Continuai a vagare, in preda alla disperazione e alla follia, ma adesso i miei vagabondaggi avevano uno scopo, per quanto folle e disperato fosse. Non saprei dirvi quanti mesi camminai, né quali steppe, valli e pianure percorsi.
A volte il sole era davanti a me, simile a un occhio enorme e rabbioso, che emanava abbaglianti onde di calore, e io barcollavo sotto i suoi raggi mentre avanzavo a fatica. A volte il sole era pallido e basso sull’orizzonte, ed era alle mie spalle, o alla mia sinistra. Non saprei dirvi quali direzioni fossero.
Trovai fiumi sul mio cammino, e li attraversai a nuoto. Dubito che fossero i Due Fiumi del Paese. Attraversai paludi e luoghi in cui la sabbia bagnata sembrava letame sotto i miei piedi. Attraversai dune e distese secche e desolate. Mi feci strada attraverso folti di canne spinose che mi sferzavano come nemici vendicativi.
Mi nutrivo di carne di lepre, di cinghiale, di castoro e di gazzella. Laddove mancavano tutti questi animali, mi cibavo di carne di leone, di sciacallo e di lupo. Quando poi non trovavo animali di nessuna specie, allora mangiavo ricci, nocciole e bacche. E, dove non c’era nulla da mangiare, non mangiavo niente, e non m’importava. Dentro di me c’era la forza divina. Il mio scopo era divino.
Dopo qualche tempo arrivai ad una montagna che doveva essere quella chiamata Mashu. Quella montagna ogni giorno sorveglia il sorgere e il tramontare del sole. Sapevo che era la montagna Mashu, perché le sue cime gemelle toccavano la volta celeste e i suoi seni toccavano in basso le porte degli Inferi. C’è solo una montagna come quella sulla Terra.
Si dice che a guardia di quella porta ci siano gli uomini scorpione, creature metà uomo e metà mostro, con la coda arcuata, snodabile, che dà una puntura fatale. Sono così temibili questi uomini-scorpione che il fulgore dei loro occhi è terrificante; da essi emana uno splendore che scintilla come un incendio in un dirupo. Il loro sguardo da solo uccide. Forse è vero. Non vidi nessun uomo scorpione quando salii sul Mashu. Per essere più precisi, incontrai alcune creature tristi e meschine che erano abbastanza mostruose, ma ben lontane dall’essere terrificanti. Può essere che altri, ricevutene le descrizioni di seconda o terza mano, li abbiano trasformati in mostri spaventosi. Succede spesso nei racconti dei viaggiatori, immagino.
Ma non negherò che ebbi un tremito di paura quando incontrai la prima di queste creature, a metà del Mashu, nella radura pianeggiante che si trova tra le due cime. Mi doveva già osservare da qualche tempo, visto che si trovava molto più sopra di me, con le braccia piegate con calma.
Per Enlil, era veramente strana! Credo fosse più uomo che altro, ma aveva la pelle scura, dura e coriacea, dove riuscivo a scorgerla, molto simile alla crosta di un animale marino, oppure, al duro rivestimento di uno scorpione. Quando la vidi mi fermai subito, ricordando quello che avevo sentito dire dei guardiani di quella montagna e del loro sguardo letale. Mi coprii rapidamente gli occhi con le mani e abbassai lo sguardo. Il cuore mi balzò in petto per la disperazione.
In una lingua molto simile a quella del popolo del deserto, la creatura-scorpione disse: «Non hai nulla da temere da me, straniero. Arrivano pochi visitatori qui: sarebbe un peccato ammazzarli.»
Quelle parole mi diedero sicurezza. Mi calmai, abbassai le mani e guardai senza timore la creatura.
«Questa è la montagna chiamata Mashu?», chiesi.
«Sì.»
«Allora sono molto lontano da casa.»
«Qual è il tuo paese, e perché l’hai lasciato?»
«Sono della città di Uruk,» replicai, «e mi chiamo Gilgamesh. Ho lasciato il mio paese perché cerco qualcosa che lì non c’è.»
«Gilgamesh? Non è il nome del Re di Uruk?»
«Come fai a saperlo, dal momento che vivi su queste montagne remote?»
«Ah, amico mio, tutti conoscono Gilgamesh il Re, che è per due terzi un Dio e per un terzo mortale! Sulla Terra ci può essere un uomo più felice di lui?»
«Penso che dovrebbe esserci,» dissi. Avanzai lentamente lungo il sentiero cosparso di rocce finché non arrivai all’altezza della creatura scorpione. Dissi in tono tranquillo: «Sono Gilgamesh il Re. Anzi, lo ero, perché ho lasciato il regno alle mie spalle.»
Ci osservammo attentamente, faccia a faccia, e nessuno di noi due, credo, sapeva che cosa pensare dell’altro. Il mio terrore per quella creatura era scomparso, sebbene la stranezza della sua pelle mi facesse rabbrividire. Non saprei dirvi se Tessere-scorpione fosse in parte un Demone, oppure solo una disgraziata creatura deforme dalla nascita. Ma gli occhi, che guardavano da quella faccia orribile, erano occhi tristi e gentili, e non ho mai visto nessun Demone i cui occhi siano tristi e gentili.
Dopo un po’ di tempo, la creatura si girò e mi fece cenno di seguirla. Con uno zoppichio lento e goffo superò la curva che formava la montagna. Aldilà c’era una piccola capanna fatta di rocce piatte e rami intrecciati: vicino alla capanna c’era un secondo essere-scorpione, una donna ancora più spaventosa, con una pelle spessa e giallastra che si alzava in creste frastagliate come una pesante corazza.
L’uomo-scorpione, in qualche modo, era riuscito a trovare una compagna cui era stata inflitta la sua stessa disgrazia? Oppure quella donna era una sua sorella, che aveva ereditato quella deformità dallo stesso sangue? Non seppi mai quale fosse la verità. Forse la donna era sia compagna sia sorella: che gli Dei non concedano a quella coppia di generare una stirpe della loro razza! Per orribile che fosse, la donna era gentile, e subito si apprestò a prepararmi una specie di tè di ortica e di arachidi. Era tardi, l’aria era rarefatta, la temperatura stava scendendo. Le stelle erano visibili sullo sfondo cupo e grigio del cielo pomeridiano.
L’uomo-scorpione mi presentò: «Questo viandante è Gilgamesh, Re di Uruk, il cui corpo è fatto della carne degli Dei.»
«Ah,» disse lei, indifferente come se l’uomo le avesse detto: “Questo è il capraio Kish-adul,” oppure “Questo è il pescatore Ur-shuhadak.”. Versò il tè in una rozza coppa di argilla e me lo porse. “Anche se è un Dio, vorrà qualcosa di caldo da bere,” disse.
«Non sono un Dio,» le dissi. «In me scorre sangue divino, ma sono mortale.»
«Ah,» fu la risposta.
L’altro disse: «È venuto qui in cerca di qualcosa, ma non mi ha detto di che cosa si tratti.»
La donna si strinse nelle spalle.
«Non la troverà qui, qualunque cosa sia.» E a me: «Qui non c’è assolutamente niente. Questo è un luogo brullo e vuoto.»
«Quello che cerco si trova oltre questo luogo.»
La donna si strinse di nuovo nelle spalle e sorseggiò in silenzio il tè. Sembrava non importarle niente che io fossi lì, né che cosa cercassi. Beh, perché avrebbe dovuto importarle? Che cosa significavano per lei Gilgamesh e il suo dolore? Viveva in quel luogo terribile, in quel corpo disgustoso, e che cosa le importava se un Re vagabondo e afflitto arrivava in un freddo e grigio pomeriggio, in cerca di misteri e fantasie?
La osservai attentamente per qualche istante. La sua faccia era tutta pieghe e fossi, mostruosa e repellente. Ma vidi che all’interno di quel brutto guscio i suoi occhi erano dolci e caldi, occhi teneri, occhi di una donna. Era come se fosse stata attaccata e divorata per intero da qualcosa di strano e spettrale, e adesso guardasse dall’interno del guscio che l’aveva ingoiata.
Ma l’altro era più curioso.
«Che cosa cerchi, Gilgamesh?», chiese.
«Ad Uruk,» dissi, «conobbi uno straniero… si chiamava Enkidu. Con Enkidu strinsi un’amicizia che ci unì in un legame più stretto di qualsiasi altro, più forte persino di un legame tra amante e amata. Era mio amico. Insieme sopportavamo tutte le privazioni e le fatiche, e ci amavamo teneramente.»
«E poi è morto?»
«Sai anche questo?», dissi sorpreso.
«Non so niente. Ma la sofferenza ti avvolge come un mantello nero.»
«Piansi per lui notte e giorno. Non volli nemmeno dare il suo corpo per farlo seppellire, finché non capii che era indispensabile. Forse pensavo che, se avessi pianto abbastanza, il mio amico sarebbe tornato in vita. Ma non accadde. E da quando Enkidu è morto, la mia vita è vuota. Da quando è morto, vago nelle regioni selvagge come un cacciatore. No, come un folle. Non vedo nient’altro davanti a me, oltre la morte, e il pensiero della morte priva di vita la mia vita. La morte è la mia nemica.» Guardai l’uomo-scorpione negli occhi. «Voglio sconfiggere la morte!», gridai.
«Tutti dobbiamo morire,» disse la donna in tono apatico e abbattuto. «Non arriva mai troppo presto.»
Con rabbia, le risposi: «Per te, forse!»
«Arriva, che lo vogliamo oppure no. Secondo me, è meglio accettarla piuttosto che combatterla. È una battaglia che nessuno può vincere.»
Scossi la testa.
«Ti sbagli. Quanto tempo fa c’è stato il Diluvio? Ziusudra è ancora vivo!»
«Per un favore particolare che gli hanno concesso gli Dei,» disse la donna. «È l’unico. Non accadrà una seconda volta.»
Le sue parole furono acqua gelata sulla mia faccia.
«Sei sicura? Come fai a saperlo?»
L’uomo-scorpione allungò una mano a toccarmi. Era ruvida come legno contro la mia pelle.
«Con calma, con calma, amico. Ti ecciti troppo, ti verrà la febbre. Se gli Dei hanno deciso di risparmiare Ziusudra, a te cosa ne viene?»
«Molto,» dissi. «Dimmi: è lontana da qui la terra di Dilmun?»
«Molto lontana, penso. Devi superare la cima della montagna, scendere il difficile versante che arriva fino al mare, e poi…»
«Mi puoi indicare la strada?»
«Posso dirti quello che so. Ma quello che so è che nessuno è mai arrivato a Dilmun da qui, e nessuno ci arriverà mai. Il versante opposto della montagna è una zona selvaggia e oscura. Morirai di caldo e di sete. Cadrai nei precipizi. Oppure verrai mangiato dalle bestie feroci. O ti perderai nell’oscurità e morirai di fame.»
«Indicami solo la strada, e io troverò Dilmun.»
«E che cosa farai allora, Gilgamesh?», mi chiese con calma l’uomo-scorpione.
«Voglio scovare Ziusudra. Ho delle domande da fargli, sulla morte, sulla vita. Vive da centinaia d’anni, o forse da migliaia: deve conoscere i segreti di tutte le cose. Mi dirà in che modo si può sconfiggere la morte,» risposi.
Entrambe le creature mi guardarono: i loro occhi esprimevano pietà, come se il mostro fossi io. Ma non dissero niente. La donna mi offrì altro tè. L’uomo si alzò e zoppicò verso il retro della capanna. Mi portò una specie di pane, fatto con qualche seme selvatico di montagna. Aveva il sapore della sabbia cotta, ma lo mangiai tutto.
Restammo in silenzio a lungo, poi l’uomo disse: «Nessuno, uomo o donna, ha mai attraversato la regione selvaggia che si stende davanti a te, per quanto ne sappia, e io vivo qui da molto tempo. Ma ti auguro di avere fortuna, Gilgamesh. Domani mattina ti accompagnerò fino alla cima e ti mostrerò la strada: possano gli Dei guidarti sano e salvo fino al mare.»
Sembrava che stesse parlando a un bambino che, irragionevolmente, volesse fare qualcosa di pericoloso. C’era tristezza nella sua voce, rabbia e anche rassegnazione. Era chiaro che pensava che sarei andato incontro solo a sofferenze. Era credibile e ragionevole: lui aveva visto che cosa c’era aldilà del valico e io no. Non importava. Non avevo paura di soffrire, perché avevo già sofferto, e il mio scopo era di giungere nella terra che è aldilà della sofferenza. Per questo motivo, dovevo raggiungere Dilmun e parlare con il venerando Ziusudra. Se il mio viaggio doveva svolgersi nel dolore, nella sofferenza, nel gelo o nella calura, tra sospiri e lacrime, che fosse pure.
Quella notte dormii sul pavimento della capanna delle creature-scorpione, ascoltando il loro respiro aspro e stridulo. Quando arrivò l’alba, mi diedero da mangiare: di nuovo tè e pane di farina di sabbia. Quando il sole spuntò tra le cime del Mashu e ci illuminò, l’uomo-scorpione disse: «Vieni. Ti mostrerò la strada.»
Ci arrampicammo insieme sulla cima del valico. Abbassai lo sguardo su una vallata di rocce frastagliate, del colore della terracotta, che si stendeva fin dove arrivava lo sguardo. A destra e a sinistra si allungava la regione selvaggia: alberelli dai rami sporgenti e contorti nelle zone più elevate, una fitta foresta nera più in basso. Sembrava un luogo privato di ogni segno della presenza degli Dei.
«Ci sono animali selvaggi?», chiesi.
«Lucertole. Capre con lunghe corna. Qualche leone.»
«E ci sono Demoni?»
«Non mi sorprenderebbe.»
«Ne ho già incontrati.» dissi. «Forse preferiranno non infastidirmi, poiché sanno che mi vendicherei.»
«Forse,» disse l’uomo-scorpione.
«Ci sono ruscelli? Sorgenti?»
«Molto pochi, finché non si arriva alla foresta che è in basso. Penso che lì ci sia acqua, visto che gli alberi crescono così folti.»
«Non sei mai arrivato fino a lì?»
«No,» disse. «Mai. Nessuno c’è mai stato.»
«Tra non molto, non sarà più vero,» risposi e presi congedo da lui, ringraziandolo di cuore per la sua gentilezza. Egli annuì ma non mi abbracciò. Era ancora fermo sulla cresta del valico, quando cominciai la discesa. Ore dopo, quando alzai lo sguardo, vidi quel corpo mostruoso e deforme stagliarsi contro il cielo. E non smise mai di guardarmi. Lo scorsi altre due volte mentre scendevo, poi la cresta scomparve alla mia vista.