Poiché nelle mie vene scorre sangue divino, crebbi rapidamente e raggiunsi una struttura e una forza straordinarie. Quando avevo nove anni, ero più alto di tutti i bambini della piccola scuola del Tempio, e non avevo più problemi con i tipi come Bir-hurturre e Zabardi-bunugga. In realtà, vedevano in me il loro capo, giocavano ai giochi che decidevo io, e mi davano il primo posto in tutto. L’unica differenza tra noi era che loro avevano i peli sul corpo e sulle guance e io non li avevo.
Andai da un saggio nella regione di Kullab e comprai da lui, per novanta se d’argento e mezzo sila di buon vino, una pozione fatta di radici polverizzate di ginepro, succo di cassia, antimonio, limetta e altre cose che dovevano servire ad affrettare l’inizio della virilità. Strofinai quella roba sotto le braccia e sul ventre. La pozione bruciava come mille diavoli. Ma ben presto i peli mi spuntarono folti come sul corpo di un guerriero.
Dumuzi avviò campagne militari contro Aratta, contro la città di Kish, e contro la selvaggia tribù dei Martu del deserto. Io ero troppo giovane per prendere parte a queste guerre, ma già mi addestravo ogni giorno nella pratica del giavellotto, della spada, della clava e dell’ascia. A causa della mia corporatura, gli altri bambini avevano paura di combattere contro di me nel campo di addestramento, e fui costretto a fare pratica con i ragazzi.
Un giorno, mentre duellavo con l’ascia con un guerriero di nome Abbasagga, gli spaccai in due lo scudo con un sol colpo: il giovane gettò l’arma a terra e corse via dal campo. Dopodiché per me fu difficile trovare degli avversari, anche tra gli uomini. Per qualche tempo me ne andai per conto mio a studiare l’arte dell’arco e della freccia, sebbene quest’arma sia usata solo dai cacciatori, e non dai guerrieri. Il primo arco fatto per me era troppo debole, e lo spezzai quando cercai di tenderlo. Poi comprai un arco formato da parecchi legni abilmente incollati: cedro, gelso, abete e salice, che servì meglio al mio scopo. Ce l’ho ancora.
Un’altra cosa che appresi fu l’arte di costruire. Studiai il miscuglio di resina e malta con cui si fa il bitume e altri tipi di pece, la fattura dei mattoni, l’intonacatura e la pittura delle pareti, e molte altre cose umili. Nel calore del giorno lavoravo e sudavo tra gli artigiani per imparare meglio il mestiere.
Uno dei motivi per cui lo feci, fu che è nostra abitudine educare i Principi ad attività simili, in modo che possano ricoprire appropriatamente il primo ruolo nella costruzione e nella consacrazione di nuovi edifici e mura. In altri paesi, lo so, Principi e Re non fanno nient’altro che cavalcare, andare a caccia e divertirsi con le donne, ma qui le cose non vanno in quésto modo.
Al di sopra e aldilà delle responsabilità che mi aspettavo di assumere un giorno, comunque, io provavo un grande piacere nell’impadronirmi di questi mestieri. Fare mattoni e metterli uno sull’altro per formare un muro mi dava un forte senso di compimento, intenso quanto quello che ho provato nel compiere azioni più eroiche, in un certo senso più forti, forse. E c’è qualcosa di voluttuoso nel fare mattoni, nel mescolare l’argilla e la paglia, nel premere l’argilla umida nella forma, nel rimuoverne l’eccesso con il dorso della mano.
Naturalmente, ci sono altre e più ovvie fonti di piacere, e altre sensazioni più direttamente voluttuose. Cominciai presto anche l’educazione in questo campo.
La mia prima maestra fu una piccola guardiana di capre dagli occhi strabici, che incontrai nella Strada dello Scorpione un giorno di fine inverno. Avevo dieci o undici anni e lei, credo, doveva averne un po’ di più, visto che aveva il seno e i peli. Mi chiese un pezzetto della treccia d’oro che portavo tra i capelli, e io le dissi: «Vieni con me.»
In una cantina buia, su un mucchio di vecchia paglia umida, la bambina si guadagnò la treccia, sebbene quello che facemmo fosse più una lotta che un accoppiamento. Non sono nemmeno sicuro che la penetrai quel giorno, tanto inesperto ero. Ma ci incontrammo altre due o tre volte, e so che in quelle occasioni compimmo il vero atto. Non le chiesi mai il suo nome né le dissi il mio. Puzzava di latte e di orina di capra, e aveva un viso grossolano e la pelle macchiata.
Si contorceva e si dimenava tra le mie braccia come un viscido animale del fiume. Ma, quando l’abbracciavo, mi sembrava bella come Inanna, e il piacere che mi dava mi colpiva come il fulmine di Enlil. Così fui iniziato al grande mistero, un po’ prima di quanto dovrebbero accadere queste cose, e in una maniera molto irregolare.
Ce ne furono molte altre dopo di lei. La città era piena di ragazzine che volevano andare con un giovane Principe vigoroso per un’ora, e devo averne provato almeno la metà.
Poi scoprii che le stesse delizie, meno gli odori sgradevoli e gli altri piccoli inconvenienti, le potevo avere da ragazze di una classe superiore. Poche mi rifiutarono, e quelle che lo fecero, penso, dissero di no solo per la paura di essere scoperte e punite. Da parte mia, non ne avevo mai abbastanza: sentivo che, quando il mio corpo tremava di quell’estasi, entravo in comunione diretta con gli Dei.
Era come essere lanciati direttamente nel Regno Sacro. E non è forse vero? L’atto della procreazione è un mezzo per entrare in tutto ciò che è sacro. Finché non lo si è compiuto, si vive al di fuori dei confini della civiltà; si è poco più di una bestia. L’unione di carne e di spirito in quell’atto è qualcosa che ci avvicina agli Dei. Mi ritrovai a pensare ogni volta, in quell’istante violento che precede la fuoriuscita del seme, che sotto di me non c’era una normale ragazza di Uruk, ma l’orgogliosa Inanna, la Dea, non la Sacerdotessa. È un atto sacro.
A parte queste considerazioni elevate, dovrei aggiungere che notai, molto presto, che l’accoppiamento aveva la facoltà meravigliosa di calmare il mio spirito. Perché io ribollivo allora, e per molti anni successivi, di tumultuose frenesie interiori che mal comprendevo e contro le quali non avevo difese. Penso che quella mia lussuria sfrenata non derivasse solo dalle normali passioni della carne, ma da qualcosa di più profondo e oscuro: la dolorosa solitudine che mi assaliva come un lupo nel buio. Spesso mi sentivo l’unico essere vivo in un mondo di gelidi fantasmi. Senza padre, senza fratelli, senza un vero amico, separato dagli altri dalla stranezza divina che anche un semplicione scorgeva in me, mi trovai ingoiato da un forte senso di vuoto interiore. Mi pungeva e mi bruciava come una montagna di ghiaccio contro la pelle. Perciò mi rivolsi alle donne e alle ragazze per trovare l’unico conforto che mi fosse possibile. L’appagamento dei sensi mi dava almeno qualche ora di respiro dall’agitazione dello spirito.
Quando mancava un mese al mio dodicesimo compleanno, uno dei miei zii, avendo notato ai bagni che il mio corpo era diventato quello di un uomo, mi disse: «Andremo al monastero del Tempio questo pomeriggio. Penso che per te sia arrivato il momento.»
Sapevo che cosa voleva dire. E non ebbi il coraggio di dirgli che non avevo aspettato l’iniziazione appropriata.
Perciò, quando il calore del mezzogiorno si fu placato, indossammo due gonnellini di leggero lino bianco, poi mio zio mi disegnò sulle spalle una stretta striscia rossa e mi tagliò una ciocca di capelli. Quindi ci recammo insieme al Tempio di Inanna. Attraversammo il cortile posteriore e passammo per un intrico di stanze minori — officine, magazzini, e la biblioteca dove erano conservate le Tavolette Sacre — e alla fine arrivammo al convento, dove le Sacerdotesse del Tempio aspettano di servire i. fedeli.
«Adesso ti darai alla Dea,» mi disse mio zio.
Per un terribile momento mi chiesi se avesse fatto in modo tale che io offrissi la mia verginità alla stessa Inanna. Forse il figlio di un Re doveva beneficiare di un’iniziazione così elevata. Nel frattempo ero diventato un po’ spaccone, almeno nell’intimità dei miei pensieri, e immagino che avrei trovato eroico accoppiarmi con una Dea: ma abbracciare l’Alta Sacerdotessa era tutta un’altra cosa. La sua faccia da falco mi spaventava, così come il suo corpo incartapecorito. Dopotutto era più vecchia di mia madre. Senza dubbio, un tempo era stata la donna più bella, ma ora era anziana e si diceva fosse malata. Quando era comparsa all’ultima festa del raccolto, coperta d’olio, ingioiellata e praticamente nuda, avevo visto che aveva perso ogni bellezza. Ma le mie paure erano assurde. Inanna, fosse giovane o vecchia, era riservata solo al Re. La Sacerdotessa che mio zio mi aveva procurato era una vivace ragazza di sedici anni, con lo smalto d’oro sulle guance e una gemma rossa e scintillante infilata nella narice sinistra.
«Sono Abisimti,» disse, portando la mano al petto e alle cosce: il Segno Sacro: di Inanna. Poi mi portò nella sua stanzetta, mentre mio zio si allontanava per compiere i Riti con una sua Sacerdotessa.
La stanza di Abisimti conteneva un letto, un catino, e una statua della Dea. Accese le candele, compì le libagioni e mi condusse al letto lungo e stretto. Ci inginocchiammo a terra e recitammo insieme le preghiere: la sua fu recitata con grande solennità. Poi, in un braciere di bronzo, la ragazza bruciò la ciocca di capelli che mio zio mi aveva tagliato. Mi tolse i vestiti e mi coprì completamente con un panno fresco. Alla vista della mia nudità, aggrottò la fronte.
«Quanti anni hai?», chiese.
«Dodici tra un mese.»
«Dodici? Solo dodici?» Rise con grazia e sbatté le mani. «Allora gli Dei ti hanno favorito!»
Non dissi niente: mi limitai a guardare attentamente attraverso la leggera tunica di lino i suoi seni rotondi appena visibili.
«Quanto sei avido!», gridò. «Gusti per la prima volta il grande mistero, e non riesci ad aspettare nemmeno un momento!»
Non osai mentire ad una Sacerdotessa, ma non volli nemmeno dirle la verità. Quindi distolsi lo sguardo, fingendo di sentirmi in imbarazzo.
Abisimti lasciò cadere a terra la sua tunica. Ma, prima che potessi possederla, lei dovette spiegarmi per esteso il significato esoterico del rito che stavamo per compiere, cosa che io avevo già capito da solo, e poi istruirmi sui metodi e sull’arte dell’accoppiamento. Anche questo era superfluo, ma sopportai con pazienza. Poi passammo all’azione. Io finsi una goffaggine che avevo superato da molto tempo.
Anche in questo modo, gli occhi di Abisimti scintillavano quando finimmo. Era giusto, mi chiesi, che ne avesse tanto piacere, dal momento che era una Sacerdotessa? Ma in seguito giunsi a capire che non solo è giusto ma è sacro per le Sacerdotesse di Inanna godere degli atti di devozione del monastero. Una comune prostituta può odiare il proprio lavoro e detestare i propri clienti forse, ma una Sacerdotessa è impegnata nell’atto più sacro di tutti: gettare un ponte sull’abisso che separa i mortali dagli Dei. Questo vale anche per una comune prostituta, ma la prostituta non capisce simili cose.
In questo modo mi incamminai silenziosamente verso la virilità. Mi pareva di vedere tutta la mia vita futura svolgersi davanti a me. Avrei mangiato bene, bevuto bene e goduto molte donne, e sarei stato un guerriero, un Sacerdote e un Principe. Un giorno Dumuzi sarebbe morto e io sarei stato chiamato sul trono di Uruk.
Non mettevo in dubbio nessuno di questi fatti. Era palese che quello sarebbe stato il mio destino. Sebbene fossi già cosciente che gli Dei sono capricciosi, non li ritenevo stupidi: e chi poteva governare meglio la città, una volta arrivato all’età giusta, del figlio di Lugalbanda? Avevo l’impressione che l’assemblea cittadina avrebbe scelto inevitabilmente me, quando Dumuzi fosse morto.
Ma, nel frattempo, Dumuzi era il Re. E Dumuzi, sebbene non fosse più giovane — allora aveva almeno ventiquattro anni — era ben lontano dall’essere vecchio. Avrebbe potuto facilmente vivere altri venti anni, se fosse stato fortunato sui campi di battaglia. Era un lunghissimo periodo di attesa per me. Una grande inquietudine mi saliva dentro. Lottavo per contenerla.