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Fu un viaggio che mi offrì poche gioie e molte difficoltà. Non lo ricordo con piacere. Per giorni e giorni discesi il versante meridionale della montagna. Il caldo era intenso, e il sole mi colpiva come un gong. Pensavo che la sua forza mi avrebbe reso cieco e sordo. Le notti erano gelide, con venti taglienti come un coltello. Le rocce erano appuntite e non erano salde. Se vi poggiavo i piedi nel modo sbagliato, scivolavano, sollevando nuvole di terra rossa e secca fino alle mie narici. Due volte mi ferii le gambe, più di una volta mi tagliai cadendo.

Ero costantemente afflitto dalla sete, e nugoli furiosi di insetti pungenti mi avvolsero la faccia per tutta la discesa: cercavano di pungermi gli occhi. Da mangiare ebbi solo lucertole, che catturavo quando dormivano al sole, e gli insetti saltellanti, dalle lunghe zampe, che abbondavano ovunque. Per bere masticavo i ramoscelli degli alberelli tristi e nodosi, sebbene la loro linfa mi bruciasse la bocca.

Almeno non vidi Demoni. Vidi alcuni leoni, impolverati ed esausti quanto me, ma si tennero lontani. Mi chiesi spesso se avrei vissuto per vedere la fine della discesa, e più di una volta fui certo che non ce l’avrei fatta.

Ma spesso accade che un’impresa, ritenuta da qualcuno completamente impossibile, in realtà si riveli solo estremamente difficile, o soltanto scomoda. In quel caso era così. Non fingerò che fosse una discesa facile: è possibile che oltre me non l’abbia superata nessun altro essere umano, fatta eccezione per Enkidu. Ma, tutto sommato, si rivelò possibile da compiere. Vi confesserò, però, che non ci terrei a tentarla di nuovo.

Poi il terribile versante meridionale della montagna fu alle mie spalle. Quando ebbi terminato la mia discesa del Mashu, mi trovai all’inizio di un altipiano arido e piatto, dove crescer vano solo piccole piante spinose: non era un posto piacevole, ma era almeno un luogo che non richiedeva tutte le mie energie per affrontarlo. Impiegai molti giorni ad attraversarlo. Camminai con il passo lento e paziente del mulo, o del bue sotto il giogo.

Ma, a mano a mano che avanzavo, la qualità del paesaggio cominciò lentamente a cambiare. La luce divenne meno violenta, il terreno, che prima era rosso e sterile, divenne più scuro e più fertile. Un venticello tiepido e umido soffiava da sud. Passai attraverso una valle così stretta che quasi ne toccavo entrambe le pareti con le spalle. Quando uscii dalla gola, emersi in una terra nebbiosa, dall’aria dolce e dal sole tiepido, dove una rugiada dolce e scintillante cadeva sulle vallate dalle montagne che erano più oltre.

Che sensazione meravigliosa quando la rugiada mi avvolse e lavò la mia pelle avvizzita e polverosa! Forse quel luogo era il giardino degli Dei. Fiori sbocciavano ovunque, con una fragranza che non avevo mai sentito. Le mie gambe affondavano in un’aria verdechiaro. L’aria scintillava come se fosse d’argento. Tutta la piana sì apriva davanti ai miei occhi come un grande ventaglio d’oro, vasta e pianeggiante, con verdi colline ai margini e un mare brillante ancora più lontano. Non sapevo quanto tempo ci sarebbe voluto per raggiungere il mare, ma sapevo che ci sarei arrivato, e che sulle sue rive lontane avrei trovato la terra di Dilmun.

Ancora graffiato e dolorante per la lunga discesa, con gli occhi iniettati di sangue, vestito solo di una pelle di leone a brandelli, camminavo in preda alla meraviglia in quella terra di bellezza. Mi sembrava che i grappoli che pendevano dai rampicanti fossero grappoli di cornalina, e che le foglie delle piante fossero di lapislazzuli, con frutti dolci e succulenti annidati nel verde. Dovunque posavo lo sguardo, vedevo gemme viventi: agata e corallo, onice e topazio.

Mentre camminavo in quello splendore, sentivo le mie ferite cominciare a guarire. Ero tutto coperto dai morsi suppurati degli insetti e dalle ferite che mi ero fatto scivolando sulle rocce. I capelli e la barba erano grovigli sporchi che nascondevano delle piaghe. La lingua era gonfia per la sete: ma cominciai a guarire. Trovai un fresco laghetto di acqua azzurra e pura, bevvi, mi lavai, e riposai a lungo, ascoltando il ronzio di api che non avrebbero mai pensato di pungermi. Quel suono era una musica piacevole. Uccelli bianchi con zampe simili a trampoli si fermavano a guardarmi, e sembrava quasi che mi sorridessero.

C’era pace. Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevo vissuto in pace, e penso che fino ad allora non avessi mai conosciuto una pace di quel genere. In quel paese c’erano una pace e una gioia che mi invitavano a riposare, disteso sulla riva di quel fresco laghetto.

Non sentivo alcun bisogno urgente di andare avanti, né di tornare alla mia città: ero contento dov’ero. Adesso mi chiedo se fossi mai stato contento nella mia vita fino a quel momento, ma allora non mi posi questa domanda, perché non sentivo alcun bisogno di risposte. Un uomo che si senta veramente in pace non si pone domande di questo genere.

Ma la pace e la gioia non sono proprie del mio spirito, credo; non sono abituato a passare il tempo in loro compagnia. Infatti, mentre riposavo accanto al laghetto, pensai a Enkidu, che non conosceva quel luogo meraviglioso. «Vedi, fratello?», avrei voluto dirgli. «I rampicanti hanno grappoli di gemme, gli uccelli camminano su trampoli, e l’aria è dolce come il vino nuovo! Hai mai visto un posto così bello, fratello? In tutti i tuoi vagabondaggi nella foresta, hai mai visto un posto come questo?»

Avrei voluto dirlo, ma egli non mi avrebbe udito, e una terribile tristezza mi assalì nel pieno della gioia e della pace. Avrei voluto piangere, ma non potevo, perciò non riuscii a liberarmi della mia tristezza.

Il mio cuore fu ripreso dalla disperazione. Non sapevo ritrovare la strada per tornare a quel momento di pace. Quel posto era bello, sì, ma io ero solo e non potevo dimenticarlo, e ogni respiro che facevo mi avvicinava solo alla morte. Così mi immersi ancora una volta nel dolore e nella tristezza, che era diventata il mio stato naturale.

Poi, in preda alla sofferenza, alzai gli occhi verso il sole e vidi Utu, il Dio luminoso, guardarmi. Gli inviai una piccola preghiera, la modesta supplica di arrecarmi un conforto. E mi parve di sentirlo rispondere: «Pensi che ci sia qualche speranza? Quanto hai viaggiato, Gilgamesh! E per che cosa? Non troverai mai la vita che cerchi.»

«Voglio trovarla, Grande Dio,» gli dissi.

«Ah, Gilgamesh, Gilgamesh, quanto sei folle!»

Cercai di guardare diritto nel cuore del Dio, ma non ci riuscii. Allora mi girai a guardarlo splendere nel grembo del laghetto, e al Dio nello stagno dissi: «Ascoltami, Utu! Ho attraversato tutte queste terre selvagge per niente? Devo semplicemente stendermi sotto la terra e dormire per tutti gli anni futuri? Fa’ che non sia così! Risparmiami il lungo buio, Utu! Fa’ che i miei occhi continuino a vedere il sole finché non ne avrò abbastanza!»

Penso che il Dio udisse la mia preghiera. Ma non saprei dirvi quale fu la sua risposta, perché non la udii. Dopo qualche istante, una nuvola oscurò la faccia del sole, e io non avvertii più la presenza del Dio. Allora mi alzai, mi avvolsi la sbrindellata pelle di leone intorno al corpo, e mi preparai a partire. Nonostante tutta la bellezza di quel luogo, non riuscivo a riprovare quel senso di gioia che avevo sentito per un breve intervallo. Ma anche la disperazione mi aveva lasciato. Ero calmo. Forse non sentivo assolutamente niente. Non è pace questa, ma è sempre meglio della disperazione.

Andai avanti, senza sentire niente, senza pensare niente. Qualche giorno dopo l’aria aveva un nuovo gusto, tagliente e strano, come il gusto del metallo sulla lingua. Era il forte odore del sale, era l’odore del mare. Il mio lungo pellegrinaggio si avvicinava alla conclusione. A giudicare dal gusto del sale nell’aria, dovevo essere vicino alla riva che è di fronte all’isola di Dilmun, dove abita l’eterno Ziusudra. Non avevo alcun dubbio.

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