Dilmun! L’Isola Sacra! Il Paradiso degli Dei!
Raccontano storie favolose su Dilmun, tutti quelli il cui lavoro è raccontare storie: gli arpisti, i Sacerdoti, i cantastorie ai mercati. Si trova a sud, dove i Due Fiumi si uniscono nel Mare del Sole Che Sorge. Dicono che non vi sia né malattia né morte. A Dilmun tutto è puro, lindo e luminoso, la cornacchia non gracchia e il lupo non mangia l’agnello. Vi hanno abitato gli Dei: vi hanno dimorato Enki e Ninhursag, e insieme hanno generato Dei e Dee. Utu sorride costantemente su Dilmun, dove i fiori sbocciano senza fine, e la sua acqua è la più dolce del mondo.
Ma io ci sono stato. Vi racconterò com’era la vera Dilmun.
Forse è un paradiso. Ma un paradiso terrestre, un luogo bello ma non senza difetto. Condivide le avversità con il resto del mondo. Ci sono giorni in cui il sole non splende, ci sono giorni in cui soffiano i venti di tempesta. Ci si può ammalare a Dilmun, e si può morire. Si può trovare un topo che rosicchia nei sacchi di orzo, o le larve di insetti. Ci sono mendicanti, persone nate senza gambe o senza occhi, e altri disgraziati. Eppure, è un bel posto: ne ho conosciuti di peggiori. L’aria è calda e umida, il che per noi è strano, perché nel Paese la stagione calda è la stagione secca, e l’aria non è umida. Ma a Dilmun l’aria è sempre umida, sebbene le piogge siano scarse. In inverno il vento soffia da nord e il caldo si sopporta più agevolmente. È una piccola isola, ma molto fertile, ben irrigata, con folti boschetti di palme da datteri. Le case sono bianche, con i tetti piatti. C’è una grande prosperità.
La fortuna di Dilmun è la sua dislocazione nel Mare del Sole Che Sorge. Vive di commerci, e vive bene. Le sue navi arrivano non solo alle città del Paese che sorgono lungo i Due Fiumi, ma anche più lontano, a Meluhha e a Makan e negli altri regni ancora più remoti, di cui a Uruk si sa poco.
Attraverso il mercato di Dilmun passa il rame delle miniere di Makan e l’oro di Meluhha, passa il legno raro delle terre del lontano oriente, l’avorio, i lapislazzuli e la cornalina di Elam e delle nazioni che sono oltre Elam, e passano anche i manufatti del Paese, le nostre stoffe, i nostri utensili di rame e di bronzo, e la nostra bella oreficeria.
Nelle botteghe di Dilmun ho visto la levigata pietra verde che proviene da una terra che si trova aldilà dei confini del mondo; nessuno ne conosce il nome, ma si sa che la pietra viene da quella terra, scavata da demoni con la pelle gialla. Tutte le cose di questo mondo e dei mondi che sono oltre passano attraverso Dilmun per essere poi venduti altrove, e qualsiasi cosa passi attraverso Dilmun crea maggiore ricchezza per i mercanti di Dilmun.
Se la ricchezza è una caratteristica del paradiso, allora Dilmun è un paradiso. Non riesco a capire perché Enlil mandò Ziusudra a Dilmun per la sua ricompensa eterna. I mercanti di Dilmun sono grassocci e lustri. Trattano affari difficili e vivono in bei palazzi. Un giorno o l’altro, un Re, che non comprenderà l’importanza del porto di Dilmun per il commercio mondiale, calerà come un leone, e ucciderà i mercanti per depredare le ricchezze dei loro traboccanti depositi. Sarà un vero peccato per Dilmun, ma fino a quel giorno sarà un luogo dove la vita è piacevole e dove la gente normale vive come i Re.
In verità, non restai a lungo a Dilmun. Scoprii che Dilmun non è la dimora di Ziusudra, sebbene Ziusudra esista realmente, anche se non è precisamente lo Ziusudra che le favole mi avevano indotto ad aspettare. Egli non vive a Dilmun, ma su un’isola più piccola, senza nome, che si trova a circa mezza lega dalla costa occidentale dell’isola principale. Lo appresi dal barcaiolo Sursunabu. Fu la prima delle numerose informazioni che mi furono date su Ziusudra prima che lasciassi quelle isole felici.
Il barcaiolo era un individuo sparuto e vecchio, con i capelli grigi legati in un nodo sulla nuca. Indossava solo una striscia di stoffa marrone, a brandelli, avvolta intorno ai fianchi. Aveva la pelle scura come il cuoio. Lo trovai nel porto del villaggio di pescatori, che caricava un’imbarcazione lunga e stretta, fatta di canne rivestite da uno spesso strato di pece. Quando ci avviammo, salutò amabilmente Siduri, ma senza calore, e mi notò appena.
L’ostessa disse: «Ti porto un passeggero, Sursunabu. È Gilgamesh di Uruk, che vorrebbe parlare con Ziusudra.»
«Che parli con Ziusudra, allora. A me che cosa importa?»
«Ha bisogno di un passaggio fino all’isola.»
Con una stretta nelle spalle, Sursunabu rispose: «Che trovi un passaggio fino all’isola, se è quello che vuole. E poi che veda se Ziusudra vorrà riceverlo.»
«Fagli vedere l’argento,» sussurrò Siduri.
Feci un passo avanti e dissi: «Posso pagare bene per il passaggio.»
Il barcaiolo mi lanciò uno sguardo apatico.
«A che cosa mi serve il tuo metallo?»
Un tipo audace! Ma non era affatto arrogante. Era solo indifferente. Non avevo mai incontrato una persona simile, e per me era un mistero.
Con rabbia crescente, dissi: «Mi rifiuti? Io sono il Re di Uruk!»
«Sta’ attento, Sursunabu,» disse Siduri. «Reagisce male ai rifiuti. Ha un carattere violento, e ama immensamente se stesso.»
Mi girai e esclamai: «Che cosa hai detto?»
Sorrise. Sembrava un sorriso tenero, niente affatto di scherno.
«Sei l’unico di tutto il genere umano a infuriarti se pensi alla tua morte. Che cosa significa questo se non amarsi immensamente, Gilgamesh? Ti affliggi per la tua morte. Piangi più per te stesso di quanto tu abbia mai fatto per il tuo amico che è morto,» replicò.
Ero stupito, sia per la sincerità brutale delle sue parole, sia per il pensiero che potessero essere vere. Lo guardai di sottecchi, e mi sforzai di rispondere. Ma non riuscii a trovare nessuna risposta.
Siduri continuò: «L’hai detto tu stesso. Ti sei addolorato molto per il tuo Enkidu, ma è stata la paura della morte, della tua morte, a farti lasciare la tua città per le regioni selvagge. Non è così? E adesso corri da Ziusudra, pensando che egli ti insegnerà a sfuggire alla morte. È mai esistito un uomo che ha amato di più se stesso?» L’ostessa rise e guardò il barcaiolo. «Su, Sursunabu, sii gentile! Quest’uomo è il Re di Uruk e sogna di vivere in eterno. Accompagnalo da Ziusudra, ti prego. Che impari ciò che deve imparare.»
Il barcaiolo sputò e continuò a caricare la barca.
Era troppo: il disprezzo del barcaiolo e l’asprezza delle parole di Siduri. La mia ira traboccò e il mio spirito si infiammò. Sentii la testa pulsare e le mani tremare. Con rabbia, mi diressi verso Sursunabu. C’era una fila di piccole colonne di pietra levigata, appoggiate a terra tra me e la barca. Le presi furiosamente a calci, buttandone qualcuna in acqua, fracassando le altre, in modo da raggiungere Sursunabu. Lo afferrai per le spalle. Alzò gli occhi su di me, senza alcuna paura, sebbene io avessi il doppio della sua statura e potessi romperlo con la stessa facilità con cui avevo rotto quegli oggetti di pietra. Nello scorgere quello sguardo tranquillo, la mia rabbia si calmò alquanto, e lo lasciai andare. Trattenni il respiro, nel tentativo di raffreddare la fiamma incandescente che avevo nell’anima.
Con tutta l’umiltà possibile, dissi: «Ti prego, barcaiolo, accompagnami dal tuo padrone. Pagherò il prezzo della traversata, qualunque sia.»
«Te l’ho già detto, non ho nessun bisogno del tuo metallo.»
«Accompagnami lo stesso. Per amore degli Dei, di cui sono figlio.»
«Sei figlio degli Dei? Allora perché hai paura della morte?»
Sentii la rabbia tornare nel sentire le sue risposte ironiche e incuranti, ma mi sforzai di trattenerla.
«Devo inginocchiarmi? Devo pregarti? È così difficile accompagnarmi alla tua isola?»
Scoppiò in una risata strana e acuta.
«Adesso è difficile, folle Gilgamesh. Nella tua rabbia hai rotto le pietre sacre che garantiscono una traversata sicura: lo sai? Ci avrebbero protetto. Ma le hai rotte.»
Rimasi male. Di rado mi ero sentito così imbarazzato. Arrossii. Mi inginocchiai per raccogliere le piccole colonne di pietra. Ma le avevo calpestate con troppo vigore. Erano sparse in mille pezzi, e non saprei dire quante ne avessi buttate a mare, ma sicuramente più di una. Intontito, raccolsi quelle che restavano. Sursunabu con un gesto mi disse che era inutile. «Ce la faremo senza le colonnine,» disse. «I rischi saranno maggiori. Ma, se sei figlio degli Dei, forse chiederai loro di assisterci durante la traversata.»
«Allora mi accompagnerai!»
«Che cosa me ne importa?» disse, e si strinse nelle spalle.
Siduri mi si avvicinò. Mi prese le mani fra le sue, premette i morbidi seni contro il mio torace. Con voce gentile disse: «Non avevo intenzione di disprezzarti, Gilgamesh. Ma penso che le mie parole fossero vere, per quanto aspre.»
«Forse sì.»
«Nonostante quello che ho detto, spero veramente che tu possa trovare quello che cerchi.»
«Ti ringrazio, Siduri. Per quest’augurio e per tutto il resto.»
«Ma se non dovessi trovarlo, puoi tornare qui. Ci sarà sempre un posto per te, Gilgamesh.»
«Ci sono molti posti peggiori in cui vivere,» le dissi. «Ma penso che non tornerò.»
«Allora addio, Gilgamesh.»
«Addio, Siduri.»
Mi abbracciò e pregò, rivolgendosi a una Dea che non conoscevo. Pregò affinché trovassi pace, affinché arrivassi presto alla fine dei miei vagabondaggi. L’unica pace che vedevo per me in quel momento era solo la pace della tomba, e sperai che Siduri non si riferisse a quella. Mi decisi ad interpretare la sua preghiera nel significato migliore, e la ringraziai per averla espressa.
Poi il barcaiolo mi fece cenno di salire nella sua maniera brusca e acida. Salii sull’imbarcazione e presi posto a prua, su delle stuoie di paglia. Il barcaiolo allontanò la barca dalla riva. Uscimmo in mare aperto, e solo allora il vecchio balzò accanto a me.
Silenziosamente, facemmo rotta per Dilmun. Gli Dei ci protessero, anche se avevo rotto le colonnine di pietra, e la traversata fu facile, sotto un cielo sereno. A lungo dondolammo in mare aperto. L’acqua non era più verde, ma blu, del blu profondo dell’oceano. Non si vedevano terre, né davanti né dietro di noi, e questo mi metteva a disagio. Non ero mai stato così lontano sull’acqua da non vedere più terra.
Tutt’intorno a me sentivo la presenza del Grande Abisso. Immaginai di poter vedere nell’acqua il potente Signore degli Abissi, il gigantesco Enki, nella sua tana. Immaginai di scorgere l’ombra delle corna della sua corona. E nel calore del giorno, rabbrividii, rabbrividii per essermi avvicinato troppo ai Grandi Dei. Ma rivolsi una preghiera a Enki: Io sono Gilgamesh, figlio di Lugalbanda, Re di Uruk, e cerco quello che devo cercare: risparmiami finché non lo trovo, Grande e Saggio Enki.
La mia preghiera si immerse nell’abisso e credo fosse ascoltata, perché all’imbrunire scorsi la sagoma oscura di un boschetto di palme all’orizzonte, e le mura bianche, di pietra calcarea, di una grande città, che splendevano agli ultimi raggi del sole. Davanti alle mura si vedevano numerose barche tirate a secco sulla spiaggia.
«Dilmun,» grugnì Sursunabu. Fu l’unica parola che pronunciò in tutta la traversata.