All’inizio dell’anno nuovo feci uno strano sogno, e non riuscii a comprenderne il senso. Durante la stessa notte, feci un altro sogno, altrettanto strano, altrettanto incomprensibile.
Mi turbò il fatto che capissi così poco di quei due sogni. Gli Dei spesso parlano ai Re in sogno, e forse mi era stata data una notizia importante riguardo al benessere della città. Allora andai al Tempio di An e raccontai i sogni a mia madre, la saggia Sacerdotessa Ninsun.
Mi ricevette nella sua camera, una stanza dalle pareti scure, con grandi pilastri dipinti color cremisi. Indossava un manto bianco, bordato in basso da un’ampia fascia di lapislazzuli, d’oro e di cornaline. La circondava, come sempre, un’atmosfera di tranquillità, e di bellezza: tutto poteva essere in guerra, ma lei era sempre in pace.
Prese le mie mani tra le sue, piccole e fredde, e le tenne a lungo, sorridendo, aspettando che cominciassi a parlare.
«La notte scorsa,» dissi dopo qualche momento, «Ho sognato di sentire una grande felicità e di camminare colmo di gioia tra gli altri giovani eroi. La notte scendeva, e nel cielo apparivano le stelle. E, mentre stavo sotto la volta celeste, una delle stelle cadeva sulla terra, una stella che aveva in sé l’essenza del Padre del Cielo, An.
«Cercavo di alzarla, ma era troppo pesante per me. Cercavo di spostarla, ma non ci riuscivo. Tutta Uruk si raccoglieva intorno a guardare. La gente comune si accalcava, i Nobili si inginocchiavano e baciavano il suolo che era davanti alla stella. E io ne ero attratto come sarei stato attratto da una donna. Mettevo un tirante di cuoio intorno alla fronte, raccoglievo tutte le mie forze, e con l’aiuto dei giovani guerrieri alzavo la stella e la portavo da te. E tu mi dicevi, madre, che la stella era mio fratello. Questo era il sogno. Il suo significato mi sfugge.»
Ninsun fissò lo sguardo nel vuoto. Poi disse, ancora sorridendo: «So che cosa significa.»
«Dimmelo, allora.»
«Quella stella del cielo, che ti attraeva così come ti avrebbe attratto una donna, è un compagno di grande forza, è un amico fedele, il tuo salvatore, il fratello che non ti abbandonerà mai. La sua forza è simile alla forza di An, e tu l’amerai come ami te stesso.»
Mi accigliai, al pensiero di quell’enorme solitudine che ritenevo il prezzo ineluttabile del mio regno, e a quanto ne ero stanco.
«Un amico? A quale amico ti riferisci, madre?»
«Lo capirai quando arriverà,» rispose.
Dissi: «Madre, ho fatto un altro sogno durante la stessa notte.»
Lei annuì. Aveva l’aria di saperlo.
«Un’ascia dalla strana forma era posata a terra in una delle strade di Uruk dalle grandi mura,» dissi, «un’ascia diversa da ogni tipo di ascia conosciuta. Tutta la gente si raccoglieva intorno all’ascia, la guardava, sussurrava. Non appena la vidi, ne fui felice. L’amavo, ne ero attratto come sarei stato attratto da una donna. La raccolsi e me la legai ad un fianco. Questo è il secondo sogno.»
«L’ascia che hai sognato è un uomo. È il compagno che ti è destinato…»
«Di nuovo il compagno!»
«Si, di nuovo il compagno. Il compagno coraggioso che salva l’amico nel momento del bisogno. Verrà da te.»
«Spero che gli Dei lo mandino presto, allora,» dissi con grande fervore.
Mi feci più vicino a mia madre e le dissi quello che non avrei mai rivelato a nessuno: ero disperato, una solitudine grande e terribile mi aveva assalito nel pieno della mia gloria e della mia ricchezza. Non erano parole difficili da dirsi. Due volte la voce mi mancò, ma io mi costrinsi a pronunciare quelle parole. Mia madre sorrise e annuì. Lo sapeva. Penso che fosse stata lei a spingere gli Dei a darmi un compagno. Quando lasciai il suo Tempio quella mattina, sentivo una grande leggerezza nel mio animo, come se il vento avesse soffiato via delle nubi pesanti che avevano oppresso l’aria per giorni e giorni.
Nello stesso periodo in cui feci questi due sogni, un fatto molto strano — lo venni a sapere in seguito — capitò ad un uomo che non conoscevo, un cacciatore che si chiamava Ku-ninda. Questo Ku-ninda abitava in uno dei villaggi esterni, e si guadagnava da vivere catturando la selvaggina con le trappole. Ma un giorno si era recato nella zona selvaggia lungo il fiume a controllare le trappole che aveva messo e le aveva trovate tutte distrutte. Tutti gli animali che potevano esservi rimasti intrappolati, erano stati liberati. E quando andò a guardare le buche che aveva scavate, scoprì che erano state tutte riempite.
Era un mistero per Ku-ninda. Nessuna persona civile distrugge le trappole di un cacciatore o ne riempie le buche: è una scortesia, un atto ignobile. Allora Ku-ninda si mise alla ricerca dell’uomo che gli aveva fatto quei torti, e ben presto lo scorse. Ma era diverso da qualsiasi altro uomo avesse mai visto.
Era di dimensioni enormi, nudo, con la pelle ruvida e irsuta, coperto dovunque da ispidi peli. Più simile ad un animale che a un uomo, sembrava una creatura selvaggia delle colline. Si comportava come una bestia: si muoveva a quattro zampe, grugniva, soffiava, correva veloce. Gli animali della zona selvaggia non sembravano aver paura di lui, e gli correvano tranquillamente accanto.
Ku-ninda vide l’uomo selvaggio tra le gazzelle sulle colline: pascolava con loro, le carezzava, mangiava l’erba quando le bestie mangiavano l’erba. Ku-ninda fu turbato dalla stranezza dello spettacolo, e preparò altre trappole. L’uomo selvaggio le trovò e le distrusse, una per una.
Un giorno Ku-ninda incontrò l’uomo selvaggio alla pozza alla quale si abbeveravano gli animali: si trovarono faccia a faccia. «Tu, selvaggio, perché distruggi le mie trappole?», domandò Ku-ninda. L’uomo selvaggio non rispose: si limitò ad annusare. Grugnì, soffiò, scoprì i denti, lo guardò con occhi torvi. Un filo di bava gli schiumò dalla bocca rotolandogli lungo la folta barba. Ku-ninda non era un vigliacco, ma si ritrasse: aveva il volto paralizzato dalla paura, e il terrore gli intorpidiva gli arti.
Il giorno seguente si incontrarono di nuovo alla pozza, e due giorni dopo si ripeté l’incontro: e ogni volta, quando l’uomo selvaggio vedeva Ku-ninda, grugniva e soffiava. Ku-ninda non osava avvicinarglisi. Alla fine, quando capì che l’irsuto selvaggio gli rendeva impossibile la caccia, Ku-ninda rinunciò, e tornò a mani vuote al suo villaggio, in preda ad un grande abbattimento.
Raccontò questa storia al padre, che gli disse: «Va’ ad Uruk, e presentati al Re Gilgamesh. Non c’è nessuno più potente di lui: troverà il modo di aiutarti.»
Quando arrivò il giorno in cui concedevo udienza alla gente comune, Ku-ninda mi aspettava nella sala delle udienze. Era un uomo forte e robusto, alto, con una faccia scarna e dura e un paio d’occhi penetranti. Era vestito di pelli nere, e diffondeva intorno a sé l’odore della carne selvatica e del sangue. Mi mise davanti un’offerta di carne e disse: «C’è un uomo selvaggio nei campi che mi distrugge le trappole e mi libera le prede. È forte quanto le schiere celesti e non ho il coraggio di avvicinarmi a lui.»
Mi sembrò strano che quel robusto Ku-ninda avesse paura di qualcuno o di qualche cosa. Gli chiesi di dirmi di più, e lui mi parlò dei grugniti, dei ringhi, mi raccontò che l’uomo selvaggio correva insieme alle gazzelle sulle colline, e che pascolava sull’erba accanto a loro. Qualcosa in quel racconto mi sconvolse profondamente e mi affascinò. Mi venne la pelle d’oca per la meraviglia e per lo stupore, e sulla nuca mi si rizzarono i capelli. «Che meraviglia!», esclamai. «Che mistero!»
«Ucciderete quella creatura per me?»
«Ucciderlo? Non credo. Sarebbe un peccato ucciderlo solo perché è selvaggio. Ma non possiamo lasciarlo libero di correre per i campi, penso. Lo prenderemo in una trappola.»
«Impossibile, Maestà!», gridò Ku-ninda. «Non lo avete visto! È forte quanto voi! Non c’è trappola che possa trattenerlo!»
«Una c’è, credo,» dissi con un sorriso.
Mentre Ku-ninda parlava: mi era venuta un’idea: un particolare di una delle vecchie storie che cantava l’arpista Ur-kurnunna nel cortile del palazzo, quando ero bambino. Forse era il racconto della Dea Nawirtum e del Demone-mostro Zababa-shum, o forse la Dea era Ninshubur e il mostro era Lahamu: non ricordo, ma i nomi non sono importanti. Il succo del racconto era il potere della bellezza femminile sulla forza delle creature violente e selvagge.
Mandai a chiamare al Tempio la Cortigiana Santa Abisimti, la donna dai seni rotondi e dai lunghi capelli lucenti che mi aveva iniziato ai riti dell’amore carnale quando ero adolescente. Le dissi che cosa volevo che facesse. Non ebbe alcuna esitazione. C’era della vera santità in Abisimti. Era, in tutti i sensi, una serva degli Dei, e il suo modo di fornire i propri servizi era offrirli senza esitazioni, che è poi il solo vero modo di farlo.
Poi Ku-ninda portò con sé Abisimti nella steppa, nei terreni di caccia, alla pozza dove Ku-ninda aveva incontrato più volte l’uomo selvaggio, a tre giorni di viaggio da Uruk. Aspettarono un giorno, aspettarono un altro giorno, poi l’uomo selvaggio arrivò.
«Eccolo,» disse Ku-ninda. «Avvicinati subito, usa le tue arti su di lui.»
Senza paura e senza vergogna. Abisimti si avvicinò all’uomo selvaggio e gli si fermò davanti. Questi grugnì, sbuffò, brontolò, senza capire che genere di creatura fosse Abisimti, ma non ringhiò, non scoprì i denti. Lei sciolse la tunica e scoprì i seni. Penso che non avesse mai visto una donna, ma il potere della Dea è grande, e la Dea gli fece comprendere la bellezza di Abisimti. Lei si denudò, gli mostrò la sua nudità morbida e matura, gli riempì le narici del ricco profumo del suo corpo, si stese al suo fianco, lo accarezzò, tirò il corpo di lui sul proprio in modo che l’uomo selvaggio la possedesse.
Fu la sua iniziazione. Era simile ad una bestia, ma dopo essersi unito a lei era diventato un uomo. Sarebbe altrettanto giusto dire che unendosi ad Abisimti era diventato un Dio. Perché è così che l’essenza divina penetra in noi: attraverso il rito che rinnova la vita.
Si accoppiarono per sei giorni e sei notti. Posso testimoniare io stesso sulle capacità di Absimti: non avrei potuto mandargli nessuna più preparata di lei nelle arti della carne. Quando si unì ad Enkidu — questo era il nome dell’uomo selvaggio, Enkidu — Abisimti fece certamente uso di tutte le proprie capacità, e dopo una simile unione Enkidu non poteva più essere lo stesso. In quelle calde notti e in quei caldi giorni, tutto il suo essere selvaggio fu bruciato nella fornace della passione di Abisimti. Si addolcì, divenne più gentile, abbandonò i suoi grugniti e ringhi selvatici. Acquisì il potere della parola: divenne un uomo.
Ma non sapeva ancora che cosa gli era capitato. Quando si fu saziato della donna, si alzò per tornare ai suoi animali. Ma le gazzelle corsero via spaventate quando Enkidu si avvicinò. Aveva addosso l’odore degli esseri umani, l’odore della civiltà. Le creature selvagge della steppa non lo riconoscevano più, e si allontanavano da lui.
Quando gli animali scapparono, avrebbe voluto seguirli, ma il suo corpo era legato come da una corda, le ginocchia non gli servivano più a niente, tutta la sua celerità era scomparsa. Con lentezza, con stupore, ritornò da Abisimti, che gli sorrise teneramente e lo attirò accanto a sé.
«Tu non sei più selvaggio,» disse, a gesti più che a parole, perché l’uomo non era ancora abile con le parole. «Perché vuoi ancora vagare con gli animali della steppa?»
Poi gli parlò degli Dei, del Paese, delle città degli uomini, di Uruk dalle grandi mura, e di Gilgamesh il suo Re.
«Alzati,» disse. «Vieni con me ad Uruk, dove ogni giorno è una festa, dove le persone vestono abiti meravigliosi. Vieni al Tempio della Dea, affinché ti dia il benvenuto nel mondo degli uomini. Vieni al Tempio del Padre del Cielo, dove riceverai le benedizioni del cielo. E ti farò vedere Gilgamesh, il Re, l’Eroe splendente di virilità, il più forte tra gli uomini, che domina tutto e tutti.»
A queste ultime parole gli occhi di Enkidu si accesero e il volto arrossì. L’uomo disse, con la lingua impacciata che ricordava ancora i versi degli animali, che sarebbe andato con lei ad Uruk, al Tempio di Inanna e al Tempio di An. Ma, soprattutto, che desiderava vedere Gilgamesh il Re, il cosiddetto uomo forte.
«Ho intenzione di sfidarlo,» gridò Enkidu. «Gli farò vedere chi di noi è il più forte. Gli farò sentire la forza dell’uomo delle steppe. Cambierò le cose ad Uruk, muterò i destini, io che sono il più forte di tutti!»
O, almeno, questo fu il senso delle parole che Abisimti mi riferì in seguito.
Così fu intrappolato il selvaggio Enkidu. Secondo il piano che avevo preparato, fu catturato dalla più morbida e più dolce delle trappole, e fu portato via dagli animali. Cominciò a vivere nel mondo degli uomini civili.
Abisimti tagliò il proprio abito, vestì Enkidu con una metà e tenne l’altra per sé. Lo prese per mano e, come una madre, lo condusse dove si trovavano gli ovili, nelle vicinanze della città. I pastori gli si affollavano intorno: non avevano mai visto nessuno come lui. Quando gli offrirono del pane, egli non seppe che cosa farsene. Lo teneva in mano: lo guardava confuso, imbarazzato. Era abituato a mangiare solo erbe selvatiche e bacche, e a succhiare il latte delle bestie selvagge. Gli diedero del vino. Enkidu lo guardò stupito e, quando lo assaggiò, gli andò di traverso, e lo sputò.
Abisimti gli spiegò: «Questo è il pane, Enkidu: è il sostegno della vita, e questo è il vino. Mangia il pane, bevi il vino: è l’usanza del Paese.»
Con cautela mordicchiò il pane, con cautela sorseggiò il vino. La paura lo abbandonò, sorrise, mangiò con più piacere, si ingozzò di pane finché non fu sazio, bevve parecchi calici di vino forte. Il viso gli si colorì, il suo cuore esultò, saltellò, ballò una danza gioiosa. Poi lo presero e lo strigliarono, lo misero in ordine, lo unsero di oh e gli diedero abiti decenti, cosicché arrivò ad avere l’aspetto di un essere umano, sebbene fosse più alto del normale e più peloso.
Visse per qualche tempo tra i pastori. Non solo imparò a mangiare il cibo degli uomini, a bere le loro bevande e a indossare i loro vestiti; Enkidu imparò anche a lavorare come devono lavorare gli uomini. I pastori gli insegnarono ad usare le armi, ed Enkidu divenne il guardiano dei loro greggi. Di notte, mentre i pecorai dormivano tranquilli, pattugliava i campi per scacciare gli animali che andavano a fare razzie negli ovili. Cacciò leoni, catturò lupi, era il guardiano instancabile delle greggi, lui che era stato una belva selvaggia. Io non seppi nulla di tutto ciò. Confesso che avevo dimenticato completamente l’uomo selvaggio delle steppe, tanto ero impegnato nei compiti del regno e nei piaceri che alleviavano il mio dolore.
Un giorno Enkidu e Abisimti erano seduti nella taverna che i pastori erano soliti frequentare, quando entrò un viandante, un abitante di Uruk, e ordinò un boccale di birra. Lo straniero vide Absimti, la riconobbe, le fece un cenno di saluto e le disse: «Ritieniti fortunata di non vivere ad Uruk in questi giorni.»
«Perché, la vita nella città è così spiacevole?», chiese.
«Gilgamesh ci opprime,» disse lo straniero. «La città geme sotto il suo fardello. Non c’è nulla che plachi la sua forza… ci sfianca. E commette azioni turpi: il Re corrompe il Paese.»
Al che Enkidu alzò gli occhi e disse: «Com’è possibile? Spiegami che cosa vuoi dire.»
E lo straniero replicò: «Nella tua città c’è la Casa dell’assemblea, che è stata costruita per il popolo e serve a celebrare i matrimoni. Il Re non dovrebbe entrarvi, ma lo fa, anche quando rullano i tamburi nuziali. Egli prende la sposa, chiede di essere il primo con lei, prima del marito. Dice che questo diritto lo hanno stabilito gli Dei al momento della sua nascita, nel momento in cui fu tagliato il cordone che lo negava alla madre. Tutto questo è giusto? Tutto questo è santo? I tamburi nuziali rullano, ma poi compare Gilgamesh a reclamare la sposa. E tutta la città geme.»
Enkidu impallidì nel sentire queste parole, e fu preso da una grande ira.
«Non deve essere!», gridò. E ad Abisimti disse: «Vieni, portami ad Uruk: fammi vedere questo Gilgamesh!»
Abisimti ed Enkidu partirono subito per la città. Quando entrarono all’interno delle mura, lui suscitò un grande scalpore, tanto ampie erano le sue spalle, tanto potenti le sue braccia. La folla gli si raccolse intorno e, quando udì da Abisimti che quell’uomo era il famoso selvaggio che liberava gli animali dalle trappole, si fece più vicina, sussurrando, sgomitando. I più coraggiosi lo toccarono per sentire la sua forza.
«È pari a Gilgamesh!», gridò qualcuno.
«No, è più basso,» disse un altro.
E un terzo aggiunse: «Si, ma ha le spalle più ampie e le ossa più robuste.»
Ma a tutti dissero: «È arrivato un Eroe! È l’uomo che ha succhiato il latte dagli animali selvaggi! Finalmente Gilgamesh ha trovato chi gli sia alla pari! Finalmente! Finalmente!»
Enkidu era l’uomo la cui venuta mi era stata preannunciata in sogno. Era il compagno che gli Dei mi avevano offerto per alleviare la mia solitudine, il fratello che non avevo mai avuto, il compagno con cui avrei diviso tutto. Anche per il popolo di Uruk Enkidu era stato inviato dagli Dei ad esaudire loro preghiere, ma le loro ragioni erano diverse.
Perché era vero — sebbene non lo sapessi — che gemevano sotto il fardello del mio regno, come era vero che avevano timore delle mie energie prorompenti e mi detestavano per la mia arroganza. Perciò il popolo di Uruk aveva chiesto agli Dei di creare un mio simile e di mandarlo nella città: il mio doppio, con la mia età. Enkidu doveva affrontare la mia anima violenta con la sua anima violenta, in modo che combattessimo l’uno contro l’altro e lasciassimo Uruk in pace.
E quell’uomo era venuto.