Qualche giorno dopo, quando tornai a casa dopo una giornata passata ad esercitarmi a lanciare il giavellotto, trovai una tavoletta sigillata sul mio letto. Era, ricordo bene, il diciannovesimo giorno del mese: il più sfortunato.
Ruppi in fretta l’involucro di argilla scura e lessi il messaggio che conteneva, lo rilessi, lo rilessi ancora. Quelle poche parole scritte sulla tavoletta ebbero un effetto potente su di me. Quelle parole, in un solo istante, mi trascinarono lontano dalla serenità della mia città natale e mi portarono nella strana vita dell’esilio, come se non fossero parole, ma il vento tempestoso di Enlil, l’altissimo Dio.
La tavoletta diceva: Scappa subito da Uruk. Dumuzi ha intenzione di farti uccidere.
Era firmata con il Sigillo di Inanna.
La mia reazione immediata fu di cieca sfida, di rabbia. Il cuore mi batteva impetuoso, le mani si strinsero in un pugno. Chi era Dumuzi che si permetteva di minacciare il figlio di Lugalbanda? Che cosa dovevo temere da un lumacone intorpidito come lui? E poi pensai: il potere della Dea è più grande del potere del Re, di conseguenza non ho bisogno di scappare dalla città. Inanna mi proteggerà.
Mentre camminavo avanti e indietro, acceso dalla rabbia, uno dei miei servi entrò nella stanza. Mi vide adirato e cominciò ad indietreggiare, ma io gli ordinai di fermarsi.
«Che cosa c’è?», domandai.
«Due uomini, o Signore… due uomini sono venuti qui…»
«Chi erano?»
Per un attimo le sue labbra non riuscirono a formare le parole. Poi ce la fece.
«Schiavi di Dumuzi, credo. Portavano la sua fascia rossa intorno alle braccia.» Gli occhi gli scintillavano per la paura. «Avevano i coltelli, mio Signore. Erano nascosti tra le loro vesti, ma io ne ho scorto il bagliore. Mio Signore… mio Signore…»
«Hanno detto che cosa volevano?»
«Parlare con te, hanno detto.» Barcollava. La paura gli fece impallidire e raggrinzire il volto. «Io ho d-d-detto che eravate con la D-Dea, e loro hanno risposto che torneranno… t-t-t-torneranno questa sera…»
«Ah,» dissi piano. «Allora è vero.» Lo afferrai per un lembo della tunica, lo trassi a me, e sussurrai: «Fa’ la guardia! Se li vedi nelle vicinanze, chiamami subito!»
«Si, Signore!»
«E non dire a nessuno dove sono!»
«Nemmeno una parola, o Signore!»
Gli diedi il permesso di andare, e lui si allontanò di corsa. Ripresi a percorrere la stanza a grandi passi. Avevo la gola asciutta e tremavo, non tanto per la paura, quanto per la rabbia e il dispiacere. Che cos’altro potevo fare oltre che scappare?
Compresi la follia di quello che avevo pensato qualche attimo prima, quando mi sentivo così audace. Potevo continuare ad essere audace, si, ma sarei sicuramente morto per la mia audacia. Quanto ero stato presuntuoso! Mi ero chiesto chi fosse Dumuzi che si permetteva di minacciare il figlio di Lugalbanda? Ebbene, Dumuzi era il Re, e sarei stato ucciso, se così decretava. E se Inanna avesse avuto la possibilità di proteggermi, perché mi avrebbe avvisato di fuggire?
Mi sentivo sull’orlo di un abisso. Non potevo indugiare nemmeno un momento, lo sapevo, nemmeno per avere spiegazioni. In un battito di ciglia, Uruk era persa per me. Dovevo andarmene e andarmene in fretta, senza neanche fermarmi a dire addio a mia madre, o ad inginocchiarmi davanti al Santuario di Lugalbanda. In quel momento i due assassini mandati da Dumuzi forse stavano tornando a cercarmi. Non potevo esitare.
Non intendevo stare lontano per molto tempo. Avrei trovato rifugio in un altra città per qualche giorno, oppure, se necessario, per un paio di settimane, finché non avessi saputo che cosa avevo fatto per inimicarmi il Re, e come si poteva riparare il danno. Allora non mi resi conto che mi accingevo a trascorrere quattro anni in esilio.
Con la mente annebbiata, le mani tremanti, preparai il bagaglio. Presi tutti gli indumenti che potevano entrare in un fagotto da portare sulle spalle: l’arco, la spada, l’amuleto Pazuzu che mi aveva dato mia madre anni prima, e la piccola statuetta di pietra verde che avevo ricevuto da Inanna quando era ancora solo una Sacerdotessa normale. Mi ero procurato una tavoletta su cui erano scritte alcune frasi magiche, utili in caso di ferita o malattia, e la presi con me, insieme ad un sacchetto di pelle pieno delle droghe che si bruciano per scacciare i fantasmi nel deserto. Infine presi un coltellino in stile antico, con l’elsa incastonata di gemme, non molto affilato, ma a me caro perché mi era stato portato da Lugalbanda al ritorno da una delle sue guerre.
Durante il primo quarto di guardia della notte, all’ora in cui sorgono le stelle, sgattaiolai dalla mia casa e percorsi con prudenza gli stretti intrichi di viuzze che portavano alla Porta Settentrionale. Cadeva una fine pioggerella. Pennacchi di fumo bianco salivano dalle lampade di diecimila case verso il cielo che si scuriva. Il cuore mi faceva male. Non avevo mai lasciato Uruk prima di allora. Non avevo idea di che cosa ci fosse oltre le mura della città. Ero nelle mani degli Dei.
Decisi di recarmi alla città di Kish. Eridu e Nippur erano più vicine e più facilmente raggiungibili, ma Kish mi sembrava una scelta più sicura. Dumuzi aveva una grande influenza ad Eridu e a Nippur, ma Kish gli era ostile. Non volevo arrivare in un posto dove mi avrebbero immediatamente impacchettato e rispedito ad Uruk in segno di gentilezza verso il Re di Uruk. Il Re Agga di Kish non provava alcun bisogno di fare favori a Dumuzi. Lugalbanda aveva spesso parlato di lui, ricordavo, e lo aveva definito un robusto guerriero, un degno avversario, un uomo d’onore. A Kish, allora: per offrirmi alla misericordia di Agga.
Kish sorgeva ad una grande distanza, a nord. Sarebbe stata una marcia di parecchi giorni. Non potevo arrivarvi via fiume. Non era possibile per una barchetta o per una zattera risalire il Buranunu dalle correnti rapide, e sarebbe stato troppo rischioso tentare di imbarcarmi clandestinamente su uno dei grandi vascelli reali che veleggiavano sul fiume e collegavano le città. Ma sapevo che c’era un sentiero per carovane che costeggiava la riva orientale del fiume. Se l’avessi seguito verso nord e avessi messo un piede davanti all’altro, prima o poi ero sicuro di arrivare a Kish.
Camminai a passo veloce, e a volte corsi al trotto. Ben presto Uruk scomparve nel buio alle mie spalle. Non mi fermai finché non arrivò l’ora centrale della notte. Ormai mi sentivo lontano da casa: sentivo di essere partito per un lungo viaggio che mi avrebbe portato negli angoli più remoti del mondo, un viaggio che non sarebbe mai finito. E quel viaggio non è ancora finito a tutt’oggi.
Quella notte dormii in un campo appena arato, avvolto nel mantello, con la pioggia che mi bagnava la faccia. Ma dormii, e dormii profondamente. All’alba mi alzai, mi bagnai nel canale fangoso di una fattoria, e feci colazione con fichi e cetrioli. Poi ripresi a camminare verso nord. Ero instancabile, pieno di energie inesauribili, e non mi turbava l’idea di camminare tutto il giorno. C’era il Dio con me che mi spingeva, come sempre, a compiere azioni straordinarie.
Il paese era più bello di quanto avessi immaginato. Il cielo era vasto e luminoso: tremava della presenza divina. Sulla pianura ampia, fertile e bagnata dal fiume, la prima erba tenera dell’autunno cominciava a spuntare sui soffici prati, dopo la forte siccità estiva. Lungo i canali le mimose, i salici, i pioppi, le canne e i giunchi erano coperti di germogli verdi. Il fiume Buranunu dalle acque scure, scorreva alla mia sinistra, il suo letto di limo si alzava sulla pianura. Sapevo che in qualche punto ad oriente, c’era un secondo grande fiume, l’impetuoso Idigna, che costituisce l’altro confine del paese: perché, quando parliamo del paese, intendiamo il territorio compreso tra i due fiumi. Tutto ciò che si trova all’esterno, non ci appartiene; tutto ciò che si trova all’interno è il dominio che ci hanno concesso gli Dei.
Dai fiumi provengono sofferenze e pericoli — i terribili torrenti, le inondazioni assassine — ma da essi proviene anche la fertilità, e io vidi i segni di quel grande dono dovunque guardassi.
Lo dobbiamo al Padre Enki. Si racconta la storia del saggio Dio che, prese le sembianze di un toro selvaggio, infilò il grande fallo nei letti asciutti dei due fiumi ed emise il seme in potenti spruzzi per riempirli dell’acqua dolce e scintillante della vita. È sempre così: l’acqua del padre rende feconda la Terra, che è la nostra madre. Fu anche Enki che, una volta che i fiumi furono riempiti del suo fertile seme, creò i canali che portavano l’acqua dei fiumi ai campi. Fu Enki a creare i pesci, le canne delle paludi, l’erba verde delle colline, i cereali e gli ortaggi delle terre coltivate, e il bestiame da pascolo, e affidò ciascuna delle sue creazioni ad un Dio particolare.
Avevo sentito queste storie dall’Arpista Ur-kununna e dal maestro a scuola, ma mi erano sembrate solo parole. Ora erano diventate reali. Vidi i campi carichi di frumento e di orzo. Vidi le palme da dattero ricche di frutti acerbi. Vidi i gelsi e i cipressi, le viti con gli scuri grappoli scintillanti, i mandorli e i noci, le mandrie di buoi e le capre e le pecore.
Il paese era denso di vita. Nelle lagune, che erano lungo i canali, vidi i bufali che sguazzavano, grandi stormi di uccelli dai piumaggi vivaci, e tartarughe e serpenti in abbondanza. Una volta vidi un leone con la criniera nera, ma l’animale non mi vide. Morivo dalla voglia di vedere un elefante. Avevo sentito storie meravigliose sugli elefanti, ma in quella stagione si trovavano altrove. C’era, poi, una moltitudine di altri animali: cinghiali e iene, sciacalli e lupi, aquile e avvoltoi, antilopi e gazzelle.
Quando mi trovavo nei luoghi selvaggi, cacciavo lepri e oche per i miei pasti, e cercavo bacche e noci allo stesso scopo. Nei villaggi i contadini mi invitavano e dividevano con me i fagioli, i piselli e le lenticchie, la birra, i meloni dorati. Non dissi a nessuno né il mio nome né la mia provenienza. Ma il mio portamento era quello di un giovane Principe, e forse per questo furono così ospitali nei miei confronti.
In ogni caso, è un’offesa agli Dei scacciare uno straniero pacifico. Le ragazze di quei villaggi ben volentieri mi tenevano caldo la notte, e più di una volta rimpiansi di dover partire, oppure fui indeciso se portare con me qualcuna di quelle tenere compagne. Ma partivo ogni volta, e partivo da solo, ed ero solo quando infine arrivai alla grande città di Kish.
Mio padre era solito parlare con generosità di Kish.
«Se c’è una città che può con giustizia affermare di essere pari ad Uruk,» diceva, «questa è Kish.»
Penso che sia vero.
Come Uruk, Kish si stende lungo il Buranunu, cosicché trae ricchezza dal commercio fluviale tra città e città e dal commercio marittimo che risale il fiume dalle terre che si affacciano sull’oceano. Come Uruk, è circondata da mura ed è sicura. Ha una popolazione numerosa, sebbene non quanto quella di Uruk, che è probabilmente la più grande città del mondo: il mio esattore delle tasse, durante il quinto anno del mio regno, contò novantamila abitanti, compresi gli schiavi. Penso che Kish ne abbia solo due terzi, che è ugualmente una popolazione numerosa.
Molto tempo prima che Uruk diventasse grande, Kish aveva il dominio sul paese. Era all’epoca in cui il regno era disceso dal cielo una seconda volta, dopo che il Diluvio aveva distrutto le precedenti città.
Kish divenne la sede del regno, quando Uruk era ancora solo un villaggio. Ricordo che l’Arpista Ur-kununna ci cantava la storia di Etana, Re di Kish, colui il quale rese stabile tutto il paese e fu acclamato ovunque Signore Supremo. Etana fu l’uomo che si innalzò nei cieli con l’aiuto di un’aquila quando, dal momento che era senza figli, cercava la pianta della nascita che cresce solo in cielo.
Il meraviglioso viaggio di Etana di Kish gli procurò l’erede desiderato, eppure Etana dimora oggi nella Casa della Polvere e delle Tenebre, e Kish non ha più il dominio su tutto il Paese. Mentre Enmebaraggesi era Re di Kish, Uruk aveva cominciato a diventare grande. Meskiaggasher, figlio del Sole, divenne nostro Re, quando Uruk non era ancora Uruk, ma solo i due villaggi di Eanna e Kullab. Meskiaggasher si fece notare da Enmebaraggesi. Dopo di lui salì al trono mio nonno, l’Eroe Enmerkar, che creò Uruk unendo i due villaggi, e dopo di lui ci fu Lugalbanda. E, durante il regno di questi due Eroi, conquistammo la nostra indipendenza da Kish e acquistammo il nostro pieno potere, potere di cui sono stato guardiano in tutti questi anni.
A quel tempo, Enmebaraggesi era morto da molti anni e suo figlio Agga era il Re di Kish. In una luminosa giornata invernale, vidi per la prima volta la città, che si elevava sulla piatta pianura del Buranunu, dietro mura dalle alte torri, dipinte di un bianco accecante, su cui sventolavano lunghe bandiere cremisi e smeraldo.
Kish si stendeva su due colline, con due centri, uno ad oriente ed uno ad occidente, e un quartiere pianeggiante nel mezzo. I Templi di Kish sorgevano su piattaforme molto più alte della Piattaforma Bianca di Uruk, con gradini che salivano sempre più su, fino al cielo. Mi sembrava un’idea meravigliosa collocare le Case degli Dei così vicino al cielo e, quando ricostruii i Templi di Uruk, avevo in mente le alte piattaforme di Kish. Ma questo accadde molti anni dopo.
Ero impreparato al timore reverenziale che ispirava Kish. Tutto sembrava gridare: «Sono grande, sono onnipotente, sono una città invincibile.» E io ero ancora solo un ragazzino, che si era allontanato per la prima volta da casa. Ma nel mio cuore non c’era posto per la paura.
Mi presentai davanti alle mura di Kish e un custode dalla lunga barba e dall’aria cupa uscì fuori, facendo oziosamente oscillare la mazza di bronzo che caratterizzava la sua funzione. Mi guardò come se fossi un nulla, un qualche strano animale a due zampe. Restituii il suo sguardo insolente. E con la mano destra appoggiata leggera sull’elsa della spada, gli dissi: «Di’ al tuo Signore che il figlio di Lugalbanda è venuto da Uruk a rendergli omaggio.»