Quell’anno, nel periodo della Festa dell’Anno Nuovo, il caldo dell’estate non passò, il vento fresco e umido, chiamato Inganno, non arrivò da sud, e non ci fu nessun segno di pioggia nel cielo settentrionale. Avevo molta paura, ma tenni per me l’inquietudine, non dissi niente nemmeno a Enkidu. Dopotutto, c’erano stati altri autunni secchi nel passato, e le piogge erano sempre arrivate prima o poi. Se pure quell’anno fossero arrivate poi, cionondimeno sarebbero arrivate. Almeno così credevo: così speravo. Ma la mia paura era grande, perché sapevo che Inanna era mia nemica.
La notte della cerimonia del Sacro Matrimonio, lei e io ci incontrammo faccia a faccia per la prima volta dopo la visita che mi aveva fatto al palazzo, quella volta all’alba. Ma quando arrivai nella lunga camera del Tempio per salutarla, i suoi occhi sembravano pietra levigata, e mi salutò con il silenzio di una pietra. E quando dissi: «Salve, Inanna,» lei non replicò, come deve fare Inanna, con le parole: «Salve, marito regale, fontana di vita.» Sapevo che il castigo si era abbattuto su Uruk, un castigo di sua mano.
Non sapevo cosa fare. Compimmo la cerimonia della presentazione sul portico del Tempio, eseguimmo i riti dell’orzo e del miele, andammo nella camera da letto e restammo davanti al letto di ebano intarsiato d’avorio e oro. In tutto quel frattempo non mi aveva detto nemmeno una parola, ma dai suoi occhi avevo capito che le il suo odio per me non era diminuito. Le ancelle-sacerdotesse le tolsero i fili di lapislazzuli e i pettorali, e aprirono il catenaccio della piastra che le copriva il ventre. La lasciarono nuda davanti a me, scoprirono il mio corpo, e uscirono dalla stanza. Lei era bella come sempre, ma non era illuminata dalla luce del desiderio, i capezzoli erano morbidi, la pelle non risplendeva della fiamma della sensualità. Non era l’Inanna che conoscevo da tanti anni, la donna dalla passione insaziabile. Restò accanto al letto con le braccia conserte e disse: «Puoi restare qui o andartene, come vuoi. Ma stanotte non mi avrai.»
«È la notte del Matrimonio Sacro. Io sono il Dio. Tu sei la Dea.»
«Io non farò entrare nel mio corpo il Re di Uruk questa notte. L’ira di Enlil ricade su Uruk e sul suo Re. Il Toro del Cielo sarà liberato.»
«Distruggerai il tuo stesso popolo.»
«Distruggerò la tua arroganza,» rispose lei. «Sono andata a inginocchiarmi davanti al Padre Enlil… io, la Dea! Padre, ho detto, libera il Toro del Cielo per abbattere Gilgamesh, perché Gilgamesh mi ha disprezzata. E ho detto a Enlil che, se non l’avesse fatto, avrei sfondato la porta degli Inferi e avrei svegliato i morti affinché divorassero il cibo dei vivi, e le moltitudini dei morti sulla Terra sarebbero state più numerose dei vivi. Enlil ha ceduto: mi ha detto che libererà il Toro.»
«Per la rabbia che hai contro di me, manderai anni di siccità ad Uruk? Il popolo morirà di fame.»
«C’è grano nei miei depositi, Gilgamesh. Il popolo ha pagato le decime alla Dea, e io ho conservato grano sufficiente per sette anni. Ho da parte il foraggio per il bestiame. Quando la fame colpirà, Inanna sarà pronta ad aiutare il suo popolo. Ma tu sarai già caduto, Gilgamesh. Ti avranno già deposto dal trono, per aver attirato l’ira degli Dei su Uruk.»
La sua voce era calma. Stava nuda davanti a me, come se non significasse nulla rivelare il proprio corpo, come se lei fosse solo la statua di se stessa, o io un eunuco. La guardai e non ci fu nulla che potessi dire o fare. Sé la Dea non si unisce al Dio nel Sacro Matrimonio, non ci saranno piogge; ma come potevo costringerla? Sarebbe stato peggio, se l’avessi costretta. Mi disse ancora: «Tu puoi restare o andartene, come vuoi.» Ma non avevo nessuna voglia di trascorrere la notte a tremare nella tempesta gelida della sua ira. Raccolsi le mie splendide vesti regali, le indossai e me ne andai dal Tempio, addolorato e impaurito.
Nel palazzo trovai Enkidu con tre concubine, che celebrava la notte del Matrimonio Sacro alla sua maniera. Fiumi di vino scuro correvano lungo il pavimento e pezzi semimasticati di carne arrostita erano sul tavolo. Molto sorpreso, disse: «Come mai sei tornato così presto, Gilgamesh?»
«Lasciami stare, fratello. Questa è una notte triste per Uruk.»
Non sembrò udirmi.
«Hai finito così presto con la tua Dea? Beh, allora, prenditi un paio delle mie!» E scoppiò a ridere, ma la sua risata si spense di colpo, quando vide l’espressione tetra del mio volto. Si liberò delle ragazze che gli erano aggrappate, venne da me, mi mise le mani sulle spalle e disse: «Che cosa c’è, fratello? Dimmi che cosa è accaduto!»
Glielo dissi.
«Se questo suo Toro verrà messo in libertà per le strade della città, beh, noi dovremo catturarlo e riportarlo nel suo recinto, non è vero? Non è così, Gilgamesh? Come possiamo permettere che un toro selvaggio corra Libero per Uruk?», disse. Scoppiò di nuovo a ridere e mi gettò le braccia al collo in un grande e goffo abbraccio. Per la prima volta quella sera il mio cuore si sollevò, e pensai che forse avremmo potuto resistere, forse avremmo potuto lottare con successo contro la Dea: io e Enkidu.
Ma la pioggia non venne. Giorno dopo giorno il cielo era un drappo di azzurro brillante dal quale il grande occhio di Utu ci guardava senza rimorso. Il vento bruciante era un coltello che affondava nella terra, lanciando in aria il fango secco delle rive del fiume e la sabbia del deserto grigio e giallo che si trovava al di là di Uruk. Nuvole soffocanti di polvere ci avvolgevano come sudari. L’orzo seccava nei campi. Le foglie delle palme si annerirono di polvere, e rimasero appese come ali di uccelli feriti. Arrivarono il tuono e il fulmine, e terribili lampi di luce coprirono la terra come un manto. Ma le tempeste erano tempeste secche, e ancora non pioveva. Enlil era nostro nemico. Inanna era nostra nemica. An ci ignorava. Utu non ci ascoltava. Il popolo si raccoglieva nelle strade e urlava: «Gilgamesh, Gilgamesh, dov’è la pioggia?» E che cosa potevo dire io?
Poi, lontano, ad oriente, la terra tremò, le colline rombarono e ci fu una tale esplosione di fiamme e di gas fetidi che le eruzioni di Huwawa al confronto sembravano una brezza dolce e lieve. Avevo un’armata di mille uomini in quel territorio a controllare il punto da dove gli Elamiti scendevano nel nostro dominio, e di quei mille solo meno di una metà tornò ad Uruk.
«Era il Toro del Cielo messo in libertà,» mi dissero. «Il cielo si è oscurato, si è alzato un fumo nero, una frana è venuta giù, e noi abbiamo visto il Toro in aria sopra le nostre teste. Tre volte ha sbuffato: con il primo sbuffo ha ucciso cento uomini, altri cento con il secondo, e con il terzo altri duecento. La terra tremava, le colline rombavano, e il Toro del Cielo soffiava un alito fetido su di noi. Quel tanfo l’abbiamo ancora nelle narici. E ora il Toro marcia su Uruk.»
Che cosa dovevo fare? A chi potevo rivolgermi?
«È il Toro,» gridava la gente. «Il Toro ci assale!»
«Il Toro pascola ancora nel recinto del Tempio,» dissi. «Tutto andrà bene. Queste tribolazioni presto finiranno.»
E guardavo verso il cielo accecante e dentro di me dicevo a Lugalbanda, Padre, padre, va’ da Enlil, chiedigli di far piovere. Ma la pioggia non arrivava.
Inanna era chiusa nel suo Tempio. Non accettava petizioni, non eseguiva riti. Quando il popolo si raccolse davanti alla Piattaforma Bianca a chiedere misericordia, lei mandò fuori le ancelle a dire che erano andati nel posto sbagliato, che sarebbero dovuti andare da Gilgamesh a chiedere misericordia, perché era stato Gilgamesh ad attirare il male sul paese. Tornarono da me. Ma che cosa potevo fare io?
Il vento diventò più violento. Nella città si diffuse la voce che quel vento era il vento degli Inferi, un vento-demone che portava i semi della morte e della decadenza dalla Casa della Polvere e delle Tenebre. Dissi che non era vero. Si sussurrava nella città che i pozzi erano maledetti e che presto si sarebbero riempiti di sangue, cosicché i vigneti e i boschetti di palme sarebbero diventati rossi. Dissi loro che non sarebbe successo. Si mormorava nella città che un’armata di locuste stava volando verso di noi dal nord, e che presto il cielo si sarebbe oscurato delle loro ali. Assicurai che non sarebbero venute.
Diedi al popolo il grano del mio deposito. Fornii il foraggio per il bestiame. Ma non era sufficiente: nemmeno appena sufficiente. Non è di competenza del Re dare il grano in tempi di siccità e carestia, è di competenza di Inanna. Ma Inanna rifiutò il proprio grano al popolo. Ciononostante il popolo non la odiò: lei aveva diffuso nella città la voce che Uruk doveva prima essere purificata, e solo dopo lei avrebbe aperto i propri granai ai bisognosi. Il popolo capì. Anch’io capii. Aveva intenzione di battermi.
E infine Inanna liberò il Toro entro i confini della città. Mi riferisco al toro che pascolava nel recinto del Tempio, quello che incarnava la potenza e la maestà degli Dei. Da ventimila anni, o da due volte ventimila, ci sono tori nel pascolo all’interno del Tempio di Inanna: grandi tori, tori potenti, tori giganti, che non hanno eguali nel Paese. Diventano grassi ed enormi con il grano del Tempio, e portano ghirlande di fiori freschi in ogni stagione. Ogni giorno gli vengono portate giovenche per il loro piacere e, quando muoiono — perché muoiono, perfino loro che recitano la parte di Toro del Cielo — vengono sepolti nel terreno del Tempio con riti degni di un Dio. Non so dirvi quanti tori vi siano stati sepolti nella storia di Uruk, ma credo che, se quel pascolo fosse arato, sì scoprirebbero un mare di corna.
Il toro non esce mai dal pascolo del Tempio, una volta che vi abbia preso dimora. Guardiani sona di vedetta giorno e notte perché questo non accada. E, sebbene il toro sbuffi come lo stesso Enlil, gratti il terreno, e si butti con tutta la forza contro il cancello, non riesce a liberarsi. Ma in quel giorno di metà inverno, quando la siccità era al culmine, il cielo era grigio per i turbini di polvere e i più sensibili avvertivano il fetore delle nere eruzioni che uscivano dagli orifizi delle Terre dei Ribelli, in quel giorno in cui la calamità era ormai un’abitudine ad Uruk, Inanna liberò il Toro del Cielo nelle strade della città.
Il grido di dolore e terrore che si alzò era diverso da qualsiasi altra cosa avessi mai sentito ad Uruk. Penso che quel grido risuonasse fino a Kish, penso fosse udito anche a Nippur. Forse perfino nelle terre degli Elamiti alzarono gli occhi e dissero: «Che cos’è quel grido spaventoso che si alza ad occidente?»
Nel mio palazzo tremai di disperazione e dolore. Mi parve che ormai dovessi andare da Inanna, inginocchiarmi, cederle, consegnarle la città, perché altrimenti la gente sarebbe morta, oppure io sarei stato detronizzato. Cominciò a sembrarmi che, dopotutto, dovevo essere responsabile di quella rovina che si era abbattuta su Uruk, che ero stato io e non Inanna a attirare quei mali sulla città, proprio come diceva lei. Forse gli Dei si stavano vendicando della morte di Huwawa. Forse avevo sbagliato a rifiutare di sposare la Sacerdotessa. Forse… forse… forse…
Non ero mai stato tanto disperato quanto quel giorno in cui il Toro di Inanna impazzava e sbuffava per le strade di Uruk. Fu Einkidu a sollevarmi da quello stato. Mi trovò che mi lamentavo nel palazzo, mi abbracciò e disse: «Su, fratello, perché ti lamenti? La liberazione è a portata di mano.»
«Non sai che il Toro del Cielo è sguinzagliato per la città?», gli chiesi.
«Sì, Gilgamesh, sì; il toro è sguinzagliato! E questo è il nostro momento. Possiamo far girate i venti secchi? Possiamo chiamare la pioggia dal cielo? No, non possiamo fare nessuna di queste cose: ma possiamo uccidere un toro, fratello. Possiamo sicuramente uccidere un toro. Alla fine Inanna ha versato tutta la sua ira in un solo vaso. Usciamo, Gilgamesh: rompiamo quel vaso.»
Gli occhi gli brillavano di eccitazione, e il corpo gli pulsava di forza. Presi coraggio dal suo vigore. Sorrisi per la prima volta da non so quanti giorni e lo abbracciai, finché Enkidu non gemette per la forza del mio abbraccio.
«Su, fratello,» disse, e uscimmo nelle strade secche e polverose a cercare il Toro del Cielo.
Era mezzogiorno. Le strade erano vuote in quel terribile calore, ma io non avevo bisogno di chiedere la strada per arrivare al toro. La sua presenza si annunciava nella città come il calore di un’incudine riscaldata: sentivo la sua vampa rossa scaldarmi il viso.
Anche ad Enkidu, in cui ancora vigeva la saggezza della vita selvaggia, succedeva la stessa cosa. Teneva il viso rivolto verso il vento, allargava le narici, girava la testa in modo che le orecchie raccogliessero tutti i suoni, poi indicava la direzione, e avanzavamo.
Nel Quartiere del Leone, per le, strade, era sparso lo sterco fresco del toro, con un’aura d’oro intorno, e le mosche dalla testa blu che vi ronzavano sopra non osavano toccarlo. Nel Quartiere della Canna trovammo tutti i carri dei mercanti rovesciati, e la mercanzia sparsa a terra, perché il toro era passato da quella parte. E nel Quartiere dell’Alveare, dove le strade si accalcano e c’è appena lo spazio per camminare, vedemmo i mattoni strappati dagli edifici laddove il toro era passato.
Poco più avanti ci imbattemmo in qualcosa di peggio: ciottoli macchiati di sangue, amari singhiozzi e gemiti, e un uomo e una dorma immobili come statue, con gli occhi vitrei. L’uomo stringeva fra le braccia il corpo dilaniato di un bambino. Un bambino di quattro, cinque anni, credo, che doveva essersi trovato sulla strada del toro. Pregai che Enlil avesse concesso al bambino una morte rapida, ma quale misericordia avrebbe potuto concedere il Dio alla madre e al padre?
Quando li oltrepassammo, la donna ci riconobbe. Senza dire una parola, tese le mani verso di me, come a pregarmi, O Re, ridammi mio figlio. Non potevo farlo. Per alleviare il suo dolore potevo darle solo il sangue del toro, ma non pensavo che sarebbe stato sufficiente.
Quella morte doveva essere addebitata a Inanna. È così che serve il suo popolo, pensai, uccidendone gli innocenti bambini con la sua bestia furiosa e vendicativa?
Enkidu e io ci affrettammo a seguire le tracce del Toro, con l’espressione seria, concentrata. Qualche istante dopo arrivammo in un grande spazio aperto chiamato Piazza di Ningal: vedemmo il toro che si impennava con violenza come un vitellino giocherellone.
Era bianco — tutti i tori del Tempio sono bianchi — enorme, aveva gli occhi orlati di rosso e le corna lunghe e appuntite come lance, che si curvavano crudelmente, quasi come l’intelaiatura di una lira. Vidi gli spruzzi del sangue del bambino sugli zoccoli delle zampe anteriori e sul pasturale.
Quando ci avvicinammo, annusò il nostro sudore, si fermò, si girò, e ci guardò con degli occhi che ardevano come carbone. Sbuffò, scalpitò, abbassò la testa e si preparò a caricare. Enkidu mi guardò, e io guardai Enkidu. Insieme avevamo ucciso elefanti, leoni, e lupi. Avevamo perfino ucciso un Demone che eruttava dal terreno sotto forma di una colonna di fumo. Ma non avevamo mai ucciso un toro, e quello era un toro che stava assaggiando il primo momento di libertà dopo un lungo periodo di cattività. Era al culmine della sua potenza, e in lui c’era anche la potenza del Padre Enlil. Non ebbi dubbi che quel giorno quel toro fosse il Toro del Cielo, proprio come a volte la Sacerdotessa Inanna è la Dea Inanna, e il Re di Uruk è Dumuzi, il Dio dei campi. Trattenemmo il fiato e ci preparammo ad affrontare l’attacco, coscienti che non sarebbe stato un combattimento facile.
Gli feci un cenno con la mano.
«Vieni da noi,» dissi in un sussurro, cercando di rendere seducente la voce. «Vieni qui. Vieni. Io sono Gilgamesh, e questo è Enkidu mio fratello.»
Il toro scalpito e sbuffo. Quindi alzò la grande testa scuotendo le grandi corna. Poi caricò, correndo con grazia e maestà. Sembrava volare sulla logora pavimentazione in mattoni della Piazza di Ningal.
Enkidu, ridendo, mi gridò: «Che esercizio fisico sarà, fratello! Gioca con lui! Non abbiamo nulla da temere!»
Enkidu corse in una direzione, io in quella opposta. Il toro si fermò a metà di una falcata, fece perno su una rampa, roteò e caricò. Poi si fermò una seconda volta, fece perno su una zampa e roteò, alzando la polvere. Sembrò sconcertato quando cominciammo a guizzargli intorno, ridendo, battendoci le mani l’uno sulle spalle dell’altro. Il toro ci bagnò con la sua bava e ci sfiorò con la coda, ma non riusciva ad abbatterci, non riusciva a buttarci a terra.
Cinque volte caricò, e cinque volte lo scansammo, finché non fu infuriato e perplesso. Poi caricò ancora una volta, fece una finta con intelligenza diabolica, quindi ancora un’altra finta: cambiava direzione con la stessa agilità di un danzatore del Tempio, caricava ora in una direzione, ora in un’altra. Con violenza balzò su Enkidu con le corna abbassate. Ebbi paura che mio fratello sarebbe stato trafitto: ma no, quando il toro si avvicinò, Enkidu allungò le mani e agguantò le corna, una per mano. Si sollevò da terra con un salto e si girò a mezz’aria, cosicché, quando atterrò, si trovò sulla groppa del toro, afferrandosi ancora alle corna.
Poi cominciò un combattimento che il mondo non aveva mai visto. Enkidu sulla groppa del Toro del Cielo, aggrappato alle corna, girava la testa dell’animale da una parte all’altra. Il toro infuriato si alzava sulle zampe posteriori per buttarlo a terra, ma non ci riusciva. Io ero davanti, e guardavo il combattimento con gioia e delizia.
Mi sembrò che il mio amico avesse recuperato completamente l’uso della mano, a giudicare da come resisteva ad una potenza così enorme. Ma, anche se non l’aveva recuperata completamente, la sua forza era sufficiente a mantenere la presa. Il Toro non riusciva a liberarsi da Enkidu. Ruggiva, scalpitava, spruzzava bava dovunque, ma Enkidu continuava a reggersi.
Enkidu concentrò tutta la sua forza enorme nel domare il toro, nel costringerlo alla resa, e nel fargli abbassare la testa poderosa. Sentii una risata rimbombante di Enkidu, e gioii. Vidi le massicce braccia di Enkidu gonfiarsi per lo sforzo, e fui felice. Ma poi il combattimento ebbe una svolta. Il toro, avendo riposato per qualche momento, trovò nuove energie, e cominciò a saltare e scagliarsi, scagliarsi e saltare, sforzandosi con rinnovata ferocia di gettare Enkidu a terra. Temetti per il mio amico, ma Enkidu non sembrava spaventato. Si aggrappava, si reggeva, girava la grande testa del toro da una parte all’altra. Ancora una volta costrinse il toro ad abbassare il muso verso il terreno.
«Ora, fratello!», gridò Enkidu. «Colpiscilo, ora! Colpiscilo! Trafiggilo con la spada!»
Era il momento. Balzai in avanti, afferrai l’elsa della spada con entrambe le mani, la sollevai quanto più mi era possibile, poi l’abbassai. La infilzai tra la collottola e le corna, ficcandola in profondità. Il toro emise un suono simile a quello del mare quando si ritira per la bassa marea. La furia fiammeggiante dei suoi occhi fu appannata da un velo. Per un attimo restò completamente immobile, poi le zampe cedettero. Mentre cadeva, Enkidu balzò a terra accanto a me. Ridemmo, ci abbracciammo, restammo per qualche attimo accanto al toro moribondo finché non mori. Poi gli togliemmo il cuore e l’offrimmo a Utu il Sole.
Quando il sacrificio fu compiuto, mi guardai intorno, e ad occidente, sui bastioni della città, vidi delle figure sulle mura. Toccai un braccio di Enkidu e indicai.
«È la tua Dea,» disse.
Era la verità. Inanna e le sue ancelle erano sulle mura. La Sacerdotessa aveva certamente assistito alla battaglia con il toro: anche a quella distanza avvertivo il calore e la forza della sua ira. Unii le mani a coppa, le portai alla bocca e gridai: «Hai visto, Sacerdotessa! Abbiamo uccisa il tuo toro: la pioggia arriverà presto!»
«Guai a te,» replicò con una voce che sembrava uscire dagli Inferi. E alle ancelle e agli altri spettatori gridò: «Guai a Gilgamesh! Guai a colui che osa disprezzarmi! Guai all’uccisore del Toro del Cielo!»
Al che Enkidu rispose: «E guai a te, uccello del malaugurio! Eccoti la mia offerta!»
Con audacia recise i genitali del toro morto e li lanciò con tutta la sua potenza, in modo che i pezzi di carne sanguinante atterrassero sui bastioni, ai piedi della Sacerdotessa. Rise con la sua risata rimbombante e gridò: «Tieni, Dea! Questo ti calma? Se ti potessi prendere, ti avvolgerei nelle budella del toro!»
Nel sentire quell’empietà, ci maledisse di nuovo, sia Enkidu sia me. Le donne che le erano accanto, le Sacerdotesse, le ancelle, le cortigiane del Tempio, le fedeli, che erano venute con lei a vederci distruggere dal toro che ora era morto, si abbandonarono a grandi gemiti e lamenti.