16

Due pomeriggi più tardi, Cazaril era seduto alla propria scrivania, intento ad appuntire le sue penne, quando un paggio dello Zangre entrò nell’anticamera-studio. «Il Devoto Rojeras è qui, mio signore, in obbedienza agli ordini della Royesse Iselle», annunciò.

Rojeras era sulla quarantina, coi capelli color sabbia che cominciavano ad assottigliarsi sulla fronte, con le guance punteggiate di lentiggini e acuti occhi azzurri; quanto al suo mestiere, era facilmente deducibile dalle vesti verdi, proprie di un Devoto laico dell’Ospedale della Misericordia della Madre del Tempio di Cardegoss, che frusciavano a ogni passo deciso. Il suo rango di maestro era poi indicato dalla treccia cucita sulla spalla. Rendendosi immediatamente conto che quella visita non poteva essere per una delle due dame — in tal caso avrebbero inviato una donna -, Cazaril s’irrigidì, ma rivolse al Devoto un cortese cenno di saluto, prima di alzarsi per riferire della sua presenza nelle stanze interne. Con sua sorpresa, tuttavia, vide Betriz e Iselle già in attesa vicino alla porta con aria tutt’altro che stupita e un sorriso di saluto sulle labbra.

«Questo è l’uomo di cui ti ho parlato, Royesse», affermò Betriz, rispondendo con una riverenza al profondo inchino del Devoto. «Il Divino anziano della Madre afferma che si è specializzato nello studio delle malattie da consunzione. Apprendisti giungono da ogni parte di Chalion per essere istruiti da lui!»

La visita che Lady Betriz aveva fatto al Tempio il giorno precedente non aveva dunque comportato soltanto preghiere e offerte. Sembrava che Iselle avesse più talento per le cospirazioni di corte di quanto Cazaril avrebbe mai supposto, considerato che era riuscita a tendergli quella trappola senza che lui si accorgesse di nulla. Di fronte a quell’imboscata a fin di bene, Cazaril si costrinse a sfoggiare un sorriso carico di tensione, lottando per nascondere i propri timori; dopotutto, quell’uomo era privo di qualsiasi traccia di quella luminescenza visibile soltanto mediante la seconda vista, quindi era improbabile che riuscisse a dedurre la verità da una semplice visita medica.

«Devoto Rojeras, provvedete per favore a visitare il mio segretario, poi venite a riferirmi tutto», disse Iselle, con aria soddisfatta, dopo aver squadrato il medico da capo a piedi.

«Royesse, non ho bisogno di vedere un medico!» protestò Cazaril. In effetti, e soprattutto, non voleva che un medico vedesse lui.

«In tal caso, avremo sprecato tutti un po’ del tempo che gli Dei ci concedono quotidianamente», ribatté Iselle. «Cazaril, vi ordino di andare col Devoto, se non volete perdere il mio favore.» La nota di determinazione che le vibrava nella voce era inconfondibile.

Lui imprecò contro Palli, sia perché aveva messo quell’idea in testa a Iselle, sia perché le aveva insegnato come bloccargli ogni via di fuga. Come sempre, la Royesse si era dimostrata molto rapida nell’apprendimento. Adesso però lui era in trappola, e tuttavia… il medico avrebbe diagnosticato la presenza di un miracolo, oppure non avrebbe notato nulla. Se avesse scoperto la verità, Cazaril poteva appellarsi a Umegat, lasciando che provvedesse lui, grazie ai contatti che aveva all’interno del Tempio, a risolvere il problema. Se poi il medico non avesse scoperto nulla, la visita si sarebbe conclusa con un nulla di fatto.

Cazaril s’inchinò in segno di obbedienza, lasciando però intuire che si sentiva offeso, e precedette il suo sgradito visitatore lungo le scale e verso la propria camera. Su incarico di Iselle, Betriz li segui fino alla soglia e, quando Cazaril entrò nella stanza e si girò per chiudere la porta, lei gli scoccò un rapido sorriso di scuse. Ma i suoi occhi tradivano l’ansia.

Il medico lo fece sedere vicino alla finestra e procedette a controllargli le pulsazioni e a esaminargli occhi, orecchie e gola, poi gli chiese di urinare e annusò il contenuto del pitale, versandone un po’ in un tubo di vetro e scrutandolo. Quindi domandò a Cazaril come funzionasse il suo intestino e lui, sia pure con riluttanza, dovette ammettere di aver avuto qualche perdita di sangue. A quel punto, il medico lo fece spogliare e sdraiare e, per alcuni minuti, lui sopportò in silenzio Rojeras che gli controllava il cuore e i polmoni, premendogli un orecchio contro il petto, procedendo poi a sondargli svariati punti del corpo con una rapida pressione delle dita fredde. Cazaril dovette altresì spiegare come si fosse procurato le cicatrici causate dalla fustigazione. Rojeras gli offrì alcuni raccapriccianti suggerimenti su come liberarsi delle aderenze rimaste, posto che lui volesse sottoporsi a quelle procedure e le affrontasse con coraggio. Pensando che avrebbe preferito di gran lunga un’altra caduta da cavallo, Cazaril oppose un rifiuto, cui il medico reagì con una risatina divertita. Il suo sorriso però si spense quando riprese a sondare il ventre di Cazaril in maniera più completa e profonda, tastando e premendo in svariati punti. «Qui vi fa male?» chiese.

«No», rispose Cazaril, deciso a porre fine a quella visita.

«E se faccio così?» insistette Rojeras. La sua pressione strappò un grido di dolore a Cazaril. «Ah, allora c’è del dolore…» mormorò il medico. Seguirono altre pressioni e altri sussulti, poi Rojeras s’immobilizzò per qualche tempo, la punta delle dita appoggiata sul ventre di Cazaril e lo sguardo perso nel vuoto, riscuotendosi infine con un sobbalzo… Un modo di fare che a Cazaril ricordò stranamente quello di Umegat.

Mentre Cazaril si rivestiva, Rojeras continuava a sorridere, ma nei suoi occhi si scorgeva l’ombra di un dubbio.

«Avanti, Devoto, parlate pure», lo incitò Cazaril. «Sono un uomo razionale, e non andrò in pezzi, qualsiasi cosa mi diciate.»

«Davvero? Bene», replicò Rojeras, con un profondo sospiro. «Mio signore, avete un tumore che risulta chiaramente individuabile al tatto.»

«Allora… si tratta di questo», commentò Cazaril, rimettendosi a sedere con mosse caute.

«La cosa non vi sorprende?» domandò Rojeras, sollevando lo sguardo di scatto.

Non quanto mi ha sorpreso l’ultima diagnosi che mi hanno fatto, si disse Cazaril, pensando con malinconia a quale sollievo sarebbe stato per lui apprendere che i ricorrenti crampi al ventre avevano una causa così naturale e normale, anche se letale. Purtroppo era del tutto certo che la maggior parte dei tumori non urlava oscenità nel cuore della notte contro le persone che ne erano afflitte. «Già da qualche tempo avevo ragione di pensare che qualcosa non andava», rispose, badando a mantenere un tono di voce neutrale. «Cosa comporta però questo tumore? Cosa credete che accadrà?»

«Ecco…» cominciò Rojeras, sedendosi sul bordo del letto e intrecciando le dita. «Ci sono molti tipi di tumore. Alcuni sono diffusi, altri sono compatti, o incapsulati, alcuni uccidono in fretta e altri rimangono presenti per anni senza quasi dare problemi. Il vostro sembra essere incapsulato, il che ci lascia qualche speranza. Ne esiste un genere abbastanza comune, una specie di cisti che si riempie di liquido… Una donna da me curata è sopravvissuta per oltre dodici anni.»

«Oh», mormorò Cazaril, con un sorriso rincuorato.

«Quando infine è morta, la cisti aveva raggiunto un peso di oltre cinquanta chili», aggiunse però il medico e, senza badare al sussulto disgustato di Cazaril, proseguì: «C’è poi un’altra, più interessante, forma di rumore, che ho visto solo due volte in tutti i miei anni di studio… Una massa rotonda che, una volta aperta, conteneva forme di carne, complete di denti, capelli e ossa. Una di esse era nel ventre di una donna, il che poteva quasi avere senso, ma l’altra era nella gamba di un uomo. La mia teoria è che quelle masse siano generate da demoni sfuggiti al controllo, i quali hanno cercato di assumere una forma umana. Se fosse riuscito nel suo intento, quel demone si sarebbe aperto un varco a morsi e sarebbe entrato nel nostro mondo con una forma fisica, senza dubbio abominevole. Desideravo da tempo trovare un altro tumore del genere in un paziente ancora vivo, in modo da poterlo studiare e da verificare la validità della mia teoria». E scrutò Cazaril, che si trattenne a stento, e col massimo sforzo, dal balzare in piedi urlando.

Abbassò poi lo sguardo sul proprio ventre gonfio e si affrettò subito a distoglierlo; fino a quel momento, aveva pensato che la sua afflizione fosse spirituale, non fisica, e non gli era mai venuto in mente che essa avesse entrambe le forme: quella era un’intrusione del sovrannaturale nel mondo fisico… Un’intrusione fin troppo plausibile, considerati i fatti. «Anche questi tumori arrivano a pesare cinquanta chili?» riuscì a chiedere, con voce soffocata.

«I due che ho estirpato erano molto più piccoli», gli garantì Rojeras.

«Allora lo potete rimuovere?» domandò Cazaril, sollevando uno sguardo pieno di speranza.

«Sì… ma solo da un cadavere», spiegò il medico, con aria contrita.

«Ma… si può fare?» insistette Cazaril. Supponendo che un uomo fosse abbastanza coraggioso da offrirsi al bisturi e che quell’abominio potesse essere estratto con la brutale rapidità di un’amputazione… era dunque possibile rimuovere fisicamente un miracolo, quando esso era fatto di carne?

«Su un braccio o una gamba… forse», ribatté Rojeras, scuotendo il capo. «In quel punto… Siete un soldato e di certo avete visto cosa succede alle ferite al ventre che s’infettano. Anche se riusciste a sopravvivere alla sofferenza dell’operazione, la febbre vi ucciderebbe senza dubbio nell’arco di pochi giorni. Ci ho provato tre volte e solo perché i pazienti avevano minacciato di uccidersi, se non lo avessi fatto. Sono morti tutti, e non intendo uccidere in quel modo altre brave persone, quindi non vi tormentate con simili idee, disperate quanto impraticabili. Vivete ciò che vi rimane come meglio potete, e pregate.»

È stata la preghiera che mi ha messo in questa situazione… o, per meglio dire, che ha messo questa situazione dentro di me, pensò Cazaril. «Non lo dite alla Royesse!» esclamò.

«Mio signore, devo farlo», replicò il medico.

«Ma io non posso… non ora… lei non deve congedarmi e confinarmi a letto! Non posso lasciarla sola!» protestò Cazaril, con una nota di panico nella voce.

«La vostra fedeltà vi fa onore, Lord Cazaril», dichiarò Rojeras, inarcando le sopracciglia. «Ora però calmatevi. Non c’è motivo che vi mettiate a letto se non quando ne sentirete l’effettiva necessità. Anzi un lavoro leggero, come il vostro servizio, appunto, potrebbe tenervi la mente occupata e dare serenità alla vostra anima.»

«Informatela pure», replicò Cazaril con un profondo respiro. Poi decise di non infrangere le piacevoli illusioni che il medico nutriva in merito al suo servizio presso la Casa di Chalion e disse: «A patto che mettiate bene in chiaro che non devo essere allontanato dal mio posto».

«D’accordo… Ma rendetevi conto che ciò non vi autorizza a stancarvi eccessivamente», ribatté il medico, severo. «È evidente che avete bisogno di più riposo di quanto ne abbiate avuto negli ultimi tempi.»

Cazaril si affrettò ad annuire, cercando di mostrarsi obbediente e pieno di energie.

«C’è un’altra cosa importante», riprese Rojeras, muovendosi come se fosse sul punto di congedarsi. «Ve lo chiedo soltanto perché, come voi stesso avete affermato, siete un uomo razionale.»

«Sì?» mormorò Cazaril, guardingo.

«Quando morirete — cosa che preghiamo avvenga il più tardi possibile — posso chiedervi di lasciare un messaggio che mi autorizzi a estrarre il vostro tumore, per la mia collezione?»

«Collezionate simili orrori?» commentò Cazaril, con una smorfia, ma combattuto tra l’indignazione e la curiosità. «La maggior parte degli uomini si accontenta di collezionare dipinti, vecchie spade o statuette d’avorio. Ditemi… Come li conservate?»

«In vasi pieni di distillato di vino», spiegò Rojeras, con un sorriso accompagnato da un imbarazzato rossore. «So che può sembrare macabro, ma continuo a sperare che, se arriverò a saperne abbastanza, un giorno capirò questa malattia e troverò un modo per impedire a queste escrescenze di uccidere le persone.»

«Non pensate che siano un dono oscuro degli Dei e che, come atto di fede, non possiamo opporci a essi?»

«Ci opponiamo alla cancrena, a volte con l’amputazione; ci opponiamo alle infezioni alla mandibola, estraendo il dente marcio; ci opponiamo alla febbre, mediante compresse calde e fredde, e cure assidue… Per ogni terapia dev’esserci stata una prima volta», ribatté Rojeras. «È evidente che la Royesse Iselle nutre per voi molto affetto e una grande stima.»

«Sono al suo servizio fin dalla primavera scorsa, a Valenda», replicò Cazaril, non sapendo che altro dire. «E in precedenza ho servito la famiglia di sua nonna.»

«Non è incline a crisi isteriche, vero? A volte, le nobildonne sono…» Rojeras esitò, imbarazzato.

«No, nessuno lo è, nella sua famiglia», rispose Cazaril. «Di certo, però, non è necessario che informiate lei e Lady Betriz, angustiandole quand’è ancora… presto.»

«È ovvio che devo farlo», obiettò il medico, peraltro in tono gentile, alzandosi. «Come può la Royesse valutare quale sia la linea d’azione da seguire, se non dispone delle informazioni necessarie?»

Il medico aveva ragione. Cazaril lo seguì di nuovo al piano di sopra, con aria pensosa e turbata; nel sentire il rumore dei loro passi, Betriz si affacciò prontamente sulla soglia. «Si rimetterà?» domandò subito a Rojeras.

«Aspettate un momento, mia signora», replicò il medico, sollevando una mano.

Tutti e tre passarono nel salotto della Royesse, dove Iselle attendeva sul suo seggio intagliato, le mani serrate in grembo. Cazaril non desiderava assistere alla scena, ma nel contempo voleva sentire cosa si sarebbe detto, quindi si lasciò cadere sulla sedia che Betriz gli aveva avvicinato con fare ansioso e che Iselle gli stava indicando, dopo aver risposto all’inchino del medico con un cenno del capo. Quanto a Rojeras, essendo in presenza della Royesse, rimase in piedi come segno di rispetto.

«Mia signora… Il vostro segretario è affetto da un tumore al ventre», disse, inchinandosi ancora a Iselle, per scusarsi della propria brutalità.

La giovane lo fissò, sconvolta, e il viso di Betriz si tinse di un pallore mortale.

«Non è prossimo a morire, vero?» domandò poi Iselle, deglutendo a fatica e scoccando un’occhiata piena di timore a Cazaril.

Di fronte al suo sgomento, Rojeras non se la sentì di proseguire sulla linea della franchezza e fece ricorso a un atteggiamento più diplomatico. «La morte giunge per tutti, in maniera diversa, ed esula dalle mie capacità prevedere per quanto tempo ancora Lord Cazaril continuerà a vivere…» Poi scorse con la coda dell’occhio lo sguardo intenso e supplichevole del Castillar e aggiunse, in tutta sincerità: «Non c’è motivo per cui lui non debba continuare a svolgere il suo dovere di segretario finché si sentirà abbastanza bene… A patto che voi non lo stanchiate eccessivamente, ovvio. Col vostro permesso, gradirei tornare a visitarlo ogni settimana».

«Certo», assentì Iselle, con voce fievole.

Dopo qualche altro consiglio in merito all’alimentazione cui Cazaril doveva attenersi e al riposo che doveva concedersi, Rojeras si congedò.

«Non credevo che fosse… Lo avevi intuito quando… Cazaril, non voglio che voi moriate!» farfugliò Betriz, con voce soffocata, gli occhi scuri velati di lacrime.

«Neppure io voglio morire, quindi siamo in due a pensarla nello stesso modo», ribatté lui.

«Siamo in tre», intervenne Iselle. «Cazaril… cosa possiamo fare per voi?»

Nulla, pensò lui. Poi però colse quell’occasione per assicurarsi che il suo problema rimanesse segreto. «Una cosa ci sarebbe», rispose con fermezza. «Vi pregherei di non discutere della mia malattia con ogni fomentatore di pettegolezzi del castello. Il mio più grande desiderio è infatti che questa cosa rimanga privata per… tutto il tempo che sarà possibile mantenerla tale.» Di lì a poco, dy Jironal sarebbe tornato a Cardegoss e, non avendo scoperto nulla, poteva anche decidere di riesaminare la questione del cadavere mancante… Se avesse appreso che Cazaril aveva sviluppato una malattia letale, avrebbe potuto fare nuove ipotesi riguardo alla morte del fratello.

Iselle accettò la sua richiesta con un lento cenno di assenso e gli permise di tornare nell’anticamera. Ma Cazaril non riuscì a concentrarsi di nuovo sui libri mastri. Per ben tre volte — la prima su richiesta della Royesse e le altre due di propria iniziativa -, Lady Betriz entrò in punta di piedi per chiedergli se aveva bisogno di qualcosa. Infine Cazaril reagì, annunciando che avrebbe tenuto una lezione di grammatica, materia troppo a lungo trascurata. Se le due dame non intendevano lasciarlo in pace, allora avrebbe sfruttato nel modo migliore la loro volontà di tenergli compagnia. Per tutto il pomeriggio, le sue allieve furono quanto mai composte, obbedienti e disciplinate… Tutte cose che Cazaril aveva sempre incoraggiato e che tuttavia, in quel giorno, non apprezzò affatto. Anzi sperò che si trattasse di un fenomeno passeggero.

Le due ragazze se la cavarono comunque piuttosto bene, anche quando lui le sottopose a una lunga esercitazione sui modi grammaticali del roknari di corte. L’atteggiamento deciso del Castillar rese evidente il suo desiderio di non diventare oggetto di compassione da parte delle due dame, un desiderio che le giovani avevano comunque già intuito. Entro la fine del pomeriggio, ripresero a trattarlo in maniera quasi normale, proprio come lui voleva, anche se Betriz continuò a mantenere un’espressione cupa.

Alla fine, Iselle si alzò e si mise a passeggiare per la stanza, soffermandosi a contemplare dalla finestra la gelida nebbia invernale che riempiva il burrone sottostante le mura dello Zangre. «Il lavanda non è colore che mi si addica», commentò in tono lamentoso, sfregandosi distrattamente una manica. «Sembra la tinta di un livido. C’è troppa morte a Cardegoss… vorrei non essere mai venuta qui.»

Ritenendo poco diplomatico assentire, Cazaril si limitò a inchinarsi e si congedò, andando a prepararsi per la cena.


Quella settimana, i primi fiocchi di neve caddero sulle strade e sulle mura di Cardegoss, ma si sciolsero subito nel tepore pomeridiano. Palli continuò a tenere informato Cazaril sull’arrivo degli altri Lord Devoti, che si stavano infiltrando in città l’uno dopo l’altro, e si fece ragguagliare da lui in merito ai pettegolezzi che circolavano nel castello. Quel loro comportamento era di reciproco aiuto e di fiducia reciproca, ma, secondo Cazaril, creava anche una doppia breccia nelle mura che entrambi, in teoria, contribuivano a difendere. D’altro canto, se avesse dovuto scegliere con chi schierarsi, se col Tempio o col castello, lui sapeva che ne sarebbe uscito comunque sconfitto.

Dy Jironal, accompagnato da Teidez, tornò nella capitale

sulle ali di un freddo vento di sud-est, che rovesciò sulla città una sgradita tempesta di nevischio. Tornò a mani vuote, con notevole sollievo di Cazaril, apparentemente frustrato nel suo tentativo di portare a termine quell’impresa di giustizia e di vendetta. A giudicare dall’espressione indecifrabile del suo volto, però, era impossibile stabilire se dy Jironal fosse rientrato perché disperava di coronare la sua caccia con un successo oppure perché le sue spie si erano affrettate a raggiungerlo per riferirgli che in città si stavano radunando forze che non erano state da lui convocate.

Teidez fece ritorno al suo alloggio con aria stanca, cupa e infelice, cosa che non sorprese affatto Cazaril. Individuare ogni decesso verificatosi nelle circostanti tre province durante la notte in cui era morto Dondo era stato di certo un compito sinistro, reso ancor più sgradevole dal clima invernale.

Nel periodo in cui era stato abbagliato dalle attenzioni di cui Dondo lo aveva fatto oggetto, Teidez aveva trascurato la compagnia della sorella maggiore, ma quel pomeriggio, quando si recò in visita nelle sue stanze, accettò e ricambiò il suo abbraccio, mostrandosi più desideroso di parlare con lei di quanto lo fosse stato da parecchio tempo. Ritiratosi nell’anticamera per discrezione, Cazaril sedette alla scrivania coi libri mastri aperti davanti a sé, giocherellando con la penna su cui l’inchiostro si stava asciugando. Da quando Orico aveva assegnato a Iselle la rendita di sei città come dono di nozze — dono che non era stato revocato allorché il matrimonio era stato sostituito da un funerale -, la contabilità e la corrispondenza di cui Cazaril si occupava erano diventate molto più complesse.

Mentre rifletteva, Cazaril ascoltò distrattamente, attraverso la porta aperta, le giovani voci dei due fratelli. Teidez descriveva il proprio viaggio a beneficio della sorella, interessata a ogni dettaglio; parlava delle strade fangose, dei cavalli affaticati, degli uomini tesi e irritabili, del cibo scadente e degli alloggi gelidi. Iselle gli fece notare come quell’esperienza costituisse un’eccellente esercitazione per future campagne militari invernali e, nella sua voce, c’era una nota più d’invidia che di compassione. Nessuno dei due, tuttavia, fece cenno al motivo di quel viaggio. Teidez era ancora sconcertato e offeso per la veemenza con cui Iselle aveva respinto il suo defunto eroe; Iselle sembrava riluttante a esporre al fratello i particolari più grotteschi su cui si fondava la sua avversione.

Oltre a essere rimasto sconvolto dall’improvviso e orribile assassinio di Lord Dondo, Teidez probabilmente era stato uno dei pochi che aveva pianto sinceramente la sua morte… E perché mai non avrebbe dovuto, considerato che Dondo lo aveva adulato e lusingato, facendolo sentire più importante di quanto non fosse? Dondo lo aveva ricoperto di doni e gli aveva offerto ogni genere d’intrattenimento… Certo, alcuni di quegli svaghi erano tragicamente inadatti alla sua età, ma Teidez, giovane com’era, come poteva rendersi conto che i vizi degli adulti non avevano nulla a che vedere con gli onori a essi tributati?

In confronto a Dondo, il maggiore dei due fratelli dy Jironal era probabilmente sembrato a Teidez un compagno freddo e indifferente. La spedizione si era lasciata alle spalle una scia rovinosa, generata dalla progressiva frustrazione di dy Jironal. Le indagini si erano fatte via via sempre più affrettate e brutali. La cosa peggiore, però, era un’altra: dy Jironal, pur avendo un bisogno disperato di Teidez, non era riuscito a nascondere la scarsa simpatia nei suoi confronti e lo aveva affidato ai suoi guardiani — il segretario-tutore, le guardie e i servitori -, trattandolo come un’appendice piuttosto che come un luogotenente. Da ciò che Teidez diceva, era chiaro che quell’avversione era ormai reciproca, ma fondata su una serie di motivi sbagliati. Nel suo racconto, poi, si capiva che il nuovo segretario-tutore non aveva ripreso a curare la sua istruzione dal punto in cui dy Sanda si era interrotto.

Fu Nan dy Vrit a porre fine alla visita, avvertendo i due giovani che era ora di prepararsi per la cena. A passo lento, Teidez attraversò l’anticamera, contemplandosi gli stivali con aria accigliata; ultimamente, il giovane Royse si era fatto alto quasi come il fratellastro Orico e, sebbene il suo corpo fosse ancora muscoloso, il volto rotondo lasciava supporre che potesse diventare altrettanto grasso. Voltate a casaccio le pagine del libro mastro che aveva davanti, Cazaril tornò a intingere la penna nell’inchiostro e sollevò lo sguardo con un sorriso esitante. «Come state, mio signore?» domandò.

Teidez rispose con una scrollata di spalle, ma, arrivato a metà della stanza, si girò di scatto e tornò verso la scrivania di Cazaril, con un’espressione stanca e turbata. Tamburellando sul piano di legno, il giovane abbassò lo sguardo sui mucchi di registri e di documenti. Cazaril incrociò le mani e gli scoccò un’occhiata interrogativa, per incoraggiarlo a parlare.

«A Cardegoss c’è qualcosa che non va, vero?» chiese infine Teidez.

Le cose che non andavano, a Cardegoss, erano così tante che Cazaril non seppe come interpretare quelle parole. «Cosa v’induce a pensarlo?» replicò quindi, con cautela.

«Orico è malato, e non governa come dovrebbe», precisò Teidez, abbozzando uno strano, piccolo gesto troncato sul nascere. «Dorme troppo, quanto un vecchio, ma non è così anziano. Inoltre tutti dicono che ha perso la sua…» Arrossendo, Teidez fece un gesto ancora più vago del precedente. «Be’, sapete cosa intendo… Non si può comportare con una donna come un uomo dovrebbe fare. Non vi è mai venuto da pensare che ci sia qualcosa d’inquietante, in questa sua strana malattia?»

«Siete un acuto osservatore, Royse», temporeggiò Cazaril.

«Anche la morte di Lord Dondo è stata inquietante. Io credo che queste cose siano collegate.»

E ragazzo sta cominciando a riflettere. Bene! «Dovreste esporre le vostre osservazioni a vostro fratello Orico», suggerì Cazaril. «Lui è l’autorità più adeguata a fornirvi spiegazioni.» Provò a immaginare Teidez nell’atto di ricevere una risposta diretta e coerente da Orico, e sospirò. Se Iselle, con tutta la sua appassionata forza di persuasione, non era riuscita a ottenere da lui un comportamento sensato, quali speranze poteva avere Teidez, la cui dialettica era molto più limitata? Orico avrebbe trovato il modo per non rispondere, posto che non riuscisse a mettersi in anticipo nell’impossibilità di farlo.

Tocca forse a me l’onere d’informare il Royse della situazione? No. Non gli era stata concessa l’autorità di rivelare quello che era in effetti un segreto di Stato, e per di più si supponeva che lui stesso ne fosse all’oscuro. Inoltre la notizia dell’esistenza della maledizione del Generale Dorato doveva giungere a Teidez direttamente dal Roya, non suo malgrado o a sua insaputa, onde evitare che la cosa assumesse l’aria di una cospirazione. D’un tratto, Teidez si protese in avanti sul tavolo e lo fissò con occhi socchiusi. Cazaril si rese conto di essere rimasto troppo a lungo in silenzio.

«Lord Cazaril, che cosa sapete?» sibilò il giovane.

So che non possiamo lasciarti nell’ignoranza ancora per molto, pensò lui. E ciò valeva anche per Iselle. «Ve lo spiegherò in seguito, Royse», replicò. «Questa è una cosa di cui non posso parlare stanotte.»

Teidez serrò le labbra e si passò una mano tra i riccioli dorati in un gesto pieno d’impazienza, lo sguardo pervaso d’incertezza, di diffidenza e, così parve a Cazaril, di una strana solitudine. «Capisco», disse soltanto, poi girò sui tacchi e uscì a passo spedito. Quando già si trovava nel corridoio, borbottò: «A quanto pare dovrò provvedere da solo…»

Aveva forse intenzione di parlare con Orico? Be’, in tal caso, Cazaril lo avrebbe preceduto. E, se necessario, avrebbe chiesto il sostegno di Umegat. Deposte le penne nel loro contenitore, chiuse i registri e si alzò, traendo un profondo respiro per resistere alla fitta di dolore causata da quel movimento improvviso.


Un colloquio con Orico era più facile da decidere che da ottenere. Credendo che lui fosse un ambasciatore inviato da Iselle per insistere con la sua proposta di matrimonio ibrana, il Roya prese a evitare Cazaril e incaricò il suo maggiordomo personale di allontanarlo adducendo una dozzina di scuse diverse. La cosa venne poi resa ancora più difficile dalla necessità che quella conversazione si svolgesse in privato, soltanto tra loro due, e senza interruzioni. Di conseguenza, dopo cena, Cazaril stava percorrendo il corridoio, proveniente dalla sala dei banchetti e intento a riflettere sul modo migliore per intrappolare la sua regale preda quando un colpo battutogli sulla spalla lo fece girare parzialmente su se stesso.

Nel sollevare lo sguardo, Cazaril sentì morirgli sulle labbra le parole di scusa con cui era stato sul punto di giustificare la propria goffa distrazione, quando vide che la persona contro cui era andato a sbattere era Ser dy Joal, uno dei bravacci al servizio di Dondo, ora rimasto privo d’impiego… il che lo indusse a chiedersi cosa stessero facendo ultimamente quei loschi figuri per guadagnarsi da vivere, e se fossero passati al servizio del fratello di Dondo. Notando che dy Joal era accompagnato da uno dei suoi compari, sogghignante in volto, e da Ser dy Maroc, che appariva invece accigliato e a disagio, Cazaril corresse poi la propria impressione iniziale, rendendosi conto che era stato dy Joal, i cui occhi scintillavano ora di un bagliore guardingo alla luce delle candele appese alle pareti, a urtare lui e non viceversa.

«Goffo bue!» ringhiò dy Joal, in tono un po’ troppo fasullo. «Come osi spintonarmi per passare per primo dalla porta?»

«Chiedo scusa, Ser dy Joal», rispose Cazaril. «Ero assorto nei miei pensieri.»

Poi accennò un inchino e fece per aggirare il giovane bravaccio, ma dy Joal fu pronto a spostarsi di lato per bloccargli il passo, spingendo indietro al contempo la sopravveste in modo da esporre l’impugnatura della spada. «Io dico che mi avete spintonato. Adesso intendete anche darmi del bugiardo?»

Ah, si tratta di un’imboscata, pensò Cazaril, immobilizzandosi. «Cosa volete, dy Joal?» domandò, in tono stanco.

«Siete testimoni!» esclamò dy Joal, indicando verso il suo compare e dy Maroc. «Mi ha spintonato.»

«Sì, l’ho visto», fu pronto a rispondere il suo amico, mentre dy Maroc si mostrò assai più incerto riguardo al comportamento da tenere.

«Intendo sfidarvi a duello per il vostro affronto, Lord Cazaril!» continuò dy Joal.

«Questo lo vedo da me», ribatté seccamente Cazaril, chiedendosi se si trattasse soltanto di stupidità indotta dal troppo vino bevuto, o invece della forma di assassinio più semplice che esistesse al mondo. Un duello al primo sangue, pratica approvata e sfogo per i bollori ardenti delle giovani teste calde che frequentavano la corte, seguito da un: «La spada mi è sfuggita al controllo, lo giuro sul mio onore! Si è infilzato da sé», il tutto appoggiato da quanti più testimoni la persona in questione poteva permettersi di pagare.

«Intendo avere tre gocce del vostro sangue per cancellare quest’offesa», insistette dy Joal, pronunciando l’abituale formula di sfida.

«Io invece vi consiglio di andare a immergere la testa in un secchio d’acqua e di tornare sobrio. Non faccio duelli», dichiarò Cazaril, sollevando per un momento le braccia in modo da far allargare la sopravveste e mostrare che non aveva con sé la spada. «Lasciatemi passare.»

«Urrac, presta la tua spada a questo vigliacco! Dal momento che abbiamo i due testimoni richiesti, sbrigheremo questa faccenda fuori, immediatamente», ingiunse dy Joal, indicando col capo le porte in fondo al corridoio, che si aprivano sul cortile principale.

Il suo compare si slacciò la cintura con la spada e, sempre sogghignando, la gettò a Cazaril. Questi inarcò un sopracciglio ma non accennò a muovere le mani, lasciando cadere l’arma ai propri piedi e spingendola con un calcio verso il suo proprietario.

«Non faccio duelli», ribadì.

«Devo allora darvi apertamente del vigliacco?» domandò dy Joal, con le labbra socchiuse e il respiro reso un po’ affannoso dall’esaltazione per l’anticipazione dello scontro imminente. Con la coda dell’occhio, Cazaril vide un paio di altri uomini, attratti dai toni di voce sempre più alti, avvicinarsi con curiosità lungo il corridoio.

«Definitemi come preferite, a seconda di quanto desiderate fare la figura dell’idiota. Le vostre parole non sono nulla per me», sospirò Cazaril, facendo del proprio meglio per sfoggiare un atteggiamento annoiato, anche se in realtà il sangue gli stava pulsando sempre più in fretta nelle orecchie, non per il timore, ma per la furia…

«Avete il titolo di Lord, ma non ne possedete l’onore.»

Un angolo della bocca di Cazaril si sollevò in un sorriso privo di umorismo. «Quella forma di confusione mentale che definite onore è una malattia, per la quale i capi vogatori dei roknari possiedono una cura infallibile.»

«Constatato che non avete onore, non potete comunque rifiutarmi tre gocce di sangue per lavare l’onta dal mio onore!»

«Avete ragione», annuì Cazaril, la cui voce si era fatta stranamente calma, con uno strano sorriso sulle labbra. I battiti del suo cuore rallentarono, mentre ripeteva: «Avete proprio ragione…»

Protese la mano sinistra col palmo verso l’alto e, con la destra, estrasse di scatto il coltello da cintura, che aveva usato a cena per tagliare il pane; colto di sorpresa, dy Joal contrasse spasmodicamente la mano sull’impugnatura della spada, e arrivò quasi a snudarla.

«Non nel palazzo del Roya!» gridò dy Maroc. «Sai che queste cose si devono fare all’esterno, dy Joal! Per il Fratello, lui non ha neppure la spada… non puoi attaccarlo!»

Dy Joal esitò e Cazaril, invece di avanzare verso di lui, spinse indietro la manica sinistra, passandosi lentamente la lama del coltello sul polso, senza sentire il minimo dolore. Mentre il sangue, di un cupo color carminio, prendeva a colare lentamente alla luce delle candele, senza fiottare come avrebbe fatto se fosse stata lesa un’arteria, Cazaril ebbe l’impressione che una sorta di caligine salisse a offuscargli la vista, escludendo dal suo campo visivo tutti i presenti tranne se stesso e quel giovane stolto che aveva insistito per duellare con lui, e che ora lo stava fissando con un sorriso sempre più incerto.

Ti darò quello che volevi, ma non come lo volevi, pensò, riponendo il coltello. Davanti a lui dy Joal, che non si era ancora insospettito abbastanza, lasciò ricadere la spada nel fodero e allontanò la mano da essa.

Sorridendo, Cazaril sollevò entrambe le braccia, poi scattò in avanti senza preavviso, afferrando lo sconvolto dy Joal e spingendolo all’indietro contro la parete con tanta forza che il tonfo echeggiò lungo il corridoio. Gli intrappolò un braccio dietro la schiena e, dopo aver incastrato la mano destra sotto il mento del giovane bravaccio, lo sollevò da terra e lo bloccò contro il muro tenendolo per il collo, premendogli nel contempo il ginocchio destro contro l’inguine, in modo da impedirgli di liberare il braccio intrappolato. Disperato, dy Joal cercò di artigliarlo con la mano libera, ma Cazaril gli bloccò anche quella. Per quanto si contorcesse nella sua presa, resa scivolosa dal sangue, dy Joal non riuscì a liberarsi. Purpureo in volto, il giovane non era ovviamente in condizione di gridare, pur roteando gli occhi ed emettendo un gorgoglio indistinto, i talloni che martellavano contro la parete. Quei bravacci sapevano che le mani deformate di Cazaril di solito stringevano una penna, e avevano dimenticato che, per molto tempo, avevano anche impugnato un remo, acquisendo la forza che stava impedendo a dy Joal di liberarsi da quella stretta.

«Io non duello, ragazzo», gli ringhiò all’orecchio Cazaril, con voce abbastanza alta per essere udita da tutti. «Io uccido come fa un soldato, e cioè nello stesso modo di un macellaio, in fretta, con efficienza e col minore rischio possibile per me stesso. Se deciderò che devi morire, morirai quando e dove vorrò io, nel modo di mia scelta, e non vedrai mai arrivare il colpo che ti abbatterà.» Abbandonata la presa sul braccio libero di dy Joal, che non aveva più la forza di lottare, sollevò il polso sinistro e premette il taglio sanguinante sulla bocca tremante e socchiusa della sua vittima terrorizzata.

«Volevi tre gocce del mio sangue, per il tuo onore? Adesso le berrai.» Sangue e saliva colarono intorno ai denti tremanti di dy Joal, che tuttavia non osò neppure tentare di mordere. «Bevi, dannazione a te!» ringhiò Cazaril, accentuando la pressione e spargendo sangue su tutta la faccia di dy Joal. Per un momento, rimase come affascinato dal contrasto delle rosse scie di sangue con la pelle livida, dalla ruvidezza di un accenno di barba contro il suo polso, dalla luce intensa delle candele riflessa nelle lacrime che colavano dagli occhi fissi della sua vittima, che cominciavano ad annebbiarsi.

«Cazaril, per amore degli Dei, lasciatelo respirare!» gridò dy Maroc, angosciato, strappando Cazaril alla rossa nebbia dell’ira.

Il Castillar allentò la propria stretta, permettendo a dy Joal di respirare. Mantenendo la pressione all’inguine, serrò la mano sinistra coperta di sangue e sferrò un pugno violento contro lo stomaco del bravaccio, che si piegò su se stesso, di nuovo senza fiato, e contrasse con violenza le ginocchia. Soltanto allora, Cazaril si decise a indietreggiare e a lasciarlo andare. Accasciatosi al suolo, dy Joal si raggomitolò su se stesso, annaspando e tossendo, piangendo e non tentando neppure di rialzarsi. Dopo un momento, poi, prese a vomitare.

Scavalcato quel disgustoso ammasso di cibo, vino e bile, Cazaril avanzò verso Urrac, che arretrò, giungendo a ridosso della parete opposta.

«Io non duello», ribadì Cazaril, con voce pacata, protendendosi verso di lui. «Ma se desideri morire come un manzo, macellato con una martellata, attraversa di nuovo la mia strada.»

Nel girare sui tacchi, vide apparire dy Maroc, pallidissimo, che gli sibilò: «Cazaril, siete impazzito?»

«Mettetemi alla prova», ribatté lui, con un sorriso feroce che indusse dy Maroc a indietreggiare prontamente. A grandi passi, Cazaril si avviò lungo il corridoio, allontanandosi dal capannello di uomini, col sangue che gli colava ancora dalle dita a ogni movimento delle braccia, e uscì nel gelo notturno, chiudendosi alle spalle la porta per escludere il crescente coro di voci agitate.

Quasi di corsa, attraversò il gelido acciottolato del cortile, diretto verso il corpo principale del castello e un rifugio sicuro, il passo e il respiro che acceleravano contemporaneamente e si facevano sempre più irregolari a mano a mano che qualcosa — la sanità mentale, un terrore ritardato? — gli filtrava di nuovo nella mente. Mentre saliva le scale fu assalito poi da un violento crampo al ventre. Con dita scosse da un tremito quasi incontrollabile, afferrò la chiave per entrare nella sua camera, lasciandola cadere due volte e usando infine entrambe le mani per inserirla nella toppa. Richiusa a chiave la porta, si accasciò sul letto, gemendo e ansimando. Soltanto allora si rese conto che il corteo di spettri si era dissipato nel corso dello scontro, senza che lui se ne accorgesse. Si mise su un fianco, si raggomitolò intorno allo stomaco dolorante, e sentì la ferita al polso che iniziava a dolergli, insieme con la testa.

Alcune volte, nel pieno della battaglia, gli era capitato di vedere uomini cedere alla furia, ma, prima di quella sera, non aveva mai immaginato come ci si sentisse e nessuno gli aveva detto che si trattava di una sensazione esaltante, come quella indotta dal vino o dal sesso. Senza dubbio si era trattato di una reazione insolita, ma naturale, alla tensione nervosa e alla paura, tutte cose radunate in poco tempo e poco spazio. No, non poteva essere stata una forza innaturale a spingerlo ad agire in quel modo… Il suo comportamento non poteva dipendere dalla «cosa» che aveva nel ventre, che lo aveva provocato e ingannato, cercando di spingerlo incontro alla morte, e alla propria liberazione…

Oh.

Sapevi già che cosa avevi fatto a Dondo. Adesso sai quello che lui sta facendo a te.

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