19

Il giorno successivo, Cazaril ebbe l’impressione che lo Zangre fosse pervaso di una quiete quasi spettrale. Dopo la morte di Dondo, la corte era stata in allarme, certo, ma si era altresì abbandonata a sussurrati pettegolezzi. Adesso, invece, non circolavano più neppure i sussurri, tutti coloro che non avevano doveri immediati da compiere si tenevano alla larga, e chi aveva un incarico cui non poteva sottrarsi provvedeva a svolgerlo il più in fretta possibile, mantenendo un silenzio carico di apprensione.

Iselle e Betriz trascorsero la giornata nella Torre di Ias, assistendo Sara e Orico. All’alba, Cazaril e il siniscalco, cupo in volto, sovrintesero alla cremazione e alla sepoltura delle carcasse degli animali. Poi, per il resto della giornata, Cazaril cercò di mettere un po’ di ordine nel caos che imperava sulla sua scrivania, ma andò anche alcune volte all’ospedale del Tempio, dove Umegat era sempre nelle stesse condizioni, grigiastro in volto e col respiro affaticato. Dopo la seconda visita, si fermò al Tempio vero e proprio e si prostrò in preghiera davanti a tutti e cinque gli altari. Se davvero era rimasto contagiato da quella strana malattia chiamata santità, si disse, allora che quel suo stato servisse almeno a qualcosa…

Gli Dei non concedono miracoli per i nostri scopi, ma per i loro, aveva detto Umegat. Era proprio vero? Secondo Cazaril, un accordo del genere avrebbe dovuto essere bilaterale: cosa avrebbero potuto fare gli Dei, se le persone avessero smesso di offrire la loro volontà per metterli in condizione di operare miracoli? Per prima cosa, morirei sul colpo, si rispose. Rimase prostrato a lungo davanti all’altare della Signora della Primavera, senza però riuscire a trovare parole di preghiera… Era per un senso di abbattimento, di vergogna, o di disperazione? Comunque fosse, che pregasse o rimanesse zitto, tutti e cinque gli Dei risposero alle sue suppliche soltanto con un assoluto silenzio.

Nel risalire a passo lento la collina, incrociò dy Joal e un altro dei bravacci al soldo di dy Jironal, che stavano entrando a Palazzo Jironal. Soltanto allora rammentò l’insistenza di Palli perché non andasse in giro da solo. Nel vederlo, dy Joal chiuse la mano intorno all’impugnatura della spada, ma si trattenne dall’estrarla, e l’incontro si concluse con un cauto cenno di saluto da ambo le parti.

Tornato nel suo studio, Cazaril si massaggiò la fronte dolorante e prese a riflettere sul problema del matrimonio di Iselle. Il Royse Bergon di Ibra sarebbe stato un pretendente valido al pari di qualsiasi altro — e forse migliore di molti altri -, ma il tumulto scoppiato alla corte di Chalion rendeva impossibile avviare negoziati. Bisognava ricorrere al più presto all’invio di un corriere segreto. Cercò di capire chi, tra i cortigiani, sarebbe stato adatto per una missione diplomatica di quella portata, ma non ne trovò nessuno di cui fidarsi. Poi vagliò l’elenco, ancora più ristretto, degli uomini di cui si fidava, e non individuò nessun diplomatico. Umegat era ferito, l’Arcidivino non poteva certamente partire in segreto… Rimaneva Palli, il March dy Palliar. Se non altro, aveva un rango tale da poter esigere rispetto alla corte di Ibra. Cazaril provò a immaginare l’onesto e diretto Palli nell’atto di trattare con la Volpe di Ibra per stipulare le complesse e intricate clausole del contratto matrimoniale di Iselle, e si lasciò sfuggire un gemito. Forse, se Palli fosse stato inviato a Ibra con un elenco d’istruzioni estremamente dettagliato ed esplicito… Bisogna fare di necessità virtù, si disse infine, decidendo di affrontare l’argomento con Palli l’indomani stesso.


Quella sera, prima di andare a dormire, Cazaril s’inginocchiò accanto al letto e pregò che gli venisse risparmiato l’incubo che lo aveva tormentato per tre notti di fila e cioè Dondo che cresceva nel suo ventre fino a raggiungere dimensioni normali e si apriva un varco a colpi di spada, vestito con gli indumenti indossati durante il rito funebre. Forse la Signora diede ascolto alla sua supplica… Cazaril si svegliò all’alba, con la testa e il cuore che pulsavano per un nuovo incubo, nel quale Dondo aveva risucchiato la sua anima al posto della propria e si era impadronito del suo corpo, scatenando poi la propria bramosia nell’alloggio delle dame, mentre lui era costretto ad assistere, impotente. Con sgomento, mentre giaceva ansimante nella luce grigia dell’alba, lottando per ritrovare la presa sulla realtà, Cazaril si rese conto che il suo corpo era in uno stato d’intensa eccitazione.

Ma Dondo era davvero sigillato in una prigione buia, isolato dal mondo e dalle sensazioni, oppure stava viaggiando dentro di lui, trasformandosi di volta in volta in una spia e un guardone? Da quando si era posto quella domanda, Cazaril si era convinto che non avrebbe più amato una dama. Adesso, immaginando quello spettrale rapporto a quattro, col demone e con Dondo come ospiti nascosti e sgraditi, fu percorso da un brivido. Gli venne in mente che poteva sfuggire a quella situazione gettandosi dalla finestra, insinuando le spalle nella stretta apertura e lanciandosi nel vuoto verso una rapida fine. Oppure poteva tagliarsi i polsi o la gola, squarciarsi il ventre. E perché non tutte e tre le cose?

Si sollevò a sedere di scatto, sbattendo le palpebre, e scoprì che una mezza dozzina di spettri gli si era raccolta intorno. Avevano un’aria smaniosa, con le forme indistinte che si accalcavano come avvoltoi intorno alla carcassa di un cavallo. Con un sibilo, scattò in avanti e agitò il braccio per sparpagliare quelle presenze, chiedendosi però se una di esse potesse rianimare un corpo la cui testa era stata fracassata. Stando all’Arcidivino, una cosa del genere era possibilissima, il che significava che quelle spettrali sentinelle sbarravano la via di fuga offerta dal suicidio. Spaventato all’idea di riprendere sonno, Cazaril si alzò dal letto e, con mosse incespicanti, provvide a lavarsi e a vestirsi.

Di lì a poco, rientrando da una frugale colazione, venne raggiunto sulle scale da un’affannata Nan dy Vrit, che gli disse: «La mia signora vi prega di raggiungerla immediatamente».

Annuendo, Cazaril riprese a salire, ma, quando accennò a oltrepassare il terzo piano, Nan lo richiamò. «Non nelle sue camere… In quelle del Royse Teidez.»

«Oh», commentò lui, inarcando le sopracciglia, poi svoltò nel corridoio e oltrepassò la propria stanza per raggiungere, tallonato da Nan, l’appartamento di Teidez. Al suo ingresso nell’anticamera-studio, identica a quella delle camere di Iselle, al piano superiore, sentì subito alcune voci provenire dalle stanze interne, quella di Iselle sommessa e quella di Teidez alta e irosa.

«Non voglio niente da mangiare, e non voglio vedere nessuno! Vattene!»

Il salotto era ingombro di un assortimento di armi, abiti e doni; avanzando a fatica in mezzo a quella confusione, Cazaril raggiunse la camera di Teidez. Il giovane era a letto, ancora in camicia da notte. L’aria afosa e umida della stanza sapeva di sudore giovanile, misto a un altro sentore aspro meno identificabile; il segretario-tutore di Teidez stava a lato del letto, con aria ansiosa, e Iselle era sull’altro lato, con le mani piantate sui i fianchi.

«Voglio rimettermi a dormire, andatevene», stava protestando Teidez, preso tra due fuochi. Nel sollevare lo sguardo, si accorse di Cazaril e sussultò, puntando un dito verso di lui ed esclamando: «Soprattutto, non voglio vedere lui qui!»

«Adesso smettetela con questi capricci, giovane signore», intervenne Nan dy Vrit, secca e pragmatica. «Sapete benissimo che non dovete parlare in questo modo alla vecchia Nan.»

Un po’ intimidito, Teidez mutò di colpo atteggiamento. «Mi fa male la testa», gemette.

«Nan, porta una luce», ordinò Iselle. «Cazaril, voglio che diate un’occhiata alla gamba di Teidez, che a me pare molto strana.»

Nan sollevò un candelabro con due candele per rafforzare la pallida luce diurna che entrava dalla finestra; Teidez si strinse le coperte contro il petto, ma non osò opporsi alla sorella maggiore che, trapassandolo con lo sguardo, gli strappò di mano le coltri e le ripiegò.

Tre solchi paralleli, coperti da una crosta, descrivevano una spirale lungo la gamba destra del ragazzo; di per sé, le ferite non apparivano profonde o pericolose, ma la carne intorno a esse era talmente gonfia che la pelle risultava lucida e semitrasparente; dai tagli, poi, filtravano pus e un siero rosato. Sgomento, Cazaril si costrinse a rimanere impassibile mentre osservava le striature rosse che salivano oltre il ginocchio del ragazzo, verso l’interno della coscia, notando nel contempo che Teidez aveva gli occhi troppo lucidi e un po’ vitrei.

«Non mi toccate!» strillò il ragazzo, ritraendo di scatto la testa, quando Cazaril protese una mano verso di lui.

«State fermo», gli ingiunse però lui, con voce bassa e decisa, accostando il polso alla fronte di Teidez: era rovente. «Da quanto tempo ha la febbre?» chiese, sollevando lo sguardo sul segretario-tutore, che stava osservando la scena con aria preoccupata.

«Solo da stamattina, credo.»

«Quand’è stata l’ultima volta che un medico gli ha controllato la gamba?»

«Non ha voluto vedere un medico, Lord Cazaril. Io ho cercato di aiutarlo, ma mi ha scagliato contro una sedia e si è bendato da sé.»

«E voi glielo avete permesso?» ringhiò Cazaril, strappando un sussulto a quell’ometto pallido.

«Ho obbedito ai suoi ordini», si schermì il segretario, scrollando le spalle con crescente disagio.

«Alcune persone mi obbediscono», borbottò Teidez. «E saprò ricordarmi di loro.» Poi scoccò un’occhiata di fuoco a Cazaril e indirizzò una smorfia alla sorella.

«È insorta un’infezione», disse il Castillar. «Provvederò perché dal Tempio gli mandino subito un medico.»

Contrariato, Teidez strisciò di nuovo sotto le coperte. «Adesso posso tornare a dormire?» piagnucolò. «Sempre che non vi dispiaccia… e tirate le tende, perché la luce mi fa dolere gli occhi.»

«Sì, rimanete a letto», ribatté Cazaril, lasciando la stanza.

Iselle lo seguì nell’anticamera. «Non è in buone condizioni, vero?» chiese a bassa voce.

«No, non lo è, Royesse», confermò Cazaril. «Siete un’attenta osservatrice, e la vostra valutazione si è rivelata esatta.» Inchinatosi in risposta a un cenno di assenso di Iselle, si diresse verso le scale; nel passare accanto a Nan dy Vrit, notò la sua espressione ombrosa e ne dedusse che almeno lei era consapevole dell’effettiva gravità della situazione. In fretta, scese le scale e attraversò il cortile, diretto alla Torre di Ias. Riusciva a pensare soltanto ai pochissimi casi in cui gli era capitato di vedere un uomo — anche giovane e in forze — sopravvivere a un’amputazione della gamba all’altezza della coscia.

Per pura fortuna, rintracciò immediatamente dy Jironal, che si trovava nella Cancelleria, impegnato a sigillare una borsa di dispacci e a consegnarla a un corriere.

«Come sono le strade?» chiese il Cancelliere al corriere, un individuo snello e muscoloso che indossava il tabarro della Cancelleria sopra un assortimento d’indumenti di lana.

«Fangose, mio signore. Cavalcare col buio potrebbe essere rischioso.»

«Fa’ del tuo meglio», sospirò dy Jironal, assestando una pacca sulla spalla del corriere, che salutò e uscì, passando accanto a Cazaril.

«Cazaril», lo salutò dy Jironal, fissandolo con espressione accigliata.

«Mio signore», rispose l’altro, con un accenno d’inchino, entrando nella stanza.

«Sapete, il vostro tentativo di nascondervi dietro l’Ordine della Figlia, nel suo complotto per spodestarmi, è destinato a fallire. Ed è mia intenzione fare in modo che il suo fallimento sia totale», disse dy Jironal, in tono colloquiale, sedendosi sul bordo della scrivania e incrociando le braccia sul petto.

Cazaril accantonò quelle minacce con un gesto d’impazienza. D’altronde non si era mai illuso che dy Jironal non avesse una spia in seno ai consigli dell’Ordine. «Stamattina, mio signore, avete problemi ben più gravi di quelli che io potrei causarvi», ribatté.

L’altro dilatò appena gli occhi in un’espressione sorpresa, inclinando il capo con aria improvvisamente attenta.

«Che aspetto aveva la ferita di Teidez, l’ultima volta che l’avete vista?» domandò Cazaril.

«Quale ferita? Lui non mi ha mostrato nessuna ferita.»

«È sulla gamba destra… Il leopardo di Orico lo ha graffiato prima che lui lo uccidesse. I graffi non sembravano profondi, ma adesso si sono infettati e lui brucia di febbre. Avete presente il modo in cui una ferita infetta genera striature rosse sulla pelle?»

«Sì», annuì dy Jironal, sempre più a disagio.

«Quelle di Teidez vanno dalla caviglia all’inguine, e sono rosse come il fuoco.»

Dy Jironal si lasciò sfuggire una violenta imprecazione.

«Il mio consiglio è richiamare la schiera di medici che si stanno inutilmente occupando di Orico e inviarla nelle camere di Teidez… Altrimenti potreste perdere due delle vostre regali marionette in un’unica settimana.»

Dy Jironal gli scoccò un’occhiata torva, ma, dopo aver tratto un profondo respiro, si limitò ad annuire, staccandosi dalla scrivania e uscendo subito dalla stanza, seguito da Cazaril. Per quanto corrotto dall’avidità e dall’orgoglio familiare, dy Jironal non era certo un incompetente, e Cazaril non faticava a comprendere perché Orico avesse tollerato tante cose, pur di avere un braccio destro così abile.

Dopo essersi accertato che dy Jironal stesse salendo il più in fretta possibile le scale che portavano alle camere del Roya, Cazaril decise di andare a controllare di nuovo le condizioni di Umegat, dato che non aveva più avuto notizie dal Tempio dalla sera precedente. Con sua sorpresa, però, nell’oltrepassare il portone dello Zangre, passando accanto al nefasto cortile delle stalle, notò il piccolo stalliere privo della lingua che stava risalendo la collina; quando lo vide, l’ometto prese ad agitare le mani prive dei pollici e accelerò il passo, arrivando fino a lui ansimando, ma col sorriso sulle labbra. Il suo volto, soprattutto intorno a un occhio, era segnato da scuri lividi, conseguenza della vana lotta a difesa del serraglio, il naso rotto era ancora gonfio e lacerato, però i suoi occhi scintillavano di gioia.

«Hai l’aria felice», osservò Cazaril. «Umegat si è forse svegliato?»

L’ometto annuì vigorosamente, e lui si concesse un sorriso di sollievo.

Lo stalliere borbottò poi una serie di parole indistinte e gorgoglianti; pur riuscendo a comprenderne una su quattro, Cazaril dedusse che l’ometto aveva un compito urgente da assolvere. Segnalandogli di aspettarlo, lo stalliere entrò nel serraglio silenzioso e buio, uscendone qualche minuto più tardi con un sacchetto legato alla cintura e agitando allegramente un libro. Cazaril comprese allora che Umegat non si era soltanto svegliato, ma si sentiva anche abbastanza bene da desiderare il suo libro preferito… Il quintuplice sentiero dell’anima, notò, perplesso.

Lieto di avere la compagnia dell’ometto, Cazaril si avviò con lui verso la città e, lungo il tragitto, si sorprese a riflettere sui segni di martirio che quell’uomo esibiva con tanta indifferenza, benché fossero le silenziose testimonianze di una tortura orribile, subita nel nome del suo Dio. La sua sofferenza e il suo terrore erano durati un’ora, un giorno oppure mesi? E quel suo aspetto vagamente grassoccio dipendeva dalla castrazione o era soltanto una conseguenza dell’età avanzata? Naturalmente, Cazaril non poteva chiedere allo stalliere di narrargli la sua storia, considerato che già gli riusciva difficile decifrare le poche parole che scambiava con lui. A pensarci bene, non sapeva neppure se fosse originario di Chalion, di Ibra o di Brajar oppure se fosse un roknari, né aveva idea di come fosse giunto a Cardegoss o del tempo da lui trascorso al servizio di Umegat. Osservando lo stalliere, che stava camminando con passo spedito, il libro stretto sotto il braccio e una luce intensa nello sguardo, Cazaril si convinse comunque che quello era l’aspetto che avevano i fedeli, eroici e amati servitori degli Dei.

Trovarono Umegat seduto sul letto, appoggiato ai cuscini, pallido in volto e col cuoio capelluto sollevato lungo la sutura. Aveva i capelli arruffati, le labbra screpolate e le guance non rasate. Frugando nel sacco, lo stalliere tirò fuori il necessario per radersi e lo agitò davanti a Umegat, che fece un pallido sorriso. Poi il roknari guardò Cazaril, si sfregò gli occhi e mise a fuoco lo sguardo con aria incerta.

«Come ti senti?» domandò Cazaril, deglutendo a fatica.

«Mi fa male la testa», rispose Umegat. E, dopo un momento, chiese: «Le mie splendide creature sono tutte morte?» La voce suonò bassa e un po’ impastata, la lingua parve intorpidita, però lui sembrava lucido.

«Quasi tutte. Un uccellino giallo e azzurro è riuscito a salvarsi e adesso è di nuovo al sicuro nella sua gabbia. Non ho permesso a nessuno di tenere trofei e li ho fatti cremare tutti, come soldati caduti. Ieri, l’Arcidivino Mendenal si è incaricato di trovare alle loro ceneri un luogo d’onore ove possano riposare.»

Umegat annuì, poi sussultò e serrò le labbra screpolate.

Cazaril lanciò un’occhiata di sottecchi all’ometto, pensando che di certo sapeva la verità, poi riportò lo sguardo su Umegat. «Sai che hai smesso di risplendere?»

«Lo… sospettavo», ammise Umegat. «Se non altro, adesso faccio meno fatica a guardare te.»

«La seconda vista ti è stata tolta?»

«La seconda vista ormai è superflua, per me… Sono vivo, dunque è evidente che la mano della Signora continua a sorreggermi», ribatté Umegat. «Ho sempre saputo che essa mi era stata concessa soltanto per un certo periodo… Finché è durata, è stata un’esperienza interessante. Davvero interessante», ripeté, con la voce ridotta a un sussurro, poi distolse il volto e aggiunse: «Avrei tollerato che mi venisse tolta come mi era stata data, ma vedermela strappare in questo modo… Dovevo immaginare che sarebbe successa una cosa del genere».

Gli Dei avrebbero dovuto avvertirti… pensò Cazaril.

Il piccolo stalliere, che aveva colto la nota dolorosa nella voce di Umegat, prese il libro e lo offrì al roknari a mo’ di consolazione.

Umegat, quasi intenerito, lo prese e commentò: «Se non altro, ho la mia vecchia professione su cui ripiegare, giusto?» Poi aprì il volume e abbassò lo sguardo su di esso. Un momento più tardi, però, il suo sorriso svanì. «Che razza di scherzo è questo?» chiese con voce tagliente.

«Di quale scherzo parli, Umegat? Quello è il tuo libro. Io stesso ho visto che lo andava a prendere nel serraglio…» garantì Cazaril.

«Che lingua è questa?» insistette Umegat, lottando per sollevarsi a sedere.

«Ibrano, naturalmente», rispose Cazaril, lanciando un’occhiata sulla pagina da sopra la sua spalla.

Umegat prese a sfogliare il libro con dita tremanti, lo sguardo che si spostava a scatti sulle righe e il respiro che accelerava. Sembrava atterrito «Sono… segni senza senso, semplici chiazze d’inchiostro. Cazaril!» gemette.

«È ibrano, Umegat, puro e semplice ibrano.»

«Si tratta dei miei occhi, di qualcosa dentro di me…» mormorò il roknari, serrandosi il volto e sfregandosi gli occhi, poi d’un tratto scoppiò in singhiozzi. «Oh, Dei, sono stato punito!»

«Presto, chiama il medico!» ingiunse Cazaril allo spaventato stalliere, che annuì e si affrettò a uscire.

Rimasto solo, Cazaril cercò con mosse impacciate di aiutare Umegat, battendogli un colpetto sulla spalla, assestando le pagine del libro, che lui stava quasi strappando nella stretta convulsa delle proprie dita, e finendo poi per togliergli di mano il volume. Le difese di Umegat, che avevano resistito fino a quel momento, crollarono e la crisi si manifestò in tutta la sua violenza. Sconfitto, il roknari si abbandonò, tremante, a singhiozzi convulsi.

Dopo lunghi, terribili minuti di attesa, giunse finalmente il medico. La donna dai capelli bianchi fece di tutto per consolare Umegat, il quale si aggrappò alle sue mani con improvvisa speranza, quasi ostacolandolo nello svolgimento del suo lavoro. Con calma, il medico gli spiegò che molti uomini e donne colpiti da paralisi miglioravano nell’arco di pochi giorni; sostenne di aver visto pazienti che, dopo essere stati trasportati a braccia all’ospedale, ne erano usciti con le loro gambe in pochissimi giorni… Grazie a quelle parole, Umegat gradualmente si calmò. Recuperare una certa compostezza richiese peraltro tutta la sua forza di volontà: ulteriori controlli effettuati dal medico, dopo aver inviato un Devoto di passaggio a prelevare alcuni volumi nella biblioteca dell’Ordine, rivelarono infatti che non era più in grado di leggere neppure il roknari o il darthacano, e che le sue mani avevano perso la capacità di usare la penna per tracciare parole in qualsiasi lingua.

Lasciando cadere la penna dalle dita, Umegat si nascose di nuovo il volto tra le mani. «Sono stato punito», gemette. «La mia gioia e il mio rifugio mi sono stati tolti.»

«Le persone possono reimparare cose che hanno dimenticato», suggerì il medico, in tono un po’ esitante. «Inoltre, non hai perso la capacità di capire le parole che ti vengono dette, e neppure quella di riconoscere le persone a te note. Sono cose che ho visto succedere ad alcuni pazienti. Comunque qualcuno potrebbe leggerti i libri ad alta voce…»

Lo sguardo di Umegat incontrò quello dello stalliere, fermo in disparte col libro di Ordol in mano. Premendosi un pugno sulla bocca, il vecchio emise uno strano verso di gola, una sorta di gemito di pura disperazione, e le lacrime presero a colargli lungo le guance segnate. Sbuffando, Umegat scosse il capo. Vedendo il proprio dolore riflesso in quel volto, si protese a stringere la mano dello stalliere nella propria e si fece coraggio. «Avanti, calmati. Non trovi che adesso facciamo proprio una bella coppia?» sospirò, accasciandosi di nuovo contro i cuscini. «Non si può certo dire che il Bastardo non abbia senso dell’umorismo…» Infine chiuse gli occhi, forse per la stanchezza o forse per il desiderio di escludere il mondo intero.

Guardandolo, Cazaril si disse che non poteva certo porgli la domanda che tanto lo opprimeva: Umegat, cosa dobbiamo fare? Il roknari non era in condizione di fare nulla, tantomeno di fornirgli indicazioni o di pregare. Non si azzardò neppure a chiedergli di pregare per Teidez.

A poco a poco, il respiro di Umegat si fece più profondo e regolare, e lui scivolò in un sonno irrequieto. Badando a non fare rumore, l’anziano stalliere depose il necessario per la rasatura sul comodino e si dispose ad attendere che Umegat si svegliasse; quanto al medico, dopo aver preso qualche annotazione lasciò la stanza, e Cazaril lo seguì nella galleria sovrastante il cortile; a causa del gelo, la fontana che lo decorava non buttava acqua e il poco liquido sul fondo appariva scuro e sporco nella grigia luce invernale.

«È stato davvero punito?» domandò infine.

«Come faccio a saperlo?» ribatté la donna, massaggiandosi il collo con un gesto pieno di stanchezza. «Le ferite alla testa sono le più strane di tutte. Una volta, una donna, i cui occhi parevano del tutto sani, è diventata cieca per un colpo alla nuca. Ho visto persone perdere l’uso della parola, il controllo di soltanto una metà del corpo… Si è trattato di una punizione?

Se sì, ciò significa che gli Dei sono malvagi, ma io non posso crederlo. No, secondo me si tratta del caso.»

Io invece credo che gli Dei trucchino i dadi, pensò Cazaril. Avrebbe voluto incitarla a prendersi la massima cura di Umegat, ma era evidente che lo stava già facendo, e lui non voleva dare l’impressione di dubitare del suo talento o della sua dedizione. Si congedò con un saluto cortese e andò in cerca dell’Arcidivino, per renderlo edotto della ferita di Teidez.

Trovò l’Arcidivino Mendenal nel Tempio, vicino all’altare della Madre, intento a celebrare una cerimonia di benedizione per la moglie e la figlia neonata di un ricco mercante, e fu costretto ad attendere che la famiglia avesse consegnato un’offerta di ringraziamento e fosse uscita, prima di potersi avvicinare e riferirgli la notizia. Impallidendo, Mendenal si avviò immediatamente alla volta dello Zangre.

Di recente, Cazaril aveva sviluppato una nuova, sconvolgente concezione riguardo all’efficacia e alla pericolosità della preghiera, ma si prostrò comunque sulla pietra, davanti all’altare della Madre, pensando a Ista… Se esisteva una speranza di misericordia per Teidez, indotto a un violento sacrilegio da Dondo, la Madre di certo poteva dimostrare un po’ di compassione per sua madre Ista. Dopotutto, il messaggio che la Dea gli aveva inviato, il giorno precedente, tramite il sogno della sua Accolita, era parso misericordioso. Certo, poteva anche trattarsi di una semplice e brutale indicazione pratica, tuttavia… Prostrato sul pavimento lucido, Cazaril avvertiva con chiarezza la massa letale presente nel suo ventre, uno sgradevole nodulo che pareva grosso quanto due dei suoi pugni.

Quando infine si decise a rialzarsi, si recò all’antico, angusto Palazzo Yarrin in cerca di Palli. Un servitore lo accompagnò in una stanza sul retro, dove Palli era seduto a un piccolo tavolo, intento a tracciare annotazioni su un registro. All’ingresso di Cazaril, però, lui si affrettò a posare la penna e a segnalargli di accomodarsi sulla sedia di fronte alla sua.

Non appena il servitore chiuse la porta, Cazaril si protese in avanti. «Palli… In caso di necessità, potresti recarti in segreto a Ibra, come corriere per conto della Royesse Iselle?»

«Quando?» domandò l’altro, inarcando le sopracciglia.

«Presto.»

«Se con ’presto’ intendi ’adesso’, temo di non poterlo fare», replicò Palli, scuotendo il capo. «Sono molto preso dai miei doveri di Lord Devoto e ho promesso a dy Yarrin la mia voce e il mio voto, in seno al consiglio.»

«Potresti affidare la delega col tuo voto per dy Yarrin a un compagno fidato», suggerì Cazaril.

Palli si limitò ad accarezzarsi il mento rasato, emettendo un borbottio di perplessità.

Per un momento, Cazaril pensò di proclamare la propria condizione di santo della Figlia e di far valere la propria autorità su Palli, dy Yarrin e l’intero Ordine militare della Figlia. Una cosa del genere avrebbe però richiesto complicate spiegazioni, rendendo altresì necessario divulgare il segreto della maledizione di Fonsa. Inoltre lo avrebbe costretto non solo ad ammettere la sua… particolare malattia, ma anche a spiegarne le cause: era stato toccato dagli Dei, anzi devastato dagli Dei… E quello lo avrebbe fatto sembrare anche più folle di Ista. «Credo che questo possa riguardare la Figlia», mormorò allora.

«Come fai a dirlo?» domandò Palli, incredulo.

«Lo so e basta.»

«Ebbene, io non lo so.»

«Aspetta, ho trovato la soluzione. Stanotte, prima di dormire, prega che ti. venga fornita una guida nel decidere.»

«Io? Perché non lo fai tu?»

«Le mie notti sono già… impegnate.»

«E da quando in qua credi nei sogni profetici? Ho sempre pensato che li considerassi vere assurdità, un modo per ingannare se stessi o per credersi importanti.»

«Si tratta di una conversione recente. Ascoltami, Palli, prova a farlo, a titolo di esperimento… per compiacere me, se non altro.»

«Per te, posso farlo», si arrese Palli, poi assunse un’espressione accigliata, e proseguì: «Quanto al resto… Andare a Ibra? E a chi dovrei tenere segreto il mio viaggio, già che ci siamo?»

«Soprattutto a dy Jironal.»

«Davvero? La cosa potrebbe interessare a dy Yarrin. Ritieni che gliene possa derivare qualche vantaggio?»

«Non in modo diretto… La cosa dovrà essere tenuta segreta anche a Orico.»

Palli si appoggiò allo schienale della sedia e inclinò il capo di lato. «Astuto Caz», disse poi, abbassando la voce. «Quale sorta di cappio ti stai offrendo di porre intorno al mio collo? Si tratta di un tradimento?»

«Peggio», sospirò Cazaril. «Si tratta di teologia.»

«Eh?»

«A proposito…» Cazaril si premette la sella del naso, cercando di capire se la sua emicrania stava peggiorando. «Informa dy Yarrin che le sue riunioni vengono riferite da una spia a dy Jironal… Anche se forse lui se n’è già accorto da solo.»

«Di male in peggio», osservò Palli. «Stai dormendo a sufficienza, Caz?»

«No», rispose lui, con un’aspra, amara risata.

«Ti sei sempre comportato in modo strano quando sei stanco. Comunque, non intendo andare da nessuna parte unicamente sulla scorta di qualche accenno oscuro…»

«Se deciderai di partire, ti verranno fornite tutte le informazioni necessarie.»

«In tal caso, quando sarò adeguatamente informato, deciderò il da farsi.»

«Mi sembra giusto», sospirò Cazaril. «Ne parlerò alla Royesse. Non volevo proporle un uomo che potesse venirle meno.»

«Ehi!» protestò dy Palliar, indignato. «Quando mai ti sono venuto meno?»

«Mai, Palli, ed è stato per questo che ho pensato a te», sorrise Cazaril, poi si alzò con un piccolo grugnito di dolore. «Ora devo tornare allo Zangre.» In breve, descrisse all’amico il pericoloso sviluppo subito dalla ferita di Teidez.

«Quanto è grave?» chiese Palli, facendosi di colpo serio.

«Io non…» cominciò Cazaril, ma la cautela intervenne a temperare la sua franchezza. «Teidez è giovane, forte e ben nutrito… Non vedo perché non dovrebbe sconfiggere questa infezione.»

«Per i cinque Dei, Caz, lui è la speranza della sua Casa. Cosa ne sarà di Chalion, se non dovesse farcela? E proprio adesso che anche Orico è malato!»

«Orico… Non stava bene già da tempo, ma sono certo che dy Jironal non avrebbe mai immaginato che tutti e due potessero trovarsi in un simile stato contemporaneamente… Puoi far notare a dy Yarrin che nei prossimi giorni il nostro Cancelliere sarà assai impegnato: se i Lord Devoti vogliono agire alle sue spalle e avvicinare Orico per fargli firmare qualcosa, questa potrebbe essere la loro migliore occasione.»

Cazaril riuscì a sottrarsi alla pioggia di considerazioni riversatagli addosso da Palli, ma non al suo ordine di prendere con sé i fratelli dy Gura come scorta. Mentre risaliva con passo stanco la collina, le sue riflessioni su come salvare Iselle dalla rovina della sua Casa maledetta si trasformarono nella pura e semplice determinazione a non crollare al suolo davanti a quei due giovani, compunti ufficiali, finendo per essere trascinato al castello con le braccia intorno alle loro spalle.


Il corridoio del terzo piano del corpo principale del castello era affollato di medici dalla veste verde e di Accoliti che fungevano loro da assistenti; al loro via vai, si aggiungeva quello dei servitori che portavano acqua, lenzuola, coperte e strane bevande in brocche d’argento. Mentre Cazaril indugiava, dubitando di potersi rendere utile, l’Arcidivino emerse dall’anticamera e si avviò lungo il corridoio.

«Vostra Reverenza, come sta il ragazzo?» domandò Cazaril, posando una mano sulla manica a cinque colori del prelato.

«Ah, Lord Cazaril», mormorò l’Arcidivino. «Il Cancelliere e la Royesse mi hanno fatto cospicue elargizioni allo scopo di ottenere preghiere per la sua salute, e sto andando a provvedere.»

«Credete che le preghiere serviranno a qualcosa?»

«La preghiera è sempre uno strumento positivo», dichiarò Mendenal.

No, non è vero, avrebbe voluto ribattere Cazaril, ma preferì tacere.

«E le vostre preghiere potrebbero essere di particolare utilità», continuò Mendenal, abbassando la voce.

«Vostra Reverenza, in tutto il mondo non c’è uomo che io odi abbastanza da volergli infliggere le conseguenze delle mie preghiere», replicò Cazaril.

«Ah», commentò Mendenal, a disagio, poi si sforzò di sorridere e si congedò.

In quel momento, la Royesse Iselle uscì nel corridoio. Guardandosi intorno, scorse Cazaril e gli fece cenno di raggiungerla.

«Royesse?» salutò lui, inchinandosi.

«Si parla di amputazione», mormorò la giovane. Sembrava che quel giorno tutti fossero inclini a sussurrare. «Potreste… Sareste disposto… a tenerlo fermo, se si dovesse arrivare a questo? Ho ragione di pensare che questa procedura non vi sia ignota, vero?»

«Senza dubbio, Royesse», annuì Cazaril, sentendo affiorare ricordi terribili. Negli ospedali da campo, aveva spesso cercato invano di stabilire se, per gli assistenti, fosse più difficile tenere fermi gli uomini che affrontavano l’amputazione con coraggio o invece quelli che cedevano al terrore. «Riferite ai medici che sono al loro servizio, e a quello del Royse Teidez.»

Appoggiatosi al muro dell’anticamera, in attesa di un’eventuale convocazione, sentì formulare la proposta a Teidez. Il ragazzo entrò di diritto nella categoria dei pazienti atterriti: si mise a urlare, tuonando che non si sarebbe lasciato trasformare in uno storpio da una massa di traditori e d’idioti e prese a scagliare oggetti da tutte le parti. Il suo crescente isterismo si placò soltanto quando un secondo medico gli comunicò che l’infezione non era segno della cancrena — una diagnosi che Cazaril condivise, sebbene si basasse solo sul suo olfatto -, ma piuttosto di un avvelenamento del sangue, per cui un’amputazione avrebbe causato più danno che beneficio. Si procedette quindi a una semplice incisione della ferita, anche se, a giudicare dagli strilli e dalle contorsioni di Teidez, sembrò proprio che gli stessero tagliando la gamba. Ma la febbre del ragazzo continuò a salire. Allora, sistemata nel salotto una tinozza di rame piena di acqua fredda, toccò ai medici costringere Teidez a immergersi.

Dal momento che tra medici, Accoliti e servitori parevano esserci mani a sufficienza per assolvere quei compiti pratici, Cazaril si ritirò per qualche tempo nel proprio studio, al piano superiore, dove cercò di svagarsi scrivendo lettere taglienti a quei consigli cittadini che erano in ritardo col pagamento delle rendite dovute alla Royesse, e cioè ai consigli di tutte e sei le città a lei assegnate. Invece del denaro, erano infatti giunte lettere di scusa nelle quali, a pretesto di quel ritardo, si adducevano la scarsità dei raccolti, il banditismo, la peste, il clima ostile e la corruzione degli esattori. Cazaril si chiese se Orico non avesse approfittato del dono di nozze per rifilare alla sorella e a Dondo le sei città che più gli davano grattacapi, o se invece tutta Chalion non versasse nello scompiglio.

Dopo un po’, Iselle e Betriz rientrarono nei loro alloggi. «Non ho mai visto mio fratello stare così male», confidò Iselle a Cazaril. «Intendiamo approntare il mio altare privato e pregare prima di cena… anche se forse dovremmo corroborare la preghiera col digiuno.»

«Non c’è bisogno di preghiere di altre persone, ma di quelle dello stesso Teidez… E lui non dovrebbe chiedere la guarigione, bensì il perdono», dichiarò lui.

«Teidez si rifiuta di pregare», replicò Iselle, scuotendo il capo. «Dice che non è stata colpa sua, ma di Dondo, il che è senza dubbio vero, almeno fino a un certo punto. Sostiene di non aver mai voluto fare del male a Orico e aggiunge che, se qualcuno lo sostiene, è un calunniatore.»

«Qualcuno sta sostenendo una cosa del genere?»

«Nessuno osa dirlo davanti alla Royesse, ma, secondo Nan, tra i servitori circolano strane voci», interloquì Betriz.

«Cazaril… È possibile che sia vero?» chiese Iselle, accigliandosi.

«Penso che non lo sia, da parte di Teidez», replicò Cazaril, appoggiando i gomiti sul tavolo e massaggiandosi la fronte dolente. «Quando afferma che è stata un’idea di Dondo, credo sia sincero… Sul conto di Dondo sarei pronto a credere a qualsiasi cosa. Provate a esaminare la cosa dal suo punto di vista: lui sposa la sorella di Teidez, poi organizza le cose in modo che Teidez salga al trono quand’è ancora minorenne. Dopotutto, osservando suo fratello, Dondo doveva essersi reso conto di quanto potere derivasse dal godere del favore del Roya. Non so in che modo avesse intenzione di liberarsi di Martou, ma sono certo che mirava a diventare Cancelliere o reggente di Chalion o addirittura Roya, a seconda del genere d’incidenti che sarebbero capitati a Teidez.»

«E io pensavo che voi aveste salvato soltanto me…» commentò Iselle, stringendo il labbro inferiore tra i denti. Quindi, dopo aver posato una mano sulla spalla di Cazaril, scomparve nelle camere interne.

Quella sera, prima di cena, Cazaril accompagnò Iselle e Betriz da Orico. Trovarono il Roya, apparentemente stabile, seduto nel letto rifatto di fresco, mentre Sara gli leggeva qualcosa. Orico riferì di un certo miglioramento all’occhio destro, sostenendo di vedere ombre che si muovevano. Ma Cazaril rifletté che probabilmente i medici avevano avuto ragione, quando avevano parlato d’idropisia: il corpo già gonfio del Roya pareva essersi dilatato ancora di più e, se gli si premeva un pollice sul volto grasso, l’impronta rimaneva visibile per parecchio tempo. Nel parlare con Orico, Iselle minimizzò le voci sull’infezione di Teidez, ma, una volta in anticamera, ne parlò in tutta franchezza con Sara. Serrando le labbra, la Royina si trattenne dal fare commenti, ma Cazaril pensò che da lei non sarebbero di certo giunte preghiere per quel ragazzo fuorviato e brutale.

Verso mezzanotte, incapace di dormire per timore delle consuete «visite» notturne, Cazaril si avviò di nuovo lungo il corridoio, verso le camere di Teidez. Il medico che lo aveva in cura, e che intendeva svegliarlo per somministrargli una medicina, non era riuscito a riscuotere il ragazzo dal sonno.

Immediatamente, Cazaril sali al piano di sopra, per riferire quello sviluppo all’assonnata Nan dy Vrit.

«Non c’è nulla che Iselle possa fare al riguardo», ribatté Nan. «Quella povera ragazza si è appena assopita… non possiamo lasciarla dormire?»

«No», rispose Cazaril, dopo un istante di esitazione.

Fu così che le due stanche e preoccupate giovani dame si vestirono di nuovo e scesero nel salotto di Teidez, dove sopraggiunse di lì a poco anche il Cancelliere dy Jironal, richiamato a corte dal suo palazzo. Al suo ingresso, dy Jironal scoccò un’occhiata accigliata a Cazaril e rivolse un inchino a Iselle.

«Royesse… Questo non è posto per voi», disse quindi. O per te, sembrò aggiungere, a giudicare dallo sguardo acido con cui trapassò Cazaril.

«Nessuno ha più diritto di me di essere qui», ribatté Iselle, in tono pacato e dignitoso, pur socchiudendo minacciosamente gli occhi. «Né un più grande dovere, se per questo. Devo essere testimone degli eventi per conto di mia madre.»

Dy Jironal sembrò sul punto di ribattere, ma probabilmente decise di rimandare quello scontro di volontà a un momento e un luogo diversi… E senza dubbio in futuro ci sarebbero state molte opportunità.

Le compresse fredde non riuscirono ad abbassare la febbre di Teidez, le punture stimolanti con gli aghi non lo riscossero minimamente dal suo torpore. Gli assistenti furono poi gettati nel panico da una breve crisi respiratoria, in seguito alla quale il suo respiro divenne ancora più roco e affaticato di quanto non lo fosse stato quello di Umegat. Nel corridoio, un quintetto di cantori, uno per ciascuno dei cinque Ordini, intonò un coro di preghiera, con le voci che si fondevano in una melodia echeggiante che era un commovente, splendido sfondo agli orribili suoni che giungevano dalla camera del malato.

Durante una pausa del canto, Cazaril si rese conto che il respiro affaticato proveniente dalla camera interna era cessato. Il silenzio parve allargarsi a macchia d’olio. Di lì a poco, uno degli assistenti dei medici, pallidissimo e col volto rigato di lacrime, uscì nell’anticamera e convocò dy Jironal e Iselle in qualità di testimoni. Per qualche istante, dalla camera di Teidez giunse un mormorio di voci sommesse.

Al loro ritorno in anticamera, i due erano pallidissimi. Dy Jironal sembrava così sconvolto che Cazaril comprese come lui, sino alla fine, si fosse aspettato di vedere Teidez riprendersi e guarire. Iselle, invece, era quasi inespressiva e l’ombra nera che la circondava era diventata più fitta e ribollente.

Al suo apparire, tutti i presenti, si girarono verso di lei, come aghi di bussola attirati dal nord: la royacy di Chalion aveva una nuova Erede.

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