Nel corso della processione organizzata dal Tempio per celebrare l’avvento dell’estate, Iselle non venne invitata a rivestire di nuovo il ruolo della Signora della Primavera. Per tradizione, infatti, quel ruolo veniva assegnato a una giovane donna appena sposata e fu quindi una neo sposa timida e riservata che cedette il trono dell’avatar del Dio regnante a una composta matrona in stato di avanzata gravidanza. Quando la cerimonia si concluse senza sorprese spirituali di sorta, Cazaril, con la coda dell’occhio, vide il Divino della Santa Famiglia trarre un sospiro di sollievo.
Con l’avvento del caldo estivo, la vita assunse un ritmo più lento. Le allieve di Cazaril, come pure il loro insegnante, presero a sospirare e a sbadigliare, mentre il sole arroventava le antiche pietre della fortezza. A un certo punto, sudato e stanco quanto le due ragazze, Cazaril decise di annullare per il resto dell’estate tutte le lezioni pomeridiane.
Come Betriz aveva affermato il giorno della festa della primavera, in effetti la Royina Ista pareva stare meglio, adesso che le giornate si erano allungate e il clima si era fatto più caldo, e lo dimostrava la sua presenza più frequente ai pasti e il fatto che quasi tutti i pomeriggi, insieme con le dame di compagnia, si sedeva all’ombra dei nodosi alberi da frutto che crescevano in fondo al giardino della Provincara. Le sue custodi non le permettevano però di salire sui bastioni, che costituivano la meta preferita di Iselle e di Betriz, quando volevano sfuggire all’afa e alla disapprovazione delle persone più anziane, dunque poco propense a salire le scale ripide.
Scacciato dalla sua stanza dall’intollerabile afa che vi regnava in una giornata più che mai calda e caliginosa, seguita a una notte caratterizzata da un temporale di una violenza insolita, Cazaril si avventurò in giardino, alla ricerca di un angolo più confortevole e fresco, stringendo sotto un braccio uno dei pochi libri della misera biblioteca del castello che ancora non aveva avuto modo di leggere, anche se l’opera di Ordol — Il quintuplice sentiero dell’anima. Della vera metodica della teologia quintariana -, non costituiva certo un argomento che lo appassionasse in modo particolare. D’altro canto, forse le pagine del volume che gli si agitavano in grembo avrebbero dato, agli occhi degli eventuali passanti, una parvenza più erudita al sonnellino che senza dubbio avrebbe finito per concedersi. Aggirato il roseto, Cazaril si arrestò di colpo: sulla panchina verso cui si stava dirigendo era seduta la Royina, accompagnata come sempre da una delle sue dame, che aveva un ricamo in grembo. Le due donne alzarono lo sguardo e Cazaril, aggirando due api ronzanti, rivolse loro un inchino, per scusarsi della propria involontaria intrusione.
«Rimanete, Castillar… dy Cazaril, giusto?» mormorò però Ista, non appena lui accennò ad andarsene. «Come procedono gli studi di mia figlia?»
«Molto bene, mia signora», replicò Cazaril, voltandosi verso la Royina e accennando un altro inchino. «È molto portata per l’aritmètica e la geometria, ed è… ecco, diciamo che è costante nello studio del darthacano.»
«Bene, molto bene», commentò Ista, distogliendo lo sguardo e lasciandolo vagare sul giardino assolato.
L’altra dama si chinò sul ricamo per annodare un filo. Quanto a Lady Ista, non stava ricamando; Cazaril aveva sentito sussurrare da una cameriera che la Royina e le sue dame avevano lavorato per sei mesi a un elaborato telo per altare destinato al Tempio. Ma proprio quando il lavoro era ormai quasi concluso, la Royina, lasciata sola per un momento, aveva bruciato il telo nel focolare della propria camera. Vera o no che fosse quella storia, rimaneva il fatto che quel giorno Ista non aveva in mano un ricamo, ma soltanto una rosa.
Osservando la Royina, Cazaril cercò invano nei suoi occhi qualcosa che gli indicasse di essere stato riconosciuto. «Mi stavo domandando…» azzardò poi, esitante. «Ecco… volevo chiedervi, mia signora, se per caso vi ricordate di me, giacché in passato ho servito vostro padre in questa casa, in qualità di paggio. Ormai è passata una ventina d’anni, quindi non mi stupirebbe scoprire che non vi rammentate.» Si concesse un breve sorriso, poi si coprì la parte inferiore del viso e aggiunse: «A quel tempo, non avevo la barba».
Ista ricambiò il sorriso e aggrottò la fronte. «Mi dispiace», disse infine. «Il mio defunto padre ha avuto presso di sé molti paggi, nel corso degli anni…»
«È naturale, considerato che era un nobile di alto rango. In ogni caso, non ha importanza», la rassicurò Cazaril, spostando il libro da una mano all’altra per celare la propria delusione e sfoggiando un sorriso di scusa. Era convinto che il mancato riconoscimento di Ista non dipendesse dal suo aspetto, ma piuttosto dal fatto che lei non lo aveva mai notato. Era stata una fanciulla piena di entusiasmo e portata a guardare in avanti e verso l’alto, non verso il basso o alle proprie spalle.
«Oh, no», mormorò in quel momento la dama di compagnia, intenta a cercare qualcosa nel cestino dei fili da ricamo, poi sollevò lo sguardo e studiò Cazaril per un momento, prima di domandare, con un sorriso invitante: «Vi dispiacerebbe rimanere qui a tenere compagnia alla mia signora, mentre io faccio una corsa fino nella mia stanza, per cercare il filo di seta verde?»
«Ma certo, mia signora», rispose Cazaril in modo meccanico. Però poi aggiunse, in tono incerto: «Cioè… ecco…» Scoccò un’occhiata a Ista e negli occhi di lei scorse un lampo d’ironia. Del resto, quella dama non era certo incline alle urla o al pianto. E perfino se piangeva, cosa che Cazaril le aveva visto fare alcune volte, le lacrime le colavano in silenzio lungo le guance. Cazaril rivolse allora alla dama di compagnia un inchino di assenso, e lei si alzò prontamente, prendendolo per un braccio e trascinandolo a una certa distanza dalla panchina, in direzione del roseto.
«Andrà tutto bene», sussurrò, alzandosi in punta di piedi per parlargli nell’orecchio. «Badate soltanto a non nominare Lord dy Lutez e a restarle vicino fino al mio ritorno. Se poi dovesse essere lei a mettersi a parlare del vecchio dy Lutez, ecco… non lasciatela sola.»
La dama si allontanò di corsa, e Cazaril si ritrovò a riflettere su quella situazione rischiosa. Il brillante Lord dy Lutez era stato per trent’anni il più intimo consigliere del defunto Roya Ias. Era stato suo amico d’infanzia, suo compagno d’armi e di baldoria. Nel corso del tempo, Ias gli aveva elargito ogni onore possibile, nominandolo Provincar di due distretti, Cancelliere di Chalion, maresciallo delle sue truppe personali e maestro del ricco Ordine militare del Figlio… il tutto per poter meglio controllare e comandare il resto dei suoi subordinati, almeno a quanto si diceva in giro. Nemici e ammiratori, in pari misura, sostenevano in un sussurro che dy Lutez era Roya di Chalion a tutti gli effetti, tranne che di nome, e che Ias era la sua Royina…
Era stata una debolezza, da parte di Ias, lasciare che fosse dy Lutez a fare per lui il lavoro sporco e ad addossarsi il peso delle proteste dei nobili, lasciando il suo signore libero di fregiarsi dell’appellativo di Ias il Buono? Oppure era stata una mossa astuta? Cazaril se l’era chiesto spesso. Quel soprannome non era certo disprezzabile, ma di gran lunga migliori sarebbero stati Ias il Forte o magari Ias il Saggio o anche Ias il Fortunato, appellativo, quest’ultimo, che nessuno avrebbe mai potuto attribuire al defunto Roya. Era stato dy Lutez a organizzare il secondo matrimonio di Ias con Lady Ista, provvedendo così a smentire la voce persistente che circolava fra i nobili di Cardegoss, relativa all’esistenza di un innaturale legame amoroso fra il Roya e il suo vecchio amico d’infanzia, e tuttavia…
Cinque anni dopo il matrimonio, dy Lutez era caduto in disgrazia presso il Roya, in modo tanto improvviso quanto letale: accusato di tradimento, era morto sotto tortura nelle segrete dello Zangre, la grande fortezza reale di Cardegoss. Al di fuori della corte di Chalion, era corsa la voce che la vera colpa di dy Lutez fosse stata innamorarsi della giovane Royina Ista, mentre nei circoli più ristretti si sussurrava invece che fosse stata Ista a persuadere il marito ad annientare per amor suo un odiato rivale. Quale che fosse l’effettiva disposizione di quel triangolo, rimaneva il fatto che, nella sua geometria di morte, esso era crollato, perdendo una delle tre punte. Quando poi Ias, dopo aver perso la voglia di vivere, si era spento meno di un anno dopo la morte di dy Lutez, di quel triangolo era rimasta soltanto Ista, che aveva preso con sé i figli ed era fuggita dallo Zangre, o forse ne era stata esiliata.
Dy Lutez. Non nominare Lord dy Lutez… Ciò significava non evocare la maggior parte della storia di Chalion che risaliva alla precedente generazione.
Tornato presso la Royina, Cazaril sedette con una certa cautela al posto occupato in precedenza dalla dama di compagnia, notando che Ista aveva cominciato a fare a pezzi la rosa, non con rabbia, ma in maniera pacata e sistematica, strappando i petali e disponendoli accanto a sé sulla panchina secondo un disegno che imitava la loro struttura originale, cerchi dentro altri cerchi, in una spirale diretta verso l’interno.
«I morti mi hanno visitata in sogno, la scorsa notte», disse, nel tono di chi sta riprendendo una conversazione interrotta. «Ma ho pensato che si trattasse soltanto di un sogno falso. Voi ricevete mai le loro visite, Cazaril?»
Lui esitò, ma alla fine decise che Ista era troppo consapevole di sé perché potesse soffrire di demenza. Le sue affermazioni, per quanto contorte, erano chiaramente comprensibili, il che non sarebbe stato se lei fosse stata davvero pazza. «A volte, mi accade con mio padre e mia madre», rispose. «Per breve tempo, in sogno, si muovono e parlano come se fossero vivi… E al risveglio mi assale di nuovo il rimpianto per la loro perdita.»
«I sogni falsi sono caratterizzati da questa tristezza, mentre i sogni veri sono crudeli», annuì Ista. «Gli Dei vi risparmino dal fare sogni veri, inviati da loro, Cazaril.»
«Tutti i miei sogni sono ammassi confusi, che al risveglio si dissolvono come fumo», ribatté lui, accigliandosi, con aria sempre più confusa.
Ista chinò il capo di lato, contemplando la rosa denudata, che mostrava gli stami dorati, sottili come fili di seta e disposti a ventaglio all’interno del cerchio dei petali. «I sogni veri gravano come piombo sul cuore e sullo stomaco, pesano quanto basta per… far annegare la nostra anima nel dolore. I sogni veri ci accompagnano di giorno, da svegli, e tuttavia è certo che finiranno per tradirci, come qualsiasi uomo in carne e ossa è pronto a rimangiarsi le promesse fatte. Non fidatevi dei sogni, Castillar, e neppure delle promesse degli uomini.» Sollevò lo sguardo dai petali con un’espressione improvvisamente molto intensa.
«No di certo, mia signora, fidarsi sarebbe da stolti», replicò Cazaril, schiarendosi la gola. «Però è piacevole vedere mio padre, di tanto in tanto, considerato che non potrò mai più vederlo in altro modo.»
«Non temete i vostri morti?» domandò Ista, con uno strano sorriso in tralice.
«No, mia signora, non nei sogni.»
«Forse i vostri morti non sono persone temibili.»
«Per la maggior parte no, mia signora», annuì Cazaril.
Sulla parete della fortezza, una finestra si spalancò, e la dama di compagnia di Ista si affacciò per scrutare il giardino; apparentemente rassicurata dalla vista della sua signora impegnata in una tranquilla conversazione col trasandato tutore, la donna agitò una mano in un gesto di saluto e scomparve all’interno.
Tornando a osservare la Royina, si chiese come facesse quella donna a passare il tempo, considerato che non gli era mai accaduto di vederla leggere o cucire e che non aveva musici al suo seguito. Gli era capitato di vederla pregare per ore intere nella sala degli antenati o davanti al piccolo altare portatile nelle sue camere, oppure, più raramente, presso il Tempio cittadino, dove veniva scortata dalle sue dame e da dy Ferrej, benché mai nei momenti di maggiore affollamento. In altri periodi, invece, passavano intere settimane senza che Ista sembrasse rammentare anche soltanto l’esistenza degli Dei.
«Trovate molta consolazione nella preghiera, mia signora?» domandò infine Cazaril, spinto dalla curiosità per quello strano comportamento.
«Io?» ribatté la dama, sollevando lo sguardo, mentre il suo sorriso si faceva meno spontaneo. «Io non trovo più molta consolazione da nessuna parte. Senza dubbio, gli Dei si sono fatti beffe di me, e sarei lieta di restituire loro il favore, se non fosse che hanno il mio cuore e il mio respiro in ostaggio, prigionieri del loro minimo capriccio. I miei figli sono prigionieri della sorte, e la sorte è impazzita, qui a Chalion.»
«Credo ci siano prigioni peggiori di questa soleggiata fortezza, mia signora», osò replicare Cazaril.
«Oh, sì», annuì lei, inarcando le sopracciglia e appoggiandosi allo schienale della panchina. «Siete mai stato alla fortezza di Zangre, a Cardegoss?»
«Sì, quand’ero più giovane, ma non di recente. È un palazzo molto vasto, e mi ci perdevo di continuo.»
«Strano. Anch’io mi sono persa là… Sapete, è infestato dai fantasmi.»
Cazaril si concesse qualche istante per vagliare quel commento, offerto come un dato di fatto. «La cosa non mi stupisce», replicò quindi. «È nella natura di una. grande fortezza che molti muoiano nel costruirla, difenderla o conquistarla… Uomini di Chalion, i famosi costruttori roknari che ci hanno preceduti, i primi re e gli uomini vissuti ancora prima, che senza dubbio, all’alba dei tempi, trovavano rifugio nelle grotte sottostanti la fortezza. Il castello di Zangre è più antico di Chalion e senza dubbio deve aver… accumulato anime.» Essendo stata la dimora dei Roya e dei loro nobili per generazioni, la fortezza di Zangre aveva ospitato schiere e schiere di uomini e donne che avevano concluso la loro vita al suo interno, alcuni in modo spettacolare… altri scomparendo con la massima segretezza.
Lentamente, Ista cominciò a rimuovere le spine dallo stelo della rosa, allineandole in fila, come i denti di una sega. «Sì, essa accumula… questa è la definizione esatta. Raccoglie calamità come una cisterna, come le sue grondaie raccolgono l’acqua piovana. Farete bene a evitare lo Zangre, Cazaril.»
«Non ho nessun desiderio di recarmi a corte, mia signora.»
«Io lo desideravo, un tempo, con tutto il mio cuore. Sapete, le peggiori maledizioni inflitte dagli Dei si manifestano come una risposta alle nostre preghiere. Le preghiere sono una cosa pericolosa, tanto che credo dovrebbero essere dichiarate illegali», dichiarò Ista, procedendo a sbucciare lo stelo della rosa, staccandone sottili strisce verdi e mettendo così in mostra il candore sottostante.
Non sapendo cosa replicare, Cazaril si limitò a un sorriso esitante.
«A Lord dy Lutez era stata fatta una profezia, secondo la quale non sarebbe mai annegato, se non sulla cima di una montagna», riprese Ista, aprendo in due quel che restava dello stelo. «Da allora, lui non ha mai più avuto paura di nuotare, per quanto alte potessero essere le onde, perché tutti sanno che non ci può essere acqua sulla cima di una montagna, in quanto tutti i fiumi scorrono verso valle.»
Cercando di soffocare un’ondata di panico, Cazaril si guardò intorno con discrezione, sperando di veder tornare la dama di compagnia, che però ancora non si scorgeva. A dar retta alle voci, Lord dy Lutez era morto mentre veniva sottoposto alla tortura dell’acqua, nelle segrete dello Zangre, cioè nelle viscere del castello che sorgeva sulla collina sovrastante la città di Cardegoss. «È una cosa di cui non ho mai sentito parlare, quando quel nobile era ancora in vita», azzardò, umettandosi nervosamente le labbra aride. «Secondo me, è una storia inventata in seguito, per dare un alone di terrore alla sua morte. In genere, le giustificazioni emergono a posteriori, soprattutto dopo una caduta… spettacolare come la sua.»
Socchiudendo le labbra in uno stranissimo sorriso, Ista finì di separare in due lo stelo e se lo appoggiò sulle ginocchia, appiattendolo. «Povero Cazaril!» esclamò. «Come avete fatto a diventare tanto saggio?»
Lui poté evitare di rispondere perché, in quel momento, la dama di compagnia di Ista riapparve, tenendo in mano una matassa di filo colorato. Scattando in piedi, lui si affrettò a rivolgere un inchino alla Royina. «La vostra dama di compagnia sta tornando…» annunciò, avviandosi.
Nell’incrociare la donna, che si stava avvicinando in tutta fretta, accennò un inchino anche nella sua direzione.
«Si è comportata bene, mio signore?» sussurrò la dama.
«Sì, alla perfezione», annuì Cazaril, anche se avrebbe voluto aggiungere: a modo suo…
«Non ha detto nulla di dy Lutez?»
«Nulla… d’importante», replicò il Castillar. Non aveva certo intenzione di riferire quel dialogo.
Con un respiro di sollievo, la dama di compagnia si concesse un momento per assumere un’espressione sorridente, poi cominciò a chiacchierare di tutte le cose che aveva dovuto spostare per trovare il filo mancante, mentre Ista la fissava con annoiata tolleranza. Del resto, come Cazaril rifletté nel contemplare la scena, era impossibile che la figlia della Provincara nonché madre di una fanciulla sveglia come Iselle fosse mentalmente ritardata. D’altro canto, se Ista parlava alle sue ottuse dame di compagnia nello stesso modo ermetico che aveva usato con lui, saltando da un argomento all’altro, non c’era da meravigliarsi che la considerassero pazza. Tuttavia Cazaril aveva l’impressione che quelle sue affermazioni oscure non fossero tali per un problema mentale, ma perché lei si esprimeva in una sorta di linguaggio cifrato, dotato di una sua elusiva coerenza, se si disponeva della chiave giusta per decifrarlo. Lui però non possedeva quella chiave, e comunque gli era capitato d’incontrare alcuni folli che sembravano possedere quella velata forma di coerenza nel parlare. Serrando il libro, andò a cercare un angolo ombroso che non fosse già occupato da persone tanto sconcertanti.
L’estate stava progredendo con un passo pigro che armonizzava con lo stato fisico e mentale di Cazaril, ma non si poteva dire lo stesso per il povero Teidez, che risentiva invece della forzata inattività, in quanto le spedizioni di caccia gli erano state proibite dalla calura, dal tipo di stagione e dal suo tutore. Nell’osservarlo abbattere qualche coniglio con la balestra nella frescura dell’alba nebbiosa, intorno alle mura del castello, tra gli applausi dei giardinieri, Cazaril pensò ancora una volta che quel ragazzo accaldato, irrequieto e grassoccio sembrava davvero fuori stagione; a suo parere Teidez era infatti l’incarnazione di un Devoto al Figlio dell’Autunno, Dio della caccia, della guerra e di un clima più fresco.
Un giorno, mentre stava andando a pranzo, Cazaril rimase sorpreso nel vedersi avvicinare da Teidez e dal suo tutore. I due dovevano essere nel bel mezzo di una delle loro solite discussioni, almeno a giudicare dai volti arrossati.
«Lord Caz!» esclamò Teidez, col fiato corto per il caldo e la foga. «Non è forse vero che il maestro d’armi del vecchio Provincar conduceva i paggi al mattatoio perché affrontassero e abbattessero i giovani tori? Così insegnava loro ad avere coraggio in un vero combattimento, invece di limitarsi a farli saltellare nel cerchio per i duelli, con una spada in mano.»
«Ecco, in effetti…» cominciò Cazaril.
«Cosa vi avevo detto?» sbottò Teidez, rivolto a dy Sanda.
«Però ci esercitavamo anche nel cerchio», fu pronto ad aggiungere Cazaril, in caso dy Sanda avesse bisogno della sua solidarietà.
«L’abbattimento dei tori è un’antica pratica contadina, Royse, e non si adatta all’addestramento dei nobili», dichiarò dy Sanda, con una smorfia. «Voi siete destinato a diventare un gentiluomo, se non qualcosa di più… Non certo l’apprendista di un macellaio.»
La Provincara non aveva alle sue dipendenze un maestro d’armi, quindi aveva trovato al Royse un tutore che fosse anche un esperto spadaccino. Avendo assistito a qualche sessione di addestramento del giovane Royse, Cazaril rispettava l’abilità e la precisione di dy Sanda, le cui mosse erano caratterizzate da una grande correttezza. Se però dy Sanda conosceva anche tutti quei disperati, brutali trucchi che permettevano agli uomini di sopravvivere in battaglia, non pareva intenzionato a insegnarli a Teidez.
«Il maestro d’armi non ci stava addestrando per fare di noi dei gentiluomini, ma perché diventassimo soldati», affermò Cazaril, con un sorriso. «A favore del suo metodo, posso dire che qualsiasi campo di battaglia da me visto somigliava più a un mattatoio che a un cerchio per i duelli. Per quanto sgradevole, la sua tecnica ci ha permesso d’imparare il nostro mestiere, e non ha comportato nessuno spreco. Non credo infatti che, alla fine della giornata, ai tori abbattuti importasse se erano morti per mano di uno stolto armato di spada che li aveva inseguiti per un’ora o a causa di un colpo di maglio sul cranio.» Lui non aveva mai gradito prolungare quell’esperienza più del dovuto, come facevano alcuni dei suoi compagni, che avviavano un macabro e pericoloso gioco con quegli animali infuriati. Con un po’ di pratica, aveva imparato ad abbattere il toro con un affondo di spada, in modo preciso e rapido proprio come un macellaio. «L’unica differenza, ve lo concedo, è che sul campo di battaglia non mangiavamo ciò che abbattevamo… tranne a volte i cavalli.»
Di fronte a quella macabra battuta, dy Sanda s’irrigidì con aria di disapprovazione. «Domattina, se il clima rimarrà sereno, potremmo uscire coi falchi, mio signore…» propose poi, cercando di placare il suo allievo. «Sempre che voi prima risolviate quel problema con la cartografia…»
«Falchi e piccioni… un divertimento per dame! Piccioni! Che m’importa dei piccioni?» ribatté Teidez e, con una nota di malinconia nella voce, aggiunse: «Alla corte del Roya, a Cardegoss, in autunno danno la caccia ai cinghiali, nella foresta di querce. Quello è un vero svago per uomini. Dicono che i cinghiali siano pericolosi!»
«Verissimo», annuì Cazaril. «Le loro grosse zanne possono sventrare un cane, un cavallo o anche un uomo… e sono più veloci di quanto si possa supporre.»
«Avete mai cacciato, a Cardegoss?» chiese Teidez, pieno di entusiasmo.
«A volte, quand’ero là, ho seguito a caccia il mio signore, dy Guarida.»
«A Valenda non ci sono cinghiali», sospirò Teidez. «Però abbiamo i tori! È pur sempre qualcosa, meglio dei piccioni… o dei conigli!»
Dy Sanda reagì scoccandogli un’occhiata di fuoco. Quanto a Cazaril, si congedò con un inchino e con un sorriso, lasciando Teidez a tempestare il suo tutore con le proprie richieste.
Durante il pranzo di mezzogiorno, poi, Iselle sollevò una questione simile a quella intavolata dal fratello, anche se l’autorità presa di mira era quella della nonna, e non del suo tutore. «Nonna, fa così caldo!» esclamò. «Perché non possiamo andare a nuotare nel fiume, come fa Teidez?»
Con l’intensificarsi della calura estiva, le cavalcate che il Royse si concedeva di pomeriggio in compagnia del tutore, degli stallieri e dei paggi erano state sostituite da nuotate pomeridiane in una polla riparata che il fiume formava poco lontano da Valenda. Era lo stesso luogo che gli accaldati abitanti del castello frequentavano all’epoca in cui Cazaril era ancora un paggio. Le dame, naturalmente, erano escluse da simili escursioni e, fino ad allora, Cazaril si era sempre rifiutato di prendervi parte, trincerandosi dietro i doveri nei confronti di Iselle. In realtà, se si fosse spogliato per nuotare, avrebbe messo in mostra la storia di sofferenza scritta sulla sua pelle, una storia che non gli andava di raccontare. Il ricordo del fraintendimento col gestore nei bagni pubblici lo mortificava ancora.
«Assolutamente no!» esclamò la Provincara. «Sarebbe una cosa quanto mai sconveniente.»
«Non con lui, certo», insistette Iselle. «Potremmo formare un gruppo di sole dame. Voi mi avete detto che le dame del castello andavano a nuotare, quand’eravate un paggio!» aggiunse, rivolta a Cazaril.
«Le serve, Iselle», specificò la nonna, in tono stanco. «Gente di basso rango. Non è un passatempo adatto a te.»
Iselle si accasciò sulla sedia, cupa e accaldata in volto. Anche Betriz appariva abbattuta, ma la calura la rendeva pallida e sfiorita. Di lì a poco, venne servita la zuppa, e tutti fissarono quelle ciotole fumanti quasi con repulsione. Pronta come sempre a dare l’esempio, la Provincara prese il cucchiaio e cominciò a mangiare, con fare deciso.
«Però Lady Iselle sa nuotare, vero, Vostra Grazia?» domandò d’un tratto Cazaril. «Voglio dire, posso presumere che le sia stato insegnato, quand’era più piccola?»
«No, è ovvio», dichiarò la Provincara.
«Oh, Dei», gemette Cazaril, poi si guardò intorno per essere certo che la Royina Ista non fosse a tavola con loro, non volendo far riaffiorare in sua presenza un certo argomento per lei ossessivo. Tranquillizzato, si azzardò ad aggiungere: «Questo mi richiama alla mente un’orribile tragedia di cui sono stato testimone».
Socchiudendo gli occhi con sospetto, la Provincara si guardò bene dall’abboccare a quell’amo, cosa che fece però Betriz. «Davvero? E quale?» domandò.
«È successo quando cavalcavo agli ordini del Provincar della Guarida, nel corso di una serie di scontri contro il principe roknari Olus», rispose Cazaril. «Approfittando della copertura fornita da una notte di tempesta, le truppe di Olus hanno effettuato una scorreria oltre il confine, e a me è stato ordinato di far uscire le dame dalla fortezza di dy Guarida prima che la città venisse circondata. Verso l’alba, dopo aver cavalcato per metà della notte, abbiamo attraversato un fiume in piena. Il cavallo di una delle dame di compagnia della Provincara è scivolato e la donna è stata trascinata via dalla corrente, insieme col paggio che ha cercato di aiutarla. Nel tempo che ho impiegato a girare il cavallo erano già scomparsi alla vista… Abbiamo trovato i corpi più a valle, l’indomani mattina. Il fiume non era molto profondo, ma quella dama ha ceduto al panico perché non sapeva nuotare. Un po’ di addestramento avrebbe potuto trasformare un fatale incidente in un semplice spavento, e salvare tre vite.»
«Tre vite?» interloquì Iselle. «La dama, il paggio…»
«Quella dama aspettava un bambino.»
«Oh.»
Sulla tavola scese un profondo silenzio.
«È una storia vera, Castillar?» domandò infine la Provincara, scrutando Cazaril.
«Sì», sospirò questi, ricordando la pelle livida, fredda e inerte come argilla di quella donna e i suoi indumenti intrisi d’acqua, pesanti quanto il macigno che sembrava opprimergli il cuore in quel momento. «Ho dovuto provvedere io a informare il marito di quella dama.»
«Uh», grugnì dy Ferrej. Per quanto di solito fosse il più abile a raccontare storie a effetto, per una volta tacque.
«È un’esperienza che spero di non dover ripetere mai più», aggiunse Cazaril.
Sbuffando, la Provincara distolse lo sguardo. «D’altro canto, mia nipote non può certo andare a divertirsi nel fiume nuda come un’anguilla!» borbottò dopo un momento.
«Se però indossassimo… sottovesti di lino?» propose Iselle.
«In effetti, se si deve imparare a nuotare in previsione di qualche emergenza, è meglio abituarsi al peso dei vestiti», fu pronto ad aggiungere Cazaril.
«Inoltre in questo modo ci porremmo rinfrescare due volte:
prima nuotando e poi rimanendo sedute ad asciugarci», aggiunse Betriz, in tono quasi sognante.
«Non c’è qualche dama che possa insegnare a Lady Iselle a nuotare?» insistette Cazaril.
«Nessuna delle mie dame sa nuotare», dichiarò la Provincara.
«Si limitano a camminare nell’acqua bassa», annuì Betriz, a titolo di conferma. Quindi sollevò lo sguardo e lo appuntò su Cazaril. «Non potreste insegnarci voi a nuotare, Lord Caz?»
«Oh, sì!» esclamò Iselle, battendo le mani.
«Io… ecco…» balbettò lui, preso in contropiede. Tuttavia rifletté che, essendo in compagnia di due dame, poteva tenere addosso la camicia senza suscitare commenti. «Suppongo di sì…» disse allora. «Certo, se le vostre dame ci accompagnassero e col consenso di vostra nonna…» E guardò la Provincara.
Seguì un’altra, lunga pausa di silenzio.
«Badate a non prendere tutti un raffreddore», acconsentì infine la Provincara, con riluttanza.
Saggiamente, Iselle e Betriz si trattennero dal lanciare grida di trionfo, ma scoccarono a Cazaril occhiate così scintillanti di gratitudine da indurlo a chiedersi se fossero convinte che la storia di quell’annegamento notturno non fosse stata solo una sua invenzione.
Le lezioni cominciarono quello stesso pomeriggio, con Cazaril nel centro del fiume, impegnato a convincere due giovani donne, alquanto irrigidite dalla paura, che non sarebbero annegate nell’istante stesso in cui si fossero bagnate i capelli. Il suo timore di aver esagerato nelle ammonizioni per salvaguardare la loro sicurezza si placò a mano a mano che le due giovani si rilassarono, imparando a lasciarsi sorreggere dall’acqua. Per loro, inoltre, era più facile che per Cazaril, il cui fisico appariva ancora molto asciutto, sebbene i mesi trascorsi presso la Provincara, mangiando alla sua tavola, avessero rimediato almeno in parte alla sua eccessiva magrezza.
La sua pazienza venne ben presto premiata. Entro la fine dell’estate le due ragazze furono in grado di nuotare e di tuffarsi come due lontre, mentre lui se ne rimaneva seduto nell’acqua bassa, immerso fino alla cintura, offrendo di tanto in tanto qualche suggerimento.
La posizione adottata non dipendeva soltanto dal desiderio di mantenersi fresco. Doveva ammettere che la Provincara aveva avuto ragione nel sostenere che nuotare era un’attività lasciva: quelle sottili camiciole di lino, una volta bagnate, aderivano ai giovani corpi delle due dame, facendosi beffe della modestia che cercavano di preservare e creando un effetto che lui evitava accuratamente di rivelare alle due damigelle, indifferenti a tutto, tranne che a rinfrescarsi e a divertirsi. La cosa peggiore, però, era che si trattava di un effetto a doppio taglio, in quanto i calzoni di lino fradici che gli aderivano ai lombi rivelavano uno stato mentale e fisico… Sì, insomma, un rifiorire, della sua salute che lui sperava sinceramente di far passare inosservato. Iselle non pareva essersi accorta di nulla, ma lui non si sentiva altrettanto certo che la cosa fosse sfuggita a Betriz; quanto all’anziana dama di compagnia, Nan dy Vrit, che aveva rifiutato le lezioni e preferiva passeggiare nell’acqua bassa con le gonne sollevate fino ai polpacci, era evidente che non le era sfuggito assolutamente nulla. D’altro canto, la dama sembrava abbastanza caritatevole da pensare che lui non avesse cattive intenzioni, ed evitava di ridere apertamente o di fare commenti in merito con la Provincara… almeno per quanto ne sapeva lui.
Cazaril era inoltre sgradevolmente consapevole del fatto che il fascino esercitato su di lui da Betriz aumentava di giorno in giorno. Ma non era certo arrivato al punto d’infilare poesie anonime sotto la sua porta, conservando un brandello di sanità mentale di cui non poteva che rendere grazie agli Dei. Per sua fortuna, le lesioni subite gli impedivano altresì di andare a suonare il liuto sotto le finestre della ragazza… Tuttavia, nel corso di quella lunga e tranquilla estate vissuta a Valenda, nel suo animo era riaffiorata la capacità di pensare a una vita che andasse al di là del semplice girarsi di una clessidra.
Betriz gli sorrideva ed era gentile nei suoi confronti, ma Cazaril non intendeva farsi illusioni e si diceva spesso che la ragazza si comportava nello stesso modo col suo cavallo. La sua onesta e amabile cortesia non era certo un terreno adatto a costruire un castello di speranze, e tantomeno di aspettative più concrete, eppure… lei continuava a sorridergli.
Cazaril aveva già cercato di cancellare quei pensieri, ma essi continuavano ad affiorare… insieme con altre cose. E purtroppo ciò accadeva soprattutto durante le lezioni di nuoto. D’altro canto, lui aveva rinunciato a ogni ambizione, deciso com’era a non coprirsi di ridicolo più di quanto non avesse già fatto. Se pure quel risveglio dei sensi poteva essere il segno di una ritrovata salute, a cosa poteva mai servirgli? Lui era privo di averi e di possedimenti, proprio come lo era stato al tempo in cui serviva come paggio in quella stessa casa. E le sue speranze, rispetto a quell’epoca, erano davvero pochissime… Sì, era folle da parte sua coltivare sogni passionali o amorosi. Tuttavia il padre di Betriz era di buona famiglia, ma privo di terre, e prestava servizio presso la famiglia della Provincara, dunque non avrebbe disprezzato un uomo costretto — dalle necessità della vita — a fare le sue stesse scelte.
No, certo, dy Ferrej era troppo saggio per nutrire disprezzo nei suoi confronti, e lo era abbastanza da sapere che sua figlia, grazie alla sua bellezza e alla sua amicizia con la Royesse, poteva aspirare a un partito migliore di un nullatenente come Cazaril o dei figli di nobili minori che prestavano servizio come paggi presso la Provincara. A giudicare dal suo comportamento, Betriz vedeva quei ragazzi soltanto come cuccioli irritanti, ma senza dubbio alcuni di essi avevano fratelli maggiori, eredi di piccole tenute…
Quel giorno, Cazaril si lasciò scivolare nell’acqua fino al mento e socchiuse gli occhi, fingendo di non osservare le manovre di Betriz, mentre lei si arrampicava su una roccia, la camiciola di lino grondante quanto i capelli neri, l’acqua che colava sulle curve provocanti. Protendendo le braccia verso il cielo, Betriz si lasciò cadere nell’acqua a faccia in giù, schizzando Iselle che s’immerse con uno strillo e prese a schizzarla a sua volta. Cazaril pensò che le giornate si stavano accorciando, le notti si erano fatte più fredde e anche la temperatura pomeridiana aveva cominciato ad abbassarsi. La festa per celebrare l’ascesa del Figlio dell’Autunno si stava avvicinando. Già la settimana precedente aveva fatto troppo freddo per nuotare e, con ogni probabilità, i giorni abbastanza caldi da consigliare quelle escursioni al fiume sarebbero stati ormai pochissimi. Ben presto, le due dame si sarebbero dedicate di nuovo a passatempi più… asciutti, come cacce e galoppate, e il suo buon senso sarebbe tornato ad affiorare. Almeno così lui si augurava.
Quel giorno, il progressivo abbassarsi del sole e il raffreddarsi dell’aria indussero i bagnanti a uscire dall’acqua prima del solito, per asciugarsi sulle rive sassose del fiume. Mentre aspettavano che gli abiti smettessero di grondare, Cazaril era così rilassato da non avere, per una volta, voglia d’imporsi; non cercò neppure d’indurre le ragazze a chiacchierare in darthacano o in roknari. Dopo qualche tempo, infine si riscosse e s’infilò i pesanti calzoni da equitazione e gli stivali nuovi, dono della Provincara, affibbiandosi alla vita la cintura con la spada, poi procedette a stringere la cinghia della sella dei cavalli intenti a pascolare e a rimuovere le pastoie, aiutando infine le due dame a montare. Con riluttanza, voltandosi più volte a guardare in direzione della piccola radura che ospitava la polla, il gruppetto si avviò su per la collina, diretto al castello.
Sulla spinta di un impulso improvviso, Cazaril spronò il cavallo in modo da affiancarlo a quello di Betriz, che gli scoccò un’occhiata in tralice, accompagnata da un fugace sorriso. Una volta accanto a lei, tuttavia, Cazaril scoprì di non sapere che cosa dire, per mancanza di coraggio o per carenza d’inventiva, o più probabilmente per entrambi i motivi. Lui e Lady Betriz prestavano entrambi servizio presso Lady Iselle e, se un suo maldestro tentativo di corteggiamento fosse stato male accolto, la cosa avrebbe danneggiato la familiarità creatasi tra loro, quell’armonia che li aiutava a svolgere i loro compiti al servizio della Royesse. Vincendo le proprie esitazioni, Cazaril infine decise che bisognava dire qualcosa… ma proprio in quel momento il cavallo di Betriz scattò in avanti al trotto nell’avvistare il portone del castello, e quel prezioso, fugace istante passò.
Nel momento stesso in cui entrarono nel cortile, che risuonò cupamente del rumore degli zoccoli sull’acciottolato, Teidez sbucò a precipizio da una porta laterale. «Iselle! Iselle!» chiamò, a gran voce.
Nel vedere che la tunica e i calzoni del ragazzo erano schizzati di sangue, Cazaril portò immediatamente la mano alla spada. Subito dopo, però, scorse la figura cupa e impolverata di dy Sanda dietro il suo giovane protetto e la ritrasse. L’aspetto di Teidez era soltanto il risultato di una sessione di addestramento nel mattatoio, e la causa delle sue grida non era l’orrore, bensì l’esaltazione, come dimostrava la gioia sul suo volto rotondo, sollevato verso la sorella.
«Iselle, è successa una cosa meravigliosa! Prova a indovinare?»
«Come faccio a indovinare…» cominciò la Royesse, ridendo.
Con un gesto d’impazienza, Teidez si affrettò a riferire la portentosa notizia. «È appena arrivato un corriere del Roya Orico. Tu e io abbiamo l’ordine di presentarci a lui a corte, quest’autunno, a Cardegoss! E la mamma e la nonna non sono state invitate! Iselle, finalmente riusciremo a fuggire da Valenda!»
«Andremo al castello di Zangre?» gridò Iselle, ululando di gioia, poi scivolò giù di sella e afferrò le mani insanguinate del fratello, vorticando con lui in mezzo al cortile, mentre Betriz si appoggiava in avanti sulla sella e osservava la scena, le labbra socchiuse in un’espressione eccitata ed entusiasta.
Alle spalle delle ragazze, la dama di compagnia contrasse invece la bocca in una smorfia di preoccupazione e, nel guardare dy Sanda, Cazaril constatò che anche il volto del tutore appariva cupo e accigliato.
Fu soltanto un momento più tardi, afferrando le conseguenze che quella notizia aveva per lui, che Cazaril sentì un nodo allo stomaco. Alla Royesse Iselle era stato ordinato di recarsi a corte, il che significava che il suo piccolo seguito l’avrebbe accompagnata a Cardegoss, compresi la sua dama di compagnia, Lady Betriz e… il suo segretario.