»

«Sono un santo», spiegò Umegat, con un sorriso nello sguardo.

Attonito, Cazaril lo fissò per un lunghissimo istante, poi svuotò la propria coppa, e Umegat provvide a riempirla ancora. Erano ben poche le certezze di quella notte, ma di sicuro Umegat non era matto e non stava mentendo. «Un santo. Del Bastardo», riassunse.

Umegat annuì.

«Questo… è un lavoro insolito, per un roknari. Com’è successo che…» Era vagamente consapevole della vacuità delle sue domande, ma dopo due coppe di vino bevute a stomaco vuoto, cominciava a sentirsi un po’ stordito.

«A te… posso dire la verità», replicò Umegat, con un sorriso triste. «È trascorso tanto tempo, una vita intera, da farmi supporre che i nomi non abbiano più importanza. Quand’ero un giovane nobile, e vivevo nell’Arcipelago, mi sono innamorato.»

«Succede a tutti giovani nobili, di qualsiasi luogo e anche ai giovani zotici», commentò Cazaril.

«All’epoca il mio amante aveva circa trent’anni, ed era un uomo dalla mente acuta e dal cuore gentile.»

«Ah, capisco. No, questa è una cosa che nell’Arcipelago non si può fare.»

«Infatti. A quell’epoca, non avevo il minimo interesse per la religione, ma, per ragioni ovvie, mi ero segretamente convertito alla fede quintariana. Io e il mio amante avevamo progettato di fuggire insieme, ma soltanto io sono riuscito a raggiungere la nave diretta a Brajar. Per tutto il viaggio ho patito il mal di mare e sono caduto in preda alla disperazione, imparando a pregare, almeno così ho creduto allora. Mi auguravo che lui fosse riuscito a imbarcarsi su un’altra nave, speravo che ci saremmo ritrovati nel porto scelto come nostra destinazione. Dopo più di un anno, sono venuto a sapere, da un mercante roknari che avevamo conosciuto entrambi, qual è stata la sua fine.»

«La solita…»

«Oh, sì. Via i genitali e i pollici, perché non potesse compiere il segno sacro al quinto Dio…» Umegat si toccò la fronte, il ventre, l’inguine e il cuore, ripiegando il pollice sotto il palmo nel gesto proprio della fede quaternariana, che ricusava il quinto dito, quello del Bastardo. «Hanno lasciato la lingua per ultima, nella speranza che potesse tradire altri eretici, ma lui non lo ha fatto. È morto da martire, impiccato.»

«Mi dispiace», mormorò Cazaril, sfiorandosi fronte, labbra, ventre, inguine e cuore, con le dita allargate.

«Nei rari momenti in cui non ero troppo impegnato a ubriacarmi, a vomitare o ad agire da stupido, come sono soliti fare i giovani, mi ritrovavo a riflettere sulla vicenda. Accettare la sua morte non è stato facile, e alla fine, un giorno, sono entrato in un Tempio e mi sono offerto agli Dei.» Trasse un profondo respiro. «L’Ordine del Bastardo mi ha accolto nel suo seno, ha dato una casa a chi non l’aveva, amici a chi era solo, onore a chi era disprezzato, e mi ha dato anche un lavoro. A quanto pare… ero sottoposto a un incantesimo.»

Ed era diventato un Divino del Tempio. Cazaril ebbe la certezza che Umegat stesse tralasciando alcuni dettagli, circa una quarantina d’anni di eventi, ma ritenne che non ci fosse nulla d’inesplicabile nel fatto che un uomo devoto, intelligente ed energico fosse riuscito a scalare la gerarchia interna del Tempio fino a raggiungere il rango di Divino. No, ciò che continuava a sconvolgerlo era il fatto che lui risplendesse come una luna piena riflessa su un campo innevato. «Un bel lavoro, splendido, grandioso. Fondazioni per gli orfani e… inquisizioni. Adesso però spiegami perché brilli al buio», disse, riflettendo cupamente che aveva bevuto troppo o forse non aveva bevuto ancora abbastanza.

Umegat si massaggiò il collo e giocherellò coi capelli raccolti a coda. «Capisci cosa significa essere un santo?» chiese quindi.

«Suppongo che tu sia molto virtuoso», replicò Cazaril, schiarendosi al gola con un certo disagio.

«A dire il vero, no. Non è necessario essere buoni e neppure gentili», ribatté Umegat, con una smorfia. «D’altro canto, posso concederti che, quando si sperimentano determinate cose, i gusti personali cambiano, le ambizioni materiali sembrano perdere valore, l’avidità, l’orgoglio, la vanità e l’ira appaiono cose troppo noiose per dare loro peso.»

«E la lussuria?»

«Sono lieto di affermare che il desiderio carnale non sembra essere influenzato in nessun modo», replicò Umegat, illuminandosi in volto. «O forse dovrei dire che non lo è l’amore, perché crudeltà ed egoismo rendono tedioso il desiderio carnale. Credo però che non sia tanto una crescita della virtù quanto una sostituzione dei vizi precedenti con una sorta di dipendenza dal proprio Dio.» Svuotò la coppa. «Gli Dei amano gli uomini e le donne che possiedono una grande anima proprio come un artista ama un pezzo di marmo di qualità… Il punto fondamentale non è la virtù, bensì la volontà, che è cesello e scalpello nel contempo. Qualcuno ti ha mai citato il classico sermone di Ordol, quello delle coppe?»

«Quello in cui il Divino versa l’acqua su tutto? L’ho sentito per la prima volta quando avevo dieci anni, e mi è parso divertente il punto in cui il Divino si bagna le scarpe… ma del resto ero un bambino. Temo che il Divino del nostro Tempio, a Cazaril, fosse piuttosto noioso.»

«Ascolta me, adesso, e vedrai che non ti annoierai», garantì Umegat, rovesciando la propria coppa sulla tovaglia. «La volontà degli uomini è libera, e gli Dei non possono invaderla, non più di quanto io possa versare del vino in questa coppa attraverso il suo fondo.»

«No, non sprecare il vino!» protestò Cazaril, vedendo Umegat protendere la mano verso la brocca. «È una dimostrazione cui ho già assistito.»

Sorridendo, Umegat ritrasse la mano dalla brocca. «Ma hai mai capito davvero quanto gli Dei siano impotenti, se anche il più infimo schiavo li può escludere dal proprio cuore?» domandò. «E, se vengono esclusi dal cuore, rimangono esclusi anche dal mondo, perché non possono arrivarvi se non tramite le anime dei viventi. Se gli Dei potessero farsi trasportare da chiunque andasse loro a genio, gli uomini sarebbero semplici marionette, invece ottengono un piccolo canale tramite il quale agire soltanto se e quando una creatura dotata di volontà propria mette se stessa e la propria volontà a loro disposizione, spontaneamente. Gli Dei possono inoltre filtrare attraverso la mente degli animali, sebbene con grande difficoltà. Quanto alle piante… richiedono troppa preveggenza.» Raddrizzò la coppa e prese la caraffa. «D’altro canto, capita che un uomo si apra agli Dei e permetta loro di riversarsi in lui e, per suo tramite, nel mondo. Un santo non è un’anima virtuosa, bensì un’anima vuota, giacché l’uomo — o la donna — in questione sceglie liberamente di donare la propria volontà al suo Dio e, nel rinunciare ad agire, rende possibile l’azione da parte della divinità.» Umegat riempì la sua coppa e, portandosela alle labbra, fissò Cazaril in modo inquietante. Poi bevve un lungo sorso e aggiunse: «Il tuo Divino non doveva usare l’acqua, perché non attira adeguatamente l’attenzione. Bisognava ricorrere al vino o al sangue… A un liquido che abbia valore».

«Hmm», riuscì a borbottare Cazaril.

Appoggiandosi allo schienale della sedia, Umegat indugiò a osservarlo per qualche tempo, anche se Cazaril ebbe l’impressione che non lo stesse studiando sul piano fisico. Allora, dimmi, come mai un rinnegato roknari, che è anche un Divino del Tempio, uno studioso e un santo del Bastardo, si traveste da stalliere del serraglio dello Zangre? pensò il Castillar. Ma riuscì soltanto a chiedere: «Si può sapere cosa ci fai tu qui?»

«Faccio ciò che il Dio vuole», replicò Umegat, scrollando le spalle. Poi, in apparenza colpito dall’espressione esasperata sul volto di Cazaril, precisò: «E ciò che lui vuole è tenere in vita il Roya Orico, almeno così pare».

Cazaril si raddrizzò di scatto, lottando per dissipare la nebbia che il vino gli aveva creato nel cervello. «Orico è malato?» domandò.

«Sì. È un segreto di Stato, bada bene, sebbene sia ormai diventato abbastanza evidente per chiunque abbia un po’ di cervello e lo sguardo abbastanza acuto. In ogni caso…» E si accostò un dito alle labbra.

«Io credevo che il risanamento rientrasse nei compiti della Madre e della Figlia», osservò Cazaril.

«Sì, se la malattia del Roya dipendesse da cause naturali.»

«Ha una causa innaturale?» mormorò Cazaril, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco le idee. «Quel mantello di oscurità… riesci a vederlo anche tu?»

«Sì.»

«Ma quell’ombra avvolge pure Teidez e Iselle… E la Royina Sara ne è contaminata a sua volta. Che cosa malvagia è mai questa?»

Posata la coppa, Umegat si tormentò ancora la coda di capelli brizzolati, esalando un profondo sospiro. «Risale al tempo di Fonsa l’Abbastanza Saggio e del Generale Dorato. Suppongo che per te questa sia soltanto storia passata, ma io ho vissuto in quei tempi disperati. Sai, una volta ho avuto modo di vedere il generale, perché all’epoca ero una spia e mi ero insinuato nel suo principato. Odiavo tutto ciò che lui rappresentava, e tuttavia… se mi avesse rivolto una parola, una sola parola, credo che l’avrei seguito strisciando sulle ginocchia. Quell’uomo non era soltanto toccato da un Dio, era un avatar incarnato, diretto a grandi passi verso il fulcro del mondo nella perfetta pienezza dei tempi… o quasi. Il momento del suo trionfo era ormai prossimo, quando Fonsa e il Bastardo lo hanno abbattuto», disse, abbassando la voce sulla scia dei ricordi. Per un momento, rimase in silenzio, assorto nelle immagini della memoria, poi si riscosse e riportò l’attenzione su Cazaril. Sorridendo, sollevò la mano col pollice rivolto verso l’alto, e lo agitò. «Per quanto sia l’elemento più debole della sua famiglia, il Bastardo è il Dio dell’equilibrio. È la capacità di opposizione che permette alla mano di serrare la presa. Si dice che se mai uno degli Dei riuscisse ad assorbire tutti gli altri, la verità diverrebbe singola, semplice e perfetta, e il mondo finirebbe in un’esplosione di luce. Certi uomini particolarmente inclini all’ordine considerano attraente quest’idea, ma io la trovo orribile… Del resto, ho sempre avuto gusti scadenti. Nel frattempo il Bastardo, unico e immutato in ogni stagione, agisce per preservarci tutti.» E batté con le altre quattro dita — la Figlia, la Madre, il Figlio e il Padre — contro il polpastrello del pollice. «Il Generale Dorato era un’onda di marea generata dal destino, che si stava preparando ad abbattersi sul mondo. L’anima di Fonsa poteva reggere il confronto con la sua, ma non poteva controbilanciare il suo immenso destino. Di conseguenza, quando il demone della morte ha portato via dal mondo le loro anime, il destino del Generale Dorato è straripato, riversando sugli eredi di Fonsa un miasma di sfortuna e di amarezza. L’ombra scura che tu vedi è il destino irrealizzato del Generale Dorato, che avvolge l’esistenza dei suoi nemici, rovinandola. Se preferisci, puoi definirla la sua maledizione di morte.»

«Come si può annullare questa maledizione?» domandò Cazaril, chiedendosi se quella fosse la vera spiegazione del fallimento di tutte le campagne militari avviate da Ias e da Orico.

«In sei anni, non mi è stata inviata nessuna risposta», sospirò Umegat. «Forse essa si estinguerà con la morte di tutti coloro che discendono da Fonsa.»

Ma… ciò vuol dire… Il Roya, Teidez… Iselle!

«O forse anche allora la maledizione continuerà a colare come un rivolo di veleno», continuò Umegat. «Avrebbe dovuto uccidere Orico già alcuni anni fa… Il contatto con le creature sacre riesce a purificarlo soltanto per breve tempo. Il serraglio serve unicamente a rimandare la sua distruzione, ma il Dio non mi ha mai rivelato il perché. Sai, gli Dei non scrivono lettere d’istruzioni, neppure per i loro santi. È una cosa che ho suggerito spesso, nelle mie preghiere, e sono perfino rimasto seduto per un’ora, con l’inchiostro che si seccava sulla penna, concentrato interamente nell’intento di servire lui. E cosa mi ha mandato invece il Bastardo? Un corvo sovreccitato e capace di dire un’unica parola.»

Cazaril ebbe un sussulto colpevole, perché la morte del povero corvo gli dava più dolore di quella di Dondo.

«Ecco. Questo è ciò che sto facendo qui», disse Umegat, scoccandogli un’occhiata penetrante. «Ora, vorresti dirmi cosa stai facendo tu, invece?»

«Non lo so», ammise Cazaril, allargando le mani in un gesto impotente. «Non porresti spiegarmelo tu? Hai detto… che risplendo. Somiglio a te? O a Iselle, o addirittura a Orico?»

«Non somigli a nulla che io abbia scorto da quando mi è stata concessa la vista interiore. Se Iselle è una candela, tu sei una conflagrazione… Guardarti crea qualche problema alla vista.»

«Non mi sento una… conflagrazione.»

«Come ti senti?»

«Adesso? Come un mucchio di letame, ubriaco e malato… Ho questi crampi al ventre che vanno e vengono», dichiarò Cazaril, facendo vorticare il vino sul fondo della coppa. In quel momento, il dolore pareva essersi placato, ma lo stomaco era sempre gonfio. «Inoltre sono stanco. Anche più di quando sono stato ricoverato nella Casa della Madre, a Zagosur.»

«Ritengo davvero molto importante che tu mi confidi la verità», disse Umegat, scandendo ogni parola. Le sue labbra stavano ancora sorridendo, ma gli occhi grigi parevano ardere di una luce interiore.

Cazaril si sorprese a pensare che un buon Inquisitore del Tempio doveva probabilmente essere gentile e abile nell’ottenere confidenze dalle persone su cui stava indagando. Nonché bravo nel farle ubriacare. Hai rinunciato alla tua vita, rifletté. Non è giusto piagnucolare per riaverla indietro. «La scorsa notte ho tentato una magia di morte contro Dondo dy Jironal», ammise infine.

«Sì. Dove?» chiese Umegat, che non appariva affatto sorpreso.

«Nella Torre di Fonsa. Sono strisciato sul tetto e mi sono portato dietro un ratto, mentre il corvo… Be’, è venuto lui da me. Era quello cui davo da mangiare.»

«Continua…» sussurrò Umegat.

«Ho ucciso il ratto con un coltello, ho spezzato il collo a quel povero corvo e ho pregato in ginocchio. Poi è cominciato il dolore… Non me l’aspettavo. È stata una sofferenza così intensa che non riuscivo a respirare. Le candele si sono spente, e io ho detto un ’grazie’, perché ho provato…» D’un tratto scoprì di non essere in grado di spiegare ciò che aveva provato. Era uno strano senso di pace, come se fosse stato disteso in un posto sicuro, dove avrebbe potuto riposare per sempre. «Poi sono svenuto, e ho creduto che per me fosse giunta la fine.»

«E dopo?»

«Dopo… nulla. Mi sono svegliato nella nebbia dell’alba, nauseato e infreddolito, sentendomi un perfetto idiota. No, un momento… Ho avuto un incubo in cui mi è sembrato che Dondo morisse soffocato. Però, quando ho capito di essere vivo, e di avere fallito, sono strisciato fino al mio letto. Poco dopo, dy Jironal ha fatto irruzione nella mia camera…»

Umegat tamburellò sul tavolo con le dita, fissando Cazaril con occhi socchiusi. Provò a chiudere le palpebre e di lì a poco tornò a sollevarle. «Mio signore, ti posso toccare?» domandò.

«Certamente…» assentì Cazaril

Il roknari si chinò su di lui e Cazaril, per un istante, temette che quello fosse un tentativo di entrare in intimità con lui. Ma il tocco di Umegat fu impersonale al pari di quello di un medico. La sua mano gli sfiorò la fronte, la faccia, il collo, la spina dorsale, il cuore e il ventre… Suo malgrado, Cazaril s’irrigidì, però la mano di Umegat non scese più in basso, e il suo volto s’incupì progressivamente col procedere dell’esame. Alla fine, lui andò a prendere un’altra caraffa di vino in un cesto posato vicino alla porta, prima di rimettersi a sedere.

«Ho bevuto abbastanza», protestò Cazaril, schermando la coppa. «Se continuo così, finirò per non reggermi in piedi.»

«Tra poco, i miei stallieri ti accompagneranno nella tua stanza», replicò Umegat. Poi, dopo aver riempito solo la propria coppa, indugiò a far scorrere le dita sulla tovaglia, tracciando lo stesso piccolo disegno, ripetuto tre volte. Cazaril non avrebbe saputo dire se si trattava di un incantesimo, o soltanto di una manifestazione di nervosismo.

«In base alla testimonianza resa dagli animali sacri, nessun Dio ha accettato l’anima di Dondo dy Jironal. Di norma, questo è un segno che uno spirito inquieto si aggira ancora nel mondo, e parenti, amici e nemici si affrettano a comprare riti e preghiere presso il Tempio, gli uni in suffragio dell’anima del defunto, gli altri per la loro protezione», mormorò Umegat.

«Sono certo che Dondo avrà tutte le preghiere che si possono comprare», commentò Cazaril, con una certa amarezza.

«Lo spero.»

«Perché? Cosa…» farfugliò il Castillar, non osando chiedere: Che vedi? Cosa sai?

Umegat sollevò lo sguardo su di lui e trasse mi profondo respiro. «Sappiamo che lo spirito di Dondo è stato preso dal demone della morte, ma non è stato trasmesso agli Dei. A mio parere, il demone della morte non è potuto tornare dal suo padrone perché gli è stato impedito di prendere la seconda anima, quella che avrebbe ripristinato l’equilibrio.»

«Gli è stato impedito?» esclamò Cazaril, spaventato, umettandosi le labbra.

«Ritengo che, nel momento in cui ha tentato di prendere la seconda anima, il demone sia stato catturato… vincolato o legato, se preferisci, da un secondo, simultaneo miracolo. A giudicare dai colori che ti ribollono intorno, esso dev’essere scaturito dalla sacra e aggraziata mano della Signora della Primavera. Se ho ragione, gli Accoliti del Tempio possono andare tutti a dormire tranquilli, perché lo spirito di Dondo non è in circolazione, è vincolato al demone della morte, che è a sua volta imprigionato nel luogo di residenza della seconda anima. E l’anima risiede attualmente nel proprio corpo, ancora vivente. Questo», concluse Umegat, protendendo un dito verso Cazaril.

A bocca aperta per lo stupore, il Castillar abbassò lo sguardo sul proprio ventre gonfio e dolente, poi lo riportò sul volto del… santo, che sembrava affascinato da quella situazione. Violente parole di diniego gli salirono alle labbra, ma vennero bloccate dalla vista della limpida, scintillante aura di Umegat. «Io non ho pregato la Figlia, la scorsa notte!» protestò.

«A quanto pare, qualcuno lo ha fatto.»

Iselle.

«La Royesse ha detto di aver pregato la Signora. Hai visto il suo aspetto, oggi?» chiese Cazaril, accompagnando le parole con una serie di gesti confusi, perché non sapeva come spiegare la ribollente perturbazione luminosa che avviluppava Iselle. «È questo ciò che scorgi in me? E Iselle mi vede come io vedo lei?»

«Te ne ha fatto parola?» domandò Umegat.

«No, ma del resto neppure io le ho detto nulla.»

«Quando ti trovavi nell’Arcipelago, ti è mai capitato di vedere una di quelle notti in cui il mare è toccato dalla Madre? Hai visto il modo in cui le acque risplendono di una scia verde al passaggio di una nave?»

«Sì…»

«Ciò che hai scorto intorno a Iselle è una scia di questo tipo, è il passaggio della Figlia, simile a un profumo rimasto nell’aria. Ciò che io vedo in te non è un passaggio, bensì una Presenza, una benedizione molto più intensa. Adesso il tuo alone di luce sì sta lentamente attenuando, perciò, entro un paio di giorni, gli animali sacri dovrebbero essere meno affascinati dalla tua vicinanza… Al suo centro, però, c’è un compatto nucleo azzurro di zaffiro, dentro il quale non riesco a vedere. Credo che sia una specie d’involucro…» Il roknari accostò le mani a coppa, come se stesse intrappolando in esse una lucertola.

«Stai dicendo che la Dea ha trasformato il mio ventre in una piccola sede distaccata dell’inferno?» ansimò Cazaril, deglutendo a fatica. «Un demone, un’anima persa, sigillati insieme come serpenti in una bottiglia? La definisci una benedizione?» E si serrò le mani sullo stomaco, come se volesse squarciarselo.

Sul volto di Umegat passò un’ombra di pietà. «Ebbene, cos’è mai una benedizione, se non una maledizione vista da una diversa prospettiva?» commentò. «Se può consolarti, immagino che Dondo dy Jironal sia anche meno felice di te di questi recenti sviluppi. Inoltre ritengo che anche il demone sia tutt’altro che soddisfatto della situazione.»

«Per i cinque Dei!» esclamò Cazaril, prossimo a contorcersi sulla sedia. «Come posso liberarmi di questo… orrore?»

«Ecco… Ti suggerisco di non avere troppa fretta di provarci», replicò Umegat, con un gesto di ammonimento. «Le conseguenze potrebbero essere complesse.»

«Esiste qualcosa di più complesso di questa mostruosità?»

Umegat si appoggiò allo schienale della sedia e congiunse le mani. «Be’, il modo più ovvio per infrangere la benedizione sarebbe la tua morte. Una volta liberata la tua anima dal suo locus materiale, il demone sarebbe libero di portare via entrambi i suoi fardelli.»

Cazaril rammentò il momento in cui un improvviso crampo al ventre lo aveva quasi fatto precipitare, quando aveva spiccato il salto dal tetto della torre a quello del castello. Per sfuggire al terrore, cercò rifugio in un atteggiamento distaccato analogo a quello di Umegat. «Davvero meraviglioso», commentò. «Hai altre cure da suggerirmi, medico?»

Umegat contrasse le labbra in un accenno di sorriso, liquidando la battuta con un fugace cenno della mano. «In maniera simile, se il miracolo che ospiti dovesse cessare, cioè se la Signora dovesse ritrarre la sua mano, credo che il demone tenterebbe all’istante di completare il proprio destino.» Allargò le mani come per liberare un uccello. «Non che abbia possibilità di scelta, naturalmente, dato che i demoni del Bastardo non sono dotati di libera volontà. Non si può discutere con loro per cercare di persuaderli. Anzi è inutile persino parlare con uno di essi.»

«Stai affermando che potrei morire in qualsiasi momento», mormorò Cazaril.

«Sì. D’altro canto, questa consapevolezza non è forse stata sempre presente nella tua vita, anche nel passato?» ribatté Umegat, inclinando la testa di lato con fare interrogativo.

Cazaril si limitò a sbuffare. Era un ben misero conforto, però lo era, sia pure in maniera distorta. Umegat era un santo «razionale», una cosa del tutto inattesa… D’altronde, aveva mai incontrato un santo, prima di allora? E come faceva a sapere se ne aveva mai incontrati altri, dato che aveva frequentato Umegat senza neppure accorgersi della sua vera natura?

«A dire il vero, questo stato di cose potrebbe rispondere a una domanda che mi sto ponendo da tempo», continuò Umegat, col tono incuriosito proprio dello studioso. «Il Bastardo ha a sua disposizione una schiera di demoni della morte, oppure soltanto uno? Adesso che il demone è imprigionato dentro di te, se cessassero tutti i miracoli di morte nel mondo, allora ci sarebbe una prova inconfutabile della singolarità di quel potere sacro.»

«Sono al servizio della teologia quintariana!» esclamò Cazaril, con una risata sarcastica. «Per gli Dei… Umegat, cosa devo fare? Nella mia famiglia non c’è mai stato nulla di tutto ciò, non c’è mai stata questa follia indotta dal tocco divino. Non sono adatto a questo tipo d’incarico. Io non sono un santo!»

Umegat aprì la bocca per ribattere, ma esitò un momento, prima di replicare. «Col tempo, ci si fa l’abitudine. Neppure a me è piaciuto, la prima volta in cui sono stato strumento di un miracolo, sebbene si possa dire che io sia del mestiere. Per stanotte, il mio consiglio è ubriacarti per bene e andare a dormire.»

«In modo da ritrovarmi domattina afflitto dalla presenza di un demone dentro di me e dai postumi di una sbornia?» ribatté Cazaril. Ma, dentro di sé, ammise che probabilmente quello era l’unico modo per riuscire a dormire, a parte forse un colpo sulla testa.

«Per me ha funzionato, una volta. Inoltre vale la pena di sopportare i postumi di una sbornia se si ha in cambio la certezza di essere così intontiti da non poter fare stupidaggini, almeno per qualche tempo. Gli Dei non concedono miracoli per i nostri scopi, ma per i loro. Se sei diventato un loro strumento, ciò significa che esiste un motivo più grande e urgente della tua stessa vita. Ricorda però che tu sei lo strumento, non l’opera, e aspettati di essere valutato di conseguenza.»

Mentre Cazaril si sforzava di seguire quel ragionamento, Umegat si protese in avanti e gli riempì nuovamente la coppa di vino. E lui non ebbe più la forza di protestare.

Circa un’ora più tardi, furono necessari due dei sottoposti di Umegat per guidare i suoi passi incerti e barcollanti sull’acciottolato del cortile, oltre le porte e su per le scale, fino alla camera, dove i due lasciarono cadere sul letto il suo corpo quasi inerte. Cazaril non riuscì a stabilire il momento in cui la sua angosciata consapevolezza lo abbandonò, ma sapeva di non essere mai stato tanto contento di scivolare nell’oblio.

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