27

Sopravvisse ancora undici giorni. Le sue sofferenze aumentarono di giorno in giorno, finché non ebbi più il coraggio di guardarlo. Ma gli restai accanto fino alla fine.

All’alba del dodicesimo giorno vidi la vita lasciarlo. All’ultimo momento mi parve che nel buio ci fosse un debole bagliore rossastro attorno a lui; poi il bagliore si alzò e volò via, e tutto fu buio. Capii che era morto. Restai in silenzio, sentendo la solitudine rotolare verso di me. Sulle prime, non piansi. Pensai che l’asino selvaggio e la gazzella stessero piangendo in quel momento. Tutte le creature selvagge della steppa stavano piangendo Enkidu, pensai: anche l’orso, la iena, la pantera. I sentieri della foresta che Enkidu soleva percorrere avrebbero pianto per lui. E avrebbero pianto anche i fiumi, i ruscelli, le colline.

Allungai una mano e lo toccai. Si stava già raffreddando? Non avrei saputo dirlo. Sembrava che stesse solo dormendo, ma sapevo che quello non era sonno. Le febbri che l’avevano arso, avevano lasciato il segno sui suoi tratti in quei dodici giorni: era dimagrito e avvizzito. Ma in quel momento aveva quasi ritrovato il suo aspetto di sempre, la sua calma, il suo volto disteso. Gli poggiai una mano sul cuore. Non lo sentii battere.

Mi alzai e lo coprii con il lenzuolo di lino, con tenerezza, come un marito coprirebbe la propria sposa. Solo che quello non era un lenzuolo, ma un sudario. E allora scoppiai a piangere. Le lacrime scesero lentamente. In principio erano una cosa insolita per me: tirai su con il naso, poi sentii qualcosa di caldo all’angolo degli occhi, e le labbra si serrarono l’una contro l’altra. Quindi tutto diventò più facile. Dentro di me si ruppe una diga, e il mio dolore si sfogò senza ostacoli. Camminai avanti e indietro di fronte al letto, come una leonessa che sia stata privata dei cuccioli. Mi tirai i capelli. Mi strappai di dosso le vesti e le gettai a terra come se fossero state sporche. Infuriai, smaniai, ruggii. Nessuno osava avvicinarmi. Fui lasciato solo con il mio terribile dolore. Restai accanto al corpo tutto il giorno, e poi un altro, e poi un altro ancora, finché non mi accorsi che i servi di Ereshkigal lo reclamavano. Allora capii che dovevo farlo seppellire.

Mi ricomposi. Avevo bisogno di fare molte cose.

Prima di tutto, il Rito dell’Addio. Andai nella stanza dove vengono conservati gli oggetti sacri e ne presi una tavola fatta di legno di elammaqu, sulla quale poggiai una coppa di lapislazzuli e una di cornalina. In una versai del latte cagliato, nell’altra versai del miele. Portai la tavola sulla terrazza di Utu e la misi alla luce del sole come un’offerta. Dissi le parole rituali. Quando poi pronunciai le parole del grande lutto, la mia voce non esitò.

Chiamai gli anziani di Uruk. Naturalmente sapevano che cosa fosse accaduto, e portavano i colori del lutto sulle braccia. Avevano un’espressione triste, ma era solo per il mio dolore, non per il, loro. Enkidu non significava nulla per loro. Mi irritava alquanto il fatto che non avessero compreso le virtù di Enkidu come le avevo comprese io. Ma loro erano solo uomini normali: come potevano sapere, come potevano capire? Si sentivano a disagio, vedendo quanto fosse grande il mio dolore.

Non se l’aspettavano da me, proprio perché io non ero un uomo normale. Mi avevano considerato sempre un essere aldilà di sentimenti umani quali il dolore: un Dio che vivesse tra loro, o qualcosa di simile. Probabilmente avevo fatto molto per rafforzare quest’immagine, ma ora i miei occhi erano orlati di rosso, la faccia era pallida e gonfia. Non riuscivano a capire quella mia dimostrazione di umanità. Gilgamesh il Re, Gilgamesh il Dio, sì, era vero, ma io ero anche Gilgamesh l’uomo. Avevo sofferto enormemente nello splendido isolamento del mio potere, sebbene nessuno di quelli che mi circondavano si fosse accorto che soffrivo. Poi avevo trovato un amico, e ora quell’amico mi era stato rapito dai Demoni. Per questo motivo piangevo. Che cosa si aspettavano che facessi?

Dissi: «Piango per il mio amico Enkidu. Era l’ascia al mio fianco, la spada alla mia vita, lo scudo che mi proteggeva. Era mio fratello. La perdita è grande. Il dolore mi trafigge.»

«Tutta Uruk piange tuo fratello,» mi risposero. «I guerrieri piangono. La gente per le strade piange. Gli aratori e i mietitori piangono, Gilgamesh.»

Ma le loro parole non significavano nulla per me. Era la vecchia storia: mi dicevano quello che credevano volessi sentire.

«Lo seppellirono come spetta a un Re,» dissi, in modo che capissero chi era stato Enkidu.

Trasalirono nel sentire queste mie parole, pensando forse che avessi in mente di mandare tutti i miei servi, e perfino qualcuno degli anziani, nella tomba a tenere compagnia a Enkidu. Ma non pensavo a niente di simile. Comprendevo la morte meglio di quel giorno in cui i servi di Lugalbanda erano scesi sottoterra nella tomba del Re. Non vedevo nessuna utilità nel far piangere altri fratelli, mogli e figli, per amore di Enkidu. Perciò dissi loro di limitarsi a preparare una cerimonia di grande splendore.

Chiamai i migliori artigiani della città, i ramai, gli orafi, i tagliatori di gemme. Ordinai loro di fare una statua del mio amico: il corpo d’oro, il petto di lapislazzuli. Feci scavare ai becchini un fosso nella radura che era accanto alla Piattaforma Bianca e ordinai di rivestirne le pareti con mattoni di terracotta. Raccolsi tutte le armi di Enkidu e le pelli degli animali che aveva ucciso, perché fossero sepolte con lui. Preparai un tesoro da mettergli accanto, coppe e anelli, calici di alabastro, gemme e così via.

Mi recai in ogni Tempio e chiesi formalmente all’Alto Sacerdote di prendere parte alla cerimonia di sepoltura di Enkidu. L’unico Tempio in cui non andai fu quello che avevo fatto costruire per la Dea. In effetti, era privilegio e dovere di Inanna essere presente al funerale dei grandi uomini di Uruk, ma io non la volevo. La ritenevo responsabile della morte di Enkidu. Ero certo che lo avesse ucciso con le sue maledizioni, accecata dalla rabbia contro di me, che avevo oscurato il suo potere nella città. Non la volevo al funerale dell’amico che mi aveva tolto. Non le volevo dare la possibilità di godere della ferita che mi aveva inflitto. Resti pure nascosta nel suo Tempio, pensai, nessuno oltre le sue ancelle l’aveva più vista dal giorno dell’uccisione del Toro del Cielo. Preferivo che fosse così.

Ma lei non preferiva che fosse così. Il giorno del funerale guidai il corteo dal palazzo alla tomba, piangendo per tutto il cammino. Mi fermai accanto ai Sacerdoti e a mia madre per compiere i sacrifici del bue e delle capre e versare le libagioni di latte e miele.

Il cacciatore Ku-ninda era come me, e anche la Prostituta Santa Abisimti. Conoscevano Enkidu da più tempo di me, e lo piangevano con il mio stesso dolore profondo. Gli occhi di Abisimti erano rossi di pianto, le sue vesti lacere. Ku-ninda, rigido e silenzioso, stava con i pugni chiusi e le labbra serrate, trattenendo il violento dolore. Entrambi mi aiutavano a eseguire i riti.

Proprio quando stavamo per arrivare al punto della cerimonia in cui viene versata acqua fredda per rinfrescare il morto nel suo cammino verso la Casa della Polvere e delle Tenebre, tutti si agitarono alle mie spalle. Mi girai e vidi Inanna circondata da un gruppetto delle sue Sacerdotesse.

Sembrava più la Regina degli Inferi che la Regina del Cielo. La faccia era dipinta di un bianco spettrale, le palpebre e le labbra erano annerite di kajahl. Indossava una tunica scura e rigida che le cadeva diritta dalle spalle alle caviglie. Il suo unico ornamento era una daga di pietra verde e levigata che pendeva sul suo seno da una cordicella di paglia intrecciata, legata intorno al collo. Le sue Sacerdotesse erano abbigliate nello stesso modo.

La cerimonia si interruppe. Calò un silenzio pesante.

Mi guardò con gelido odio e disse: «Un funerale, Gilgamesh, senza chiedere il consenso della Dea?»

«Oggi faccio come mi pare. Era mio amico.»

«Ma Inanna comanda ancora, nonostante tutto.»

I miei occhi guardarono con fermezza nei suoi. Ricambiai l’odio con l’odio, il gelo con il gelo. Con voce chiara e misurata dissi: «Seppellirò il mio amico senza l’aiuto di Inanna. Ritorna al tuo Tempio.»

«Io parlo ad Uruk a nome della Dea.»

«E io sono il Re di Uruk. Parlo a nome degli Dei.» Alzai un braccio e feci un ampio gesto. «Guarda, i Sacerdoti di An e di Enlil sono qui, e ci sono i Sacerdoti di Enki e di Utu. Gli Dei hanno dato la loro benedizione alla sepoltura di Enkidu. Se la Dea oggi è assente, beh, credo che non importi molto.»

Mi guardò con uno sguardo torvo e per un lungo momento non parlò, non respirò nemmeno. Sembrava gonfiarsi, e pensai che sarebbe esplosa. L’ira dipinta sul suo volto era terrorizzante.

Poi disse: «Attento, Gilgamesh! La tua sfida oltrepassa ogni limite. Hai visto già che cosa può fare la mia maledizione: non vorrei maledire anche il Re di Uruk. Ma se dovrò, lo farò, Gilgamesh: se dovrò, lo farò.»

In tono basso e gelido, replicai: «Anche tu sta’ attenta, Sacerdotessa! La tua maledizione può essere pericolosa, ma può esserlo anche la mia spada. Ti avverto, allontanati immediatamente, altrimenti farò una libagione allo spirito di Enkidu con il tuo sangue. Ti avverto: davanti a tutti, Inanna, ti squarcerò il ventre.»

Fu un momento spaventoso. Nessuno si era mai rivolto alla Sacerdotessa della Dea in quel modo. Fui trascinato da un’eccitazione che somigliava all’ubriachezza. Avevo le vertigini. Il respiro mi si accelerò: il cuore mi martellava contro la cassa toracica.

Inanna mi guardò.

«Sei pazzo?»

Misi la mano sull’elsa della spada.

«Se dovrò, lo farò, Inanna. Se dovrò, lo farò. Vattene subito.»

Penso che l’avrei uccisa davanti a tutta Uruk, se mi avesse sfidato in quel momento: ma anche lei lo aveva capito. Mi lanciò un ultimo sguardo adirato, simile allo sguardo gelido e fiammeggiante di un serpente i cui occhi emanino veleno. Ma non caddi, non cedetti, e ricambiai lo sguardo, fuoco con fuoco, gelo con gelo. Infine si girò, e se ne ritornò con le sue donne al Tempio.

Quando fu scomparsa dalla vista, rilassai le braccia e sospirai, perché ero teso come un arco. Quando mi fui calmato, mi girai verso il Sacerdote che reggeva ancora la brocca d’acqua e dissi: «Su, continuiamo.»

Mi porse l’acqua, la versai nella tomba, e dissi le parole. Dopodiché mi tolsi la fascia che portavo intorno alla fronte, mi strappai gli abiti di dosso, ruppi i miei braccialetti e la collana. Il corpo mi doleva in venti punti diversi, sentivo una forte pressione contro gli occhi, una pesantezza nel petto, e la mano che avevo alla gola si serrò fino a togliermi il respiro. Era la fine del rito: ora il viaggio di Enkidu nelle tenebre era completato e io non avevo nessun modo di sfuggire al mio lutto. Enkidu se n’era andato: ero solo. Il dolore si alzò dentro di me come lo zampillo di una fontana e mi inondò. Mi gettai a terra e piansi per Enkidu un’ultima volta. Poi tutto fu finito. Mi calmai, mi fermai. Dopo un istante mi alzai, senza dire nulla a nessuno. Con le mie stesse mani chiusi la tomba con i mattoni. Gli altri Sacerdoti la coprirono con la terra.

Ritornai da solo al palazzo. Restai per tutto il giorno in silenzio, chiuso nella mia stanza, senza vedere nessuno. Tesi le orecchie per sentire la risata di Enkidu riversarsi in torrenti attraverso le sale. Silenzio. Tesi le orecchie per sentire le sue mani colpire la porta per chiamarmi. Silenzio. Pensai di andare a caccia, e immaginai di voltarmi verso di lui per prendere uno dei suoi giavellotti: ma Enkidu non sarebbe stato accanto a me. Avevo un desiderio di lui che sapevo non sarebbe mai scemato. Perché, mi chiesi, ero stato colpito da un simile lutto? Perché ero Re? Perché la mia vita era trascorsa di trionfo in trionfo, e gli Dei erano gelosi di me? Forse Enkidu mi era stato dato solo per poi potermelo togliere. Forse lo scopo degli Dei era farmi assaporare la gioia per poi farmi conoscere il vero sapore del dolore.

Ero solo, Sì, ero stato solo prima di Enkidu. Ma, il giorno della sepoltura del mio amico, mi parve di non essere mai stato così solo.

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