6

Poi arrivò il mese di Tashritu, la stagione dell’Anno Nuovo, quando il Re si unisce nel Matrimonio Sacro con Inanna e tutto rinasce. È il tempo in cui il Dio attraversa a grandi passi la soglia del Tempio simile ad una tempesta tonante e versa il suo seme nella Dea, e le piogge tornano dopo la lunga morte aspra e secca dell’estate.

È la festa più grande e più sacra di Uruk, dalla quale dipende tutto il resto. I preparativi occupano tutti gli abitanti della città per settimane, mentre l’estate declina. Quello che è stato contaminato durante l’anno, deve essere purificato con sacrifici e fumigazioni. Coloro che sono immondi per nascita, i membri delle caste impure, devono uscire fuori le mura e costruirvi un villaggio temporaneo. Gli animali deboli e deformi si devono uccidere. Tutte le case e gli edifici pubblici che hanno bisogno di riparazioni, vengono restaurati, e vengono esposte le decorazioni della festa. Poi cominciano le sfilate, guidate dagli arpisti e dai timpanisti. Le prostitute indossano fasce di colori vivaci e il mantello della Dea. Gli uomini adornano il lato sinistro con abiti femminili. I Sacerdoti e le Sacerdotesse passano per le strade con le spade insanguinate, le asce a doppia lama, con cui si sono compiuti i sacrifici. Danzatori saltano attraverso i cerchi e sulle corde.

Nel suo Tempio Inanna si lava, si unge e indossa gli ornamenti sacri, il grande anello di cornalina, i lacci di lapislazzuli, la splendente piastra d’oro sul ventre, le gemme per l’ombelico, per i fianchi, per il naso e per gli occhi, gli orecchini di oro e di bronzo, e i pettorali d’avorio. E il Dio Dumuzi, il Portatore della Fertilità, entra nel Re, che in barca arriva al quartiere del Tempio e attraversa il cancello del Santuario di Eanna, portando con sé una pecora e un capretto. Si fermano insieme sul porticato del tempio, la Sacerdotessa e il Re, la Dea e il Dio, mentre tutta la città li acclama. Poi entrano nel Tempio, vanno nella camera da letto che è stata approntata per loro. Il Dio carezza la Dea, entra in lei e versa la sua fertilità nel suo grembo. Così era fin dalle origini, quando esistevano solo gli Dei e il regno non era ancora sceso dal cielo.

Il giorno del primo quarto di luna, che segnava l’inizio dell’Anno Nuovo, mi recai con tutti gli altri alla Piattaforma Bianca, ad aspettare all’esterno del Tempio di Enmerkar la presentazione di Inanna a Dumuzi. Un vento lieve, umido e odoroso, soffiava da sud. Era il vento che chiamiamo Inganno, perché promette la primavera, ma in realtà annuncia l’inverno.

Il Re apparve, con la sua pecora e il suo capretto, all’estremità occidentale della piattaforma. La folla si aprì per lasciarlo passare. Egli salì lentamente i gradini e giunse al Tempio. Aveva un aspetto splendido. La luce divina era su di lui, e il suo corpo ne brillava.

C’è qualcosa nel compimento del Matrimonio Sacro che esalta ogni uomo. Questa era la sesta volta che Dumuzi compiva il rito da quando era diventato Re, e ogni anno, nel vederlo attraversare la piattaforma, ero rimasto stupito dal timore e dal rispetto che mi ispirava, quell’uomo che in tutte le altre occasioni mi sembrava così normale, così fiacco nello spirito.

Ma, quando il Dio entra nel Re, il Re è un Dio. Non dimenticherò mai l’aspetto di mio padre durante questo rito. Era potente, grande e immenso, non guardava né da un lato né dall’altro mentre oltrepassava il punto in cui eravamo io e mia madre. Entrava nel Tempio, ritornava con Inanna al suo fianco, tendeva le mani verso il popolo, e rientrava nel Tempio per condurre la Dea alla sua camera da letto. Ma Lugalbanda aveva sempre un aspetto maestoso. Non mi sarei mai aspettato che Dumuzi riuscisse ad eguagliare la sua magnificenza, eppure quella notte ci riuscì.

Quella notte, però, sembrava che stesse per avere luogo qualcosa di insolito. Il Re e la Sacerdotessa di solito escono sul porticato del Tempio nell’istante in cui la luna crescente appare al di sopra dell’Edificio Sacro. Quella notte però il momento arrivò e se ne andò, ma la porta del Tempio restò chiusa. Non so quanto tempo aspettammo. Mi sembrarono ore. Ci guardavamo l’un l’altro con sguardi interrogativi, ma nessuno osava parlare.

Poi la grande porta di bronzo finalmente si spalancò e la coppia santa apparve. Alla loro vista, il silenzio divenne ancora più intenso: sembrava che una voragine di quiete avesse ingoiato tutti i suoni del mondo. Ma solo per un attimo. Un momento dopo si sentirono bassi mormorii e sibili, quando le persone in prima fila cominciarono a sussurrare e borbottare per la sorpresa.

Dal punto in cui mi trovavo, molto indietro, sulle prime non riuscii a capire che cosa fosse accaduto. C’era Dumuzi con la corona scintillante e la sfarzosa tunica regale, di un blu profondo: e c’era Inanna al suo fianco. Poi mi accorsi che la donna che indossava gli ornamenti sacri di avorio, oro, cornalina e lapislazzuli non era Inanna, almeno non era l’Inanna che si era presentata al rito in tutti gli anni passati, fin dalla mia nascita. Quella donna era bassa e tozza, mentre questa sembrava avere un corpo più sottile, più snello, quasi fragile. Ed era alta, le sue spalle raggiungevano quelle di Dumuzi. E, quando un momento dopo capii chi fosse, seppi che ero in procinto di perdere ciò che era mio, e che non potevo impedirlo.

Dovevo vederle il volto. Mi feci largo a spallate tra le persone, come fossero pezzi di legno.

Ad una distanza di venti passi, la guardai negli occhi, e vidi l’oscura malizia che vi scintillava. Si, naturalmente, era lei, salita d’improvviso dalla sua camera sotterranea fino al più alto dei poteri di Uruk. Non era più un’ancella della Dea, ma d’improvviso, sorprendentemente, si era trasformata nel la Dea stessa. Non riuscivo a muovermi. Le gambe mi divennero pesanti e si inchiodarono al suolo. La gola mi si chiuse, come per un mucchietto di sabbia che non riuscissi né ad ingoiare né ad espellere.

Mi guardò ma non parve vedermi, sebbene fossi più alto di tutte le persone che mi attorniavano. La cerimonia l’aveva assorbita interamente. La guardai porgere a Dumuzi la sacra bottiglia bianca di miele, e ricevere da lui il vaso sacro di orzo. Li udii scambiarsi le parole del rito: «Mia Gemma Santa, mia meravigliosa Inanna,» disse lui, e lei a lui: «O mio sposo Dumuzi, sei il mio vero amore.»

Con voce cupa chiesi ad un Signore che mi era accanto: «Che cosa è successo? Dov’è Inanna?»

«È lì, Inanna.»

«Ma quella ragazza non è l’Alta Sacerdotessa!»

«Da questa notte in avanti lo è,» replicò. E un altro, più lontano da me, disse: «Si dice che la vecchia Sacerdotessa fosse malata, e che sia peggiorata durante il giorno. Pare che sia morta al tramonto. Ma ne avevano un’altra pronta ad essere consacrata. L’hanno lavata e vestita in tutta fretta, e sposerà Dumuzi stanotte. Per questo motivo hanno ritardato.»

Sentii echeggiare nelle caverne della mia mente le parole, sposerà Dumuzi stanotte, e pensai che sarei piombato a terra.

Il Re bevve un sorso dalla bottiglia di miele, e lo restituì a lei che ne bevve un sorso. Congiunsero le mani e svuotarono a terra il vaso di orzo. Poi versarono il miele dorato sui semi. I musici del Tempio suonarono i loro strumenti e cantarono l’inno della presentazione del Dio e della Dea.

La cerimonia era quasi terminata, ormai. Dopo qualche momento sarebbero entrati nel Tempio. Nella divina camera nuziale le ancelle l’avrebbero spogliata degli anelli, dei lacci, dei pettorali e dello scintillante triangolo d’oro che le copriva il ventre. Poi lui l’avrebbe carezzata, le avrebbe detto le parole del Matrimonio Sacro, e poi… poi…

Non resistei a guardarli un minuto di più.

Mi girai e mi allontanai a precipizio dalla piattaforma come un toro impazzito, buttando a terra chiunque non si togliesse immediatamente dalla mia strada. Dietro di me risuonava la musica di cimbali e flauti. Non potevo sopportarne il suono. Sono in camera da letto adesso, pensai, lui la tocca, le sfiora i posti segreti, la sua bocca è contro quella di lei, la coprirà con il suo corpo, entrerà in lei…

Corsi ciecamente nel buio, senza sapere e senza curarmi di dove andassi. Un dolore che avevo conosciuto fin troppo spesso mi aveva assalito di nuovo. Mi sentivo solo, emarginato, uno straniero nella mia città. Non avevo né padre, né fratello, né moglie, e nessuno che potessi chiamare veramente amico. La mia solitudine era come un muro di fiamme che mi circondava. Desideravo ardentemente trovare qualcuno — chiunque — ma non c’era nessuno. Potevo solo correre, e continuai a correre finché mi sentii scoppiare il torace.

Alla fine mi trovai a barcollare lungo le strade deserte del Quartiere del Leone, dove ci sono le caserme. Non era un caso che i miei piedi mi avessero portato lì: quando ci colpisce quel genere di cecità, veniamo guidati dagli Dei. A quell’epoca, al centro del Quartiere del Leone, sorgeva un Santuario consacrato a Lugalbanda, eretto da Dumuzi all’inizio del regno. Non era nulla di grandioso, solo una statua di mio padre, un po’ più grande del vero, illuminata dal basso da tre piccole lampade ad olio che erano accese giorno e notte. Era un tributo alquanto piccolo ad un grande Re che era diventato un Dio. Mi gettai davanti alla statua e mi afferrai ai mattoni della sua base. E ad un tratto sentii una sensazione strana e familiare entrare nella mia mente.

Era la stessa sensazione strana che mi aveva assalito il giorno del funerale di mio padre, e che mi aveva sfiorato in modo più lieve due o tre volte negli anni successivi: un senso di pressione sulla fronte, la sensazione di grandi ali invisibili che battevano contro la mia anima.

Ma quella volta fu molto più potente di quanto fosse mai stata. Non era possibile opporsi alla sua forza. Sentii formicolare la pelle, e il torpore mi avvolse tutto. Udii un lieve ronzio, simile a quello che si sente quando un lontano sciame di locuste si alza nel cielo pomeridiano e attraversa la pianura. Poi il ronzio si fece più forte, come se le locuste si fossero avvicinate e le dense nubi nere dei loro sciami oscurassero il sole. Sentii l’odore pungente di candele accese, sebbene non ci fosse nessuna candela nelle vicinanze. Dalle strade e dagli edifici vicini si alzò una fredda fiamma blu che mi travolse in piatte ondate, avvolgendomi senza bruciarmi.

Mi alzai o, meglio, fluttuai in piedi. Davanti a me vidi un tunnel, perfettamente rotondo, con pareti levigate e scintillanti da cui si irradiava un luminoso bagliore blu. Mi avvicinai. Cedetti al suo influsso. Sentii il pulsare lento, costante, di un tamburo, che diventava sempre più forte ad ogni battuta. Ero privo di volontà, completamente schiavo di quel potere divino. Ero spaventato come non lo sono mai stato in tutta la mia vita. Perché mi sentivo perduto, mi sentivo attirato verso un luogo di distruzione dove tutte le identità sono immerse nel fuoco blu che consuma tutto.

Una voce calma mi disse all’orecchio destro: «Non temere nulla. Lugalbanda è con te. Ci sarà un patto tra noi che varrà per tutti gli anni a venire.»

Con queste parole la paura, il dolore e il dispiacere, mi lasciarono, e io conobbi una gioia illimitata, un rapimento infinito, una sensazione di estasi profonda.

Non c’era nessun pericolo. Un Dio era con me, e io ero al sicuro. Non opposi più resistenza. Ad ogni respiro, inspiravo la divinità. Mi arresi. Lasciai che il Dio fluisse attraverso le pareti della mia anima, entrasse dentro di me, e mi possedesse pienamente.

Non temere nulla. Lugalbanda è con te.

Danzai una folle danza, ansando e sbattendo i piedi contro il terreno. Lugalbanda mi mise tra le mani un tamburo: io lo percossi e cantai un cantico in sua lode. Una forza attraversò il mio corpo, e un grande calore. Senza paura, corsi verso il tunnel blu, seguendo una sfera roteante e ondeggiante di una vivace luce purpurea che brillava come un piccolo sole davanti a me.

Corsi tutta la notte senza sosta, attraversai i Quartieri della città, il Leone, la Canna, l’Alveare, il Kullab, l’Eanna. Oltrepassai il Palazzo Reale, salii i gradini della Piattaforma Bianca e li discesi, entrai ed uscii da vari Templi, superai le birrerie, le taverne, i bordelli, il mercato delle spezie, le banchine sul fiume, le stalle, i macelli, le concerie, la Strada degli Scribi e la Strada degli Indovini.

Il mio sguardo arrivò al centro della terra e vide Demoni e fantasmi che si affaticavano in caverne fiammeggianti. Mi appollaiai sul braccio destro di Lugalbanda e volai nei cieli. Scorsi i Grandi Dei lontani nelle loro sfere di cristallo, e tributai loro il mio saluto. Scesi di nuovo sulla Terra e viaggiai di paese in paese. Soggiornai a Dilmun la Benedetta, a Meluhna e Makan, e sulle Montagne del Cedro, guardate dai Diavoli. Vissi in molti altri luoghi lontani, pieni di meraviglie e miracoli di cui non avrei creduto l’esistenza, se avessi ragionato con la mia mente normale.

Che cosa accadde dopo, non lo ricordo. Ma poi arrivò la mattina e mi ritrovai disteso sulla schiena, davanti al Santuario di Lugalbanda.

Mi sentivo rigido e dolorante come se dei mostri avessero piegato i miei arti nel verso sbagliato. Non avevo idea di come fossi arrivato in quel posto, né di che cosa fosse accaduto la sera prima. Ma era chiaro che avevo passato la notte a dormire all’aperto, e sapevo di aver compiuto strane azioni. Le mascelle mi facevano molto male e la lingua era gonfia e dolorante: forse me l’ero morsa un paio di volte, e avevo saliva secca sul mento e sulla tunica.

Due giovani soldati dall’espressione perplessa erano chini su di me.

«E vivo, credo,» disse uno dei due.

«Si? Ha gli occhi vitrei. Ehi, sei vivo?»

«Parlagli con più gentilezza. È il figlio di Lugalbanda.»

«Non fa nessuna differenza, se è morto.»

«Ma è vivo. Guarda, respira. Gli occhi si muovono.»

«Si.» E a me: «Sei veramente il figlio di Lugalbanda? Ah, credo proprio che tu lo sia. Porti l’anello da Principe. Su, allora. Lascia che ti aiutiamo.»

Gli allontanai la mano.

«Ce la faccio da solo,» dissi con una voce che sembrava rame arrugginito. «State indietro! State indietro!»

In qualche modo riuscii a stare in piedi, non senza goffi ondeggiamenti e barcollii. I soldati erano pronti ad afferrarmi, con un’espressione lievemente ansiosa, forse a causa della mia statura. Ma riuscii a restare eretto. Uno di loro ammiccò e disse: «Abbiamo celebrato il Matrimonio un po’ troppo, non è vero, Vostra Signoria? Beh, non è un peccato. Auguri, Signoria, auguri per l’anno nuovo!»

Il Matrimonio. Il Matrimonio! I ricordi mi tornarono, accompagnati dal dolore. Inanna, Dumuzi. Dumuzi, Inanna.

Mi girai, indietreggiai: ora ricordavo tutto. E tornò in me quel terribile senso di solitudine: sapevo di essere solo sotto le stelle incuranti. Fui assalito da un tormento dell’anima che fece sembrare sciocchezze i dolori e le ammaccature del mio corpo indebolito.

I due soldati aggrottarono la fronte.

«Stai bene? Possiamo fare qualcosa per te?»

«Lasciarmi solo,» dissi cupamente.

«Come desideri, Signoria.»

Si strinsero nelle spalle e cominciarono a camminare lungo la strada.

«La dolcezza di Inanna sia con te, Signoria!», uno di loro si girò ad urlarmi. E l’altro rise e gli disse: «Sarà una vera dolcezza quest’anno. L’hai vista, la nuova?»

«Ah, si! Che gioia deve aver provato il Re!»

«Basta!», mormorai.

E i due soldati, da lontano: «La Dea è morta! Lunga vita alla Dea!»

Poi scomparvero, e io restai solo con il mio dolore, il mio dispiacere, i miei lividi e il mio stupore. Ma non ero completamente solo. Sentivo ancora la presenza divina, calda e luminosa, che mormorava nel mio orecchio destro: Non temere nulla. Non temere nulla. Perché Lugalbanda era con me, dentro di me, e lo sarebbe stato per sempre.

Загрузка...